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i ricordi sottoforma di lettera

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i ricordi sottoforma di lettera
I RICORDI SOTTOFORMA DI LETTERA
1) Lettera al marito.
Estratti da: Il neo di Yasunari Kawabata.
Da “Narratori giapponesi moderni”, Bompiani.
La notte scorsa mi sono sognata del neo.
Basta che scriva questa parola perché tu capisca che cosa voglio dire. Quel neo … quante volte sono
stata rimproverata da te per causa sua.
E’ sulla mia spalla destra o forse dovrei dire dove comincia il collo. (…)
Eri solito prendermi in giro, a proposito del neo (… )
Da bambina ero solita giocherellare col mio neo a letto. Come mi sono vergognata quando te ne sei
accorto per la prima volta. Ho pianto persino, e mi ricordo com’eri sorpreso (…)
Anche mia madre mi rimproverava. Ero ancora una bambina, probabilmente non avevo ancora
tredici anni, e da allora in poi ho tenuto nascosta quest’abitudine. E l’abitudine è persistita dopo che
me n’ero quasi dimenticata.
Quando te ne sei accorto ero ancora più una bambina che una donna. Mi chiedo se tu, come uomo,
possa immaginarti la vergogna che ho provato. Ma era qualcosa di più che non semplice vergogna
(…).
Avevo l’impressione che tutti i miei segreti fossero stati scoperti, come se tu andassi svelando uno
dopo l’altro segreti di cui non ero neppure consapevole, come se non avessi più un rifugio. (…)
Perché credi che abbia preso l’abitudine di giocherellare con quel neo? E perché l’abitudine ti dava
tanto fastidio?
Mi dicevi di smetterla. Non so più quante centinaia di volte mi hai rimproverata.
“Devi proprio usare la mano sinistra?” mi hai chiesto una volta in tono irritato. (…)
Era vero, non me n’ero mai accorta prima, ma usavo sempre la mano sinistra. (….)
“Mi riesce più naturale con la mano sinistra”. (…)
Già mentre ti rispondevo, però mi ero resa conto che quando mi portavo il braccio davanti al corpo
era come se mi proteggessi da te, come se mi abbracciassi. (….)
Quella posa (il braccio sinistro girato intorno al collo) doveva sembrarti in certo qual modo
desolata, disperata. Esiterei ad usare una parola così impegnativa come “solitaria”. Sciatta,
piuttosto, e mediocre, la posa di una donna interessata solo alla protezione del suo piccolo io.
E l’espressione del mio viso deve essere proprio come tu l’hai descritta: “strana, assente”. (….)
Ma dev’essere stato perché eri già insoddisfatto di me che hai attribuito tanta importanza a quella
piccola abitudine. Se fossi stato soddisfatto di me avresti sorriso e non ci avresti pensato più. (…)
Ho creduto che tutti gli aspetti più meschini della mia personalità venissero a galla, quando mi
sfioravo il neo con le dita ma (…) forse è stato per il modo in cui mia madre e le mie sorelle mi
coccolavano che ho preso l’abitudine di stuzzicarmi il neo.
“Suppongo che mi rimproverassi quando giocavo con il neo” ho chiesto a mia madre “tanto tempo
fa”.
“Sì lo facevo, ma poi è passato tanto tempo.”
“Mi trovavi irritante”
“Sì, m’infastidiva un po’”
“E tu e gli altri eravate soliti giocherellare col mio neo per farmi dispetto?”
“Suppongo di sì”.
Mia madre mi ha guardato la spalla; rideva.
Allora ho immaginato che, quand’ero molto giovane mia madre e le mie sorelle a volte scherzassero
sul neo, che allora era solo una graziosa macchiolina, toccandolo con la punta del dito. Che sia
proprio quello il motivo per cui ho preso l’abitudine di giocherellarci?
Se è vero, allora io forse mi stuzzicavo il neo con quell’aria assente per rammentarmi l’amore che
mia madre e le mie sorelle avevano per me quand’ero ragazzina (…) forse lo facevo per pensare
alle persone che amavo.
Ecco ciò che dovevo dirti.
Continuo a pensare se quel gesto che tanto ti dispiaceva non potesse essere la confessione di un
amore per te che non ero in grado di tradurre in parole.
(….)
Anche ora, mentre ti scrivo, mi chiedo se le mie parole non suonino come quelle di una cattiva
moglie che tenti di apparire trattata ingiustamente.
Eppure queste cose dovevo dirtele.
2) Lettera all’amico.
Volfgang Goethe: I dolori del giovane Werther
16 giugno.
Perché‚ non ti scrivo? Me lo domandi proprio tu che sei un sapiente! Dovresti indovinare che
sto bene e che... In breve ho fatto una conoscenza che mi tocca proprio il cuore. Oh... non so quel
che ho!
Sarà difficile che io possa raccontarti ordinatamente come ho conosciuto la più deliziosa fra le
creature. Sono soddisfatto e contento; e per conseguenza non sono un buono storico.
Un angelo! ahi, questo ognuno lo dice della sua amata. E quindi non so come fare a dirti come lei
sia perfetta, perché sia perfetta: in breve lei è riuscita ad avvincere tutto il mio essere.
Una grande purezza si unisce a una grande intelligenza, e la bontà e l'energia, la pace dell'animo e
l'amore alla vita attiva armonizzano in lei. Tutte le cose che ti scrivo non sono che
chiacchiere inutili e vane astrazioni che non esprimono nulla di quello che lei è.
Un'altra volta... no, non un'altra volta, ora subito voglio raccontarti, perché‚ se non lo faccio ora,
non mi decido più. Giacché, a dirti la verità, da quando ho cominciato a scriverti,
tre volte sono stato sul punto di posare la penna, di far sellare il cavallo e di andar là.
Eppure stamattina ho giurato che non andrò oggi, ma vado ogni momento alla finestra
per vedere quanto è ancora alto il sole.
(...)
Non ho potuto resistere, son dovuto andare.
Ora sono di ritorno, Guglielmo, mangerò il pane e burro della mia cena e ti scriverò. Quale gioia è
stata per me il vederla nel cerchio vivace di tanti cari fanciulli, i suoi otto fratelli e sorelle!
