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Antonio Delfini (1908-1963)
UN ELFO RISENTITO SALTATO FUORI DALLA PALUDE DELLA PROVINCIA
ITALICA
Si sta per celebrare il centenario della nascita dello scrittore modenese, un
idiosincratico outsider delle nostre lettere che ha conseguito, forse, il suo migliore
esito nelle “Poesie della fine del mondo”, atrabiliare ritratto di un paesaggio sociale e
familiare popolato di personaggi biechi, di italioti ignoranti e cornuti, di femmine
lascive e corrotte, di una umanità laida e ladra, traditrice, avida e codarda. Ancor
prima di Pasolini, e senza nostalgie regressive, egli denunciò lo scempio ambientale
e antropologico che lo sviluppo capitalistico andava facendo nel Belpaese.
******
di Simona Cigliana
Potessi un giorno
camminar da solo
ma solo solo
non come vado adesso
solo
ma solo solo
senza me stesso
(A.Delfini, Volantino rosso del poeta)
Quando Antonio Delfini scriveva le Poesie della fine del mondo non intendeva suscitare pentimenti
o commozioni né pensava, per quanto si sia detto, di guadagnarsi meriti di moralista. Disdegnando
gli abiti del missionario e quelli del pedagogo, giudicando inutile se non maliziosa l’opera dei
predicatori e dei profeti di sventura, si era ormai consacrato alla satira e all’invettiva come ad una
sorta di ascesi. Relitta la speranza di promuovere ravvedimenti, mutamenti, conversioni, persa ogni
fiducia in un finanche superstite residuo di bontà nell’indole dell’italica genia – quella che proprio in
quegli anni di incipiente boom economico e di governo democristiano paludava di bonomia pseudonaïve, stile sketch di Tognazzi e Vianello, le proprie tendenze particolaristiche e canagliesche – ,
Delfini veleggiava ormai solitario sul salso pelago di una indignazione acre e sconfinata, di un
rancore feroce e radicale.
È probabile, come fa notare Giorgio Agamben nel saggio introduttivo dell’edizione Quodlibet 1995,
che tanto sdegno fosse pure inasprito da sconfitte di carattere personale ed amoroso. Ma come
sarebbe riduttivo e ingiusto addurre ad origine del pessimismo leopardiano le cattive condizioni di
salute e le amarezze affettive del poeta, così risulterebbe ottusa e fuorviante una lettura di Delfini
che riduca la rabbia ed il malessere a cause biografiche e private. Se c’è nella storia di Delfini un
dato umano da rilevare e da mettere a frutto in sede critica, esso rimanda piuttosto alla di lui “innata”
psicologia o forse, meglio, alla psicologia del suo alter ego di scrittore: e cioè ad una irredimibile
inclinazione alla melancolia, che in lui fu stato d’animo persistente e supremamente creativo, con
tutto il suo corredo di aristocratiche idiosincrasie e di umori atrabiliari, e con il suo quasi naturale
pendant di ironia funambolica e lunare, di tendenza alla trasfigurazione metafisica delle cose.
2
Come un elfo precipitato da un incomprensibile incantesimo nel mondo degli uomini, Delfini vi si
aggira estraneo e incuriosito, sentendosi drammaticamente esposto agli altrui sguardi inquisitori e
senza ben capire cosa vi sia stato spedito a fare. Da ozioso perdigiorno, raccoglie suggestioni e
spunti, divaga, osserva le proprie reazioni emotive, straniero un poco anche a se stesso, eleggendo a
patria e a mondo la dimensione inquietante della provincia: la sua Emilia, ma anche Viareggio ed
altri luoghi, lievitanti nella sua scrittura, a somiglianza di borghi chiusi e periferici, entro un limbo di
sospensione temporale, come lo sono le grandi capitali, che si smaterializzano nel loro stesso mito, e
come lo è anche il treno. Sempre in viaggio e sempre fermo, sempre nel tempo e sempre immobile
nel ricordo delle ore trascorse, delle persone lontane, delle occasioni perdute: dolorosamente
cosciente che solo nel risentimento della memoria ci è dato conoscere il senso di ciò che abbiamo
sfiorato e apprendere la lezione (se lezione può esservi) dei fatti.
