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Rifare l`Italia - Critica Sociale

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Turati, Bissolati - 150 anni
I Un isolato profeta del metodo di “programmazione” degli anni ‘60
“Rifare l’Italia”
Carlo Lacaita
uando Turati pronunciò il Rifare l’Italia!, in occasione della presentazione alla Camera dell’ultimo governo Giolitti,
aveva quasi sessantatre anni, di cui almeno trentacinque dedicati alla causa del socialismo. L’aveva abbracciata negli anni Ottanta dell’Ottocento, staccandosi dalla democrazia radicale, a
contatto con l’ambiente operaio lombardo e con quei settori della cultura positivistica maggiormente attenti ai problemi della
società e alle condizioni delle masse popolari. Di particolare importanza fu il legame con Anna Kuliscioff, l’intelligente esule russa, con cui avrebbe condiviso le idealità e l’impegno politico per
il resto della vita. Con la fondazione della Lega socialista milanese (1889) e della “Critica Sociale” (1891) assunse un ruolo di
primo piano nel dibattito e nel lavoro organizzativo che di lì a
poco dovevano condurre le diverse formazioni socialiste, già
sorte in varie parti della penisola, alla costituzione del Partito dei
Lavoratori Italiani (1892), poi Partito Socialista Italiano. Tra i
primi, e con grande lucidità, aveva compreso «la funzione essenziale dell’organizzazione partitica in una società di massa, e proprio per questo ad essa sarebbe rimasto sempre sostanzialmente fedele anche in posizioni fortemente minoritarie e nonostante le forti sollecitazioni esterne».
Grazie alla sua rivista, presto riconosciuta come la maggiore
palestra di idee e di discussione aperta, di analisi dei problemi italiani e di informazione sulle concrete esperienze europee, Turati esercitò una notevole influenza su larghi ambienti intellettuali, e contribuì a formare, come ha scritto in proposito Gaetano Arfé, «il primo e più omogeneo quadro dirigente che il partito socialista abbia avuto, quello che si troverà a costituire il nucleo della corrente riformista e fino al fascismo lo stato maggiore del movimento operaio» Alla “Critica Sociale” collaborò non a caso il
meglio dell’intellettualità socialista, dai due Labriola a Salvemini, da Treves a Bonomi, dai due Mondolfo a Schiavi e Zibordi, e
al tempo stesso studiosi di varia tendenza e specializzazione, da
Croce ad Einaudi, da Ferrero a Ruini, tutti attratti dalla serietà con
cui erano affrontati i problemi della società in trasformazione e
dall’ampio confronto con le altre correnti di pensiero.
Pur continuando a rifarsi ai principi del marxismo da lui assimilati in versione positivistico-evoluzionistica prevalente nella Seconda Internazionale, Turati pose sempre l’accento sul carattere sperimentale, «positivo», aperto della sua visione socia1
lista, così come insistette perché l’azione del partito si dispiegasse non già sui binari dell’integralismo massimalistico, il cui
approdo non poteva che essere l’isolamento sterile, ma sul ter-
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reno della prassi realizzatrice volta a promuovere l’emancipazione delle grandi masse e il miglioramento delle loro condizioni
di vita. Come ha scritto Leo Valiani, il merito storico di Turati,
«quel che gli assicurerà immortalità negli annali della democrazia italiana» furono in effetti «l’inserzione dei bisogni concreti, e delle pressioni spontanee della classe operaia nel processo di sviluppo dello stato democratico-liberale», e la parallela organizzazione politica, sindacale e amministrativa del proletariato, che divenne così un soggetto attivo della sua emancipazione e della storia nazionale.
In un paese come l’Italia, caratterizzato da uno sviluppo capitalistico lento e squilibrato, con larghe zone di arretratezza, di
povertà e di persistenze «feudali», il movimento socialista, per
Turati, doveva impegnarsi in un vasto programma di trasformazione che riguardava, ad un tempo, la realtà economica e sociale, e le masse proletarie ancora legate a forme di lotta anarcoidi
e tumultuarie. Per un verso, quindi, occorreva agevolare l’affermazione di una moderna base produttiva, sull’esempio dei paesi industrialmente più progrediti, e, per l’altro, rendere il proletariato sempre più capace di intervenire nella vita nazionale tramite le organizzazioni operaie e contadine, le leghe e le camere
del lavoro, le cooperative, i circoli, le opere di cultura, e tramite
l’attiva partecipazione alla vita delle istituzioni dell’Italia liberale, che erano sì organismi imperfetti da trasformare in senso
democratico, ma non un nemico da abbattere. Si trattava insomma, come soleva ripetere, di favorire al tempo stesso la crescita
di una classe lavoratrice cosciente, di un solido sistema democratico, di un’economia evoluta e di una borghesia avanzata, con
la quale il socialismo aveva da confrontarsi direttamente.
Di qui la distinzione fra le diverse componenti della classe dirigente italiana e il riconoscimento, come interlocutore privilegiato, di Giolitti, che, di fronte alla prima grande crisi dello Stato liberale, aveva affermato nel 1899 a Dronero la necessità di un
indirizzo politico aperto ai bisogni delle «classi più numerose».
Di qui ancora l’impegno profuso da Turati per dare corpo e diffusione alla cultura delle riforme, per impostare e sospingere a
tutti i livelli, sia al centro che alla periferia, le iniziative riformiste, per fare del partito un «partito governante», come diceva
Jaurès, prima ancora di diventare «di governo», e ancorarlo a una
linea coerente, attraverso il confronto e, all’occorrenza, anche lo
scontro con gli stessi amici più cari, come Bissolati, in nome della chiarezza delle posizioni e della causa a cui si era votato.
