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VERITÀ E FILOLOGIA. PROLEGOMENI AD UNA

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VERITÀ E FILOLOGIA. PROLEGOMENI AD UNA
VERITÀ E FILOLOGIA.
PROLEGOMENI AD UNA TEORIA CRITICO-STORICISTICA
DEL NEOUMANESIMO
Giuseppe Cacciatore
1.
Le riflessioni che seguono muovono dal convincimento che si possa considerare plausibile una mossa teorica (che è anche motivo di azione pratica)
che dalla critica dell'umanismo – quella classica per intenderci: da Heidegger
a Sartre, da Lacan a Derrida, e non quella volgarmente ideologica dei nostri
giorni – passi all'umanesimo come critica. Nel corso della seconda metà del secolo XX si è sviluppata una critica radicale dell'umanismo e, in generale, di
tutte le filosofie che hanno posto al centro della realtà l'uomo, la soggettività, l'individualità storica. Nel corso dell'ultimo cinquantennio sono venute,
ad esempio dallo strutturalismo, dalla psicoanalisi, dal decostruzionismo
forme esplicite di antiumanismo basate essenzialmente sul convincimento
che con il solo richiamo all'umano e alla centralità del soggetto non si è in
grado di capire e interpretare la crisi e il dissolvimento della modernità.
Nell’ultimo scorcio del secolo passato e nei primi anni dell’attuale si è sviluppata invece una articolata posizione teoretica e storico-culturale, a un
tempo, che ha individuato la percorribilità di un itinerario critico volto non
solo alla riabilitazione dell’umanesimo, ma alla individuazione di categorie
adeguate per un umanesimo radicalmente modificato e volto all’interazione
con i temi e le proposte della filosofia e della politica interculturali.
2.
Un tentativo filosofico e anche storiografico di recuperare l'idea di un umanesimo democratico e progressista è quello proposto, qualche anno or sono,
da Edward Said professore di Letteratura comparata alla Columbia
University e orientalista di fama mondiale1. La difesa dell'umanesimo, per
Said, si muove lungo un duplice binario: per un lato, l’opposizione al discredito in cui oggi versano gli Studia Humanitatis, in un mondo nel quale ormai
prevalgono tecnocrazia, managerialità, scientificizzazione globale dell'universo; per l'altro, la formulazione di una nuova prospettiva dell'umanesimo
considerato innanzitutto come critica del presente e come strumento di rilancio della democrazia. Uno degli strumenti centrali dell'umanesimo come
critica è secondo Said un ritorno alla filologia. Ciò infatti di cui ha bisogno la
critica filosofica e democratica è lo studio e la ricerca dei fatti e delle loro
ragioni, che si contrappone al possesso dogmatico della verità, di una sola
verità. Si capisce come gli autori di riferimento di Said siano Vico e Auerbach: Vico per aver dato un fondamento certo alla storicità del mondo umano e per aver sottolineato l'importanza della filologia per lo studio e la
1
Di Edward Said, oltre al fondamentale Orientalismo (1978), Feltrinelli, Milano 2007, cfr.
anche, in relazione ai temi qui dappresso svolti, Il mio diritto al ritorno, Nottetempo, Roma
2007; Id., Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture ed altri saggi Feltrinelli, Milano 2008; Id., Sempre nel posto sbagliato, Feltrinelli, Milano 2000; Id., Umanesimo e critica democratica. Cinque lezioni, tr.it. di M. Fiorini, intr. di G. Baratta, Il Saggiatore, Milano 2007; Id., Vico e la disciplina dei corpi e dei testi (1976), in Id., Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 121 e ss.
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1
comprensione di esso; Auerbach per aver, nel suo grande libro Mimesis, elaborato una teoria del testo che si rivela nella sua storicità e corporeità. «Il
metodo dell’interpretazione dei testi – scrive il grande filologo romanzo –
lascia qualche giuoco al criterio dell’interprete; egli ha la possibilità di scelta
e di porre l’accento là dove gli piace. Ciò nonostante, nel testo deve sempre
potersi ritrovare quanto egli afferma […]. In ricerche di questa specie non si
ha a che fare con leggi, ma con tendenze e correnti, che s’incrociano e si
completano nei modi più vari»2. Per Vico come per Auerbach la realtà è interpretabile filologicamente, come un testo, come lo stesso mondo dell'uomo. Said ritiene che, a partire da queste grandi lezioni, si possa costruire un
nuovo approccio all'umanesimo, radicato nel testo e nel linguaggio e in grado, altresì, di elaborare una forma di conoscenza storica basata sulla capacità
dell'individuo non solo di assorbire e accumulare conoscenze, ma soprattutto di farle, di crearle. È ciò che Todorov chiama, in riferimento alla lettura e
all’interpretazione di un testo, «ricerca di verità e di giustizia» dentro un più
ampio e decisivo compito di comprensione e conservazione della cifra umana, di tutto ciò che riguarda la conoscenza dei comportamenti sociali, delle
forme politiche, delle relazioni interculturali, delle opere e degli ideali umani.
