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JUNG - La Repubblica.it
Domenica
La
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010 / Numero 300
di
Repubblica
l’attualità
Le ultime voci delle lingue scomparse
MARINO NIOLA
cultura
Mario Giacomelli, fotografie in versi
EMANUELA AUDISIO
Jung
Libro
Il
© 2009 STIFTUNG DER WERKE VON C. G. JUNG / W. W. NORTON & COMPANY, NEW YORK, PER GENTILE CONCESSIONE DI BERLA & GRIFFINI RIGHTS AGENCY © 2010 BOLLATI BORINGHIERI EDITORE, TORINO
rosso
Il lungo viaggio segreto
del maestro dell’inconscio
in esclusiva per l’Italia
spettacoli
CARL GUSTAV JUNG
Q
uando, nell’ottobre 1913, ebbi la visione dell’alluvione, mi trovavo in un periodo per me importante sul piano personale. Allora, all’età di quarant’anni, avevo ottenuto tutto ciò che mi ero augurato.
Avevo raggiunto fama, potere, ricchezza, sapere e
ogni felicità umana. Cessò dunque in me il desiderio di accrescere ancora quei beni, mi venne a mancare il desiderio e fui colmo d’orrore. La visione dell’alluvione mi sopraffece e percepii lo spirito del profondo, senza tuttavia comprenderlo. Esso però mi forzò facendomi provare un insopportabile, intimo struggimento, e io dissi: «Anima mia, dove sei? Mi senti? Io parlo, ti chiamo… Ci sei? Sono tornato, sono di nuovo qui.
(segue nelle pagine successive
con un articolo di Antonio Gnoli)
LA DOMENICA NUMERO 300
La Domenica di Repubblica è arrivata
al numero trecento. Da oggi sul canale digitale
terrestre e poi online su Repubblica.it, andrà
in onda uno speciale di Repubblica Tv
che ne ripercorre la storia. Un documentario
che racconta, attraverso interviste agli autori
dei servizi, ai collaboratori e alla redazione
come nasce un numero della Domenica
dall’idea iniziale alla sua realizzazione
Lo speciale è stato curato da Giulia Santerini
con il montaggio di Giulio La Monica
In un taccuino tutta la forza del Boss
GINO CASTALDO e BRUCE SPRINGSTEEN
le tendenze
Eva, Linda e le splendide quarantenni
IRENE MARIA SCALISE
l’incontro
Clint Eastwood, la febbre del nuovo
MARIO SERENELLINI
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
la copertina
Nel 1913 Carl Gustav Jung ha quarant’anni ed è un uomo realizzato: ha “fama,
potere, ricchezza, sapere”. Ma all’improvviso incominciano incubi e visioni
Maestri
apocalittiche. Il padre della psicologia analitica li annoterà e li disegnerà
per tutta la vita su un quaderno che diventerà il “Libro rosso”
Uno stupefacente diario intimo, monumento all’inconscio, testo alchemico
di straordinaria ricchezza. L’opera, rimasta a lungo segreta, ora esce in Italia
Appunti di viaggio
verso l’abisso
ANTONIO GNOLI
li anni che precedettero la prima guerra mondiale furono per Carl Gustav Jung (1875-1961) attraversati da
strane premonizioni. Poco più che trentenne, cominciò ad avere delle visioni apocalittiche. I suoi occhi erano colmi di terrificanti inondazioni, vedeva macerie ovunque e fiumi di sangue scorrere per l’Europa. Pensò di essere
pazzo. Quegli stati di veglia, durante i quali gli accadeva di
provare angoscia e tremore, non potevano tuttavia ridursi a
semplici fantasticherie. Da bambino, gli accadde spesso di
sognare una figura che la voce della madre definiva il «divoratore di uomini». Chi era quel personaggio che di notte portava lo scompiglio nella testa del giovane Carl?
Ancora molti anni dopo, riflettendo su quell’esperienza allucinatoria, Jung non sapeva se ricondurla alla favolistica dimensione di un orco o alla figura del Cristo. Forte era il disorientamento, ma forte al contempo la necessità di cercare una
spiegazione che andasse oltre la pura ragione e la semplice
esperienza sensoriale. Fu così che Jung cominciò ad annotare, come un allucinato sismografo, tutto quello che accadeva
nel proprio mondo interiore. Non solo i sogni e le visioni, ma
anche le letture fatte, gli scrittori compulsati, i saperi torturati, le civiltà confrontate, le mitologie, il folclore, l’arte, le religioni, insomma tutto, o quasi, confluì in quel grande e misterioso affresco incompiuto che è il Libro rosso, di cui esce ora
l’edizione italiana.
Nelle intenzioni di Jung, quel testo — per decenni considerato una sorta di Santo Graal della psicoanalisi junghiana —
avrebbe dovuto descrivere le varie componenti della sua personalità, proprio a partire dalle sue fantasie. Le quali, sebbene agissero liberamente, appartenevano al sostrato antichissimo del mito. Jung aveva compreso che per conoscere se stessi occorreva perlustrare quel cantiere di sogni e di apparenti
bizzarrie, di visioni e perfino di mostruosità
che talvolta ci portiamo dentro. Era consapevole che non si trattava di semplici
allucinazioni, ma di un mondo simbolicamente ricchissimo che l’epoca
moderna aveva tentato di cancellare.
Il Libro rosso (o Liber novus) mette
il lettore di fronte a due situazioni: gli
fa conoscere Jung attraverso Jung; e
contemporaneamente lo introduce a
un metodo di lavoro che può illuminare
la sua vasta produzione. È noto che egli fu
allievo di Freud, con il quale scambiò, oltre che
l’amicizia, lettere, giudizi e riflessioni. Quel rapporto — proprio negli anni in cui vennero poste le premesse alla sua opera più intima — si esaurì. Nel 1914 Jung uscì dall’Associazione
psicoanalitica internazionale. Alla base della rottura ci fu più
di un motivo. C’era, innanzitutto, quella che Jung definì l’ortodossia freudiana e l’eccesso di dogmatismo dottrinario; c’era il diverso modo di interpretare la libido (per Freud la libido
era riconducibile esclusivamente alla pulsione sessuale;
mentre per Jung essa si apriva anche ad altre pulsioni psichiche); c’era la diversa lettura che entrambi davano dell’inconscio (per Freud all’inizio una tabula rasa su cui via via vengono depositati gli atti rimossi dalla coscienza; per Jung viceversa l’inconscio è già definito fin dall’origine); infine il metodo
freudiano era soprattutto un’analisi retrospettiva, tendeva
cioè a ricostruire gli antecedenti del materiale psichico osservato; quello junghiano privilegiava la vita nella sua complessità simbolica e immaginativa. Di qui l’importanza che agli
occhi dell’ex allievo assunsero alcuni archetipi: “Persona”,
“Ombra”, “Anima”, “Sé”, che egli interpretò come manifestazioni differenti della personalità.
IlLibro rossopuò dunque esser letto anche come il tormentato emanciparsi dalla figura del maestro. Il differente approccio junghiano alla vita psichica, includeva l’esistenza di
un conflitto con la figura paterna, sia reale (come nel caso del
distacco da Freud) sia simbolica (quando gli accadde di riflettere sulla morte di Dio). Jung meditò a lungo sullo Zarathustra
di Nietzsche. Ne concluse che — grazie all’anima — il dio che
muore rinasceva nelle sue multiformi espressioni.
Il Libro rosso è una delle grandi avventure clandestine del
Novecento. Jung ne interruppe improvvisamente la stesura
negli anni Venti, per poi riprenderla nel 1959. Ma anche in
quella occasione prevalse la sospensione. Per anni il testo fu
inaccessibile. Del resto, non era chiaro se Jung lo considerasse pubblicabile. Gli eredi, grazie al lavoro di persuasione di Sonu Shamdasani, lo hanno infine consentito. E questo, sebbene la parte scritta e quella disegnata (vi ricorre, ad esempio, il
grande tema del Mandala) inducano a catalogarlo tra i suoi
frutti più esoterici. D’altro canto, il Libro rosso rivela un mondo che ci sorprende per ricchezza concettuale, per affezione
a civiltà remote e diverse dalla nostra, per quei nessi sotterranei che mostrano l’immenso talento di chi li ha saputi creare.
Più che un monumento alla psicologia, o un semplice documento intimo, il Libro rosso è la prova che i grandi spiriti sanno guardare l’abisso della follia senza esserne inghiottiti.
G
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Dio nella mia anima
draghi nel mio cuore
CARL GUSTAV JUNG
(segue dalla copertina)
ALBERO DELLA VITA
Le immagini di queste pagine sono parte integrante
del Libro rosso. Ognuno di questi disegni è legato a un sogno
iniziatico o una visione di Jung. Si riconoscono alcuni
degli archetipi principali: il serpente simbolo della conoscenza,
la nave del viaggio di Osiride e del sole, l’uovo cosmico
ispirato dai Veda indiani in copertina, il grande albero
della pagina accanto o la creatura da incubi qui sopra
o scosso dai miei calzari la polvere di ogni
paese e sono venuto da te, sono a te vicino; dopo lunghi anni di lunghe peregrinazioni sono ritornato da te. Vuoi che ti racconti tutto ciò che ho visto, vissuto, assorbito in me? Oppure non vuoi sentire nulla
di tutto il rumore della vita e del mondo?