Ciò che era al centro delle controversie, che sarebbero sfociate anche in scissioni, era il ruolo del PSI nell’Italia contemporanea. Un ruolo che per Turati doveva essere di opposizione dia-
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lettica e di costruzione fattiva, di lotta politica e di sbocchi istituzionali, di «pressione» sulla politica generale dello Stato in nome degli «interessi proletari» e di responsabile partecipazione
alle vicende storiche della nazione. Donde il distacco, per un
verso, dal riformismo «minimalista» di Bissolati e Bonomi, a cui
rimproverava l’«avvertito pericolo d’aristocrazie proletarie, di
egoismi collettivi, qua e là emergenti» con progressivo appiattimento sull’esistente, e lo scontro, per l’altro, con la composita
sinistra intransigente-rivoluzionaria, che giudicava la linea gradualista «vana e corrompitrice». Ai nuovi rivoluzionari di primo Novecento, che avevano il culto dell’azione volontaristica e
violenta (al pari dei rumorosi esponenti delle correnti irrazionali ed estetizzanti del periodo), Turati opponeva il richiamo (proprio del «socialismo scientifico»), alla realtà economica e sociale, le cui fasi di sviluppo non si potevano «sorpassare di un salto, né per decreti dall’alto, né per impulsi subitanei dal basso».
Più complesso il rapporto col riformista Salvemini, che rimproverava ai socialisti di praticare una linea «settoriale» e «oligarchica», data la loro attenzione agli interessi dei settori più
avanzati del proletariato settentrionale, a scapito delle riforme
politiche generali che potevano maggiormente ridurre i grandi
divari Nord-Sud, città-campagna, esistenti in Italia. Nutrito di
letture e di scambi internazionali, Turati maturò presto una visione ampia dei problemi politici. Sostenne perciò che il raccordo della difesa del proletariato organizzato del Nord con le conquiste di portata generale fosse un obiettivo imprescindibile per
un movimento socialista nazionale, e non mancò di criticare le
involuzioni corporative. Nondimeno, ritenne che era lo stesso
sviluppo storico a creare l’«egemonia temporanea della parte
più avanzata del paese sulla più arretrata», che tale egemonia derivasse dalle dinamiche impresse dallo sviluppo industriale, e che,
per mettere il Mezzogiorno in condizioni di partecipare al processo di cambiamento, occorresse innanzi tutto puntare sull’alfabetizzazione delle grandi masse contadine e la diffusione dell’istruzione tecnica ad ampio raggio, sull’ammodernamento delle attività produttive e il rafforzamento delle strutture civili.
Certo, le resistenze conservatila diffuse, i limiti della prassi
giolittiana (cui rimproverava l’eccesso di empirismo e l’assenza
di un programma organico), la concezione premoderna dell’organizzazione politica, la debole egemonia delle forze sociali più
dinamiche rendevano il processo riformatore lento, parziale,
squilibrato. Né il campo riformista fu esente da una certa tendenza alla routine, una caduta di tensione ideale, una dispersione delle energie, di fronte ai molti «ostacoli frapposti dalla stessa società dell’epoca, così profondamente frammentata anche dal
lato dei suoi gruppi dirigenti, divisi al proprio interno non solo
da varietà d’interessi ma anche da diversità di cultura e di valori». Ma per Turati non c’erano alternative valide alla tenace azio-
ne di rinnovamento da compiere giorno per giorno in tutte le
pieghe della società per contribuire alla crescita civile e materiale delle classi lavoratrici e dell’intero paese, col contributo
delle altre forze progressiste esistenti.
Quanto agli esiti conseguiti con la bistrattata politica delle
riforme, Turati li considerava tutt’altro che trascurabili per le classi popolari e per l’intero paese: migliori condizioni di vita e di
lavoro, più efficace protezione delle donne e dei minori, maggiore sicurezza grazie alle leggi sociali e assicurative, una più diffusa istruzione di base con crescente impegno dello Stato nella
lotta all’analfabetismo, «il fiorire delle opere di coltura», le leggi speciali per le regioni meridionali e l’avvio di grandi opere civili, l’ampliamento della base sociale dello Stato, l’ammodernamento degli apparati pubblici, lo «sviluppo delle organizzazioni operaie e dei lavoratori dei campi» nonché l’estendersi dell’applicazione «dei concordati collettivi e degli arbitrati nei conflitti». Ai quali esiti faceva riscontro «il rapido sviluppo delle industrie, dell’agricoltura, della ricchezza nazionale e del generale benessere», insieme al diffuso fervore di iniziative sorto in
ambito locale e nella società civile, ad opera dei comuni democratici e dei tanti organismi associativi sorti e moltiplicatisi in
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quegli anni, con benefici cambiamenti, che, come continuava a
dire Turati, avvengono non «per rilevazione mistica o per trasformazione precettuale; bensì coll’esercizio, che crea le forze,
e colle riforme, che o rendono l’esercizio possibile, o ne fissano
i risultati e le conquiste in istituzioni legali».