Se continuo così, alla fine ne saprai quanto in principio; ma ascolta, e io mi sforzerò di venire
ai particolari.
Ti scrissi ultimamente che ho conosciuto il consigliere S. e che egli mi ha
invitato ad andarlo a trovare nel suo eremitaggio, o meglio nel suo piccolo regno. Io trascurai la
cosa e non vi sarei forse mai andato, se il caso non mi avesse indicato quale tesoro si nascondeva in
quella tranquilla contrada. I nostri giovanotti avevano organizzato un ballo in campagna, e io pure
dovevo prendervi parte. Offrii il braccio a una ragazza buona e bella, ma nell'insieme insignificante,
e fu stabilito che io avrei preso una carrozza e che con la mia dama e
una cugina saremmo andati al luogo scelto per la festa, prendendo con noi, via facendo, Carlotta S.
- Ora farà conoscenza con una bella signorina - disse la mia compagna,
mentre traversavamo la grande foresta diradata per andare verso la casa di caccia - Badi di
non innamorarsene! - aggiunse la cugina. - E perché‚? - dissi io. - E' già promessa- rispose - a
un brav'uomo che ora è in viaggio: è andato a mettere in ordine i suoi affari perché‚
il padre è morto, e a procurarsi un buon impiego. La notizia mi fu piuttosto indifferente.
Mancava ancora un quarto d'ora perché il sole raggiungesse la montagna, quando arrivammo
alla porta della villa.
Era un caldo soffocante, e le signore mostravano qualche preoccupazione per un temporale che
alcune nuvole bianche, grigie e cupe sembravano far presagire, radunandosi all'orizzonte.
Io calmai i loro timori, dandomi l'aria di saper presagire il tempo, benché io stesso temessi
che la nostra festa sarebbe stata turbata. Io ero sceso di carrozza, e una donna,che era venuta
alla porta del cortile, ci pregò di scusare un momento, che la signorina Carlotta sarebbe venuta
subito.
Traversai il cortile, andai verso la casa ben costruita e quando salii la scala esterna e spinsi la porta,
si presentò ai miei occhi il più grazioso spettacolo che mai avessi visto.
Nella sala d'entrata sei fanciulli dai due ai sei anni si agitavano intorno a una bella giovinetta,
di media statura, ornata di una semplice veste bianca con nastri rosa al petto e alle braccia. Aveva
in mano un pane nero e tagliava a ciascuno dei piccoli che le erano intorno un pezzo
proporzionato all'età e all'appetito; lo porgeva a ognuno gentilmente, e ognuno proferiva il
suo spontaneo "Grazie", dopo aver tenuto a lungo le manine in alto, ancor prima che
il pane fosse tagliato; poi si allontanavano con la loro merenda saltellando, o alcuni, secondo il loro
più tranquillo carattere, si avvicinavano quieti al portone per vedere i forestieri e la carrozza sulla
quale doveva montare la loro Carlotta.
"Vi prego di perdonarmi - disse lei - se vi ho dato il fastidio di entrare e se
ho fatto attendere le signore. Nel vestirmi e nel dar le disposizioni necessarie alla casa durante la
mia assenza, ho dimenticato di dare la merenda ai miei piccoli ed essi vogliono che
il pane sia tagliato proprio da me". Balbettai un complimento insignificante; tutta la
mia anima era presa dal suo aspetto, dal suono della sua voce, dal suo portamento, ed ero
appena rinvenuto dalla sorpresa quando lei corse nella sua camera a prendere i guanti e il ventaglio.
(….)
Ci eravamo appena seduti e le signore si erano da poco scambiati i saluti e le impressioni sui
loro vestiti, e specie sui cappelli, e avevano passato in rivista la compagnia che ci attendeva,
quando Carlotta fece fermare il cocchiere e scendere i fratelli, i quali
vollero baciarle un'altra volta la mano, ciò che il primo fece con tutta la tenerezza con cui avrebbe
potuto farlo un ragazzo di quindici anni, e l'altro con vivacità e spensieratezza. Lei salutò ancora
una volta i bambini e proseguimmo il cammino.
La cugina le domandò se aveva finito il libro che recentemente le aveva mandato. No, disse Carlotta, non mi piace e ve lo renderò: anche il precedente non era migliore. Rimasi meravigliato quando domandai di quali libri si trattava e lei mi rispose.
Trovavo una profonda individualità in tutto ciò che lei diceva e a ogni
sua parola vedevo un nuovo fascino, un nuovo raggio del suo spirito brillarle sul viso che
si andava animando sempre più, perché lei sentiva che io la comprendevo. "Quando ero
più giovane", diceva, "nulla mi dilettava quanto i romanzi. Sa Dio come ero felice se potevo
la domenica sedermi in un angolo e seguire con tutto il cuore le vicende liete o tristi di
una Miss Jenny. Non nego che ancor oggi questo genere di libri abbia attrattiva per me; ma giacché
molto raramente posso prendere in mano un libro, bisogna che esso almeno sia completamente di
mio gusto. E l'autore che io preferisco è quello che rappresenta il mio mondo, nel quale tutto
avviene come intorno a me, le cui storie mi interessano e mi stanno a cuore come la
mia vita domestica, che non è proprio un paradiso, ma che in complesso è
una fonte di gioie inesprimibili".
Io facevo sforzi per nascondere la commozione che mi destavano quelle parole. Non potei
più trattenermi, le dissi tutto quello che mi venne in mente, e solo qualche tempo dopo,
quando Carlotta rivolse la parola alle altre, osservai che per tutto quel tempo erano rimaste con
gli occhi spalancati, come se si fossero trovate in un altro mondo.
La cugina mi guardava con aria canzonatoria, ma non me ne importava nulla.
La conversazione cadde poi sui piaceri della danza.