Ma una cosa devi sapere: una cosa ho imparato, ossia che questa vita va vissuta.
Questa vita è la via, la via a lungo cercata
verso ciò che è inconoscibile e che noi chiamiamo divino. Non
c’è altra via. Ogni altra strada è sbagliata. Ho trovato la via giusta,
mi ha condotto a te, anima mia. Ritorno temprato e purificato.
Mi conosci ancora? Quanto a lungo è durata la separazione! Tutto è così mutato. E come ti ho trovata? Com’è stato bizzarro il mio
viaggio! Che parole dovrei usare per descrivere per quali tortuosi sentieri una buona stella mi ha guidato fino a te? Dammi la mano, anima mia quasi dimenticata. Che immensa gioia rivederti,
o anima per tanto tempo disconosciuta! La vita mi ha riportato a
te. Diciamo grazie alla vita perché ho vissuto, per tutte le ore serene e per quelle tristi, per ogni gioia e ogni dolore. Anima mia, il
mio viaggio deve proseguire insieme a te. Con te voglio andare
ed elevarmi alla mia solitudine».
Questo mi costrinse a dire lo spirito del profondo e al tempo
stesso a viverlo contro la mia stessa volontà, perché non me l’aspettavo. In quel periodo ero ancora totalmente prigioniero dello spirito di questo tempo e nutrivo altri pensieri riguardo all’anima umana. Pensavo e parlavo molto dell’anima, conoscevo
tante parole dotte in proposito, l’avevo giudicata e resa oggetto
della scienza. Credevo che la mia anima potesse essere l’oggetto del mio giudizio e del mio sapere; il mio giudizio e il mio sapere sono invece proprio loro gli oggetti della mia anima. Perciò lo
spirito del profondo mi costrinse a parlare all’anima mia, a rivolgermi a lei come a una creatura vivente, dotata di esistenza
propria. Dovevo acquistare consapevolezza di aver perduto la
mia anima. Da ciò impariamo in che modo lo spirito del profondo consideri l’anima: la vede come una creatura vivente, dotata
di una propria esistenza, e con ciò contraddice lo spirito di questo tempo, per il quale l’anima è una cosa dipendente dall’uomo,
che si può giudicare e classificare e di cui possiamo afferrare i
confini. Ho dovuto capire che ciò che prima consideravo la mia
anima, non era affatto la mia anima, bensì un’inerte costruzione dottrinale. Ho dovuto quindi parlare all’anima come se fosse
Repubblica Nazionale
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
IL LIBRO
REPUBBLICA TV
Uscirà per Bollati
Boringhieri
l’11 novembre
il Libro rosso
di Carl Gustav Jung
curato da Sonu
Shamdasani
(393 pagine,
150 euro)
Su Repubblica.it
è online una galleria
di immagini
sul Libro rosso
Venerdì 12 novembre
alle 20,15
su Repubblica Tv,
puntata speciale
di Libridine
qualcosa di distante e ignoto, che non esisteva grazie a me, ma
grazie alla quale io stesso esistevo.
Giunge al luogo dell’anima chi distoglie il proprio desiderio
dalle cose esteriori. Se non la trova, viene sopraffatto dall’orrore
del vuoto. E, agitando più volte il suo flagello, l’angoscia lo spronerà a una ricerca disperata e a una cieca brama delle cose vacue
di questo mondo. Diverrà folle per la sua insaziabile cupidigia e
si allontanerà dalla sua anima, per non ritrovarla mai più. Correrà dietro a ogni cosa, se ne impadronirà, ma non ritroverà la
sua anima, perché solo dentro di sé la potrebbe trovare. Essa si
trovava certo nelle cose e negli uomini, tuttavia colui che è cieco
coglie le cose e gli uomini, ma non la sua anima nelle cose e negli uomini. Nulla sa dell’anima sua. Come potrebbe distinguerla dagli uomini e dalle cose? La potrebbe trovare nel desiderio
stesso, ma non negli oggetti del desiderio. Se lui fosse padrone
del suo desiderio, e non fosse invece il suo desiderio a impadronirsi di lui, avrebbe toccato con mano la propria anima, perché
il suo desiderio ne è immagine ed espressione.
Se possediamo l’immagine di una cosa, possediamo la metà
di quella cosa. L’immagine del mondo costituisce la metà del
mondo. Chi possiede il mondo, ma non invece la sua immagine,
possiede soltanto la metà del mondo, poiché l’anima sua è povera e indigente. La ricchezza dell’anima è fatta di immagini. Chi
possiede l’immagine del mondo, possiede la metà del mondo,
anche se il suo lato umano è povero e indigente. Ma la fame trasforma l’anima in una belva che divora cose che non tollera e da
cui resta avvelenata. Amici miei, saggio è nutrire l’anima, per
non allevarvi draghi e diavoli in cuore.
Traduzione Marianna Massimello
(© 2009 Stiftung der Werke von C. G. Jung / W. W. Norton &
Company, New York, per gentile concessione di Berla & Griffini
Rights Agency © 2010 Bollati Boringhieri Editore, Torino)
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
l’attualità
Babele
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
Lingue che rischiano di morire, idiomi in via di estinzione, voci
che si stanno spegnendo per sempre. K. David Harrison è andato
a cercarli in un lungo viaggio attraverso il pianeta dall’Australia
alla Siberia al Sudamerica. Ha raccolto un patrimonio di canti,
saperi, storie tramandate con vocabolari millenari e sconosciuti
Per dimostrare che parlare non significa solo comunicare
LINGUA: MONCHAK
LINGUA: YOKOIM
La famiglia Nedmit
Luis Kolisi
Padre, madre e due figlie. Vivono nella Mongolia occidentale
Parlano la lingua Monchak, considerata a rischio di estinzione
Sono meno di un migliaio le persone che la parlano
È una delle ultime voci della lingua Yokoim
un tempo diffusa in Papua Nuova Guinea
Luis scrive e canta canzoni per tramandarla
Le ultime parole del mondo
MARINO NIOLA
Carlo V diceva: usa
lo spagnolo con Dio,
gni lingua è un angolo di mondo.
E le parole non servono solo a comunicare la realtà, ma la creano.
Perché tutto ciò che esiste è nel
linguaggio e ciò che non è più nominato smette di vivere. Le idee, le
emozioni, i sentimenti, le istituzioni
degli uomini, ma anche le cose, gli oggetti,
i luoghi sono in realtà
modi di essere della
parola, sedimentati
dal tempo. In questo
senso ogni lingua è
un’eredità, come diceva Ferdinand de
Saussure, l’inventore
della linguistica moderna. E ogni lingua
che scompare è un
patrimonio che va
perduto, un pezzo di
umanità che tace per
sempre.
Proprio agli idiomi
a rischio di estinzione
LINGUA KALLAWAYA
il linguista americano
K. David Harrison dedica il suo ultimo libro
Antonio e Illarion Ramon Condori
The Last Speakers: The
Boliviani, padre e figlio si tramandano
Quest to Save the
la lingua che conserva ancora reminiscenze
World’s Most EndenQuechua che si parlava nell’antico impero Inca
gered Languages, un
O
l’italiano con la tua amante,
l’inglese con le oche
affascinante e avventuroso viaggio attraverso le
parole che il pianeta rischia di lasciarsi sfuggire
per sempre. Dalla Siberia agli altipiani boliviani,
dalla Nuova Guinea fino alle isole linguistiche
dell’Occidente. Quelle che oggi rischiano di essere sommerse dalla marea montante della globalizzazione e dal suo monolinguismo. Che riduce
le voci del pianeta a una cattiva declinazione del-
IL LIBRO
Si intitola The Last Speakers il libro
di K. David Harrison pubblicato
negli Stati Uniti dal National Geographic
da cui sono tratte le immagini di queste
pagine. È un viaggio alla scoperta
degli ultimi speaker, “parlatori” di lingue
che si stanno estinguendo. Il libro
è diventato anche un documentario,
The Linguists, selezionato
al Sundance Film Festival
l’inglese. Una formattazione del pensiero che sacrifica le diversità in nome della praticità. È il paradosso di oggi. Comunichiamo sempre di più,
ma le parole per farlo diminuiscono. E così giorno dopo giorno molte comunità adottano le lingue dominanti lasciando morire quelle native.
Spesso consegnate unicamente alla tradizione orale, a un passa parola millenario che il rumore della civiltà tecnologica tende a coprire. E
non è solo una questione di termini, ma anche e
soprattutto di contenuti. Di tutti quei saperi, lessici, tassonomie, sensazioni, storie che altrimenti non conosceremmo. E in questo senso il
destino delle lingue è strettamente legato a quello delle specie, le cosiddette biodiversità. Molte
ci sono del tutto sconosciute. Come i loro nomi.
Saperi botanici, chimici, farmacologici, agricoli,
tecniche di caccia, di pesca sparirebbero per
sempre con gli ultimi parlanti. Perché non tutto
è traducibile. E una lingua non vale l’altra.