«Abbiamo bisogno di conoscere questa “cifra umana” non soltanto perché
la conoscenza in sé è motivo di gioia, o perché potremmo trarne alcuni vantaggi concreti, ma anche perché i valori dell’umanesimo, che permettono di
orientare la nostra azione più a lungo termine, devono poggiare sui tratti costitutivi dell’identità umana»3. Ma l’essenza della cifra umana non è mai data
una volta per tutte, ha bisogno di essere sempre di nuovo conquistata e oggettivata nel rapporto comunitario. Perciò, «i valori dell’umanesimo non sono inventati, bensì scoperti»4.
3.
Il rapporto tra filologia e critica democratica è meno eccentrico di quanto
possa apparire a prima vista, così come l'accostamento tra Gramsci, Vico e
Said non è arbitrario5. Per quanto concerne Gramsci, si possono leggere, nei
Quaderni del carcere, passi che ci aiutano a capire il nesso tra filologia e critica
politica. Gramsci invita a guardarsi da una storia che faccia violenza ai testi,
che manipoli il passato e sovverta l'ordine dei valori. Perciò la filologia è vivente, nel senso che il rigore filologico, il rispetto della verità, l'aderenza ai
testi e alle testimonianze ci aiutano a guardare obiettivamente al passato. Sul
piano teorico la filologia vivente significa l'acquisizione di uno dei principali
motivi del materialismo storico: il rifiuto di una concezione eterna, fissa ed
immutabile della natura umana e l'idea, invece, che la natura dell'uomo è
condizionata storicamente e che dunque ogni fatto storico deve essere accertabile con il metodo della filologia e della critica. Non deve allora stupire
2
Cfr. E. Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (1946), con un saggio introduttivo di A. Roncaglia, Einaudi, Torino 19724, vol. II, p. 342.
3
T. Todorov, Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in loro. Saggi 1983-2008, (2009), Garzanti, Milano 2011, p. 16. «L’autonomia del soggetto è uno di questi valori, infatti sappiamo come
l’essere umano possieda una coscienza e una immaginazione che gli permettono di esplorare con la mente l’infinità dello spazio e del tempo e anche di concepite valori e ideali che
orientano la sua azione» (ibidem).
4
Ibidem.
5
Ha messo intelligentemente in relazione Vico, Auerbach e Said, M. Gatto, Da Vico a
Gramsci: Said e la lettura discorsiva della storia, in «Critica marxista», 2011, 3-4, pp. 88-96.
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che Gramsci individui nel marxismo – con una movenza che anche Said avrebbe adottato – non solo la filosofia della rivoluzione, non solo la critica
dell'economia politica, ma anche una vera e propria «filologia della storia e
della politica». La filologia vivente, per Gramsci come per Said, è «l'espressione
metodologica dei fatti particolari», delle «individualità definite e precisate».
Nel Quaderno 16 § 36, Gramsci sostiene che occorre sottoporre alcune tendenze della filosofia della prassi allo stesso tipo di critica che lo storicismo
moderno ha rivolto alla vetusta filologia (come del resto al vecchio metodo
storico). Il genere di filologia e di metodo storico a cui si riferisce Gramsci
si erano cristallizzati in forme ingenue di dogmatismo e sostituivano l'interpretazione e la ricostruzione storica con la descrizione esteriore e l'elencazione delle fonti grezze spesso accumulate in modo disordinato e incoerente. Nel Quaderno 7, § 67, dove appare l'espressione «filologia vivente», si legge
che «l'esperienza del materialismo storico è la storia stessa, lo studio dei fatti
particolari, la “filologia”». Qui Gramsci contrappone il metodo filologico al
metodo statistico, mutuato dalle scienze naturali. «La “filologia” è l'espressione metodologica dell'importanza dei fatti particolari intesi come “individualità” definite e precisate». Il metodo della statistica, invece, noto come
metodo dei grandi numeri, non contempla il particolare nella sua individualità e tende a considerare l'ambito della politica e della storia come statico e
riducibile a leggi generali. In realtà la legge dei “grandi numeri” può essere
applicata alla storia e alla politica solo fino a quando le masse sono ritenute
passive in rapporto alle questioni che interessano lo storico e il politico. Rispetto a tale «incitamento alla pigrizia mentale e alla superficialità programmatica», l'azione politica tende a far uscire le grandi moltitudini dalla passività e dunque a smantellare la legge statistica. Queste considerazioni tornano
nel Quaderno 11, § 258, dove Gramsci intende allargare la sfera della filologia rispetto a come è intesa generalmente: «la filologia è l'espressione metodologica dell'importanza che i fatti particolari siano accertati e precisati nella
loro inconfondibile “individualità”». Qui il contesto è esplicitamente politico: Gramsci sta meditando sull'affermarsi, nella funzione direttiva dell'arte
politica, di organismi collettivi (i partiti) a detrimento di singoli individui, di
capi individuali o carismatici. A riguardo Gramsci rileva che, con il consolidamento dei partiti di massa e il loro rapportarsi in modo organico alla vita
economico-produttiva della massa stessa, si modifica la percezione dei sentimenti popolari. La conoscenza e il giudizio di tali sentimenti non nasce
più, come quando al vertice politico c’è un capo-interprete delle condizioni
del popolo, da un’intuizione combinata con leggi statistiche, cioè per via razionale e intellettuale, ma, nel caso degli organismi collettivi, avviene «per
“compartecipazione attiva e consapevole”, per “con-passionalità”, per esperienza dei particolari immediati, per un sistema che si potrebbe dire di “filologia vivente”». Gramsci così riafferma il convincimento che la filologia non
sia un chiudersi dell'intellettuale nel mondo dei testi isolandosi dalle dinamiche vive del reale, ma possa valersi di un'accezione più ampia – l'aderire organicamente ed empaticamente alla vita più intima delle masse senza sacrificare l'individualità alla generalità – che stimola un'idea e una pratica di cultura simbioticamente innestate nella sfera politica.