Se dopo il congresso di Bologna del 1904 i riformisti non persero l’egemonia politica, grazie al prestigio che avevano tanto nelle organizzazioni economiche e sindacali quanto nell’elettorato, e furono perciò in condizione di tornare alla guida del partito col Congresso di Firenze del 1908, le cose cambiarono nel
1912 quando, allo scoppio della guerra di Libia, si chiuse il dialogo con Giolitti, si consumò la scissione fra il riformismo turatiano e quello di Bissolati e di Bonomi (espulsi dal partito a Reggio Emilia su proposta degli intransigenti), e si affermò definitivamente nel PSI la sinistra rivoluzionaria, che, per impulso di
uomini come Mussolini, fece crescere il peso della struttura partitica reclutando ogni genere di malcontenti e di ribelli. L’ascendente dei riformisti, tuttavia, e le loro posizioni in seno al movimento operaio erano ancora tali da consentire una ripresa di
egemonia. E con il loro radicamento nella società affrontarono
la bufera della prima guerra mondiale.
2. Di fronte a questa Turati si schierò, frenando ogni altra considerazione, accanto al proletariato socialista unanimemente
schierato per la pace. Era convinto peraltro che, una volta scoppiato il conflitto, si trattava di stare vicini alle popolazioni colpite e di non disperdere ciò che tanto faticosamente era stato costruito, contrastando le tendenze autoritarie, premendo per la
pace negoziata, non rompendo definitivamente con le forze politiche e quei settori dell’opinione pubblica che si erano schierati per l’intervento su posizione democratiche. Dopo aver affermato che dagli «italiani socialisti» nessun atto «neanche indiretto» sarebbe venuto a danno della difesa nazionale, di fronte
alla rotta di Caporetto sostenne l’impegno a resistere e a respingere l’invasione, pur sapendo che la sua posizione avrebbe suscitato un ulteriore scontro con gli intransigenti.
«Saremmo apparsi» - avrebbe affermato al congresso di Roma del 1918 - un partito antinazionale costituito da «gente che
volesse ricondurre l’Italia ai tempi precedenti al ‘59, che lavorasse a spegnere la libertà e l’indipendenza italiana e con essa ogni
possibilità di lotta e di movimento del proletariato italiano per
un lungo periodo».
E invece, una volta conclusa l’immane tragedia, occorreva riprendere il cammino sulla via della pace giusta, della legislazione sociale, della tutela dei diritti e della democratizzazione effettiva dello Stato. Si batté, in contrasto con la direzione del partito, perché i rappresentanti del gruppo parlamentare e delle organizzazioni di classe entrassero nella “commissionissima” incaricata di studiare i provvedimenti per il dopoguerra. E avviò
sulle pagine della “Critica Sociale” un dibattito sulle riforme da
promuovere dopo il conflitto, preoccupato per l’impreparazione del partito, come delle altre forze politiche, di fronte ai difficili problemi del dopoguerra.
«E se, fra un mese o due mesi, - scriveva ancora nel febbraio
del ‘20 alla Kuliscioff - mancando il grano e il carbone, la gente
scenderà in piazza e saremo chiamati [noi socialisti] a salvare il
Paese, non per la forza nostra, ma per la debolezza e impotenza
degli attuali dirigenti, che preparazione abbiamo, che cosa faremo? Non abbiamo neppure il coraggio di porci sul serio il problema. Diciamo: è l’effetto della guerra, e con questa bella diagnosi ci pare di avere assolto il debito nostro».
Contemporaneamente promosse, sempre tramite la sua rivista, una riflessione sulle diverse esperienze e anime del socialismo europeo, per contrastare il mito della rivoluzione russa, che
stava conquistando larghi settori del partito. Di fronte alle agitazioni economiche e sociali del dopoguerra, nelle quali si me-
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scolavano tendenze corporative, da lui apertamente riprovate,
e ansia diffusa di mutamento, la dirigenza del PSI pensava che
anche in Italia esistessero le condizioni per «fare come in Russia», cioè passare dal programma minimo al programma massimo, restando per altro in attesa che la rivoluzione ineluttabilmente si compisse.
Avvertendo, con grande lucidità, tutti i pericoli della posizione massimalista, Turati, ribadì con forza quanto fosse sbagliato
prendere a modello l’esempio di un paese arretrato e un programma d’azione, quello leninista, che proponeva una scorciatoia nella storia: la conquista violenta del potere e la sua gestione da parte di una minoranza organizzata, che era destinata a tradursi in «dispotismo tirannico». Continuare poi a credere al
«sorgere miracolistico della società avvenire dalla tabula rasa del
passato» e parlare di rivoluzione senza poterla e saperla fare, significava intimorire l’avversario senza piegarlo, e suscitare la
reazione autoritaria in nome dell’ordine sociale.
«Questo - affermava nel ‘19 di fronte all’ondata di agitazioni e rivolgendosi ai massimalisti - è un inganno mostruoso, è una
farsa, che per altro può tralignare in tragedia, preparando i tribunali di guerra, la reazione più feroce, la rovina del movimento per mezzo secolo, non solo sotto la compressione militarista,
ma sotto le ostilità di tutte quelle classi medie, quelle piccole classi, quei ceti intellettuali, quegli uomini liberi, che si avvicinavano a noi, che vedevano nella nostra ascensione la loro propria
ascensione e la liberazione del mondo, e che noi - colla minaccia della dittatura e del sangue - gettiamo dalla parte opposta, regaliamo ai nostri avversari, privandoci di un presidio inestimabile di consensi, di cooperazioni, di forze morali, che in dati momenti sarebbero decisivi a nostro favore. Ma noi facciamo di
peggio: noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perché è chiaro che, mantenendole nell’aspettazione
messianica del miracolo violento, nel quale non credete e pel quale non lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro
assiduo e penoso di conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa. Perché chi aspetta con cieca fede il terno al lotto, non si rimbocca le maniche e non s’industria di prepararsi il pane quotidiano. In altri termini, voi uccidete il socialismo, voi rinunziate all’avvenire del proletariato. Il massimalismo è il nullismo; è la corrente reazionaria del socialismo».