- Se pure questa passione è colpevole, disse Carlotta, confesso che non c'è cosa al mondo che
io metta al di sopra del ballo. E se mi passa qualcosa di triste per la testa, basta che
io strimpelli una contraddanza sul mio piano scordato e subito mi torna il buon umore. Durante la conversazione quanto mi beavo dei suoi occhi neri! E come le sue vivide labbra e le
sue fresche guance deliziavano tutta la mia anima! Ed ero così preso dall'alto significato dei
suoi discorsi che non udivo le parole con le quali si esprimeva - e tu che mi conosci puoi farti
un idea di questo. In breve scesi di carrozza come in preda a un sogno, quando ci fermammo davanti
alla casa della festa, ed ero così perduto nelle mie fantasticherie, tra i bagliori del crepuscolo, che
appena sentii la musica il cui suono scendeva fino a noi dalla sala illuminata.
(…)
Carlotta metteva nel ballo l'anima e il cuore, il suo corpo si muoveva armonioso,
lei era spensierata e ingenua come se non pensasse, non sentisse che la danza; e certo in
quel momento ogni altra cosa era sparita per lei.
La pregai di concedermi la seconda contraddanza; mi promise la terza e, con la
più grande franchezza, mi disse che amava molto il valzer.
Le diedi allora la mano, e fu deciso che nel frattempo il suo cavaliere avrebbe tenuto compagnia alla
mia ballerina.
Via dunque! Ci divertimmo dapprima a intrecciare variamente le braccia. Con
quale grazia e leggerezza lei si muoveva! (…). Non sono mai stato così abile e leggero: non ero più
un uomo. Avere fra le braccia un'amabile creatura, girare con lei in un turbine come la tempesta, e
non veder più niente intorno a sé ... Per dirti la verità, Guglielmo, ho giurato che se amassi una
fanciulla e aspirassi a lei, dovrebbe ballare il valzer soltanto con me e non con altri, a
qualunque costo.
Tu mi capisci, è vero?
3) Lettera al padre.
Estratti da: Lettera al padre di Franz Kafka.
Carissimo padre,
di recente mi hai domandato perché mai sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo
risponderti niente, in parte proprio per la paura che ho di te, in parte perché questa paura si fonda su
una quantità tale di dettagli che parlando non saprei coordinarli neppure passabilmente. E se anche
tento di risponderti per iscritto, il mio tentativo sarà necessariamente assai incompleto, sia perché
anche nello scrivere mi sono d'ostacolo la paura che ho di te e le sue conseguenze, sia perché la
vastità del materiale supera di gran lunga la mia memoria e il mio intelletto.
Per te la cosa è sempre stata molto semplice, almeno nella misura in cui ne hai parlato davanti a me
e, indiscriminatamente, davanti a molti altri. Ti pareva che stesse più o meno così: tu hai lavorato
sodo per tutta una vita, hai sacrificato ogni cosa per i tuoi figli, soprattutto per me; di conseguenza
io ho fatto la bella vita, ho avuto la massima libertà di studiare quello che volevo, non ho dovuto
preoccuparmi né di procurarmi il cibo né di qualsiasi altra cosa; tu non pretendevi per questo la mia
gratitudine, la conosci, "la gratitudine dei figli", ma almeno un po' di gentilezza, qualche accenno di
compassione, e invece io mi sono sempre rifugiato davanti a te, in camera mia, tra i miei libri, coi
miei amici stravaganti, nelle mie idee eccentriche; non ti ho mai parlato apertamente; (…) non ho
mai avuto il senso della famiglia, non mi sono mai occupato del negozio e delle altre cose tue, la
fabbrica l'ho addossata a te e poi ti ho abbandonato, e mentre per te non muovo un dito (non ti
prendo nemmeno i biglietti per il teatro), per gli amici faccio tutto.
Riassumendo il tuo giudizio su di me, ne emerge che non mi rimproveri, a dire il vero, qualcosa di
davvero sconveniente o malvagio (fatta eccezione forse per il mio ultimo progetto matrimoniale),
ma freddezza, distanza, ingratitudine. E me lo rimproveri come se fosse colpa mia, come se con una
bella sterzata io fossi stato in grado di indirizzare diversamente il tutto, mentre tu non ne hai la
minima colpa, se non forse quella di essere stato troppo buono con me. Trovo questa tua
interpretazione esatta soltanto nel senso che anch'io credo che tu non abbia colpa alcuna del nostro
allontanamento. Ma non ne ho colpa neppure io. Se potessi portarti a riconoscere questo, allora
sarebbe possibile--non una nuova vita, per questo siamo entrambi troppo vecchi--ma una certa pace,
non una cessazione, ma un'attenuazione dei tuoi incessanti rimproveri. (…)
Sarei stato felice di averti come amico, come principale, come zio, come nonno e persino (pur con
qualche titubanza) come suocero. Solo come padre eri troppo forte per me, soprattutto in
considerazione del fatto che i miei fratelli sono morti in tenera età e le sorelle sono giunte solo
molto tempo dopo, e quindi io ho dovuto parare il primo colpo tutto da solo, ed ero davvero troppo
debole per farlo. (…)
Ad ogni modo eravamo così diversi e, in questa diversità, così pericolosi l'uno per l'altro, che se si
fosse cercato di prevedere come il bambino che lentamente cresceva e tu, l'uomo maturo, si
sarebbero comportati l'uno nei confronti dell'altro, si sarebbe potuto supporre che tu mi avresti
semplicemente calpestato, senza che di me rimanesse niente. E invece non è accaduto, la vita non si
può prevedere, ma forse quel che è accaduto è anche peggio. Al contempo ti prego però di non
dimenticare mai che non credo neppure lontanissimamente a una colpa da parte tua. Tu hai agito
verso di me come dovevi agire, solo che devi smettere di credere che il mio soccombere a questo
tuo agire sia dovuto a una particolare cattiveria da parte mia.
Ero un bimbo pauroso, ma ero anche testardo, come lo sono i bimbi; sicuramente la mamma mi ha
anche un po' viziato, ma non posso credere che fosse così difficile indirizzarmi, non posso credere
che una parola gentile, un tacito prendermi per mano, uno sguardo buono non avrebbero potuto
ottenere da me tutto quel che si voleva. Ora anche tu in fondo sei un uomo tenero e bonario (quel
che segue non è una contraddizione, perché io parlo soltanto dell'aspetto che ebbe a influenzare il
bambino), ma non tutti i bimbi hanno la resistenza e l'intrepidezza necessarie per continuare a
cercare finché non giungono alla bontà.