6
Quaderni del carcere, edizione V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1845.
Ivi, pp. 856-857.
8
Ivi, p. 1429.
7
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3
4.
Nel saggio di Said del 1995, Storia, letteratura e geografia9, si trovano alcune
precise tracce interpretative per capire a fondo la prospettiva filosofica, politica e culturale di Gramsci. Mettendo a fuoco l'ampiezza e l'inorganicità
dell'edificio teorico gramsciano, è possibile cogliere, spiega Said, la portata
che la formazione essenzialmente filologica ha avuto nella riflessione del
pensatore di Ales: in altre parole, come Vico, Gramsci comprende a fondo il
complesso legame che «salda parole, testi e realtà alla storia politico-sociale e
a distinte entità fisiche»10. Sempre nel medesimo saggio, Said definisce il lavoro intellettuale di Gramsci come un'attività volta innanzitutto a sovvertire
la tradizionale divisione del mondo in dominanti e dominati. Abbracciando
una visione storicistica che impedisce di vedere le cose in una loro presunta
fissità e immutabilità, e studiando il nesso tra idee, istituzioni e classi, Gramsci mette in luce che le idee non sono né eterne né innate, ma non nascono
neanche spontaneamente dalla testa del singolo individuo. Egli si interessa
alle idee e alle culture in quanto situate nella storia, in rapporto a precisi
contesti politici e sociali, in quanto specifiche forme che persistono all'interno della complessa e discontinua società civile. Idee, testi, scritti sono radicati in situazioni geografiche concrete che li rendono possibili e forniscono loro «una particolare estensione istituzionale e temporale»11. Perciò
Gramsci è contrario ad ogni tendenza omologatrice e uniformatrice della
società, così come è critico verso ogni interpretazione deterministica dell'economia, della società e della storia. La storia, allora, deriva, secondo l'interpretazione che Said dà di Gramsci, da una sorta di «geografia discontinua»12,
in cui giocano insieme un ruolo importante l'attenzione ai contesti e una idea direttiva che è quella del conflitto generale tra dominanti e dominati.
All'inizio di Storia, letteratura e geografia, Said chiarisce bene il concetto della
filologia come scienza storica. In quest'ottica egli prende le mosse da un
importante saggio di Auerbach, Philologie der Weltliteratur (Filologia della letteratura mondiale), del 1952. Qui Auerbach esalta lo studio della realtà umana,
non fosse altro che per il fatto che noi non ne possediamo un'altra. Al centro di questa realtà si pone la storia. «La storia è ciò che ci tocca più direttamente, ci coinvolge più profondamente e ci porta più insistentemente alla
coscienza di noi stessi, perché costituisce l'unico oggetto di studio in cui gli
uomini si presentano davanti a noi nella loro interezza. [...] La storia interna
degli ultimi millenni, oggetto della filologia in quanto disciplina storicistica, è
la storia dell'umanità giunta a un'espressione propria»13. Auerbach, dunque,
rappresenta per Said, il prototipo del filologo che raccoglie e presenta il materiale storico, individuandone, però, oltre l'ammasso informe dei fatti, dei
testi e delle testimonianze, una unità che «il filologo interpreta in base a un
prospettivismo storicista»14. L’intelligente utilizzazione che Auerbach compie della definizione goethiana di Weltliteratur serve a capire una delle tra9
In E. Said, Nel segno dell'esilio, trad. it., Feltrinelli, Milano 2008, pp. 505-525.
Ivi, p. 517.
11
Ivi, p. 518.
12
Ibidem.
13
E. Auerbach, Filologia e letteratura mondiale, a cura di E. Salvaneschi e S. Endrighi, Book
Editore, Castelmaggiore 2006, pp. 37-39.
