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Non piangere per me o madre - Parrocchia di Rossano Veneto

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Non piangere per me o madre - Parrocchia di Rossano Veneto
Non piangere per me o madre
01 giugno 2016
L’icona che porta il titolo «Non piangere per me, o madre» compare nella tradizione russa a partire
dal xvi secolo. Si tratta dell’immagine del Cristo morto, il cui busto si leva eretto dal sepolcro,
davanti alla croce, e di Maria sua madre che sembra sorreggerlo in un abbraccio. Questa immagine
di Pietà ha origini antiche ed è particolarmente interessante sia per il suo soggetto — un testimone
privilegiato dell’apparire ed evolversi dell’espressione dei sentimenti nell’arte religiosa — che per
la sua storia, esempio istruttivo dello scambio culturale tra oriente e occidente.
Apparsa nel mondo bizantino inizialmente come sola rappresentazione di Cristo Uomo dei dolori
(xi secolo) — posta poi in parallelo con un’immagine della Vergine con il Bambino (associazione
che porterà alla nascita dell’iconografia della Eleusa, la Vergine della Tenerezza in cui il Cristo
bambino abbraccia la madre) oppure, come in un dittico del monastero della Trasfigurazione alle
Meteore, con l’immagine di Maria afflitta dal dolore — giunse in Italia verso il xiii secolo e qui
conobbe un notevole successo, trasformandosi e diffondendosi al nord, in Francia e Germania.
Parallelamente anche in area bizantina l’iconografia dell’Uomo dei dolori (chiamata Akra
Tapinosis, Grande Umiliazione) divenne più complessa, mutuando elementi propri alle immagini
della crocifissione e deposizione dalla croce e subendo probabilmente anche l’influenza degli
sviluppi occidentali. Un’icona di Tessalonica datata attorno al 1400 mostra Maria che abbraccia il
Cristo morto e porta il titolo di La discesa. Forse si tratta del primo esempio di questo soggetto. La
stessa immagine si ritrova al Monte Athos all’inizio del xvi secolo e di qui, io ritengo, ha raggiunto
la Santa Russia, divenendovi molto popolare. Quando, nella seconda metà del xx secolo le icone
russe sono state scoperte dalla cultura occidentale, questa immagine l’abbiamo sentita come di casa.
Nella tradizione bizantina Maria che abbraccia il Cristo deposto dalla croce che si erge dal sepolcro
è già un annuncio della vittoria sulla morte e un compendio dei tre giorni santi, come ben emerge
dal tropario del mattutino del Grande Sabato da cui l’icona ha preso il nome: «Non piangere per me,
o madre, vedendo nella tomba il figlio che, senza seme, hai concepito nel grembo: io risorgerò e
sarò glorificato e, poiché sono Dio, incessantemente innalzerò nella gloria coloro che con fede e
affetto ti magnificano». Una lunga tradizione patristica e innografica ha contribuito alla fissazione
in testo liturgico di questo dialogo tra il Cristo morto e la Vergine, che compare come tropario
dell’Ode ix, quella corrispondente al Magnificat, e che è ripreso nella successiva liturgia dei
Lamenti (Enkomia 164-166):
«O luce dei miei occhi, o dolcissimo mio figlio, come puoi ora nasconderti in una tomba?
Soffro questa passione per liberare Adamo ed Eva, o madre, non piangere!
Glorifico, figlio mio, l’immensità della tua misericordia; per essa tu patisci».
L’elemento del dialogo tra il Cristo e la madre nell’ora della Passione — attestato dalla liturgia solo
in questi brevi passi per il sabato santo — sembra essere stato introdotto da Romano il Melode
(prima metà del vi secolo) nell’inno Maria ai piedi della croce. Attraverso lo stile drammatico egli
riesce ad enunciare con chiarezza e forza il significato della passione e morte, leggendole alla luce
della grande misericordia di Cristo: «Ancora un poco di pazienza, madre... perché tu possa cantare:
“Con il soffrire distrugge il soffrire, il figlio mio e Dio mio”» (13).
Il lamento su Cristo morto rimanda al lamento di Adamo e alla misericordia di Cristo che, per
liberare Adamo ed Eva, si affretta nella passione, va a cercare la pecorella smarrita e come il buon
samaritano si avvicina alle sue ferite e le cura. L’immagine di Cristo Uomo dei dolori è già di per sé
l’immagine dell’abbraccio di Cristo all’umanità, nella sua carne. Esso corrisponde simbolicamente
a quel primo abbraccio pieno di slancio del Bambino nei confronti della madre, meditativa e quasi
preveggente il mistero della Passione, fissato nell’icona della Vergine della Tenerezza.
L’espressione dei sentimenti di gioia, dolore e affetto è testimoniata nell’arte cristiana solo dopo la
controversia iconoclastica. A partire dal ix-x secolo a Bisanzio si cominciano a dipingere il Cristo
morto sulla croce, la sua deposizione e la sua sepoltura, spinti dall’influenza di testi omiletici e dalle
innovazioni liturgiche del tempo dei Comneni. Significativamente però il titolo che compare sia
sull’immagine della crocifissione che su quella della Grande Umiliazione è Re della gloria, titolo
che ritroviamo anche quando è introdotto l’abbraccio della Vergine al figlio morto, come nell’icona
di Iviron. Una grande pace, soprattutto sul volto di Cristo, emana da questa icona, così lontana dalle
espressioni estreme del dolore conosciute in occidente. I segni del dolore non sono annullati, ma si
tratta di un dolore interiorizzato, espresso negli occhi chiusi del Cristo morto e nei tratti dolenti
della madre. C’è da osservare che Maria non china la testa ma la solleva verso il volto di Gesù.
Forse si può pensare alla frase evangelica «Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte... Allora
vedranno il Figlio dell’uomo venire con grande potenza e gloria... Alzate il capo, perché la vostra
liberazione è vicina» (Luca 21, 26-28). Questo tratto ben si adatta allo spirito e all’epoca di Teofane
di Creta. Dopo poco più di mezzo secolo dalla tragica caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi
(1453), la pittura di Teofane è un segno di resistenza e un mezzo per conservare il grande
patrimonio spirituale bizantino. Linee spezzate e aspre, luci e ombre si fiancheggiano nella sua
opera, testimoni di una tensione ascetica esigente, ma portatrice della luce della resurrezione. «Non
piangere per me, o madre — più esattamente: non fare il lamento funebre — Soffro... per liberare
Adamo ed Eva». Sì, «con il soffrire distrugge il soffrire, il figlio mio e Dio mio».
di Raffaela D'Este
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