Rifiutando l’inerzia politica dei massimalisti, Turati si adoperò senza sosta per una situazione più favorevole alla linea riformista. Perciò, caduto il governo Orlando, cui rimproverava tanto la politica estera («acefala», incapace di contribuire a una vera «pace» e di risolvere i problemi aperti), quanto la politica interna (mai «un po’ sopra e un po’ in là delle piccole preoccupa-
zioni ministeriali e parlamentari», mai «un atteggiamento di riforme generose e spontanee» di fronte alla situazione postbellica), accolse con favore, nonostante le scomuniche della direzione del partito, il nuovo governo presieduto da Francesco Saverio Nitti, che aveva il merito, ai suoi occhi, di perseguire con
maggior impegno la pace, di essere aperto a un allargamento
della base sociale dello Stato, oltre che sensibile, per la storia
stessa dello statista lucano, alle grandi fratture interne e alla necessità di coniugare gli ingressi dei ceti popolari con quelli della borghesia moderna.
Le difficoltà, però, cui andò incontro Nitti (con conseguente rimpasto, dimissioni, reincarico dopo le rinunce di Meda e di
Bonomi, e definitive dimissioni) non tardarono a mettere in evidenza tutta la debolezza della classe dirigente liberale, priva di
una moderna struttura di partito che la tenesse unita e la rapportasse in modo adeguato a una società di massa in agitazione
e ai due grandi partiti organizzati del dopoguerra (il socialista e
il popolare di Don Sturzo), senza il cui appoggio non si poteva
più governare.
Le possibilità di una trasformazione dello Stato liberale in senso democratico avanzato, non erano peraltro cadute col governo Nitti, giacché anche Giolitti si diceva convinto della necessità di sostanziose riforme e di un deciso cambiamento di indirizzo politico. Intervenendo nella campagna elettorale del ‘19 col
famoso discorso del 12 ottobre pronunciato a Dronero (che, non
a caso, richiamava alla mente quello di vent’anni prima) lo statista piemontese aveva mostrato una visione realistica della situazione e si era dichiarato a favore di un nuovo ordine internazionale e di un più democratico assetto politico interno. Riconosciuta l’esigenza di restituire pieno prestigio al Parlamento, dandogli potere sulla politica estera (impossibilità quindi di
trattati segreti) e abbandonando il sistematico ricorso ai decreti-legge, Giolitti sottolineò la necessità di far pagare le tasse ai
ricchi (anche con la nominatività dei titoli azionari), di «informare la legislazione al principio che la proprietà delle terre non
da solamente dei diritti», e di introdurre una molteplicità di riforme, fra cui quelle sociali, dirette non solo a migliorare le condizioni morali ed economiche del proletariato, ma anche ad interessarlo direttamente all’aumento e al perfezionamento della
produzione. Le tendenze reazionarie, concludeva Giolitti (con parole che gli sarebbero state aspramente criticate dalla destra politica e sociale), «non potranno più prevalere, poiché l’immane
conflitto, se impose alle classi popolari i maggiori sacrifici, diede in compenso alle medesime la coscienza dei loro diritti e della loro forza; e le classi privilegiate della società, che condussero l’umanità al disastro, più non possono essere le sole dirigenti del mondo, i cui destini saranno d’ora innanzi nelle mani dei
popoli». A confermare questo orientamento dell’uomo politico
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liberale, sempre più desideroso di subentrare al governo Nitti in
difficoltà, giunse l’intervista rilasciata il 27 maggio del ‘20 alla
‘Tribuna” di Malagodi, nella quale venne ribadita, di fronte alle
«gravissime condizioni» del paese, la necessità di «un programma di vera ricostruzione», che necessariamente avrebbe dovuto essere «assai complesso, molte essendo le riforme sociali indispensabili».
Fu in questo quadro di crescenti agitazioni rivendicative,
spesso oltre il limite della protesta vigorosa, di turbolenze nazionalistiche, con atti di ribellione e scontri con gli «antinazionali», e di evidente crisi di governabilità da parte del ceto liberale, ma anche, come si è visto, di reali chances riformistiche, che
nacque la decisione di un vigoroso intervento per riproporre alle forze politiche e sociali l’unica possibile via d’uscita dalla situazione postbellica e dalla crisi del ceto dirigente in termini di
sviluppo economico e di avanzamento democratico.
3. Com’è noto, l’idea venne ad Anna Kuliscioff, che così scriveva a Turati il 18 maggio del 1920:
«Sai che cosa potrebbe essere un vero reagente in tutta la
Camera e in seno del Partito? Un tuo discorso all’apertura della
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Camera sulle dichiarazioni del governo, in cui tu esponessi nelle linee generali la messa in valore delle ricchezze italiane, di cui
ti parlò Omodeo e che ti piacque moltissimo. Sarebbe un discorso eminentemente socialista e, nello stesso tempo, un programma di ricostruzione e di rinnovamento di tutto il paese. [...] Non
importa che il Gruppo ti dia o non ti dia la facoltà di parlare a
nome suo. Parlerai per conto tuo, e dovrà essere il programma
fondamento di un governo democratico-socialista, che non mi
pare tanto lontano quanto pare a te. Ad ogni modo, potrebbe
anche determinare correnti più precise sia nel Partito, sia nel
paese, tanto da diventare piattaforma alle prossime e certo non
lontane elezioni politiche. E su tal terreno vorrei si determinasse una scissione nel Partito e la polarizzazione dei migliori elementi della borghesia verso un partito democratico-socialista
di governo».