14
E. Said, Storia, letteratura e geografia, cit., p. 507.
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sformazioni più radicali del moderno: il restringersi dello spazio della letteratura mondiale e la progressiva perdita del carattere di molteplicità del
mondo. Il rinnovato appello alla funzione della Weltliteratur fa, però, che si
colga quel positivo e particolare aspetto dell’umanità: «la fecondazione reciproca del molteplice; suo presupposto è la felix culpa della frammentazione
dell’umanità in una moltitudine di culture»15. Secondo Auerbach, la filologia
è una disciplina innanzitutto interpretativa, capace di connettere lo sguardo
sul dato singolo, sull'evento isolato, sul testo particolare con la visione più
ampia offerta dalla prospettiva sulla realtà propria di ogni età storica. Il sapere filologico assunse consapevolezza teorico-critica nel momento in cui
non si limitò alla raccolta e alla selezione dei materiali trovati, ma si impegnò
alla «sua penetrazione e utilizzazione per una storia interna dell’umanità,
volta ad acquisire una nozione dell’uomo unitaria nella sua molteplicità»16. Si
profila, dunque, anche per Auerbach, una visione attiva e propositiva della
filologia, vera e propria scienza storico-etica della modernità. «All’interno
della realtà del mondo, la storia è ciò che ci tocca più direttamente, ci coinvolge più profondamente e ci porta più insistentemente alla coscienza di noi
stessi, perché costituisce l’unico oggetto di studio in cui gli uomini si presentano davanti a noi nella loro interezza: e per oggetto della storia, in questo
contesto, non si intende solo il passato, bensì il procedere degli eventi in
generale, inclusivo, quindi, di ciò che, volta per volta, è presente. La storia
interna degli ultimi millenni, oggetto della filologia in quanto disciplina storicistica, è la storia dell’umanità giunta a una espressione propria. Essa contiene i
documenti della spinta potente e avventurosa grazie alla quale gli uomini
prendono coscienza della loro condizione e realizzano le loro possibilità intrinseche»17. Essa distingue «una particolare prospettiva sulle cose che deve
coincidere con la specifica prospettiva sulla realtà sviluppata in ogni dato
periodo storico»18. Quest'idea, sostiene Said, anche in considerazione
dell’ottima conoscenza che Auerbach aveva di Vico19 (avendolo tradotto in
tedesco), consegue dalla teoria vichiana dell'unità dei cicli storici. La scienza
fondata da Vico leggeva, ad esempio, i poemi omerici, non come se fossero
stati scritti nel XVIII secolo, ma come il frutto dei tempi primitivi da cui
scaturivano, l'età – la giovinezza dell'umanità – in cui metafora e poesia erano ancora utilizzate per comprendere e costruire la realtà. Pertanto, «la filologia storicista [...] è la disciplina che dalla superficie delle parole fa emergere la vita di una
società, per come vi è stata immersa dall'arte del grande scrittore»20. Da quest'ottica,
15
E. Auerbach, Filologia e letteratura mondiale, cit., p. 31.
Ivi, p. 35.
17
Ivi, pp. 37-39. Il corsivo è mio.
18
E. Said, Storia, letteratura e geografia, cit., p. 507.
19
Su Auerbach e Vico restano ancora preziosi gli spunti interpretativi offerti da F. Tessitore, Su Auerbach e Vico, in «Bollettino del Centro di Sudi Vichiani», II 1(972), pp. 81-88. Tessitore, tra l’altro, discute anche il saggio di D. Della Terza, Auerbach e Vico, in Critica e storia
letteraria. Studi offerti a M. Fubini, Padova, 1970, pp. 820-841. Tessitore mette opportunamente
in luce la lettura storicistica di Auerbach, nella linea però non dello storicismo crociano,
quanto piuttosto di quello critico e problematico di Troeltsch e di Meinecke. Ma Auerbach
giunge, secondo Tessitore, ad una originale proposta di relazione tra «storicismo prospettico e filologia (…) dove filologia è scienza dei particolari che non smarrisce la capacità di
valutare e giudicare nell’hic et nunc di ogni esistenza da cui sono fatte le opere da interpretare» (F. Tessitore, Su Auerbach e Vico, cit., p. 87).
20
Ibidem. Il corsivo è mio.
16
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quella della «commensurabilità, o [...] corrispondenza e unione tra storia e
letteratura»21, deriva la conclusione che quest'ultime sono, dunque, attività
temporali e possono svilupparsi più o meno parallelamente all'interno di
uno stesso ambiente, comune anche alla critica.
5.
Nel saggio Il ritorno alla filologia Said tematizza ancora una volta il nesso tra
filologia e storia: la filologia è «il dettagliato e paziente esame delle parole
stesse e delle strutture retoriche con le quali gli esseri umani usano il linguaggio, esseri umani che vivono nella storia»22. Qui Said rievoca ancora la
Scienza nuova di Vico quale opera che «propugna una rivoluzione interpretativa basata su una sorta di eroismo filologico»23. Gli esiti teorici di questa rivoluzione dicono, come già aveva sostenuto anche Nietzsche, che la storia umana è una schiera di metafore in movimento, il cui significato va di volta in
volta decriptato attraverso interpretazioni che prendono avvio dalla forma
delle parole. Vico rivendicava appunto il fatto che nella sua opera la filosofia
si poneva ad esaminare la filologia, che è «la dottrina di tutte le cose le quali
dipendono dall'umano arbitrio, come sono tutte le storie delle lingue, de'
costumi e de' fatti così della pace come della guerra de' popoli»24. Le parole,
scrive Said, sono allora pregne di realtà, ma veicolano una realtà nascosta,
ambigua, che oppone resistenza ai tentativi di comprensione. Per questo la
scienza della lettura è l'acme della conoscenza umanistica, ma anche di ogni
approccio alla verità. Sulla base del suo attivismo politico e sociale Said sostiene che gli uomini in tutto il mondo possono essere mossi, e di fatto lo
sono, da ideali di giustizia e di uguaglianza. «L'idea – scrive Said ne La sfera
umanistica – che gli ideali umanistici di libertà e cultura possano ancora offrire alle persone più svantaggiate la forza per resistere contro le guerre ingiuste e l'occupazione militare e per cercare di rovesciare il dispotismo e la tirannia, mi colpisce in modo vitale e positivo»25. Ma qui non si tratta soltanto
di una petizione ideologica. Ciò che consegue dalle posizioni di Said in difesa dell'umanesimo ha una forte rilevanza teoretica. Si può, infatti, accogliere
la critica al fondazionalismo ed utilizzare l'utile analisi della linguisticità in
cui si manifestano gli eventi. E, tuttavia, sono da respingere le dichiarazioni
di morte del soggetto e le improponibili tesi sulla storia senza soggetto o
sulla fine stessa della storia. Sono proprio il significato e l'effetto della storicità dell'agire umano a dimostrare che ogni mutamento appartiene alla storia, è la storia, storia delle azioni umane che, da un lato, dà senso alla storia
stessa e, dall'altro, costituisce la base metodica ed epistemologica delle discipline umanistiche.