Tu sai trattare un bambino solo come tu stesso sei fatto, con forza, strepito e iracondia; e nel caso
specifico la cosa ti sembrava inoltre ancora più adatta, perché volevi fare di me un ragazzo forte e
coraggioso. (…)
Direttamente di quei primi anni ricordo soltanto un episodio. Forse lo ricordi anche tu. Una volta, di
notte, frignavo perché volevo un po' d'acqua, certo non per sete, ma probabilmente in parte per farvi
arrabbiare, in parte per divertirmi. Dopo che alcune severe minacce non erano servite a niente, mi
prendesti dal letto, mi portasti sul ballatoio e mi ci lasciasti per un po', in camicia da notte, davanti
alla porta chiusa.
Non voglio dire che sia stato ingiusto, forse davvero non c'era modo di ripristinare altrimenti la
quiete notturna, voglio soltanto caratterizzare i tuoi metodi educativi e il loro effetto su di me. In
seguito fui certo più arrendevole, ma ne riportai un danno interiore.
Data la mia natura, non riuscii mai a stabilire il giusto nesso tra l'elemento per me ovvio del mio
insensato chiedere l'acqua e quello eccezionalmente spaventoso dell'essere portato fuori. Per molti
anni ancora patii pene strazianti all'idea che quel gigante, mio padre, l'istanza ultima, poteva venire
quasi senza motivo e, di notte, portarmi dal letto sul ballatoio, e che quindi io per lui ero una tale
nullità.
Questo fu soltanto un piccolo inizio, ma questa sensazione di nullità che spesso mi domina
(sensazione da altri punti di vista anche nobile e feconda) deriva abbondantemente dalla tua
influenza. Io avrei avuto bisogno di un po' d'incoraggiamento, un po' di gentilezza, di qualcuno che
mi lasciasse un po' aperta la mia strada: invece me la sbarrasti, sicuramente con le migliori
intenzioni, quelle di farmene imboccare un'altra. Ma io non ne ero capace. Mi incoraggiavi, ad
esempio, quando ero bravo a fare il saluto militare e a marciare, ma io non ero un futuro soldato;
oppure mi incoraggiavi quando mangiavo d'appetito o addirittura ci bevevo su anche una birra,
quando ripetevo canti dal significato a me oscuro o scimmiottavo i tuoi modi di dire preferiti, ma
niente di tutto ciò rientrava nel mio futuro. Ed è significativo che ancor oggi tu mi incoraggi
davvero solo quando tu stesso sei mosso a compassione, (…) ma a prescindere dal fatto che alla mia
età sono ormai quasi completamente insensibile agli incoraggiamenti, a che cosa dovrebbero mai
servirmi, visto che sopraggiungono soltanto adesso? (…)
Per me bambino tutto quel che mi gridavi era un ordine del cielo, non lo dimenticavo mai, rimaneva
per me lo strumento più importante per giudicare il mondo e, soprattutto, per giudicare te stesso: e
qui fallivi completamente. Poiché da bambino stavo con te soprattutto durante i pasti, le tue lezioni
erano in massima parte lezioni su come ci si comporta a tavola. Quel che si metteva in tavola
doveva essere mangiato, sulla bontà del cibo non si discuteva; ma tu spesso lo trovavi
immangiabile, lo chiamavi "mangime" e affermavi che la "bestia" (la cuoca) l'aveva rovinato.
Poiché tu, in considerazione del tuo vigoroso appetito e di una tua particolare attitudine mangiavi
tutto rapidamente, bollente e a grossi bocconi, anche tuo figlio doveva affrettarsi, e a tavola regnava
un cupo silenzio, interrotto dalle esortazioni: "prima mangia, poi parla", oppure: "più alla svelta, più
alla svelta", oppure: "vedi, io ho già finito da un bel pezzo ".
Gli ossi non si potevano rosicchiare, ma tu lo facevi; l'aceto non si poteva sorbire, ma tu lo facevi.
La cosa più importante era tagliare il pane diritto; che tu però lo facessi con un coltello grondante di
sugo era indifferente. Si doveva fare attenzione a non lasciare cadere avanzi di cibo sul pavimento;
di solito erano tutti sotto di te. A tavola ci si doveva occupare solo del pasto, tu però ti tagliavi le
unghie, facevi la punta alle matite, ti pulivi le orecchie con uno stuzzicadenti. Ti prego, padre, non
fraintendermi, sarebbero stati di per sé particolari completamente insignificanti: per me divennero
schiaccianti soltanto perché tu, misura assoluta di tutte le cose, personalmente non ti attenevi ai
comandamenti che mi imponevi. In questo modo il mondo per me risultò diviso in tre parti: una in
cui vivevo io, lo schiavo, sotto leggi che erano state escogitate soltanto per me e che inoltre, non
sapevo perché, non ero mai in grado di rispettare completamente; poi un secondo mondo,
infinitamente distante dal mio, in cui vivevi tu, impegnato a governare, impartire ordini e andare in
collera se non erano eseguiti; e infine un terzo mondo, dove il resto degli uomini vivevano felici,
liberi da ordini e obbedienza. Io ero costantemente in preda alla vergogna: o seguivo i tuoi ordini,
ed era una vergogna perché valevano soltanto per me, o recalcitravo, e anche questa era una
vergogna, perché non si poteva recalcitrare davanti a te, o non riuscivo a seguirli, perché ad
esempio non avevo la tua forza, il tuo appetito, la tua abilità, per quanto tu pretendessi quella data
cosa da me come ovvia; e questa era comunque la vergogna più grande. Così si agitavano non solo
le riflessioni, ma anche la sensibilità di tuo figlio.
(continua ….)
4) Due lettere di Antonia Pozzi
Pasturo, 28 agosto 1934
… Al Breil rimasi fino al 10 agosto: venti giorni molto intensi, benché a volte tetri e minacciosi; ora
li ricordo come un miraggio lontano …
Nelle mattine serene salivo sola alla morena del Furggen che è cosparsa di fiori meravigliosi; e lì
restavo per delle ore, nel sole violento.