Già da tempo impegnati sulle riforme per il dopoguerra, Turati, Anna e i collaboratori di “Critica Sociale” stavano discutendo sui diversi aspetti del problema. Sia con la firma personale
che con quella di “Critica Sociale”, che indicava il binomio Turati-Kuliscioff, Filippo intervenne a più riprese sull’argomento
del programma. Sollecitò e ottenne per le sezioni della sua rivista contributi di amici ed esperti come Treves, Matteotti, Rignano, Alessandro Schiavi, Giovanni Zibordi, Fausto Pagliari, Umberto Bianchi, Benvenuto Griziotti, e altri, tanto sull’impostazione generale, quanto su determinati problemi (case, tributi, scuola, produzione agricola, miniere, legislazione sociale). Accolse recensioni e segnalazioni di opere straniere, apparse in quel periodo sia in lingua originale che in traduzione italiana, sui problemi del dopoguerra europeo e sul modo di correggere il capitalismo senza eliminare il mercato e l’iniziativa privata: fra le altre
quelle di J.A. Hobson, (The Economics of Reparation), di E. Hauser (I metodi tedeschi di espansione economica), di S. Webb (The
Restoration of Trade Unions Conditions), di W. Rathenau (L’economia nuova), di J.M. Keynes (Le conseguenze economiche della pace). Discusse le questioni emergenti e le prospettive possibili con diversi compagni di fede politica e con tecnici amici, da
Osimo a Ruini, da Dugoni a Minguzzi, da Baldini a Omodeo; soprattutto con quest’ultimo, il quarantaquattrenne Angelo Omodeo, «un tecnico di fama e di valore mondiale», come lo stesso
Turati ebbe a dire alla Camera, «e insieme un cuore vibrante di
idealità, di vero socialista, sebbene non tesserato», da tempo collaboratore della rivista turatiana e della Società Umanitaria, e ora
attivamente impegnato nella preparazione del piano di riforme
voluto da Turati. Già prima che nascesse l’idea del discorso parlamentare, mentre sulla “Critica Sociale” proseguiva il dibattito a più voci, Filippo comunicava ad Anna il 27 febbraio 1919
di voler incontrare il tecnico lombardo (alla presenza di Nullo
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Baldini) in funzione del programma: «ha idee sulla ricostruzione delle ricchezze in Italia che mi pare dovremmo far nostre, ma
di cui bisognerebbe impossessarsi, anche dal lato tecnico»
Fu quindi sulla base di una lunga gestazione e di una conclusiva preparazione a tre, che Turati costruì il suo discorso, quale
fu pronunciato alla Camera (in parte a braccio in parte leggendo le sue note e il materiale fornitogli da Omodeo) il 26 giugno
di quel 1920, in occasione del dibattito aperto dalle dichiarazioni programmatiche del quinto e ultimo governo Giolitti, e con
il chiaro proposito di rivolgersi all’intero paese, oltre che alle forze politiche rappresentate in parlamento e nel governo.
Invitato ad entrare nel nuovo governo, Turati aveva dovuto
dire di no ancora una volta, non potendo contare che su una ridotta minoranza nel partito. Andare da soli al governo, pensava,
avrebbe comportato una ripetizione dell’esperienza di Bissolati.
Ancora una volta, però, col suo nuovo intervento, pronunciato
a titolo personale, non «per incarico formale del gruppo», ma in
nome del socialismo italiano, di cui sentiva di interpretare le ragioni più profonde, ribadì con forza la validità delle riforme democratico-socialiste come unica via d’uscita positiva dalla crisi
economica, sociale, politica e morale in cui era caduto il paese.
Rivolgendosi in particolare al suo vecchio interlocutore tornato sul ponte di comando, Turati rilevava come dal discorso di
Dronero dell’ottobre del ‘19 (nel confronto dialettico col quale
fu costruito da Turati il Rifare l’Italia!) alle finali dichiarazioni
programmatiche del governo, si fosse di fatto passati, in modo
si potrebbe dire tutto giolittiano, da un’impostazione di ampio
respiro a un asciutto elenco di misure, spesso generiche, lacunose e sfocate, specie sul piano della politica economica.
Per Turati ciò che mancava nelle comunicazioni del nuovo
governo era il passaggio da una «mentalità preguerra» a una
«rinnovata mentalità di dopoguerra», che a suo giudizio era invece necessaria, in presenza di una crisi ampia quanto complessa, che riguardava l’intera compagine sociale come i fondamenti stessi del sistema liberale, e che richiedeva, per essere superata, una serie di interventi non solo urgenti ma anche organici e
decisamente innovativi.
Si è spesso parlato sbrigativamente dell’ultimo Turati come
di un sorpassato, al quale ormai sfuggivano gli effetti dirompenti della guerra e i termini nuovi della lotta politica italiana. In
realtà tutto il programma di Rifare l’Italia!, avanzato in opposizione dialogica a quello di Giolitti (accettabile nei suoi singoli
punti, ma «in ritardo di sei anni» nell’impianto complessivo),
partiva proprio dall’esperienza della guerra e continuamente si
riferiva ai suoi effetti. Una guerra che avrebbe dovuto «uccidere tutte le guerre», e che aveva invece prodotto «la balcanizzazione di tutta l’Europa» e generato la radicalizzazione dello scontro politico, «lo spirito di indisciplina [in] tutte le classi sociali»,
il disprezzo «della vita umana, dell’altrui come della propria».