6.
La tesi centrale di Umanesimo e critica democratica può così riassumersi: si può
criticare l'umanesimo solo in nome dell'umanesimo. Anche i peggiori esempi di teoria e pratica di eurocentrismo e di imperialismo hanno spesso fatto leva sulle
21
Ivi, p. 509.
E. Said, Umanesimo e critica democratica, il Saggiatore, Milano 2007, p. 87.
23
Ivi, p. 84. Il corsivo è mio.
24
G. Vico, Scienza nuova del 1744, in Id., Opere, a cura di A. Battistini, Mondadori, Milano
20074, p. 419.
25
E. Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 40.
22
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“radici” umanistiche (e talvolta cristiane, purtroppo) della civiltà occidentale. Per questo occorre, secondo Said, un approccio umanistico alternativo,
che abbia tra i suoi fondamenti il cosmopolitismo democratico e un'idea
della filologia come scienza storico-umanistica dei testi, dei contesti culturali, dei linguaggi plurali delle diverse culture, tutte da porre su un medesimo
piano di dignità e di valore. Per sostenere queste tesi Said si appoggia – come già si è detto – a due grandi figure di filosofi e filologi: Vico e Auerbach.
Il richiamo a Vico significa andare alla radice originaria della rivoluzione
umanistica: «nel cuore dell'umanesimo si trova la convinzione, laica, che il
mondo storico è fatto dagli uomini e dalle donne, e non da Dio, e che può
essere compreso razionalmente secondo i principi formulati da Vico nella
Scienza nuova»26. Said mette in luce non solo il ben noto nesso gnoseologico
e metafisico verum/factum (sapere equivale a vedere una cosa dal punto di vista di chi l'ha fatta) ma dà rilievo anche alla straordinaria concezione vichiana di sapienza poetica, avanzando una proposta di lettura che si colloca all'avanguardia nell'ambito della letteratura critica vichiana degli ultimi decenni.
Vico è consapevole della possibilità logica e gnoseologica di una “razionalità
altra”, di una forma di conoscenza storica che può essere favorita soltanto
dalla filologia, di un sapere, ma anche della ricerca della verità, che non sono
soltanto mera accumulazione di fatti e nozioni, ma creatività e produttività
dell'essere storico dell'uomo. L'orientamento teorico che emerge dalla lettura saidiana di Vico è l'idea di una conoscenza umanistica le cui radici stanno
nel pensiero primitivo, nella originaria sensibilità corporea, che si esprime in
linguaggio poetico e in universali fantastici. Vico ha dunque intuito che nel
mondo umano «c'è sempre qualcosa con cui occorre confrontarsi [...] che si
pone al di là e al di fuori del mero senso logico»27. Nel secondo libro della
Scienza nuova del 1744 Vico spiega che la sapienza poetica, ovvero «la prima
sapienza della gentilità», prese avvio da una metafisica non raziocinante e
astratta, «ma sentita ed immaginata quale dovett'essere di tai primi uomini,
siccome quelli ch'erano di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie»28. La creatività della conoscenza primitiva, la plausibilità di un
approccio diverso alla verità, emergono poco più avanti, là dove Vico rileva
che i primi uomini delle nazioni pagane, quali fanciulli di un'umanità nascente, «dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal
criare che fa Iddio: perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’era corpolentissima, il
facevano con una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all'eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano, onde furon detti “poeti”,
che lo stesso in greco suona che “criatori”»29. Certo la conoscenza primitiva
evolve verso le forme della razionalità dispiegata e della filosofia, ma ciò
non toglie alla mente umana quel suo carattere di «indiffinita natura», per
cui l'uomo è capace di porsi come «regola dell'universo»30, il che significa che la
conoscenza umana è segnata da una costitutiva fallibilità, da una provvisorietà, che imprime sull'umanesimo vichiano e post-vichiano non il marchio
26
Ivi, p.40.
