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I classificata: Giada Cassone con "Memorie di una poiana"

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I classificata: Giada Cassone con "Memorie di una poiana"
Memorie di una poiana
La volta celeste è colorata di cobalto, le nuvole dispettose continuano ad oscurare la tonda figura
del Sole. Si addensano sempre di più, dando l'impressione che il cielo stia per piangere. Il
paesaggio è tranquillo, tutti gli animali sono a riposo. Le tortore sono placidamente adagiate sui
rami degli alberi, protette dai loro nidi e intente a prendere sonno. Una timida chiocciola accenna
ad arrampicarsi sul tronco dell'albero su cui sono appollaiata, incurante del pericolo che
rappresento per lei. E' un sostanzioso pranzetto, ma non ho intenzione di muovermi da qui: sono
troppo stanca.
Credo che la mia vita sia giunta al termine. Le mie belle ali marroni non solcano i cieli da giorni
ormai, non adopero più il mio becco per dilaniare le carni dei mammiferi di cui mi nutro.
Preferisco restare qui, in attesa che la Morte raggiunga anche l'Etna e accolga tra le sue fredde
braccia un'altra creatura. Se devo essere sincera, l'idea non mi spaventa affatto. Non sono legata a
una di quelle strampalate leggi morali che quelle singolari creature chiamate “umani” si creano.
Cos'è questo Inferno, poi, vorrei tanto saperlo. Ho visto tanti di questi esseri urlarsi contro
intimandosi a vicenda di raggiungere quel luogo ignoto. E il Paradiso, invece? Dev'essere una
località certamente più accessibile, poiché molti abitanti giungono da lì. Sono soprattutto femmine.
Spesso hanno gli occhi chiari, che tanto ricordano il firmamento del Mezzogiorno. Limpidi come
l'acqua dei ruscelli e luccicanti come il ghiaccio che brilla sotto il Sole.
Gli angeli sono davvero delle creature meravigliose. Spesso si rivelano accompagnati da individui
maschi che accarezzano loro la folta peluria che parte dalla testa. E' chiamata “capelli”; ancora non
comprendo l'usanza degli uomini di cambiare l'appellativo ad ogni cosa.
Se la natura me ne avesse dato la capacità, a quest'ora avrei abbozzato un sorriso. I ricordi riescono
sempre a donare giubilo al mio cuore, il quale adesso scandisce flebilmente i secondi che mi
rimangono. Il mio animo ancora ribolle, la vita di noi rapaci è troppo breve. Potrò mai
accontentarmi di poche ed effimere risposte date ai miei innumerevoli quesiti? No, proprio come
non potrò mai accontentarmi di aver visto la lava colare dal cratere del vulcano soltanto una volta.
Ricordo distintamente quell'esperienza. Mi ritirai tardi dalla mia caccia diurna, spingendomi
troppo oltre il mio territorio e andandomi a scontrare con un'altra poiana. Quando questa mi vide
aprì le sue vigorose ali dello stesso colore della quercia dove era appollaiata e si lanciò contro di me
strillandomi contro: credeva che volessi invadere il suo territorio. Io, impaurita e stanca, decisi di
volare via, dritta verso il cratere. Non mi pentii affatto di quel gesto vigliacco poiché mi permise di
ammirare uno spettacolo etereo.
La lava attraversava lentamente le ripide rocce; ramoscelli e fiori si inchinavano al suo passaggio
come sudditi sottomessi alla propria magnifica e potente sovrana. L'arancione e il rosso si
sfidavano per prevalere, il giallo si insinuava fra di loro, contribuendo con la sua lucentezza ad
aumentare lo splendore di quei colori che già da soli erano capaci di catturare l'attenzione di ogni
essere vivente. Io contemplavo affascinata quel magma che ormai aveva perso i suoi gas ma non il
suo splendore, interrogandomi sulla sua provenienza. E mentre io guardavo rapita, la lava
continuava imperturbabile il suo percorso, senza chiedere alle rocce il permesso per passare;
poiché sapeva di poterselo permettere.
Le pietre venivano oscurate ancora di più dalla luce emessa dalla lava, la quale si trascinava dietro
piccoli pezzi di roccia che, ammaliati com'erano, volevano seguirla per poi morire con lei. Quando
iniziò a solidificarsi, i bagliori delle sfumature di fuoco che la contraddistinguevano pian piano
cominciarono ad affievolirsi, e la lava diventò simile alla roccia, per poi tramutarsi definitivamente
in essa. I lapilli avevano smesso di fendere la volta celeste già da un po': il cielo era stato ferito
abbastanza. Anche il fumo si era diradato, aveva cercato di prendere il posto delle nuvole; ma non
riuscendoci preferì trasformarsi anch'esso in una nube e diventò così un collegamento tra il cratere
dell'Etna e il cielo infinito.
Quella visione non mi dispiaceva affatto, ma preferii ritirarmi per poi assopirmi sul mio albero di
betulla.
Un tuono squarcia il firmamento, destandomi dai miei pensieri. E' impossibile rimanere immersi
nelle proprie riflessione per più di due minuti! A quanto sembra, le nubi non sembrano
intenzionate a concedermi tregua. Sono davvero crudeli.
Ma cosa può fare un povero rapace in fin di vita se non tuffarsi nel proprio passato come un
cormorano che si tuffa in acqua per catturare la preda?