In questo senso il fatto che l’inglese sia diventato l’idioma del villaggio globale, non è solo un
vantaggio, ma un problema. Proprio così recitava il titolo di un importante servizio apparso
qualche tempo fa sulla Herald Tribune e dedicato alle derive linguistiche del dominio imperiale
americano. Siamo sicuri insomma di poter fare a
meno di tanta ricchezza? A questa domanda —
che è il leit motiv del libro — Harrison risponde
con un secco no. Le lingue a rischio di estinzione
si devono e si possono salvare. Cercando di incrementarne il valore, il prestigio, l’appeal agli
occhi dei parlanti, ma anche a quelli degli altri.
Facendo crescere la quotazione delle cosiddette
parlate minori nel mercato mondiale dei linguaggi. Riconoscendo a ogni lingua una sua vo-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
LINGUA: MURRIN-PATHA
LINGUA: KARIM
Cyril Ninnal
Christina Yimasinant
Fa parte della tribù Yek Nangu, vive a Wadeye, nel nord
dell’Australia, è un narratore di storie e leggende aborigene
Solo 2.500 persone parlano la sua lingua, il Murrin-Patha
Di etnia Yimas, vive nella regione del Karawari,
in Papua Nuova Guinea. Parla la lingua Karim
È una della ultime a conoscerla
cazione, una destinazione, una tipicità. Non tutte le lingue possono dire tutto a tutti, ma ciascuna può avere qualcosa da dire.
Carlo V, che non riuscì mai a imparare il latino,
ma sulla globalizzazione la sapeva lunga, visto che
sul suo regno il sole non tramontava mai, diceva
che si dovrebbe parlare spagnolo con Dio, italiano
Gli indigeni dello stretto
di Torres si pongono
il problema di tradurre
termini come computer
con la propria amante, francese con il proprio amico, tedesco con i soldati, inglese con le oche, ungherese con i cavalli e boemo con i diavoli.
Forse per salvare gli idiomi a rischio bisogna
prendere esempio dagli indigeni dello stretto di
Torres, uno dei paradisi dell’antropologia, che si
pongono il problema di rendere più contempo-
ranea la loro lingua, creando nuove parole per
tradurre termini come computer. Un problema
che, peraltro, neanche l’italiano ha risolto. In
realtà per i Papua come per noi il problema è lo
stesso. Quando mancano le parole a mancare è il
pensiero.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
CULTURA*
È stato il fotografo dei “pretini” e dei gabbiani, ma non solo
Lo interessava la perdita, la vita dal basso: la campagna invasa
dai trattori, le case crollate dei contadini, i vecchi negli ospizi
senza più denti in bocca. Dieci anni fa se ne andava, e ora la sua Senigallia lo ricorda
con una mostra, “Piccoli inediti”. Sono alcuni versi e i primi clic trovati dal figlio
Simone nella soffitta di casa. Non scarti: “Papà non pubblicava quello che amava”
EMANUELA AUDISIO
S
SENIGALLIA
e ne andò alle tre di notte, dieci anni fa. Il 25 novembre, di
un anno che non voleva nominare. Lo avevano operato
d’urgenza a gennaio, i medici non avevano dato speranze. Tumore. Simone, il figlio, ricorda: «Papà uscì dalla rianimazione e mi chiese di portare la mia macchina fotografica. La mia?
Sì, non voleva la sua. Scese dal letto, me la impostò, e me la restituì, dicendo di non toccare niente, neanche il vuoto. Poi si sistemò accanto alla finestra e mi disse: scatta». Così è nato Questo ricordo lo vorrei
ricordare. Vorrei, appunto, non voglio. L’umiltà dei desideri, di chi
ringrazia per il niente, una fetta di ciambellone da dividere per cena.
«Quello che ho avuto di bello dalla vita sono la povertà e le botte che
mi ha dato mia madre». Già, lividi veri. Anche se la madre gli confessò che poi andava a piangere al gabinetto. Mario Giacomelli se non
aveva mani che accarezzassero il suo volto, aveva occhi che sapevano raccontare. E riconoscere la guerra in tempi di pace. I segni, le ferite, le cicatrici della campagna e del mondo. La vita dal basso, schiacciata, senza colore, senza cielo.
Ora la sua città lo ricorda con una mostra, I piccoli inediti. Dieci versi in dieci fotografie, dal 14 novembre al 14 dicembre, alla Galleria
Portfolio di Senigallia, a cura di Paola Casagrande e Giovanni Ferri,
con presentazione di Alfio Albani. Non solo i primi clic, ma anche le
parole. Perché a Giacomelli non interessava la foto singola, ma la serie, il racconto. «Ciò che conta è quello che nasce nella mia mente».
Non era scanzonato come Fellini, era più estremo, non ne divideva il
ritmo da Vitelloni, anche se le onde dell’Adriatico erano le stesse, piuttosto come Pasolini si lamentava di una perdita. Anche se le lucciole
in collina resistevano. «La campagna è cambiata. È diversa, adesso è
una terra piatta, passa una macchina che taglia, miete, macina, fa tutto. Non c’è più fantasia. Arrivano questi bestioni meccanici e non c’è
più gioia in chi lavora, in nessuno», dice a Giorgio G. Neri. E lui fotografa la scomparsa, le sue paure, le sue ossessioni, mascherandole
dietro le serie.
Questi inediti, questi provini, scelti tra un centinaio, erano negli
scatoloni nella soffitta di casa, dove lui stampava. Non robaccia, non
scarti, perché come dice Simone: «Papà non pubblicava quello che
amava, lo teneva per sé, aveva paura di non essere capito, nel ’63 voleva addirittura smettere, era rabbioso con il suo lavoro, di notte rom-
peva, strappava le foto, le buttava in un cesto. Io da bambino gli facevo da modello, anzi facevo l’ombra, una figura in movimento, ma non
riuscivo a stare serio, e lui si arrabbiava. Finché nell’83 esce il libro Il
Gabbiano Jonathan Livingston, e lui mi coinvolge, mi chiede: cosa ne
pensi? Inizia una ricerca sui gabbiani che quasi gli costa la vita, cade
nella discarica, in un fosso di spurgo e grazie al cavalletto, tenuto sempre allungato, riesce a salvarsi, ma la puzza gli resterà addosso per una
settimana. La poesia era la sua spalla creativa, odiava tutto quello che
è didascalia, la Cavallina Storna con l’immagine del cavallo che passa, aveva una menta astratta, vedeva le macchie, i segni».
Li vede da subito: il padre muore che lui ha nove anni, la madre Libera lavora come lavandaia all’ospizio in cambio di un piatto di minestra, la sorella più piccola viene data in affidamento per un anno
perché non ci sono soldi. Mario inizia a disegnare sui tronchi degli alberi. Non cuori, ma croci. A tredici anni diventa tipografo. Segni, ancora una volta: le macchie sui muri, i fili di ferro. «Meravigliosi». Nel
’53 acquista una Bencini Comet 5 e scatta due rullini al mare d’inverno. È la vigilia di Natale. Una ciabatta rotta, una stella di mare, la schiuma delle onde. Resti, per noi. Per lui: L’approdo. Nel ’57 gli pagano (in
anticipo) un servizio su Lourdes. Parte, arriva, se ne va, sotto la pioggia. «Mi vergogno, non ce la faccio». Ridà indietro i soldi, anche quelli del viaggio. «C’era un bambino in carrozzella, con le gambe intrecciate, urlava come un gorilla». Lo rimproverano: ma come, hai ritratto i vecchi rotti e sdentati all’ospizio, nella sala d’attesa per la morte.
E lui: «Sì, ma quelli avevano vissuto, questi invece no».
Giacomelli non è uno spettatore. Va al mattatoio, vede i maialini
piangere, e scappa via. Va all’ospizio per tre anni, e non riesce più a
mangiare. Ma dopo uscirà Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Va in se-
GScattiIACOMELLI
solo per me
minario, sempre per tre anni, curioso dei pretini, «figli di contadini»,
e butta via tutto. Però a Lourdes torna, con la moglie, per esigenze private, e stavolta fotografa. Spiega Simone: «Nel ’59 era nato Neris, mio
fratello, che a pochi mesi dalla nascita ingoia una spilla da balia, ha un
principio di soffocamento, con un deficit che lo lascia senza parole».
Giacomelli vuole realizzare una serie sui disabili, I miei fratelli, ma
non lo lasciano fare. Un anno prima si è rotto una gamba, e a causa del
gesso, si è dato alla composizione, a quelle nature morte che giudica
male. Nel ’65 inizia a frequentare una famiglia di contadini, ogni domenica mattina d’inverno fotografa sempre la stessa casa fino a
quando nel ’95 la casa crolla. Per lui sono Le ragioni del tempo. Nel ’68
conosce Burri che gli piace molto: «Fossi un pittore mi piacerebbe essere lui». Tagli, vuoti, crudezza.
Dieci anni dopo Giacomelli è ancora vivo. Usato, conosciuto, imitato. Dice il pittore Leonardo Cemak: «Ha dato a tutti l’illusione che
fosse semplice guardare il paesaggio, ma lo era per il suo sguardo». Patrizia Molinari, artista: «Ha visto l’incommensurabile in un campo
arato, nel volo di un gabbiano, nel viso di un folle in manicomio».