E. Said, Vico e la disciplina dei corpi e dei testi, in Nel segno dell'esilio, cit., p. 123.
28
G. Vico, Scienza nuova del 1744, cit., § 375, pp. 569-570.
29
Ivi, § 376, pp. 570-571.
30
Ivi, § 120, p. 494.
27
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della certezza e della verità assolute o dell'essenzialismo, ma quello di un'originaria imperfezione e di una costitutiva plurale finitudine, fino a prefigurare, senza con ciò istituire fin troppo meccanici precursorismi, le linee di
un possibile neoumanesimo. Oggi come non mai, ad esempio, l'umanesimo
va inteso in un'ottica democratica, aperto a tutte le classi e a tutte le provenienze, come un processo in fieri di scoperta della verità e,al contempo, di
autocritica: «l'umanesimo – si spinge a dire Said – è critica, critica diretta allo
stato attuale delle cose, fuori e dentro l'università [...] e che trae la sua forza
e la sua rilevanza dal proprio carattere, secolare e aperto»31. Sostenendo che
l'attività umanistica e la pratica di una cittadinanza partecipativa non si escludono a vicenda, Said pensa che lo scopo degli studi umanistici è riuscire
a far passare ogni cosa attraverso il filtro dell'indagine critica: si tratta di sottoporre a questo esame tanto il frutto delle energie e del lavoro umani tesi
alla diffusione della cultura, quanto i fraintendimenti e le interpretazioni errate del passato e del presente collettivo. L'umanesimo è allora «l'esercizio
delle facoltà di ognuno, attraverso il linguaggio, per capire, reinterpretare e
cimentarsi con i prodotti della lingua nella storia, in altre lingue e in altre
storie»; esso è «un mezzo per interrogare, mettere in discussione e riformulare ciò che ci viene presentato sotto forma di certezze già mercificate, impacchettate, epurate da ogni elemento controverso e acriticamente codificate. Incluse quelle contenute nei capolavori archiviati sotto la rubrica “classici”»32. Se c'è un'essenza dell'umanesimo, essa, secondo Said, consiste nel
guardare alla storia umana come un processo ininterrotto di autocomprensione e autorealizzazione che non investe solo noi, maschi, europei e americani, ma tutti, l’intera umanità.
7.
L'umanesimo aperto e critico di Said si confronta, grazie agli strumenti offerti dalla filologia, con la realtà del proprio tempo, realtà magmatica, processuale, discontinua, non facilmente frazionabile in unità isolate e contrapposte. Evocando ancora Vico, si può dire che la filologia è una disciplina a
vocazione antiessenzialistica, adatta per comprendere la complessità del reale grazie alla sua forza interpretativa. In una Degnità della Scienza nuova Vico distingue la filosofia, che contempla la ragione, da cui deriva la scienza
del vero, dalla filologia, che considera l'autorità delle scelte umane, su cui si
fonda la coscienza del certo. Filologi sono stati «tutti i gramatici, istorici, critici, che son occupati d'intorno alla cognizione delle lingue e de' fatti de' popoli, così in casa, come sono i costumi e le leggi, come fuori, quali sono le
guerre, le paci, l'alleanze, i viaggi, i commerzi»33. Mi pare che si possa evidenziare la struttura “teoretica” dell’argomento vichiano, impegnato, ancora
una volta, a ritrovare i nessi tra verità e certezza, tra universalità “filosofica”
delle idee e storicità “ermeneutico-filologica” dei costumi umani e delle istituzioni civili. Qui certamente non sfugge uno dei passaggi più radicalmente
innovativi di Vico che, nella critica agli eccessi del razionalismo, utilizza al
contempo il richiamo alla tradizione retorica classica e la consapevole fondazione di un moderno modello di conoscenza volto ad indagare quegli
31
E. Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 51.
Ivi, p. 57.
33
G. Vico, Scienza nuova del 1744, cit., § 139, p. 498.
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ambiti del sapere umano (storici, poetici, favolosi, etico-pratici) non riducibili all’universalità e legalità delle verità razionali. Si comprende allora perché
Vico leghi - anche con un sapiente ed efficace dosaggio terminologico - il
vero alla scienza e il certo alla coscienza. Nella Degnità IX Vico aveva, infatti, affermato: «Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccurano
d’attenersi al certo, perché non potendo soddisfare l’intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sulla coscienza»34. E’ aperto così il terreno a
quella notissima degnità XIV che costituisce, per così dire, l’ouverture teoretica della ricerca filologico-genealogica da Vico proposta e, in molte parti,
compiuta. «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi
e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le
cose»35. I due ambiti conoscitivi (quello del vero e quello del certo) mantengono una loro autonomia, nel senso cioè che la conoscenza del certo - del
mondo storico prodotto dalla umana volontà - ha una sua piena dignità metodologica e gnoseologica. Gli uomini non riusciranno mai ad attingere
completamente il vero – quel vero perfetto ed universale che solo la mente
di Dio riesce a contenere – ma possono almeno attenersi al certo offerto dai
saperi storici, dalle sapienze della poesia, dagli istituti e dalle leggi degli uomini, dalle azioni di individui e popoli. Anche per questo, dunque, la dimensione pratico-conoscitiva della coscienza umana diventa uno degli oggetti
fondamentali della nuova scienza dell’uomo.