Una guerra che aveva distrutto tante risorse e creato un enorme
debito che ostacolava la riconversione all’economia di pace e le
riforme necessarie per ridurre le forti tensioni sociali.
Nel far fronte alla situazione, il programma del governo si proponeva di temperare il costo della vita intervenendo sull’inflazione e combattendo la speculazione; di migliorare la bilancia
commerciale e la disponibilità di cereali; di ridurre le spese e
aumentare le entrate dello Stato, anche con misure drastiche
(prevedeva fra l’altro un’inchiesta sulle spese di guerra, l’avocazione allo Stato dei sovraprofitti speculativi, una maggiore progressività della tassa successoria, un’imposta sulle automobili,
la nominatività dei titoli al portatore). Un programma, insomma, più impegnato sul piano finanziario e in chiave «punitiva»,
che su quello economico propulsivo, non presentando su questo secondo versante che misure generiche e disorganiche.
Per Turati, invece, proprio al potenziamento delle capacità
produttive si doveva soprattutto puntare.
«Tanto più, che, a rendere più spinose tutte le questioni, più
difficili tutti i rimedii, - scriveva - concorre la crisi psicologica,
la quale è causa ed effetto insieme della crisi economica, generate entrambe dalla guerra, mantenute dalla pace che non è pace; crisi che è una vera psicosi, diffusa, molteplice, universale,
ma più grave in Italia, perché è paese economicamente fra i più
deboli di Europa».
L’insistenza sul tema dello sviluppo economico è stato visto
come un segno dell’infatuazione di Turati per le teorie produttivistiche1, anziché come pilastro portante, ma non esclusivo, di
un articolato disegno programmatico.
In realtà, la «restaurazione economica del Paese» era da Turati considerata come parte di un progetto ‘a tutto tondo’, dove
ogni aspetto - l’economico, il sociale, il politico - s’intrecciavano e si integravano, in una prospettiva di trasformazione dello
Stato liberale in senso democratico-socialista, ovvero di «realistica rinnovazione sociale» per mezzo «della forza del proletariato e di tutte le forze che possono convergere ad essa». Argomentava infatti Turati che, se per «risanare le enormi piaghe
della guerra» occorreva il «massimo sforzo per la massima produzione», tale sforzo poteva essere compiuto solo col più ampio
consenso dei lavoratori, il quale, a sua volta, non poteva essere
ottenuto se non modificando i «rapporti fra Stato e cittadini fra
classe dominante e classe soggetta», trasformando le relazioni
fra «capitale e lavoro», favorendo la partecipazione operaia alla vita delle imprese, con il sistema delle «azioni di lavoro», o
con gli altri «sistemi di cointeressenza» (di cui ampiamente si
parlava), e «alla direzione e al controllo della produzione nazioCritica Sociale [
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nale» attraverso gli appositi organi di rappresentanza esistenti
o da istituire.
Al di là delle misure punitive contro il «pescecanismo» delle industrie truffatrici e parassitarie, era «un nuovo statuto dei
lavoratori» che andava varato per ottenere l’adesione popolare
ai programmi di risanamento e di sviluppo produttivo, giacché,
per Turati, «non si possono creare veri miglioramenti economici senza certe riforme politiche - e questo dico alla borghesia - e
non si riesce a trar profitto dalle riforme politiche - e questo dico ai miei compagni - senza certi coefficienti economici». Insomma, aggiungeva, «è unicamente a questo patto che la situazione può essere salvata per tutti, [...] per noi e per voi».
Anche in campo elettroirriguo, il ruolo dello Stato (da Cavour
attivato con decisione per lo sviluppo ferroviario del tempo)
non poteva non essere centrale, data l’entità delle spese e dei rischi e data l’importanza strategica che il settore aveva per una
nazione come l’Italia priva di carbone e bisognosa dell’elettricità come fonte energetica alternativa. I singoli industriali potevano avere interesse per i piccoli bacini destinati a soddisfare i
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bisogni delle loro aziende, ma non a intraprendere da soli la realizzazione dei grandi invasi artificiali, che erano necessari per
provvedere «all’irrigazione, all’acqua potabile, al riscaldamento, all’illuminazione, alle industrie, non ancora esistenti» in tanta parte del paese.
Per essere però pienamente efficace, aggiungeva ancora Turati, l’azione pubblica, impegnata a realizzare questa sorta di
‘New Deal’ ante litteram, doveva migliorare l’efficienza e la preparazione dell’intero apparato amministrativo, così come, per essere profondamente incisiva, doveva potenziare l’istruzione diffusa, l’utilizzazione del sapere tecnico e lo sviluppo della ricerca scientifica, in quanto fattori imprescindibili e strategici di
un’economia moderna. Tra gli insegnamenti più fecondi dei fondatori del «socialismo scientifico» c’era, per Turati, la particolare attenzione per i mezzi tecnici di produzione.