A 3000 metri, sotto le immense pareti del Cervino, sola come la prima anima sulla terra, portata
avanti da quel vento che non è neppur vento, che è come il tremito leggero del silenzio e che solo il
fischio di una marmotta lacera o il cadere delle slavine.
Molto in alto fui soltanto due volte: in una giornata splendente sulle creste del Furggen, che è facile
facile, ma in uno scenario incomparabile; e in una orrenda giornata di nebbia e neve, sulla Becca di
Guen, che non è difficile, ma dove ci si prova abbastanza sulla roccia. Giornata orrenda; ma
siccome ero sola con Pellissier, la bravissima guida del Cervino, e dormimmo al rifugio dei
Jumeaux (per la strada ci eravamo colti dei legni di rododendro morti per accendere il fuoco –
Pellissier mi preparò la minestra, mentre io guardavo il tramonto e le valli lontane, azzurre delle
prime ombre, e pensavo com’è bella, com’è dolce la terra quando s’addormenta), credo che me ne
ricorderò a lungo. Alla sera accesero dei gran fuochi, giù a Beril, ed anche noi incendiammo, su di
una roccia, un fascio di paglia e le scintille volavano giù nella notte …
Pasturo, 14 aprile 1935
… E tutti gli anni è così: quando rientro in questa stanza e guardo i rami di fiori disegnati sulla
tappezzeria e respiro questo odore speciale di mobili, dello zoccolo di legno, istintivamente, in un
attimo, mi faccio come un esame di coscienza: tutto quello che ho vissuto fuori di qui, quello che ho
aggiunto alla mia anima e che queste pareti non sanno ancora, mi si riassume così nitidamente nel
pensiero, come se qui qualcuno mi domandasse ragione della mia vita. Quando dico che qui sono le
mie radici non faccio solo un’immagine poetica. Perché ad ogni ritorno fra questi muri, fra queste
cose fedeli e uguali, di volta in volta ho deposto e chiarificato a me stessa i miei pensieri, i miei
sentimenti più veri. E queste pareti se ne sono fatte custodi, così che, quando rientro qui, tutto il mio
passato, tutto quello che sono stata, per cui sono – oggi – quella che sono, mi balza incontro e io
ritrovo la più completa me stessa. Qui non sono solo raccolte tangibilmente tutte le immagini delle
persone care, dei luoghi amati e non più veduti, delle cose d’arte predilette, ma l’aria stessa è come
conservasse l’eco delle voci, l’ombra dei volti, il senso delle ore vissute …
I RICORDI SOTTOFORMA DI DIARIO
1) Diario d’infanzia.
Romain Gary: La vita davanti a sé .
Neri Pozza editore, 2005.
Per prima cosa vi posso dire che abitavamo al sesto piano senza ascensore e che per madame Rosa,
con tutti quei chili che si portava addosso e con due gambe sole, questa era una vera e propria
ragione di vita quotidiana, con tutte le preoccupazioni e gli affanni. Ce lo ricordava ogni volta che
non si lamentava per qualcos’altro; neanche la sua salute era un granché e vi posso dire fin d’ora
che una donna come lei avrebbe meritato un ascensore.
Dovevo avere tre anni quando ho visto Madame Rosa per la prima volta. Prima non si ha memoria e
si vive nell’ignoranza. La mia ignoranza è finita verso i tre o quattro anni e certe volte ne sento la
mancanza.
C’erano molti immigrati a Belleville, ma Madame Rosa era l’unica che si doveva arrampicare fino
al sesto piano. Diceva che un giorno o l’altro ci sarebbe morta, per quella scala, e tutti i marmocchi
si mettevano a piangere, perché i fa sempre così quando muore qualcuno. Eravamo sei o sette là
dentro e qualche volta anche di più.
All’inizio non sapevo che Madame Rosa si occupava di me solo per riscuotere un vaglia alla fine
del mese. Quando sono venuto a saperlo avevo già sei o sette anni e per me è stato un colpo sapere
che ero a pagamento. Credevo che Madame Rosa mi volesse bene gratis e che ci fosse qualcosa fra
noi due. Ci ho pianto su per una notte intera ed è stato il mio primo grande dolore.
Madame Rosa si è accorta che ero triste e mi ha spiegato che la famiglia non significa niente e che
ci sono persino di quelli che vanno in vacanza abbandonando il loro cane legato a un albero e che
ogni anno ci sono tremila cani che muoiono così, senza l’affetto dei loro cari. Mi ha preso sulle
ginocchia e mi ha giurato che io ero la cosa più cara che aveva al mondo , ma io ho pensato subito
al vaglia e sono scappato via piangendo.
Sono sceso di sotto nel caffè del signor Driss e mi sono seduto di fronte al signor Hamil, che ha
fatto il venditore ambulante di tappeti per tutta la Francia e ne ha viste di cotte e di crude. Il signor
Hamil ha dei begli occhi, che dispensano del bene tutto intorno. Era già molto vecchio quando l’ho
conosciuto e dopo ha sempre continuato ad invecchiare.
“Signor Hamil, si può vivere senza amore?”
Non ha risposto. Ha bevuto un po’ di tè alla menta, che fa bene alla salute. Mi ha guardato ed è
rimasto in silenzio. Doveva pensare che ero ancora vietato ai minori e che c’erano delle cose che
non dovevo sapere. A quel tempo dovevo avere sette anni o forse otto, non ve lo posso dire con
precisione perché non sono stato datato, come saprete quando ci conosceremo meglio, se trovate
che ne vale la pena.
“Signor Hamil, perché non mi rispondete?”
“Sei molto giovane e quando si è molto giovani ci sono delle cose che è meglio non sapere”.
“Signor Hamil, si può vivere senza amore?”
“Sì” ha detto, e ha abbassato la testa come se si vergognasse.
Mi sono messo a piangere.
(…)
Da noi c’erano parecchie madri che venivano una o due volte la settimana, ma sempre per gli altri.