Mirko Procaccini, grapich-designer: «Con una macchina fotografica
scalcinata ha dato forza e visibilità a un panorama invisibile». Come
spiega Ferdinando Scianna ai suoi allievi: «Giacomelli insegna che
anche una tipografia di provincia può essere vissuta come una nave
di pirati. Ognuno trovi il suo modo». Ricorda Simone: «Mi diceva sempre: quando sarai grande capirai. Non accettava l’ambiente che cambiava, la terra che si disfaceva, la violenza dell’uomo sulla natura.
Chiedeva: perché? Ora che ho un figlio di sette anni capisco. Papà non
mi ha lasciato foto, ma pezzi di vita, con un vocabolario». Una altro
modo per dire: guarda le suture, il male che c’è sotto, non avere paura di abbassare gli occhi. E noi infatti oggi li alziamo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Repubblica Nazionale
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
IMMAGINI E VERSI
A sinistra: “Colonie - Il pensare respiro”. Sopra: “Paesaggio 0 - In filari disuguali”. Sotto: “Paesaggio 1 - Semina senza raccolto”
In basso a sinistra: “Nonna Zia Maria - Nutrita di silenzi”. In basso a destra: “Nudo - Spazio attorno al corpo”
Leonard Cemak
“Ha dato a tutti l’illusione che fosse
semplice guardare il paesaggio,
ma lo era per il suo sguardo”
Ferdinando Scianna
“Insegna che anche una tipografia
di provincia può essere vissuta
come una nave di pirati”
€ 16,00
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
Quando Bruce Springsteen, dopo “Born to Run”,
iniziò a lavorare a “Darkness on the Edge
of Town”, fece la sua più grande scommessa:
rischiare il successo appena ottenuto per restare fedele a se stesso. La vinse
SPETTACOLI
Ma nessuno aveva mai raccontato i dubbi, la fatica, le giornate in sala
di registrazione. Ora spunta un quaderno di appunti che non abbandonava mai
I taccuini
del
Boss
‘‘
“Devo alle scelte di allora
e a quel ragazzo il rispetto
che meritano
Ma tanta magia, dolce
e importante, è andata
momentaneamente perduta,
c’è una stagione per tutto”
Bruce Springsteen, 2010
Le tenebre e la Terra Promessa
GINO CASTALDO
otere dell’immaginazione: la Terra
Promessa in un quaderno di appunti.
Era così quando il Boss si struggeva di
dubbi e fervore rock e cercava di capire come gestire il successo che gli era
arrivato violento e rumoroso dopo
Born to Run, lui che era un ragazzo del New Jersey,
fermamente deciso a incendiare il mondo del
rock, ma senza perdere quello che lui sapeva essere la sua unica, indispensabile forza: l’attaccamento alla terra, agli amici, a quella realtà da eroi
della working class a cui sentiva di appartenere. E
allora scriveva, annotava versi, accumulava idee e
le riversava su quel quadernone con la copertina
blu che teneva sempre pronto, aperto in studio
P
mentre lavorava con i compagni fidati della E
Street Band. Come in una sceneggiatura, ci sono le
terre avvelenate, i quartieri dei diseredati, l’idea
struggente di una Terra Promessa, le tenebre che
incombono ai confini della città. È il notebook di
Darkness on the Edge of Town.
Fa un certo effetto maneggiare quel libro di appunti di Bruce Springsteen. Certo, è una copia, ma
riprodotta talmente bene da sembrare l’originale,
con tanto di macchie di caffè, strappi, cancellature
e pezzi di scotch che uno tocca pensando siano veri e invece al tatto risultano pura e semplice riproduzione. Ma l’effetto rimane, ed è soprattutto una
questione di intimità. In vena di generosa sincerità,
in occasione del boxset legato alla riedizione di
Darkness on the Edge of Town, (un tesoretto di cd,
documentari, live, da far ammattire i fan) a confer-
ma di come sia stato un disco cruciale, una boa fondamentale nella definizione della sua identità, ha
deciso, o meglio si è lasciato convincere ad accludere anche una copia, perfetta, del quadernone. E a
sfogliarlo si vedono i tentativi, i primi versi di Badlands, poi cambiati, le note, le cancellazioni, si percepisce il processo creativo che tormentava Springsteen in quei giorni del 1978, quando la vena punk
aveva ammantato la scena del rock di nuove ribellioni, di oscurità (guarda caso il titolo, Darkness...),
la sua voglia di costruire un viaggio duro, rigoroso,
senza deviazioni. Quel disco è così, una risposta
netta, tagliente, più riflessivo di Born to Run, ma
egualmente intenso, forse ancora più profondo,
immerso nella solitudine di un artista sull’orlo del
buio. Il disco è tra i più amati, se non il più amato dai
fedelissimi, proprio per la sua integrità, oltre al fat-
IL COFANETTO
Esce il 16 novembre The Promise:
Darkness on the Edge of Town Story
Un cofanetto che contiene tre cd:
la versione rimasterizzata dell’album
e 21 tracce inedite del periodo 1976-78
Tre dvd (o bluray): il documentario
di Thom Zimny sul making of dell’album,
il concerto di Houston del ’78
e un set d’archivio di quattro ore
In più, il facsmile del taccuino di appunti
del Boss che illustra queste pagine
Repubblica Nazionale
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Ore e ore in cerca di una strofa
così ho reagito alla buona sorte
BRUCE SPRINGSTEEN
opoBorn to Runvolevo descrivere come si vive entro i confini ristretti
delle piccole città in cui sono cresciuto. Nel 1977 abitavo in una fattoria a Holmdel, nel New Jersey. È lì che ho composto gran parte dei
brani per Darkness on the Edge of Town. Avevo ventisette anni ed ero il prodotto dei successi radiofonici del momento. Brani come It’s My Life e We
Gotta Get Out of this Place erano intrisi di una precoce coscienza pop. Questo, associato alla mia esperienza personale — lo stress e la tensione della
vita che conducevano i miei genitori alle prese con le difficoltà economiche
— influenzava la mia produzione. Reagivo alla mia buona sorte. Mi ponevo
nuove domande. Mi sentivo responsabile nei confronti delle persone con
cui ero cresciuto. Iniziai a chiedermi come affrontare la cosa. All’epoca ero
anche in contrasto con il mio ex agente per i diritti e il controllo sulla mia
musica. Correvo il rischio di perdere molto del mio lavoro, di quello che avevo realizzato. Tutto questo contribuì alla svolta che la mia produzione ebbe con Darkness.
In quel periodo iniziai ad ascoltare seriamente musica country. Scoprii
Hank Williams. Del country mi piacevano i riferimenti a tematiche adulte,
e io volevo scrivere brani che avessero un’eco. I film che erano sempre stati importanti per la mia attività di cantautore ebbero ancora più impatto su
questo album. Mi erano sempre piaciute le tinte forti, i fuorilegge dei B —
movies, Robert Mitchum in Il contrabbandiere, e Gun Crazy di Arthur Ripley. Avevo visto di recente per la prima volta Furore di John Ford. Scovavo
noir degli anni Cinquanta e Sessanta come Le catene della colpa di Jacques
Tourneur. Di quelle pellicole mi attiravano gli uomini e le donne in lotta
contro il mondo circostante. Persino il titolo Darkness on the Edge of Town
doveva molto al noir americano.
Sotto il profilo musicale volevo un disco più snello, meno grandioso di
Born to Run. Le sonorità di quest’ultimo non sarebbero state consone ai brani che componevo e alle persone di cui ora narravo. Chuck Plotkin, un discografico di LA, comparve alla fine dell’album e ci aiutò a ottenere un missaggio più incisivo, più moderno. Ci aiutò a mettere a fuoco i brani come altrimenti non saremmo riusciti a fare e ci permise di portare il disco a conclusione. Nel materiale registrato c’erano molte varianti ma tolsi tutto quello che a mio avviso interrompeva la tensione dell’album. Dopo Born to Run
volevo che la mia musica continuasse ad avere un valore e fosse radicata in
un mondo.
Era difficile comporre. Ricordo che passavo ore cercando di tirar fuori una
strofa. Badlands, Prove It all Night e Promised Land avevano tutte un ritornello ma poche strofe. Ero in cerca di un’atmosfera intermedia tra lo spirito
fiducioso di Born to Run e il cinismo degli anni Settanta. Volevo che i miei
nuovi protagonisti si sentissero logorati, invecchiati, ma non sconfitti. In
ogni brano era sempre più vivo il senso della lotta quotidiana. Era molto più
difficile inserire la possibilità della trascendenza o di una qualche redenzione individuale. Era quello il tono che volevo tenere. Mi mantenevo volontariamente alla larga da qualunque evasione dalla realtà e calavo i miei personaggi nel bel mezzo di una comunità sotto assedio. Passarono settimane,
mesi addirittura, prima di arrivare a qualcosa che mi sembrasse valido.