E Turati, rivolgendosi ai compagni di partito, affermava in
Rifare l’Italia!: «Il socialismo è nella macchina a vapore, più che
negli ordini del giorno; è nella elettricità, più che in molti [...] dei
nostri congressi». A mo’ di premessa posta all’inizio del discorso definiva la politica una «tecnica» impegnata a «interpretare
l’epoca in cui si vive», e a dare ai problemi collettivi le risposte
più adeguate alle trasformazioni economiche e sociali. Proprio
in considerazione degli straordinari sviluppi scientifici e tecnologici contemporanei si poteva anche affrontare la questione
meridionale in termini nuovi, perché era realmente possibile
«fare in dieci anni ciò che in altri tempi esigeva qualche secolo». Cosi dicendo evocava (senza citarle) le pagine in cui Cattaneo aveva parlato del secolare accumulo di fatiche quale fondamento della prosperità lombarda. E cattaneanamente aggiungeva, a scanso e a correzione di possibili equivoci riduzionistici, che «il miracolo» si sarebbe potuto compiere non «con la sola bonifica, coi soli serbatoi, con la sola elettrificazione; ma con
tutte queste cose unite e contemporanee», e, ovviamente, «rimuovendo gli ostacoli artificiali, storici, tradizionali e soprattutto
politici».
E’ nel quadro di questo ragionamento, vera ossatura dell’intera strategia turatiana, che vanno considerati anche i singoli elementi del discorso. Il quale, è appena il caso di dirlo, non va letto come un saggio scritto a tavolino, ma come un discorso presentato alla Camera, pensato e pronunciato per interagire innanzi tutto con i diversi gruppi presenti e con i protagonisti del
gioco politico del tempo. Un discorso quindi, che per gli obiettivi perseguiti, faceva anche ampio ricorso all’abituale schermaglia parlamentare e a tutto l’armamentario di una consumata abilità oratoria, pronta a passare dallo sdegno all’ironia, dalla dimostrazione razionale all’entusiasmo coinvolgente, dall’ottimismo
parenetico con cui presentava le prospettive di sviluppo, al piglio ‘giacobino’ con cui attaccava la borghesia parassitaria e agra-
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ria, dalla proposta di colpire le successioni ereditarie di origine
non immediata alla critica (per lui abituale) verso gli scioperi nei
servizi pubblici, dal forte impegno meridionalistico all’omaggio alla scienza e alla tecnica (chiaro messaggio rivolto ai ceti tecnici in espansione rivendicanti un più adeguato riconoscimento del loro ruolo sociale), il tutto nel quadro del dichiarato abbandono della distinzione tra programma minimo e programma massimo che doveva consentire al socialismo italiano un’azione politica dinamica ed efficace.
Quando si va al cuore del discorso turatiano è difficile non
riconoscere l’originalità della proposta complessiva e la lungimiranza della visione politica che vi è contenuta. Come non è
difficile cogliere l’intenzione di incalzare l’uomo di Dronero sul
terreno da lui stesso indicato nel discorso del ‘19, e di dissuaderlo dal riprendere il suo vecchio modo di governare, appoggiandosi ora a questa ora a quella componente parlamentare. Quel
vecchio modo che lo avrebbe portato anche a dare spazio ai fascisti, facendoli partecipare ai «blocchi nazionali», e a indire
nuove elezioni in un clima di violenze, pensando, dopo l’occupazione delle fabbriche, di ridimensionare a suo vantaggio i partiti di massa e il PSI in particolare.
Contro il clima di strisciante guerra civile, che si stava accentuando a conclusione del ‘biennio rosso’, Turati intervenne il 24
giugno del ‘21 alla Camera per stigmatizzare la «sistematica abdicazione dello Stato» dal suo dovere primario di impedire le violenze da cui la vita pubblica italiana era sempre più stravolta,
con grave pregiudizio per le istituzioni e le riforme. Dopo aver criticato gli errori di Giolitti, Turati invocò in quella sede, come in
tante altre, il disarmo di tutte le bande armate, di qualsiasi colore, non senza accusare i fascisti di aver risposto «con una controrivoluzione di sangue a una rivoluzione» fatta per lo più di parole. Chiese la creazione di un «governo forte», autorevole, dotato
di «una grande visione di insieme», sostenuto dalle forze riformatrici (con o senza la diretta partecipazione socialista) e impegnato oltre che sul tema dell’indispensabile «imperio della legge», sul
programma di rigenerazione e di sviluppo propugnato.
5. Un rilancio in grande stile del suo «progetto per l’Italia»,
avvenne il 22 luglio del ‘21, in occasione della presentazione alla Camera del nuovo governo presieduto dal democratico-sociale Bonomi, già suo allievo e collaboratore. Nel nuovo intervento, Turati ribadiva nella sostanza ciò che aveva esposto un anno prima e in più occasioni riproposto, chiarendo alcuni punti,
ammorbidendo certi toni radicali, rispondendo direttamente o
indirettamente alle obiezioni che gli erano state mosse, come già
aveva cominciato a fare nel discorso del 24 giugno del ‘21, dove
aveva confermato l’esclusione di un’attuazione del programma
affidata a «un’azione puramente governativa» e a una serie di «bu-
rocratiche statizzazioni», a favore di un’ampia azione di coordinamento e di indirizzo volta a mobilitare i «consorzi delle forze» esistenti.