La ragione filosofica con le sue «pruove» aiuta a distinguere e a chiarire le prove filologiche, così da poter «ridurre a certezza l’umano arbitrio».
Insomma, conclude Vico, per questa via si può ridurre la filologia «in forma
di scienza»36. Questo spiega perché, avendo l’uomo per lungo tempo affidato il suo processo di incivilimento al senso comune e alla «autorità del certo», accanto alle «pruove filosofiche» di cui si serve la nuova scienza si affiancano quelle «filologiche»37. Sono queste prove che mostrano, ad esempio, come i miti non sono immagini forzate e distorte della realtà, ma le «istorie civili de’ primi popoli, i quali si truovano dappertutto essere stati naturalmente poeti» e come le «frasi eroiche» siano comprensibili «con tutta la
verità de’ sentimenti e tutta la propietà dell’espressioni». Ed è ancora attraverso queste prove che si definisce l’importanza dell’etimologia, dell’origine
e della storia dei significati delle parole, ma anche il ruolo che la storia delle
lingue ha nella formazione del «vocabolario mentale delle cose umane socievoli». Si può ben dire, allora, che l’insistenza vichiana sulle forme del sapere filologico, sull’analisi delle espressioni linguistiche e mitologiche
dell’esperienza umana, non risponda soltanto a una esigenza di carattere
metodologico e gnoseologico. Alla base di essa si scorge l’intenzionalità di
fondo che sorregge tutta l’opera del filosofo napoletano: lo studio e la ricerca delle forme originarie di organizzazione sociale e politica della civiltà umana. Dunque si tratta di una chiara scelta che non è solo di metodo, ma
innanzitutto filosofico-sistematica, giacché la scoperta vichiana della nuova
scienza dell’uomo e della storia sarebbe impraticabile se non si mostrasse
34
Ibidem.
Ivi, p. 500. Non a caso è proprio a partire da una precisa curvatura interpretativa che privilegia la storicità e l’identità della nozione di natura in Vico, che muove la lettura di E.
Auerbach, S. Francesco Dante Vico, De Donato, Bari 1970, pp. 70 e ss.
36
G. Vico, Scienza nuova del 1744, cit. p. 579.
37
Ivi, pp. 552 e ss.
35
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anche nella sua capacità di ritrovare il vero nell’oggettività dei testi e delle
parole. È ancora Auerbach a dare il segno della centralità di questa argomentazione quando parla, sempre a proposito di Vico, di «filosofia filologica o
filologia filosofica»38. La relazione dialetticamente aperta tra vero e certo è la
messa in discussione della metafisica tradizionale che pretende di determinare il reale con il concetto razionale – così come oggi le posizioni essenzialistiche hanno la pretesa di circoscrivere e fissare l'identità e la verità delle
culture – mentre, come scrive Grassi39, Vico guarda in direzione del “manifestarsi” sempre nuovo del reale, dello svelarsi della verità, di ogni verità e del
reale stesso nella storia.
8.
Rielaborando come si è visto, l'eredità vichiana e gramsciana, Said giunge a
interpretare l'umanesimo come una forma di resistenza alle idee veicolate
dalla tradizione, che, come sostiene anche in Le mutevoli basi dello studio e della
pratica umanistici40, si contrappone a ogni sorta di luogo comune e di linguaggio acritico. Il discorso di Said, storico della letteratura e critico militante, è
motivato dalla messa in discussione – e qui deve innestarsi la forza critica
dell'umanesimo – di un’idea della letteratura come sfera che offre esperienze
essenzialmente intime, private, meditative, rarefatte, non direttamente accessibili al pubblico. Nel mondo contemporaneo, invece, si assiste ad una
nuova e intensa circolazione tra sfera privata e sfera pubblica in modo tale
che l'una compenetra l'altra e la modifica. Said, a tal proposito, cita Arjun
Appadurai, secondo il quale oggi le migrazioni di massa, volontarie o involontarie, si affiancano al rapido fluire delle immagini diffuse dai media, producendo «un nuovo ordine di instabilità nella produzione delle soggettività
moderne»41. In un mondo dove «immagini in movimento [...] incrociano
spettatori deterritorializzati», si producono «sfere pubbliche diasporiche»42:
così le persone e le immagini si sovrappongono in modo spesso imprevedibile «al di là delle certezze domestiche e del cordone sanitario degli effetti
mediatici locali e nazionali»43. Agli studi umanistici viene chiesto oggi –
l’analisi di Said è rivolta anzitutto alla società e alla cultura nordamericane –
di prendere in esame tutto quello che, da una prospettiva tradizionale eurocentrica, era stato messo in disparte, represso o deliberatamente marginaliz38
E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo (1958), Feltrinelli, Milano 20073, pp. 26 e ss. Ma su tale punto cfr. il ben noto saggio auerbachiano La
“scienza nuova” e l’idea di filologia (1936), sta in Id., San Francesco Dante Vico ed altri saggi di filologia romanza, cit., pp. 53-65. Il grande filologo tedesco appare convinto che tra le possibili
definizioni della nuova scienza filologica pensata da Vico e i diversi oggetti della nuova
scienza proposti dal pensatore napoletano prevalga, alla fine, la «comprensione dell’uomo ai
primordi della condizione sociale». Vico è scienziato delle origini, del lento formarsi e chiarirsi la scienza delle forme mitico-simboliche assunte dallo spirito umano nei suoi favolosi
principi. Per questa scienza altro adeguato metodo non vi è se non quello filologicoermeneutico: «l’interpretazione dei miti, dei più antichi monumenti linguistici e giuridici e
delle prime opere poetiche». Si tratta, cioè, della «nuova arte critica che trova il suo oggetto
nelle più antiche testimonianze della vita umana» (ivi, p. 58).