I brani presero corpo lentamente, strofa dopo strofa, pezzo dopo pezzo. I
titoli erano pesanti: Adam Raised a Cain, Darkness on the Edge of Town, Racing in the Street. Adam Raised a Cain utilizzava immagini bibliche per evocare l’amore e l’acredine tra un padre e un figlio. Darkness on the Edge of Town
esprimeva l’idea che lo stimolo a intraprendere una trasformazione individuale spesso si trova quando si arriva al limite delle forze. In Racing in the
Street l’idea era fare da ponte tra le canzoni sulle corse in macchina degli anni Sessanta e l’America del 1978. Per personalizzare Racinge gli altri titoli dovevo infondere nella musica le mie speranze e le mie paure. Altrimenti i personaggi suonano falsi, e resta solo retorica, parole vuote di significato.
Gran parte della mia produzione è autobiografica sotto il profilo emotivo. Devi tirar fuori le cose che hanno un senso per te se vuoi che lo abbiano
per il tuo pubblico. Così i tuoi ascoltatori sanno che non è un gioco. La strofa finale del disco, Tonight i’ll be on that hill, stasera sarò su quella collina,
indica che i miei personaggi sono sì incerti sul loro destino, ma saldi, determinati. Arrivato in fondo a Darkness avevo scoperto la mia voce adulta.
D
to di contenere alcune delle sue migliori canzoni,
un’integrità che gli aveva suggerito di scartare pezzi clamorosamente belli come Because the Night,
affidata poi per fortuna a Patti Smith, solo perché
pezzi d’amore in quel disco proprio non potevano
entrarci. Tutto questo è raccontato con dovizia di
particolari, e molto materiale filmato d’epoca, nel
documentario The Promise, the Making of Darkness on the Edge of Town, ovviamente incluso nel
cofanetto. Si vedono il Boss e compagni che faticano in studio, che provano, si percepisce perfettamente la compulsiva ostinazione di Springsteen
nel cercare di centrare l’obiettivo, di seguire fino in
fondo la sua visione, senza deroghe. Anche queste
immagini, lavorate poi dal regista Tom Zimmy e
montate con materiale nuovo, attuale, le dobbiamo al tipico approccio di quei ragazzi del New Jer-
sey. In genere non si facevano riprendere in studio,
ma in quei giorni girava in sala un loro amico con la
cinepresa. Era un amico, e allora lo lasciarono fare,
finché si dimenticarono di lui, e per questo le immagini sono straordinarie, spontanee, naturali.
E uno dei protagonisti di questa storia è proprio
il quadernone. È lì, campeggia, è amato e temuto
dai compagni di lavoro perché contiene l’inesauribile e cocciuta voglia di Springsteen di arrivare in
fondo, perché contiene una valanga di idee che
vanno provate, vagliate, e in molti casi scartate. E
quando il Boss apre il notebook si ricomincia da
zero. E ora, in copia, il quaderno è a disposizione
di tutti, per capire, per entrare nell’intimità, nel
processo creativo del più grande performer della
storia del rock.
(Introduzione del 1998 a Darkness on the Edge of Town)
Traduzione Emilia Benghi
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44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
i sapori
Le prime nebbie, la sera che cade sulle colline,
le zolle smosse e i colori dell’autunno. È il periodo
Italia gourmet
migliore per visitare il fazzoletto di terra piemontese
tra Asti e Cuneo e tutte le sue sagre. Per consolarsi
della bella stagione finita con tomini, castelmagno,
agnolotti e lunghe e riposanti “merende cinoire”
l’appuntamento
Settimane di passione
per gli amanti del tartufo bianco,
cui Alba dedica una fiera
che si protrarrà fino a metà
novembre, tra degustazioni,
vendita e menù dedicati
Il 14 novembre, appuntamento
con l’asta mondiale
al Castello di Grinzane Cavour
LICIA GRANELLO
n paese vuol dire non
essere soli, sapere che
nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche
se non ci sei resta ad
aspettarti». Difficile raccontare meglio il terroir
delle Langhe del langarolo Cesare Pavese ne La
luna e i falò. Un insieme di facce, umori, odori,
profili di colline e profumi di mosto, nebbie sottili e zolle ruvide, silenzi che riposano il cuore e
l’ovattato scalpiccìo dei cercatori di trifola. Una
comunità antica, unita nell’inestricabile intreccio di piatti e vini che fanno continuamente il giro del pianeta e ogni volta ne tornano vincitori.
Facile come lo spazio di poche sillabe: tar-tufo e ba-ro-lo. Basterebbe questa coppia benedetta dal dio dei buongustai per definire i confini del paradiso del cibo in terra. Fiere, sagre,
aste, degustazioni, mercati, raccontano molto
ma non tutto il mondo di gourmandise che il
fazzoletto ritagliato tra i margini delle province
di Cuneo e Asti sa regalare ai suoi abitanti.
Certo, il tartufo bianco sa essere seduzione
pura, così unica e impalpabile da indurre Ferran Adrià a servirlo affettato in sfoglie soavi, così come natura l’ha fatto, in un ballon per trasformarlo da cibo in profumo.
Il barolo non è da meno. La sua storia comincia quando Napoleone, combinando il matrimonio tra Giulietta Colbert e il Marchese Faletti di Barolo, trasforma la giovane parigina in viticultrice. A quel tempo, il vino della zona si
chiamava nebbiolo vecchio. Giulietta, amica di
Cavour e Silvio Pellico (che morì a palazzo Barolo), fece arrivare dalla Francia le prime botti
di rovere, per aggiungere eleganza al rosso da
offrire ai dignitari delle corti europee.
Ma le Langhe sono molto altro. Anche nelle
case più povere, il rito della merenda cinoira(si
«U
Langhe
Luna, falò, tartufi e barolo
legge sinoira ed è la merenda capace di allungarsi fino alla cena) sposa il piacere della socialità e un’infilata di ghiottonerie da urlo: tomini di latte crudo, bagnetto verde, acciughe
— la via del sale! — salame, salsiccia di Bra, terra-madre dello Slow Food di Carlin Petrini, una
scheggia di castelmagno venato dall’azzurro
delle muffe. A bagnare le gole, i rossi della zona, dalla sbarazzina freisa in su.
Dietro tanta bontà, le facce di chi ha fatto
grandi le Langhe, a cominciare dai barolisti duri e puri come Bartolo Mascarello (e oggi da sua
figlia Teresa), Beppe “Citrico” Rinaldi, Teobaldo Cappellano, Domenico Clerico, Angelo
Gaja (con sua figlia Gaia), più una serie di fratelli vignaioli: Oddero, Ceretto, Conterno... Accanto a loro, il formaggiaio Beppino Occelli, il
torronaio Giuseppe Sebaste, l’uomo delle
grappe Romano Levi, e poi i cuochi: la famiglia
Alciati, Cesare Giaccone, Cesare e Pina Marcarino, fondatori dell’Osteria dell’Unione di Treiso, nelle cui sale nacque “La Gola”, associazione antesignana di Slow Food.
Storie antiche che hanno guidato i passi dei
nuovi artigiani langaroli, dal mastro birraio Teo
Musso al torronaio Alessandro Marengo, fino
ad Alessandro Boglione — ristorante del Castello di Grinzane Cavour — altro figlio d’arte
(pasticceria Converso di Bra). Per questo, leggere le Langhe non basta, bisogna viverle. Tra
un piatto di ravioli del plin e un bicchiere giusto, d’obbligo un brindisi a Pavese e Fenoglio.
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Tartufo bianco
Barbaresco
Fin dal Settecento, il prezioso
Tuber Magnatum Pico –
zona di elezione le Langhe,
il Roero e il Monferrato –
veniva esportato da Alba
nelle principali corti europee
e considerato una raffinata
prelibatezza
Sulle colline a pochi chilometri
da Alba, tra Barbaresco,
Treiso e Neive, l’uva nebbiolo
acquista profumi e struttura
complesse. Il rosso che nasce
da queste terre sabbiose
e biancastre è unico
per forza e personalità
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DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
itinerari
Figlia di Bruno
e nipote di Marcello,
i due fratelli che hanno
contribuito a costruire
il mito delle Langhe
da bere, Roberta
Ceretto segue
alcuni progetti
tra cantine di design
e il ristorante bistellato
“Piazza Duomo”,
nel centro di Alba
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Alba (Cn)
La Morra (Cn)
Monforte (Cn)
La capitale delle Langhe è approdo obbligato
per i turisti del vino, che riempiono le belle
stradine di acciottolato nelle ore serali,
dopo aver trascorso la giornata tra cantine
e locande del buon mangiare
Bisogna arrampicarsi fin qui, per regalarsi
il più struggente panorama delle Langhe
e per rendere omaggio al monumento
al vignaiolo. Non perdete i goduriosi tajarin,
i tagliolini al burro e tartufo
Il piccolo borgo, battezzato dal castello cinto
da mura costruito nel 1028 e sede
di una comunità catara, si arrampica
tra le vigne sulle colline a nord di Cuneo,
in una zona benedetta per il barolo
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
LA TERRAZZA SULLE TORRI
Viale Torino 6
Tel. 0173-440741
Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa
L’ATELIER
Borgata Mascarelli 11
Tel. 0173-509849
Camera doppia da 75 euro, colazione inclusa
LE CASE DELLA SARACCA
Via Cavour 5
Tel 0173-789222
Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
OSTERIA DEI SOGNATORI
Via Macrino 8
Tel. 0173-34043
Chiuso mercoledì, menù da 30 euro
OSTERIA DEL VIGNAIOLO (con camere)
Frazione Santa Maria 12, tel. 0173-50335
Chiuso tutto mercoledì e giovedì a pranzo,
menù da 30 euro
TRATTORIA DELLA POSTA
Località Sant’Anna 87, tel. 0173-78120
Chiuso tutto giovedì e venerdì a pranzo,
menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
LE SPECIALITÀ ALIMENTARI
Piazza Risorgimento 3
Tel. 0173-33511
CANTINA COMUNALE
Via Carlo Alberto 2
Tel. 0173-509204
BAR BAROLO
Via Garibaldi 11
Tel. 0173-789243
Il bello e il buono
nati dalla fame
CARLO PETRINI
autunnoin Langa è sempre una grande emozione,
anche per chi ne è abituato. Sali sulla cima delle colline e dai belvedere rimiri a perdita d’occhio pendii, vigne, castelli… La nebbiolina che spesso sale in questa
stagione è quasi confortante, pensi al tartufo e al barolo,
pensi a Pavese e Fenoglio, ma se conosci un po’ la zona o hai
avuto la fortuna di nascervi contestualizzi subito tutto, evochi le osterie, la gente in cantina, i bar di paese e tutta l’umanità che li frequenta. Facce e voci che raccontano meglio di qualsiasi altra cosa un territorio: vizi e virtù, saperi e
sapori, modi di essere simpatici o antipatici.