Proprio in ragione della crisi e del suo ulteriore aggravamento Turati insisteva con tutti sulla necessità di un’ampia intesa tra
le forze politiche e sociali interessate alla stabilità dello Stato liberale e alla sua trasformazione in senso democratico. E in merito alla compagine di governo continuava a sollecitare il PSI a
non mancare all’appuntamento («sarà con l’alleanza di alcuni
partiti, - affermava - sarà con la partecipazione nostra al Governo..., sarà con benevola attesa di fronte ad un Governo, a determinate precise condizioni»). Anche allora, però, escludeva una
diretta partecipazione sua e dei suoi amici in totale rottura col
partito. «Non si va al potere - affermava ancora al congresso socialista di Milano (ottobre 1921) - senza tutto il partito, senza il
consenso vivo delle masse organizzate. [...] Sarebbe un fiasco, un
sacrificio inutile».
A farlo desistere da una scissione non erano solo l’amore per
l’unità del partito, su cui pose l’accento Rosselli nelle sue mirabili pagine dedicate al «maestro del socialismo italiano», ma anche, come ha osservato di recente Sabbatucci, il cambiamento
dei rapporti di forza fra le frazioni interne. L’uscita dei comunisti dal PSI, il declino in atto del massimalismo e la ripresa dei riformisti (triplicatisi a Milano rispetto a Livorno, passando
dall’8,7% degli iscritti al 23,8%) gli faceva sperare in uno spostamento del partito verso una politica di collaborazione in difesa della democrazia. Sempre in questa direzione Turati si adoperò nel marzo del ‘22 perché si giungesse, tramite i liberal-democratici, «ad un accordo programmatico e tattico» fra i socialisti e i cattolici, che avevano posizioni simili in ordine alla politica estera e alla politica sociale, rappresentando gli uni e gli
altri larghi interessi popolari.
A quel punto però la crisi del sistema liberale e l’incapacità
delle forze democratiche di costituire una compagine minimamente coesa avevano già dato la stura “alle tendenze più reazionaria Come previsto da Turati, la grande paura provocata dall’incessante aumento delle agitazioni operaie, aveva spostato molte forze nel campo avverso alla democrazia e nel fronte favorevole alla guerra ingaggiata dallo squadrismo fascista contro il movimento operaio e socialista; mentre larga parte del ceto dirigente trattava col fascismo in ascesa, nell’illusione di poterlo
normalizzare dopo averlo utilizzato; e mentre le forze dell’ordine e le autorità dello Stato ben poco facevano per arginare la
violenza delle bande armate sempre più aggressive nei confronti di ogni struttura organizzativa popolare, comprese le leghe
bianche e le cooperative repubblicane.
Superando le remore che in precedenza lo avevano frenato,
il 29 luglio del ‘22 Turati salì le scale del Quirinale per dichiaraCritica Sociale [
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re al re la propria disponibilità ad appoggiare un governo liberale impegnato nel ripristino della legalità e della libertà di organizzazione. Ma invano ormai: tre mesi dopo il fascismo era già
al potere.
Sulla sua tardiva decisione (con conseguente espulsione dei
riformisti dal PSI e successiva costituzione da parte loro del Partito socialista unitario), lo stesso Turati sarebbe ritornato, con la
capacità di analisi critica che gli era propria, sia nella lettera del
19 maggio 1924 a Leon Blum, sia in quella a Nenni apparsa
sull’“Avanti!” di Zurigo del 1930. «La scissione del 1922 -scriveva in quest’ultima - fu tardiva. Altri la deplora come scissione;
io come tardiva, ormai, quindi inutile. Se avevamo prima la libertà di manovra, che l’unità forzata impedì, forse il fascismo non
trionfava: certo non trionfava così» Un ritardo di decisione e insieme di comprensione dell’accelerazione subita dalla crisi con
l’entrata in scena del fascismo squadrista, che riguardò però non
solo Turati, ma tutti i protagonisti della politica italiana del periodo, immersi in un clima di contrapposizioni fra tutte le forze politiche e di divisioni interne a ciascuna, nel quale finivano
per prevalere più le incompatibilità e i veti reciproci che l’esigenza di aggregazione.
Di fronte alla completa trasformazione del sistema liberale
in dittatura, al vecchio Turati, come a tanti altri antifascisti divenuti sorvegliati speciali e perseguitati, non restò che espatriare clandestinamente alla fine del 1926, aiutato da Carlo Rosselli, Ferruccio Farri, Sandro Pertini e Italo Oxilia. Iniziava così a Parigi, in compagnia di Bruno Buozzi e di altri esuli, l’ultimo periodo del suo impegno politico (ma senza più il conforto e il
consiglio di Anna spentasi un anno prima). Un periodo che vide Turati riprendere la sua attività, fatta come sempre di iniziative politiche notevoli e insieme di operazioni modeste ma necessarie. Senza sosta si adoperò a raccogliere le forze democratiche nel fronte unico della Concentrazione antifascista (aprile
1927) e assunse la direzione del bollettino “Italia”; cercò di sensibilizzare i paesi liberi sul pericolo del fascismo, generalmente
ancora considerato come un fenomeno tutto italiano; propose
la federazione democratica europea come baluardo contro la
guerra e la diffusione della tirannia; proseguì con tenacia la sua
battaglia in nome del socialismo, della democrazia e della libertà, finché la morte lo colse nella notte del 29 marzo 1932.
Carlo G. Lacaita
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«Se poi rimaniamo in qualche modo marxisti - affermerà il 1° ottobre 1906 - è nelle grandi linee, nello spirito generale della dottrina,
nel concetto e nella pratica della lotta di classe e del materialismo
storico, non affatto nelle speciali teorie che l’esperienza e il progresso scientifico misero in forse, che non ci sono affatto necessarie»
(cit. in N. Valeri, Turati e la Kuliscioff, cit., p. 80).
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