È stato così che ho cominciato ad avere dei problemi con mia madre: mi sembrava che tutti quanti
ne avessero una fuori che me. Ho cominciato ad avere dei crampi allo stomaco e delle convulsioni
per farla venire. Sul marciapiede di fronte c’era un marmocchio che aveva un pallone e che mi
aveva detto che sua madre veniva sempre, quando lui aveva il mal di pancia. Ho avuto il mal di
pancia ma non è servito a niente e poi ho avuto le convulsioni, ma sempre per niente. Mi madre non
è venuta e urlavo a Madame Rosa che volevo vedere mia madre. Alla fine Madame Rosa mi ha
detto che se continuavo così mi mandava al brefotrofio e qui ho avuto paura. (…)
Alla fine ho lasciato perdere, perché non serviva a niente e mia madre non veniva lo stesso, ma ho
continuato ad avere dei crampi e delle convulsioni per molto tempo e anche adesso, certe volte mi
prende alla pancia.
(…)
In seguito ho cercato di farmi notare diversamente. Ho incominciato a rubacchiare nei negozi, un
pomodoro o un melone dai cesti della vetrina. Aspettavo sempre che qualcuno mi guardasse, perché
se ne accorgessero. Quando il padrone usciva e mi dava uno schiaffo io mi mettevo a strillare, ma
c’era comunque qualcuno che s’interessava a me.
Una volta, davanti a una drogheria, ho rubato un uovo e la padrona mi ha visto. Preferivo rubare
dove c’era una donna, perché l’unica cosa che ero sicuro era che mia madre era una donna, non può
essere diversamente. Ho preso un uovo e me lo sono messo in tasca. È venuta la padrona e io mi
aspettavo che mi desse uno schiaffo, invece mi si è accoccolata vicino e mi ha accarezzato la testa.
Mi ha perfino detto:
“Come sei carino!”.
Sul primo momento ho pensato che volesse riavere il suo uovo con le buone e l’ho tenuto stretto
nella mano, in fondo alla tasca. Bastava solo che mi desse uno schiaffo, per punirmi, è questo che
deve fare una madre quando si accorge di te. Invece si è alzata, è andata dietro il banco e mi ha dato
un altro uovo. Poi mi ha baciato. Ho avuto un momento di speranza che non vi posso descrivere
perché non è possibile. Sono rimasto tutta la mattina davanti al negozio ad aspettare. Non so mica
cosa aspettavo. Avevo sei anni o poco più e credevo che fosse un grande amore mentre era soltanto
un uovo. Sono tornato a casa e ho avuto il mal di pancia tutto il giorno.
2) Dal diario di Lavinia Waterhouse.
Tracy Chevalier: Quando cadono gli angeli
Neri Pozza editore, 2002
Un miracolo, praticamente! La mia amica del cuore al di là del nostro giardino! Ma si può
immaginare una cosa più straordinaria?
Stamattina ero proprio triste mentre mi spazzolavo i capelli e guardavo fuori dalla finestra che dà
sul giardino.
È piccolino e delizioso, e Ivy May ed io abbiamo una bella cameretta che dà da quella parte eppure
ho sentito un gran rimpianto per la nostra vecchia casa. Era più piccola e dava su una strada piena di
traffico invece che su una stradina di un quartiere carino come Hampsted Hearth. Ma quella era la
casa dov’ero nata ed era piena di ricordi di quando ero più piccola. Avrei voluto portarmi via un
pezzo di carta da parati dell’ingresso, là dove ogni anno mio padre segnava l’altezza di Ivy May e la
mia, ma lui non ha voluto, ha detto che rovinavo la parete. Quanto ho pianto ad andar via!
Poi, con la coda dell’occhio, ho visto muoversi qualcosa e , guardando bene la casa davanti a me, ho
visto una bambina che si affacciava a una finestra e mi faceva cenno con la mano! Bene, allora ho
strizzato gli occhi e dopo un attimo l’ho riconosciuta: era Maude! Non sapevo che lei abitava
proprio qui. Ho tirato fuori il fazzoletto e l’ho sventolato fino a quando ho sentito male al braccio.
Persino Ivy Mary che non presta attenzione a niente se non ci sono io a darle un pizzicotto ( e
qualche volta nemmeno allora), è saltata giù dal letto per vedere cosa stava succedendo.
Maude mi ha gridato non so che, ma era troppo lontana e non ho capito niente. Poi ha indicato la
siepe che divide i nostri due giardini e mi ha mostrato le due mani aperte. Ci intendiamo così bene
che ho capito subito che ci saremmo viste giù tra dieci minuti. Le ho mandato un bacio, sono venuta
via dalla finestra e in dieci minuti ero bell’e vestita.
“Mami, mami!” mi sono messa a gridare precipitandomi giù per le scale. La mamma è arrivata
correndo fuori dalla cucina. Credeva che mi sentissi male o che mi fossi ferita. Ma quando le ho
detto di Maude non mi è sembrata entusiasta. Non aveva voluto lasciarmi rivedere i Coleman, ma
senza dirmi perché. Forse se li era anche scordati ormai, era passato tanto tempo, ma io non mi ero
scordata di Maude. Sapevo che eravamo destinate a diventare amiche.
Sono corsa fuori e mi sono avvicinata alla siepe del giardino, ma era troppo alta per vedere al di là.
Ho chiamato Maude e lei mi ha risposto, ed ecco che dopo un attimo mi son vista la sua faccia
apparire in cima alla siepe.
“Ah, come hai fatto a salire lassù?” ho esclamato.
“Sono montata sulla vaschetta dell’acqua per gli uccellini” ha risposto lei traballando un po’. Poi è
riuscita ad arrampicarsi e, prima che me ne rendessi conto, era saltata giù dalla siepe, nel nostro
giardino! Tutta graffiata dalle spine dei rosai, poveretta. L’ho abbracciata e baciata e l’ho portata
dalla mamma che con mia grande felicità l’ha accolta bene e le ha medicato i graffi con la tintura di
iodio.
Poi l’ho portata in camera mia per mostrarle le bambole.
“Non mi ero dimenticata di te” le ho detto. Ho guardato in giro perché speravo di vederti, ma non ti
ho mai trovata”.
“Anch’io” ha detto lei.
Ivy May poi ha rovinato tutto sbattendo le teste delle bambole l’una con l’altra, credevo si
sarebbero fracassate. Le ho detto di smetterla ma a Maude non dispiaceva che Ivy May stesse con
noi perché lei non ha né un fratello né una sorella per giocarci insieme. Beh, Ivy May era contenta
come una pasqua, mai vista così contenta.