Il primo Delfini, in realtà, non sa scrivere d’altro che di sé stesso: di quel suo io stravagante e
viziato, ribelle e anarchico; ma ne scrive come se scrivesse di un altro, quell’“altro” che costituisce
la sua vera identità e il suo più autentico tormento: perché è un io di finzione, totalmente e
assolutamente letterario, che l’incidente biografico attiva fornendo all’altro il pretesto per la pagina.
Così come accade tanto spesso nei Racconti, e soprattutto in quello che apre la raccolta, Una storia,
la cui sostanza autobiografica, pur essendo materia prima del narrare, è tutta sorvolata e riassunta,
nitida come in un cammeo e pure remota come se facesse capo ad altri.
Uno scrittore con il “doppio fondo”, dunque, e intenso e lirico quanto ironico e divagante.
“Bighellone e curioso”, lo ricordava Alfredo Giuliani, dubitando tuttavia, in polemica con Garboli,
che dietro quella maschera delfiniana “di un dandismo ingenuo e di gaia buffoneria evanescente” , vi
fosse un sicuro istinto e una meditata sapienza letteraria 1 .
Ma Antonio Delfini si lamentava di essersi lasciato distrarre dalla vita, e di aver scritto troppo poco.
D’altronde, anche se i suoi racconti sono riconosciuti oggi tra i migliori del nostro Novecento,
l’antiletterarietà della sua cifra letteraria ne fece un autore destinato all’incomprensione, ad un
successo avaro e postumo. Il Viareggio gli venne attribuito dopo la morte, i suoi libri, a lungo
introvabili, sono ristampati col contagocce e risultano poco digeribili alla grande editoria sempre in
cerca di best seller. A molti, come alla giovane Natalia Ginzburg, apparve ai suoi tempi “futile e
noioso” 2 ; oggi, a quasi cent’anni dalla nascita (era nato nel 1908), lo si celebra sporadicamente,
come uno scrittore per scrittori, troppo raffinato o datato o sfuggente.
Certo, sarebbe vano fissarlo in una formula: e soprattutto perché, come rivela l’insieme dei suoi
scritti, Delfini ha più di un registro. Il narratore passionale e dolcemente disincantato del Ricordo
della Basca (che, uscito nel ’38, costituisce una delle più seducenti raccolte di racconti dell’ante e
del dopoguerra), lo scrittore lirico e surreale del Fanalino della Battimonda, dall’apparenza elusiva e
svagata, tutto nota e a tutto reagisce. E arriva anche ad essere, in tanti anni di collaborazioni a
quotidiani e a riviste, uno dei più acuti cronisti dell’ “antiumanesimo italiano”, a proposito del quale
tanto soleva accalorarsi con gli amici 3 . Prima di Pasolini, e senza nostalgie rusticali o regressive,
Delfini denuncia all’altezza degli anni ’50 lo scempio ambientale e antropologico che capitalismo e
benessere vanno facendo del nostro Paese. La sua provincia è ombelico e specchio dell’Italia. E così,
in veste di poeta, ormai ultra-cinquantenne, Delfini si denuda e scatena in invettive e grotteschi.
Corposa e corporale, la scrittura della fine del mondo di Delfini ricorda nelle immagini i disegni di
Maccari: esibizione di adipi e di monili volgari, di tette e di culi, evocazione di mestrui stantii, di
coiti, di atti clandestini e turpi. Ma l’orrore è tutto “di testa”: espressione del disgusto della ragione
di fronte ad un mondo caduto tanto in basso che la ragione non ce la fa più a spiegarselo né ce la fa
la parola a rappresentarlo – e tanto meno a farvi presa. Il Delfini poeta testimonia che il linguaggio
può solo, ormai, riprodurre frammentariamente lo sfacelo: a singulti, in versi sghembi e contraffatti,
1
A.Giuliani, “Io parlo ai perduti”, in Antonio Delfini, a cura di A. Palazzi e M.Belpoliti (numero monografico di
“Riga”, Milano, Maros y Marcos, n.6, 1994, pp.257-60; p. 258.