Il quadro che ne emerge obiettivamente è davvero bello,
e buono. Nonostante «l’improvviso benessere che ha colpito le Langhe», ciò che sosteneva spesso Bartolo Mascarello per stigmatizzare le orde di capannoni e tante altre
brutture sorte negli ultimi anni, questa terra generosa ma
non certo facile ha mantenuto tutto il suo fascino semplice, un vero condensato di piemontesità. Siamo di fronte a
un bello e un buono che non possono passare inosservati,
sia per chi si avventura per la prima volta tra le colline, sia
per gli indigeni, i quali non è raro che continuino a farsi sorprendere. Il langarolo magari crede di sapere tutto della sua
terra, di avere visto tutto ciò che c’era da vedere, poi è sufficiente che svolti in una stradina di campagna mai percorsa, e subito gli si apre uno scorcio del tutto inedito ai suoi occhi, che lo lascia puntualmente a bocca aperta.
È terra fortunata la Langa, perché se siamo convinti che
il diritto universale al bello e al buono sia la prossima conquista di civiltà, la prossima importante battaglia politica
da fare, essa parte senz’altro avvantaggiata. È merito di chi
ci ha vissuto, di «chi ha camminato le sue vigne» (per dirla
alla Veronelli), di chi ha fatto agricoltura, combattuto, tramandato affascinanti tradizioni o piatti geniali (perché
partono tutti dalla memoria della fame, che un tempo qui
era di casa). Siamo di fronte alla dimostrazione che un’economia locale, se sa mettere a frutto con giudizio ciò che la
natura le ha donato, può ottenere risultati incredibili. Ma ci
vuole sempre il senso del limite, perché se in alcuni contesti locali il bello e il buono per tutti devono essere conquistati, in altri vanno tutelati e difesi, non vanno sperperati. È
il caso della Langa di oggi. I suoi abitanti devono essere consapevoli dei limiti della loro terra e non chiedere più di
quanto non abbia già dato o possa ancora dare. Per esempio la monocoltura della vite a scapito della biodiversità è
stata un rischio concreto in anni di grandi successi economici e non basterà una crisi del vino per fermarla.
Le generazioni precedenti hanno fatto un capolavoro,
quelle attuali dovrebbero saper continuare su quel solco,
che era stato tracciato a partire da umiltà, radici povere, un
rapporto viscerale con la terra che non solo ha cambiato i
tratti delle colline rendendole belle e buone, ma ha forgiato le persone. Loro, che sono la vera ricchezza di Langa.
L’
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Bue grasso
Fieno, cereali e crusca
per i buoi “dalla coscia
doppia”, utilizzati fino
al dopoguerra nella campagna
di Carrù per lavorare i campi
Quando vengono macellati,
i buoi hanno quattro anni
e pesano fino a una tonnellata
Dolcetto
Irriverente e fragrante,
l’alter ego dei corposi rossi
di Langa ha colore rubino vivo,
odore vinoso, sapore secco
e fruttato. Ben tredici
le denominazioni sparse
in Piemonte. D’Alba
e di Dogliani le più conosciute
Nocciola
La “tonda gentile trilobata”,
protetta dalla Dop, ricca
di vitamine e pregiati oli
essenziali, ha ispirato alcuni
celeberrimi alimenti di Langa,
dal torrone alla crema
di nocciole, fino ai sempiterni
e speciali gianduiotti
Torrone
Robiola
Barolo
Cappone
Salsiccia di Bra
Miele, zucchero, bianchi
d’uova e nocciole di Langa
tostate per la ricetta esportata
da Alba in tutto il mondo,
che prevede la cottura
della pasta in caldaie
a vapore e raffreddamento
in stampi di legno
Solo latte crudo
di capre razza alpina
che pascolano libere nei prati
di Roccaverano, in alta Langa,
per la suadente formaggetta
Dop dai sentori aciduli di erba
appena tagliata. Esiste
anche in versione sott’olio
Il re dei vini deve il nome
ai Falletti, marchesi di Barolo
Undici i comuni di produzione:
Barolo, Castiglione Falletto,
Serralunga, Cherasco,
Diano, Grinzane Cavour,
La Morra, Monforte,
Novello, Roddi, Verduno
A metà strada tra Cuneo
e Mondovì, il paese
di Morozzo vanta
l’allevamento virtuoso
di magnifici galletti castrati
nostrani, presidio Slow Food,
con fiera dedicata, quest’anno
in programma il 12 dicembre
Tra i gioielli della tradizione
culinaria braidese spicca
l’insaccato di carne magra
bovina piemontese e pancetta
di maiale, unico esempio
italiano di salsiccia di vitello
Si gusta cruda spalmata
sul pane o alla griglia
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
le tendenze
Intramontabili
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
Linda Evangelista, Cindy Crawford, Claudia Schiffer,
Naomi Campbell: erano al top negli anni Ottanta
sulle passerelle, lo sono ancora oggi nella vita
Dinamiche e in carriera, ma senza avere l’ansia
del tempo che passa. Sono il simbolo di tutte le loro
coetanee che fanno la gioia degli stilisti
Vestite per piacersi
è il fattore “Q”
IRENE MARIA SCALISE
ome loro nessuno mai. Linda,
Cindy, Naomi, Carla, Claudia, Eva,
Christy e Helena, le regine della moda anni Ottanta. Oggi splendide
quarantenni resistono inossidabili
all’avanzare del tempo e alla concorrenza di un esercito di giovanissime, spesso incolori, rivali. Praticamente eterne. Una vita in copertina segnata da cachet di milioni. La bellezza
che diventa business. Diventate famose al grido di
«sotto il vestito niente», hanno dimostrato che, al
contrario, sotto il vestito (griffatissimo) c’è molto:
intelligenza, tecnica, calcolo. Gli stilisti le cercano
e le ripropongono, icone incontrastate per tante
coetanee.
Sono le uniche top model che tutti hanno conosciuto per nome e cognome: Linda Evangelista,
Cindy Crawford, Naomi Campbell, Carla Bruni,
Claudia Schiffer, Eva Herzigova, Christy Turlington, Helena Christensen. Bastava citarle per evocarne un particolare: la somiglianza con B.B. di
una, il neo di un’altra, il broncio di un’altra ancora. Simboli dell’eterna giovinezza hanno dimostrato di essere ottime imprenditrici di se stesse.
Nella vita pubblica come nel privato. Pochissima
sregolatezza e molta disciplina. Manager, madri,
mogli. Insomma, perfette. Anche il Metropolitan
Museum di New York, lo scorso anno, si è scomo-
C
NAOMI CAMPBELL
La venere nera, regina delle cronache
mondane, sembra aver trovato
la serenità. Dopo anni di avventure
turbolente, arrivata ai quaranta,
ha finalmente messo la testa
a posto con il miliardario russo
Vadislav Doronin
SPLENDIDE
QUARANTENNI
AMAZZONE
Look da corse
dei cavalli
quello
di Costume
National
con pantaloni
in pelle, giacca
bordata
di pelliccia
e guanti
colorati
dato dedicando loro la mostra The Model as Muse:
Embodying Fashion.
Ma la cosa che più stupisce è la capacità di essere ancora oggi desiderate. Stravolgendo una regola aurea, che come per i calciatori, prevedeva per
le top model una carriera milionaria ma breve,
hanno superato ogni previsione. Tanto splendore
non deve suscitare invidia, ma servire da esempio.
Le super top non usano, ma soprattutto non abusano, di botox o lifting. Niente facce gommose o zigomi alterati. Nel lavoro sono delle macchine: precise, firmate, lussuose. Ma anche nelle immancabili foto rubate dal privato conservano una certa
misura che dovrebbe essere d’insegnamento. Mai
una scollatura di troppo, un tacco ridicolo, una
trasparenza volgare. Le super modelle insegnano,
con la loro freddezza, come fare tesoro del proprio
patrimonio genetico.