Maude poi ha fatto colazione da noi e non la smettevamo più di chiacchierare.
È un miracolo del cielo che gli angeli ci abbiano fatto venire in questa casa e mi abbiano dato la
possibilità di stare vicina alla mia amica del cuore.
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3) Dal Diario di Anna Frank:
http://www.youtube.com/watch?v=22duAG7AqRo
http://www.youtube.com/watch?v=FoNojRfiT-I
4) Il vizio di parlare a me stessa
Goliarda Sapienza: Taccuini 1976-1989, transiberiana.
… Ricominciano le risaie, i quadrati magici di questa configurazione si stendono tranquilli
all’infinito senza soluzione di continuità, fin dove lo sguardo e il pensiero sono forzati ad arrendersi
smarriti.
Sempre più mi convinco che l’unica differenza tra loro e noi è in questi spazi: loro sanno
sopportare, si vede nei loro sguardi, questa immensità che a noi spaventa: anche perché loro si sono
costruiti nel corso dei millenni una struttura chiusa e quadrata mentre noi, da sempre protetti e a
volte chiusi (io addirittura murata dai confini dell’isola), cerchiamo di aprirci, espanderci verso il
fuori “sognando l’infinito” (vedi Leopardi).
Qui l’infinito è di casa.
Cos’è la vita se non ti fermi un attimo a ripensarla?
5) Ricordi d’estate.
Erri De Luca: I pesci non chiudono gli occhi
“Ti piace l’amore?” chiese guardando dritto di fronte, dove si alzava la fiancata di una barca
colorata di bianco e di una striscia azzurra.
“Prima di questa estate leggevo nei libri e non capivo perché gli adulti si scaldavano tanto. Adesso
lo so, fa succedere cambiamenti e alle persone piace essere cambiate. Non so se piace a me, però ce
l’ho e prima non c’era.”
“Ce l’hai?”
“Sì, mi sono accorto di avercelo. E’ cominciato dalla mano, la prima volta che me l’hai tenuta.
Mantenere è il mio verbo preferito.”
“Cose buffe dici. Sei innamorato di me?”
“Si dice così? E’ cominciato dalla mano, che si è innamorata della tua. Poi si sono innamorate le
ferite che si sono messe a guarire alla svelta, la sera che sei venuta in visita e mi hai toccato.
Quando sei uscita dalla stanza stavo bene, mi sono alzato dal letto e il giorno dopo ero a mare.”
“Allora ti piace l’amore?”
Si voltò verso di me. Per istinto volevo girarmi dalla parte opposta, ma una forza imprevista mi girò
testa e collo dalla parte sua. Si fermò la parlantina che mi era uscita facile mentre non la guardavo.
Era così bellissima vicina, le labbra appena aperte. Mi commuovono quelle di una donna, nude
quando si accostano a baciare, si spogliano di tutto, dalle parole in giù.
“Chiudi quei benedetti occhi di pesce.”
“Ma non posso. Se tu vedessi quello che vedo io, non li potresti chiudere.”
“Da dove ti spuntano questi complimenti, piccolo giovanotto?”
“Che complimenti? Dico quello che vedo.”
“Ora basta.” Mi passo le dita sopra gli occhi e poi con quelle dita scese ai lati del naso, passando per
la bocca, fino al mento. E poi mi posò le labbra sulla bocca mezza aperta dalla meraviglia.
“Meraviglia,” dissi quando si staccò, facendolo pianissimo.
“Questo era tuo. Te lo chiedo ancora, ti piace l’amore?”
“Be’ sì, se è questo, sì” Pensai che avrei capito tutti i libri da quel momento in poi.
6) Ricordi di gioventù
La febbre del sabato sera da Roberto Pozzi - “Storie della Bassa e altri racconti”,–
Loquendo, 2013
La nebbia era calata improvvisamente avvolgendo il paese in una coltre impenetrabile. A Inverno,
piccolo centro della bassa padana a metà strada tra Pavia e Lodi, capitava spesso. Ma quella volta
sembrava peggio del solito.
Erano i tempi della “Febbre del sabato sera” e anche noi, novelli John Travolta, contrariamente alle
nostre abitudini, da qualche tempo avevamo cominciato a frequentare le discoteche, anche perché in
paese non c’era quasi più nulla. L’oratorio era chiuso da tempo e, dopo l’estate, aveva cessato
l’attività anche il bar Faini; l’unico punto di ritrovo rimasto era il circolo ENAL, la “cuperativa”,
come veniva chiamato.
Era un piccolo locale insufficiente per le esigenze ricreative di tutti, in genere ci si vedeva lì per una
partita a carte o per vedere insieme le partite di calcio o semplicemente per fare due chiacchiere.
Nelle serate nebbiose, come quel sabato, l’affollamento era tale da rendere impossibile rimanervi:
c’era più nebbia dentro che fuori: tutti (o quasi tutti) i frequentatori erano accaniti fumatori.
Così, all’inizio della stagione autunnale avevamo preso l’abitudine della discoteca: il Pierrot di
Sarmato, il King di Castel San Giovanni e l’Otto Blues di Lodi erano le nostre mete preferite.
Avevamo visitato anche il Tucano 185, nei pressi di Salice Terme, ma era troppo fuori mano. La più
vicina, ma anche la meno bella, era il Silver Mody di Villanterio: la si teneva come ruota di scorta.
Usciti dalla cuperativa per decidere il da farsi avevamo constatato le proibitive condizioni
atmosferiche: la nebbia era talmente fitta che al buio non riuscivamo a vederci, ci si riconosceva
dalle voci. Nessuno, nonostante ciò, fu preso dallo sconforto, tutti pensavamo ad una possibile
soluzione. Naturalmente, vista la situazione, avevamo deciso di far ricorso alla ruota di scorta:
stavamo pensando a come raggiungere il Silver Mody.
“Con una nebbia del genere, i miei la macchina non me la danno di sicuro!”
“Io non vado neanche a chiederla.”
“Potremmo andare in moto, l’abbiamo già fatto altre volte.”