E' sconcertante... La natura è una madre così severa...
Proprio come il genitore di quei cuccioli umani che una volta vennero a cercare la loro gioia sul
vulcano.
Era una limpida mattina di marzo. L'inverno si apprestava a lasciare quelle terre, ma nonostante
ciò la neve era ancora ferma ai lati dell'asfalto che percorreva sinuoso la mia bella Etna e
conduceva sempre più automobili verso la cima. Una di queste si fermò durante il tragitto e
quattro umani scesero dal veicolo.
Fortunatamente non erano venuti per scavare o gettare lì la loro immondizia -come molti altri
facevano- ma per riposarsi e godersi lo splendore di quel luogo. I due più alti si sedettero su un
cumulo di neve, i restanti più bassi si arrampicarono su un muro di ghiaccio aiutati da numerose
crepe e iniziarono a correre in un campo che sembrava ricoperto da soffice lana. Le nuvole
cercavano di copiarne la bellezza, ma invano, poiché quel bianco puro può appartenere soltanto
alla neve appena caduta. I due cuccioli ridevano e urlavano, si spingevano a vicenda e
capitombolavano. Le loro vesti multicolore raccoglievano la neve, rendendola partecipe al
divertimento. Quella vista avrebbe dato sollievo e letizia anche al cuore più affranto. Attirata dai
loro giochi, scesi dalla quercia sulla quale ero appollaiata e mi avvicinai ai due umani. Mi posai su
una roccia poco distante , da lì potei vedere i loro visi tondi e rosei. Erano davvero teneri. I loro
occhi sembravano brillare di luce propria. I loro sguardi gioiosi e innocenti ancora non si erano
posati sulla mia figura; perciò decisi di avvicinarmi ulteriormente. Quando mi videro le loro piccole
labbra si curvarono in un sorriso e subito i due mi raggiunsero.
Ad un “wow” di stupore si aggiungeva un complimento che mi rendeva immensamente fiera; uno
dei due cuccioli decise di poggiare la mano minuta sulle mie piume per accarezzarmi. Gli beccai la
mano e lui la ritrasse all'istante, aveva certamente frainteso il mio gesto di gratitudine.
All'improvviso un grido proveniente da lontano ruppe quell'atmosfera di tranquillità che si era
creata.
<< Marco, allontanati da quell'animale! Potrebbe farti del male o trasmetterti qualche malattia! >>
A parlare fu un altro umano, ma questo era molto diverso dai piccoli.
Mi sentii oltraggiata dalle sue parole, quindi decisi di spiegare le ali e volare via. Prima di
raggiungere il mio albero udii uno dei cuccioli mormorare:
<<Bravo papa'... L'hai fatto andare via. >>
Dopodiché li vidi salire sulla loro auto, i cui fanali si illuminarono brevemente colorandosi di
fuoco, le stesse sfumature caratterizzavano anche la lava da me tanto amata. Mi misi a fissarli, fino
a quando quelle luci non sparirono nascoste dalla flora, trasportate dalle curve della strada.
Un altro tuono irrompe con forza nella mia mente, il cielo inizia a colorarsi di nero.
Ormai sento le forze abbandonarmi, non ho più la facoltà di muovermi. Lascio che le formiche
percorrano timide le insenature dell'albero, incapace di catturarne una per sfamarmi.
Dal mio becco esce un pigolio soffocato, non resisterò a lungo...
Sento qualche gocciolina di pioggia cadere e inzupparmi le penne, ne seguono diverse moltitudini.
Il cielo è scuro, il Sole è già andato a dormire. Anche io presto mi addormenterò, ma a differenza
dell'astro per me non ci sarà risveglio. La Luna cerca di rischiarare il paesaggio con la sua fioca
luce, ma la pioggia ne dissente. Probabilmente non vuole renderla partecipe al suo pianto. Vorrei
che il cielo stesse piangendo per me, mi darebbe consolazione.
Le mie ali sono distese lungo il ramo, non riesco più neanche a chiuderle. Una volta erano così forti
da riuscire a sollevarmi senza alcuno sforzo. Ricordo ancora le acrobazie, i voli in picchiata e la
preoccupazione da parte dei miei simili. Spesso rimanevo in cielo per tutto il giorno, fino a quando
il Sole non tramontava. Le correnti ascensionali alleviavano la mia fatica, potevo rilassarmi ed
ammirare lo splendido paesaggio davanti ai miei occhi: quel percorso che mai terminava; i pini e le
betulle; le grandi querce; le volpi e gli istrici che camminavano indisturbati... Era meraviglioso
sentire il vento agitarmi le piume e sfidarlo con innumerevoli volteggi.
Ho fatto tesoro di queste esperienze, non ho rimpianti.
Orsù cielo, non versare altre lacrime; ci sono molti altri uccelli capaci di tenerti compagnia, non
rammaricarti per questa piccola poiana.
C'è freddo. Sento la mano ghiacciata della morte prendermi per un'ala, tutto il mio corpo sussulta
e si irrigidisce. E' arrivato il momento di andarsene. Rivolgo un'ultima occhiata alla quercia che mi
ha fatto da giaciglio per tutti questi anni... E poi cado nel baratro nero, sapendo che ci saranno dei
cuscini -che siano di marmo o di neve non m'importa- ad accogliermi.
Giada Isabella Cassone
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