2
N.Ginzburg, Se fossi editore lancerei Delfini, in Antonio Delfini, cit., p. 252.
3
Gli attribuisce questa espressione consueta Cesare Garbali, nella Prefazione a Antonio Delfini. Manifesto per un
partito conservatore e comunista e altri scritti, Milano, Garzanti, 1997, p.XIII.
3
con parole d’accatto. È “la mala poesia” che egli sente adesso il dovere – e il bisogno – di scrivere 4 .
E nel 1959 annota tra i suoi appunti anche l’idea pirandelliana di un Dramma da fare:
Dopo aver spiegato le schifezze del mondo moderno (scena sull’oltretorrente di Parma). Attraverso
personaggi ignobili, inesaltabilli, capaci d’ogni nefandezza... semplice (perché incapaci di complessità)... la
fine del mondo con un lampo rosso luminoso e… significativo… (Ritmi di musica araba) passano gli dei del
mondo e raccontano. “L’uomo era veramente un uomo?” domanda un dio a forma di bestia. Cristo risponde di
essersi sbagliato. Tutti si sono sbagliati. Passano tutti gli esseri puri (cani, gatti, uccelli, ecc.), la Basca, Don
Chisciotte, Dulcinea, la Vergine. Tutti dicono qualcosa con semplice umanità. Il mondo è finito ma le
immagini rimangono! Quest’ultima frase è detta da un poeta di passaggio, il quale dopo che nella scena si è
fatto buio e si sentono le risate degli industriali, avverte: Questo dramma è un’altra nefandezza di voi moderni
porci, un’altra nefandezza che non troverà riscatto mai. Io solo grido: “Sia lodato il Signore!”. 5
La partitura scenica di questo Dramma è rappresentata proprio dalle Poesie della fine del mondo,
popolate di personaggi biechi, di italioti ignoranti e cornuti, di femmine lascive e corrotte, di una
umanità laida e ladra, traditrice, avida e codarda. “Che paese! Nei versi fu follia / dirsi amico del
popolo ch’è mio: / Qui ormai non serve più la poesia / e forse più non servo nemmen io.”: questi
versi di Sergej Esenin dovevano fare da epigrafe alle Poesie, uscite nel 1961, due anni prima della
scomparsa di Delfini, per cui il mondo stava per finire davvero.
Che cosa gli era restato in tanto disastro? Poche consolazioni: gli amici, l’amore per le belle donne,
alcuni affetti privati e famigliari. A cinquant’anni aveva serbato incorrotto uno spirito
adolescenziale, tenero ed esacerbato, quello del suo fondo più vero. “Hanno tutti tradito i maiali
d’Emilia! / Maria, Gesù Cristo e il grande Creatore. / Che importa? […] se il mondo è finito / una
cosa è pur certa: sei tu la mia mamma, / sei tu mia sorella. Noi siamo al di sopra del dramma”, si
legge nelle Poesie della fine del mondo. 6 Ma poco tempo prima, sul “Caffè”, dove pubblicava alcune
sue irridenti poesiole, in un distico che è insieme congedo e provocazione, Delfini aveva pure
scritto: “Il mio segreto? / È come un peto”: sublime epitaffio e atroce sberleffo alla vita da parte di
un uomo che non si era mai veramente sentito cittadino del mondo, e meno che mai si sarebbe
sentito cittadino di questo mondo.
4
È mio dovere scrivere la mala poesia, in Poesie della fine del mondo e Poesie escluse, Macerata, Quodlibet, 1995.
A.Delfini, Un dramma da scrivere, in Antonio Delfini, cit, p.74.
6
Vi voglio un bene terribile, in Poesie della fine del mondo cit.
5
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