“In fondo sono meno di tre chilometri, andiamo a piedi, ce la possiamo fare!”
Queste erano le riflessioni a voce alta. Insomma, automobili non ce n’erano, non tutti avevano
voglia di andare a piedi, in moto era troppo pericoloso…
Rassegnati, pensavamo ormai alla serata rovinata dalla nebbia quando: “Perché non andiamo in
trattore?”, Gianfranco buttò lì la proposta tra lo stupore generale.
Qualcuno rise di gusto pensando ad una battuta ma, dopo l’iniziale smarrimento, prendemmo in
seria considerazione la bizzarra soluzione.
“Dai facciamo ‘sta cosa, avremo qualcosa da raccontare ai nipoti…”
“Se non le facciamo adesso certe cose, non le faremo più!”
Discorsi da giovani incoscienti, diciamo oggi, ma in quel momento eravamo presi dall’euforia.
Il Fantini, che era l’unico della compagnia a possedere un trattore, sì sentì improvvisamente
addosso lo sguardo di tutti. Era un po’ restìo ma si lasciò convincere: andò a casa e, con una banale
scusa, riuscì ad avere il trattore.
“C’è una macchina nel fosso sulla strada di Villanterio, prendo il trattore e vado a tirarla fuori!”,
aveva detto ai suoi.
Dopo dieci minuti eravamo davanti al trattore, increduli ed elettrizzati. Eravamo in sette e vi
prendemmo posto nel seguente ordine: il Fantini alla guida, Teresio e Umberto seduti sul parafango
di destra, Gianfranco e Lorenzo su quello di sinistra, Graziano e il sottoscritto in piedi sull’attacco
per il carro, dietro a tutti.
Appena fuori paese ci trovammo nel buio totale, dopo l’ultimo lampione solo i fari del trattore
illuminavano la strada, la visibilità non superava i dieci metri. Faceva un freddo cane, la nebbia
densa si poteva tagliare a fette, cercavamo di ripararci come meglio si riusciva: baveri alzati e
sciarpe avvolte intorno alla testa. Solo il pilota era equipaggiato a dovere con guanti e un
pesantissimo passamontagna che gli lasciava liberi soltanto gli occhi.
Arrivammo a Villanterio dopo una mezz’ora, Fantini parcheggiò il trattore a debita distanza dal
Silver. Raggiunta rapidamente la discoteca vi entrammo… semi-assiderati; ci si fermò giusto il
tempo per bere qualcosa di caldo e per asciugarsi un po’. Non potevamo trattenerci a lungo (in
fondo la versione ufficiale era quella dell’automobile nel fosso) e non c’era nemmeno il tempo per
fare “quattro salti”.
Dopo un quarto d’ora, riprese le nostre postazioni, eravamo già in viaggio per il ritorno. Umberto,
che all’andata aveva spavaldamente affrontato la nebbia a viso aperto, tentava di coprirsi con un
timido fazzolettino annodato alla bell’e meglio. Un’improvvisa folata di vento gli strappò il
copricapo di fortuna e lui pretendeva che ci fermassimo a recuperarlo. Naturalmente la sua richiesta
non fu presa in considerazione. Nei giorni successivi si beccò l’influenza: la febbre del sabato sera!
Nel frattempo la situazione peggiorava, la nebbia si infittiva sempre di più e l’incoscienza si stava
trasformando in preoccupazione. In religioso silenzio, tutti scrutavamo le righe sulla strada.
All’improvviso si scorsero le luci dei primi lampioni di Inverno: ci fu un autentico boato di
soddisfazione e di gioia. Ce l’avevamo fatta!
Arrivati in paese, dopo aver accompagnato il Fantini a depositare il trattore, andammo all’ENAL a
brindare, raccontando agli amici la nostra impresa.
Nessuno ci credette e fu allora che capimmo di aver fatto una stupidaggine.
Però, a distanza di anni, è piacevole ricordare le avventure giovanili, la spensieratezza e
l’incoscienza dei vent’anni.
Andare in discoteca in trattore: che idea bizzarra! Ma ne valeva la pena? Certamente!
Avremo qualcosa da... narrare ai nipoti. E poi come avrei potuto… scrivere questo racconto?
7) Film sui ricordi
Federico Fellini: Amarcord un film che rievoca la giovinezza del regista con nostalgia e
ironia. (Scena della danza dei ricordi nella nebbia).
http://www.youtube.com/watch?v=ZuBJYaMwHh0
8) Ricordi in poesia
Un’adolescente
W.Szymborska, Qui 2009 (86 anni)
Io – un’adolescente?
Se qui, ora, d’improvviso, mi comparisse davanti,
dovrei forse salutarla come una persona cara,
benché mi sia estranea e lontana?
Versare una lacrimuccia, baciarla sulla fronte per la sola ragione
che la data di nascita è la stessa?
Siamo così dissimili,
che forse solo le ossa sono uguali, la calotta cranica, le orbite oculari.
Perché già i suoi occhi sembrano un po’ più grandi,
le ciglia più lunghe, la statura più alta
e tutto il corpo è fasciato
da una pelle liscia, senza un’imperfezione.
In verità ci legano parenti e conoscenti,
ma nel suo mondo, di questa cerchia,
vivi lo sono quasi tutti,
mentre nel mio quasi nessuno.
Siamo così diverse,
così diversi i nostri pensieri e le parole.
Lei sa poco ma
con caparbietà degna di miglior causa.
Io so molto di più
ma non in modo certo.
Mi mostra qualche poesia,
scritta con una grafia nitida, accurata,
come ormai non scrivo più da anni.
Leggo quelle poesie, le leggo.
Be’, forse quest’unica,
se solo si accorciasse e correggesse qua e là.
Il resto non promette nulla di buono.
La conversazione langue.
Sul suo modesto orologio il tempo è ancora instabile e costa poco.
Sul mio è molto più caro ed esatto.
Per commiato nulla, un sorriso abbozzato e nessuna commozione.
Solo quando sparisce
e nella fretta dimentica la sciarpa.
Una sciarpa di pura lana,
a righe colorate,
che nostra madre
ha fatto per lei all’uncinetto.
La conservo ancora.
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