Certo, non tutte hanno quelle circonferenze perfette. Ma le quarantenni di oggi, donne perennemente sospese tra carriera e omogeneizzati (perché
spesso hanno bimbi piccoli), riescono a dare agli
uomini lezioni di estetica. Complice di questo mantenimento è la disponibilità economica. Le quarantenni, infatti, hanno un budget molto più alto
delle trentenni. Una disparità che nei decenni è aumentata: basti pensare che se nel 1975, a parità di
impiego, la differenza tra il reddito medio di una
trentenne e di una cinquantenne era del 15 per cento ora è salito al 40. Non solo, la stabilità professionale, secondo l’Istat, arriva più tardi: nel 2009 quelli tra i 25 e i 34 anni occupati erano poco più di cinque milioni mentre, tra i 35 e i 44, ben più di sette milioni. Tirando le somme è solo intorno ai quaranta
che si comincia a disporre di un buon budget per vestiti, massaggi e parrucchiere.
Ma non è ancora tutto. Le quarantenni combattono la lotta di ogni giorno con la consapevolezza
di sé. Perché, come ha recentemente dichiarato la
scrittrice Erica Jong in visita a Roma, «quello che
rende eternamente bella una donna è solo l’autostima».
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PREZIOSO
È un anello importante
quello di Giorgio Visconti
in diamanti bianchi e neri
Da indossare e regalare
nelle occasioni
più significative
PRECISIONE
È bello, oltre che preciso,
il modello Dolcevita Longines
con cassa e bracciale
in acciaio e oro rosa. La cassa
è decorata con due file
di diamanti che donano luce
ICONA
È la regina delle borse, la busta matelassé
di Chanel. In color tabacco, con mini catena
intrecciata, rende elegante qualsiasi abito
VERTIGINOSE
Tacco a stiletto e triplo cinturino
per la scarpa Dior in pelle nera
e plateau sul davanti. Da indossare
indifferentemente giorno e sera
con gonna e pantaloni
Praticamente perfetta
MASCHERINA
Sono avvolgenti e misteriosi
gli occhiali Prada con lenti scure
Un modello che starà bene a tutte
e che protegge totalmente
il contorno degli occhi
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DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
TATIANA PATIZ
Tedesca, apparsa
in oltre 130 copertine,
ha anche recitato in un paio
di film. Dopo svariati stilisti
recentemente è diventata
testimonial per il brand
Marina Rinaldi
L’intervista Giorgio Guidotti di Max Mara
“Donne consapevoli
che puntano alla qualità”
a cliente più importante. Per Max Mara la
«giovane quarantenne» rappresenta il target più significativo. Una donna consapevole che punta alla qualità. Ma c’è di più. Le quarantenni sono le preferite anche come testimonial. Il presidente della comunicazione del gruppo, Giorgio Guidotti, non ha dubbi: «Noi di Max
Mara abbiamo lavorato con le modelle più belle
del mondo ma, ancora oggi, le top model che hanno quarant’anni, e che hanno fatto furore negli
Ottanta, restano delle bellezze insostituibili».
Cosa avevano di più le modelle di quegli anni?
«La loro fortuna è stata di diventare delle star alla stregua delle colleghe degli anni Sessanta, come
Veruska o Twiggy. Probabilmente tanto successo
nasceva anche dal fatto che tra gli Ottanta e i Novanta ci fu l’esplosione mediatica del prêt-à-porter. Erano conosciute per nome dalla gente, come
fossero delle rock star».
Ma erano davvero così belle?
«Indubbiamente erano di una bellezza assoluta e con un forte carisma. Però c’è stato qualcosa
di più».
Cosa?
«Sono state circondate da perfette pierre che
hanno insegnato loro come gestire al meglio la
propria immagine. Tanto che, ultimamente, tutte le griffe hanno sentito il bisogno di “ripescarle”».
Sono state anche abili nel mantenersi nell’aspetto?
«Il loro viso è il loro patrimonio e decisamente
hanno saputo come curarlo, senza mai abusare
nei trattamenti. Hanno poi condotto una vita sana e tranquilla, spesso con mariti e figli. Niente trasgressioni tranne per Kate Moss che però, del
gruppo, è la più giovane».
Parliamo della quarantenne che compra Max
Mara. Chi è?
«Per noi, oltre a essere la cliente più importante, è comunque una donna giovane. Una che vuole vestirsi alla moda, con un fisico asciutto, abituata a frequentare le palestre e con più potere di
acquisto. Le quarantenni sono la prima generazione femminile che, al pari di mariti e fidanzati,
ha sdoganato la palestra o lo sport come pratica
abituale».
Cosa ci dice di quelle che hanno dieci anni di
meno: le trentenni?
«Sono anche loro preziose perché rappresentano il futuro, però devono ancora capire la differenza tra qualità e quantità. Diciamo che vanno
istruite, dopo anni di low cost, sul fatto che può essere divertente avere nell’armadio una camicia da
dodici euro ma non tutto il guardaroba».
Torniamo alle super top, hanno dato l’idea di
essere anche molto disciplinate...
«In verità tutte le modelle sono piuttosto serie.
In quel periodo, però, forse ancor di più si è stabilito un confine tra capriccio e professionalità. A
partire dall’alimentazione che era molto sana».
Ma non punitiva.
«Esattamente: le super top non erano scheletriche. Anzi. Diciamo che dopo gli anni Ottanta le taglie sono scese di un numero».
(i. m. s.)
L
CHRISTY TURLINGTON
Super top, ancora
sulle copertine di molti
giornali, sposata
con due figli
Con Claudia Schiffer
e altre colleghe
ha fondato
il Fashion Café
LINDA EVANGELISTA
È rimasta famosa
per aver dichiarato:
«Noi non ci alziamo
neppure dal letto,
per meno di diecimila dollari
al giorno». Un figlio,
riservatissima,
talvolta fa ancora pubblicità
delle griffe più famose
CINDY CRAWFORD
Scoperta per caso,
ex moglie di Richard Gere,
è nota in tutto il mondo
per il celebre neo al lato
della bocca. Ora ha due figli,
si occupa di produzione,
fa molta beneficenza
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BOZZETTO
Un disegno
originale
di Max Mara
per la collezione
autunno/inverno
2010
BON TON
È un abito
per chi ha buon
gusto: raso
rosa cipria
griffato Dolce
e Gabbana
Abbinato
a gioielli
minimali
e borsa
in pelo
METROPOLITANA
Ha un’anima
molto dark
la principessa
underground
proposta
da D Squared 2
Giacca
a trapezio
in pelliccia
e giochi
di pelle nera
CASUAL
La mise ideale
da indossare
tutto il giorno
da Gucci:
jeans scoloriti,
giacca
e pullover
Il tocco in più:
i sandali
con fascia
larga
AVVOLGENTE
Il paltò di Max
Mara assicura
contro i colpi
di vento
Ideale
nelle serate
invernali
da indossare
su abiti eleganti
ma troppo
leggeri
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 7 NOVEMBRE 2010
l’incontro
Rughe leggendarie, ottant’anni
compiuti, cavalca leggero la storia
del cinema: “Mi innamorai del grande
schermo per caso quando lavoravo
in una piscina dove gli attori
venivano a nuotare in pausa
pranzo”. Poi dentro
i suoi film ci ha messo pezzi
di infanzia: “Perché
quel che abbiamo vissuto
ci siederà sempre
accanto”. E ora? “Ho addosso
la febbre del nuovo. La voglia
di imparare mi divorerà fino all’ultimo”
Grandi vecchi
Clint Eastwood
e fosse cinema e non una hall
d’hotel, ora ci starebbe bene
un flashback o una dissolvenza incrociata per far scivolare la sua figura nell’icona di ieri. Ha
fatto la sua apparizione d’improvviso,
come nei primi film di mezzo secolo fa,
dove non si vedeva arrivare, ma di colpo
si trovava lì, nel punto più inaspettato,
silhouette in controluce, alta: 1,88? 1,97?
Alta. Il reticolo di rughe che gli seghettano il volto e il collo, matura corteccia
dentro il cotone giovanile d’una polo pastello, ha ormai omologato a panorama
indistinto la caratteristica raggiera di
solchi precoci intorno agli occhi, che negli anni Sessanta, nel bagliore del West
mediterraneo, era il sigillo dello sconosciuto antico, arrivato da chissà dove,
nella neonata frontiera-spaghetti. Clint
Eastwood è una somma di Clint Eastwood: lo spilungone di western e polizieschi a raffica («dopo un’opaca gavetta negli anni Cinquanta: era l’era James
Dean, mi dicevano che a causa della mia
statura avrei potuto fare qualcosa solo
dopo i trent’anni») e poi, dal ’71, la serialità di regista e interprete, sempre più
personale, inatteso, in un progredire di
titoli da Gli spietatia Million Dollar Baby,
piogge di nomination e gruzzoli d’Oscar
e, nel frattempo, due mogli e sette figli, da
cinque donne diverse.
Adesso l’attore pare il sequel patriarcale della sua prima maschera (barba
stropicciata, mezzo sigaro, cappello
affondato sulla fronte), pedina regina
d’un gioco stilizzato, con personaggi,
ambienti, costumi fissi, come il poncho
privato, con la loro muta di cani e gatti,
tonnellate di valigie e un corteo demenziale. Un vero show. Hanno immediatamente allestito un bar nel nostro hotel.
Dopo qualche bicchiere in loro compagnia, mi sono reso conto che, ai loro ritmi, non avrei potuto resistere a lungo. Richard mi piaceva molto: grande carisma, conversatore brillante, affabulatore eccezionale. Ma si sentiva che, dentro,
lo rodeva la disillusione».
Con Eastwood si comincia presto a
cavalcare la storia del cinema. A ottant’anni, festeggiati nel maggio scorso
(«per me è stato come compiere di nuovo vent’anni»), nessuna intenzione di
mollare. A Parigi, dov’è stato nominato
comandante della Legione d’onore, ha
girato una parte di Hereafter, thriller telepatico con Matt Damon e la deliziosa
Cécile de France, che il 4 dicembre chiuderà in anteprima europea il Torino Film
Festival. Tra un’onorificenza e un omaggio (a Lione, al primo Festival Lumière),
è ora al lavoro su Hoover, con Leonardo
DiCaprio nel ruolo del controverso di-
Sergio Leone
mi ha tenuto
a battesimo
nei suoi western
perché costavo meno
di James Coburn:
lui venticinquemila,
io quindicimila dollari,
oggi bazzecole
FOTO KEVIN SCANLON - REDUX / CONTRASTO
S
PARIGI
che, secondo un promo spagnolo, il pistolero solitario avrebbe comprato di tasca sua, indossandolo nei tre anni della
“trilogia del dollaro”, dal ’64 al ’66, senza
mai farlo lavare: scaramanzie d’attore.
Vero, Clint Eastwood? Ride: «Sergio Leone mi ha fatto trascorrere una delle più
belle stagioni della mia vita, non solo cinematografica. Non mi attendevo da lui
western epocali, alla John Ford. Il suo
temperamento era portato alla parodia,
in perfetta sintonia con lo spirito degli
anni Sessanta: per questo mi piaceva. Il
sense of humour di Ford era di marca irlandese, quello di Leone, acutissimo, veniva dritto dall’opera lirica. Dovessi indicarne una specialità, direi la simpatia,
la capacità di divertire, di raccontare in
modo straordinario le barzellette».
Barzellette sono spesso le sequenze
degli spaghetti-western: il “triello” de Il
buono, il brutto, il cattivoo, in Per un pugno di dollari, lo scherzaccio («Mira al
cuore, Ramòn: al cuore!») al personaggio di Volonté, in risposta alla battutaboomerang «Se un uomo con il fucile incontra un uomo con la pistola, quello
con la pistola è un uomo morto». Anche
a lei, suo attore-feticcio, Leone aveva destinato una barzelletta, ormai di culto:
«Clint ha due espressioni: col cappello e
senza cappello». Eastwood sorride:
«Era, da bravo comico, anche molto cinico». Leone era sbalordito anche dalla
sua apparente apatia: sullo schermo
(come nella serie tv Usa Rawhide, da cui
l’aveva ripescato e dove, secondo lui,
«non parlava nemmeno, camminava e
basta») e nella vita quotidiana, quando,
con tutti i suoi centimetri, lei riusciva a
infilarsi in una Cinquecento, dormendo
rannicchiato come un gatto, e ne usciva,
stirandosi e alzandosi lentamente, per
raggiungere il set. «Erano anni di risparmi e di guadagni scarsi. Leone, dicono,
mi ha tenuto a battesimo nello spaghetti-western perché costavo meno di James Coburn, lui venticinquemila, io
quindicimila dollari, oggi bazzecole.
Ma, una volta arrivato in Italia, nel 1963,
non ho tardato a mimetizzarmi nella colonia romana, allora fiorente, che a Roma popolava Via Veneto. Nottate scatenate, in tutta tranquillità: nessuno che
mi riconoscesse, perché non ero nessuno. Godevo del privilegio dell’anonimato, assaporando il meglio, senza l’inconveniente paparazzi, della vostra
Dolce Vita».
Anche da star, non ha mai esagerato:
«Mi è sempre bastato il minimo necessario, negli spostamenti come nei film.
Nel ’69, per Dove osano le aquile, sono
sbarcato sul set, in Svizzera, in jeans e
con quattro sacche. Richard Burton ed
Elisabeth Taylor sono arrivati su un jet
rettore dell’Fbi. «Ho la febbre del nuovo,
mi divorerà fino alla fine la voglia di continuare a imparare, com’è stato per John
Huston, che ha girato il suo ultimo, meraviglioso film, The Dead, su una sedia a
rotelle e con la bombola d’ossigeno» (...
e l’infermiera con cui di tanto in tanto faceva l’amore, come precisa Bertrand Tavernier nei suoi Amis américains).
«La passione per il grande schermo mi
si è accesa per caso, ma adesso non mi lascia più. Poco dopo i vent’anni lavoravo
in una piscina, dove tanti attori venivano a nuotare nella pausa pranzo. Ne avevo già conosciuti molti durante il reclutamento per la guerra di Corea nei due
anni, ’50 e ’51, in cui ero stato assegnato
a Fort Ord, in California. È così che mi sono avvicinato al mondo del cinema. Allora, ero più attratto dalla musica, l’altro
mio pallino, insieme al golf. Volevo seguirne i corsi a Seattle, infatuato com’ero di Charlie Parker — che nell’88 avrei
celebrato in Bird — di Dizzy Gillespie,
Bill Evans, Thelonious Monk e, naturalmente, John Coltrane, le cui ballate nel
disco con Johnny Hartman sono state la
vera sceneggiatura dei Ponti di Madison
County, realizzato nel ’95 con Meryl
Streep: quella musica è sempre stata sottesa ai nostri dialoghi, parlava per noi».
Inevitabile tornare a Leone, ma anche
a Don Siegel, il suo regista-padrino nella
saga Callaghan: «Sergio è stato tra i primi
ad assegnare alla musica un ruolo centrale e a sfruttarla appieno, specie per far
salire allo spasimo la tensione prima degli scontri. Don Siegel aveva trasferito
quel sistema direttamente alle immagini: stringeva il campo visivo e subito dopo lo dilatava, come per un relax dello
schermo». Nei Ponti di Madison County,
dove gli slanci del cuore sono frenati e
vinti dalle responsabilità familiari, dal richiamo della sicurezza domestica,
trionfa una costante del suo cinema: la
sospensione drammatica tra l’inseguimento di un ideale e il bisogno di stabilità, quasi d’immobilità.
Dilemma che le deriva da un’infanzia
sballottata, da un passato precario?
«Credo di sì. Da piccolo, non ho goduto
d’un vero focolare. A fine anni Trenta, in
piena crisi economica, mio padre, con
solo un paio d’anni di liceo alle spalle,
s’arrabattava come rappresentante,
vendendo azioni. Vendere azioni durante la Depressione era come smerciare tartine di caviale nel deserto! Per tale
dedizione suicida mio padre era continuamente costretto a spostarsi: per dieci anni buoni, siamo stati le trottole della California. Quando finalmente, con la
ripresa economica, anche la mia famiglia si è stabilizzata, ero io che avevo cominciato a fare la mia vita, senza fissa di-
mora». Di qui l’altra costante, il tema dell’erranza? Nei suoi primi film da regista,
il protagonista è sempre in viaggio, magari metaforico: nel ’73, Lo straniero senza nome, Il texano dagli occhi di ghiaccio
nel ’76, Bronco Billy o Honkytonk Man
nell’80 e ’82: «Honkytonk Man, ambientato negli anni Trenta, rimanda al periodo in cui mio padre suonava la chitarra
in un complessino, mai in un’orchestra,
nei paraggi di Los Angeles. È un film, come Bronco Billy, su gente che vive esistenze immaginarie, assorbita da quel
che vorrebbe essere, timorosa di non
mostrarsi all’altezza del proprio sogno,
una volta avverato. C’è molto della mia
infanzia in quei film, e forse in tutti gli altri: quel che abbiamo subìto e vissuto ci
condizionerà sempre, ci siederà sempre
accanto». Siamo quel che abbiamo fatto
di noi, diceva Truffaut ripetendo Sartre,
a partire da quel che gli altri hanno fatto
di noi: «Ecco perché, se uno non s’è mosso d’un dito da un posto, potrebbe essere sconvolto da un cambiamento. Se ha
trascorso i suoi primi vent’anni con le
stesse persone, avrà difficoltà ad ampliarsi l’orizzonte. Ma è questo che io
avrei preferito: il mio sogno sarebbe
d’essere vissuto in una borgata sperduta
senza mai spostarmi d’un millimetro, finendo per conoscere tutti alla perfezione. Sarei probabilmente diventato uno
del tutto diverso, sarei stato... chissà?».
Uno venuto da chissà dove? «Ancora?
Ma è da mezzo secolo che sono l’uomo
venuto da chissà dove! Alla mia morte,
scriveranno: Era arrivato da chissà dove
e ora vi ha fatto ritorno. È partito com’era venuto». E qui ci vuole una dissolvenza incrociata o un bel flashback. Con un
pizzico di jazz.
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MARIO SERENELLINI
Repubblica Nazionale
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