39
E. Grassi, G. B. Vico filosofo "epocale", in Id., Vico e l'umanesimo, Guerini e Associati, Milano
1992, pp. 193-211.
40
Sta in E. Said, Umanesimo e critica democratica, cit., pp.59-82.
41
A. Appadurai, Modernità in polvere, trad. it., Meltemi, Roma 2001, p. 17.
42 Ibidem.
43
Ivi, p. 18.
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zato. Dopo aver celebrato per decenni i padri fondatori americani e altre figure nazionali, oggi in alcuni ambiti si comincia a guardare a questa storia in
modo più disincantato, a portarne alla luce anche i lati oscuri, dimenticati o
mai considerati: infatti si presta attenzione alle implicazioni di questi personaggi con la schiavitù, con l'eliminazione dei nativi americani e con lo sfruttamento delle donne e delle popolazioni senza terra. Prendere in considerazione le forze e le correnti culturali non europee, decentrate e decolonizzate,
significa allora riconoscere che «la critica è il cuore pulsante dell'umanesimo»44. L'attitudine critica va qui intesa, spiega Said, come forma di libertà
democratica e incessante attività non solo di accumulazione ma anche di interrogazione del sapere, che si rivolge alle realtà storiche che articolano il
mondo dopo l'89. Questo lavoro può essere continuato e migliorato nella
misura in cui si impara a intendere la pratica umanistica come componente
integrante e funzionale del mondo contemporaneo e non come un ornamento più o meno inutile o come un esercizio di nostalgica rievocazione del
passato. Come ha scritto Carla Benedetti, in un libro stimolante e in molte
parti per me condivisibile, si apre per i saperi umanistici una sfida che può e
deve caratterizzare al massimo il loro essere nel pieno di un rischioso passaggio che dalla fine della modernità può condurre, oltre il postmoderno, ai
limiti estremi della specie. «Eppure, è proprio questa nuova dimensione a
ridare oggi ai saperi umanistici una posizione cruciale nel mondo contemporaneo, altrettanto decisiva di quella che compete alle scienze. Più che un
ruolo è una sfida, la massima: la possibilità di riaprire il gioco, creando strutture di pensiero e di giudizio che funzionino come dei “correttivi” rispetto a
quelle che ci stanno portando verso la catastrofe annunciata, elaborando
proiezioni potenti dell’umano dotate di una forza agente e capaci di rimettere in movimento energie da tempo addormentate o paralizzate»45. Siamo dinanzi, io credo, fatta la tara dalle inevitabili cadute in stilemi retorici e in argomentazioni talvolta generosamente utopistiche, a un consapevole programma di riabilitazione della pratica e della conoscenza umanistiche. Si
tratta, per ora, di frammenti sparsi, di ancora incerti prolegomeni, come dice
il titolo di queste pagine, ad una teoria critica del nuovo umanesimo46.
44
E. Said, Umanesimo e critica democratica, cit., p. 74.
C. Benedetti, Disumane lettere. Indagini sulla cultura della nostra epoca, Laterza, Roma-Bari
2011, p. 4.
46
Chi da tempo va filosoficamente interrogandosi sul ruolo dell’educazione e delle humanities nell’età della globalizzazione e del pluralismo delle culture è Martha Nussbaum. Il ritorno, non passivo e archeologico, ai modelli classici della critica socratica e del cosmopolitismo stoico può servire non solo alla formazione di nuove leve pronte all’esercizio della cittadinanza democratica, ma alla comprensione e soluzione di quei problemi della contemporaneità in cui si gioca il giusto rapporto tra identità e differenze (cfr. M.C. Nussbaum, Coltivare l’umanità. I classici, il multiculturalismo, l’educazione contemporanea (1997), Carocci, Roma
2006). E, ancora della Nussbaum, cfr. il più recente Non per profitto. Perché le democrazie hanno
bisogno della cultura umanistica (2010), Il Mulino, Bologna 2011. Qui la radicalità dell’analisi
conduce a un vero e proprio progetto di trasformazione etico-politica affidato
all’educazione e alla critica umanistica. «Le nazioni sono sempre più attratte dall’idea del
profitto; esse e i loro sistemi scolastici stanno accantonando, in maniera del tutto scriteriata,
quei saperi che sono indispensabili a mantenere viva la democrazia. Se questa tendenza si
protrarrà, i paesi di tutto il mondo ben presto produrranno generazioni di docili macchine
anziché cittadini a pieno titolo, in grado di pensare da sé, criticare la tradizione e comprendere il significato delle sofferenze e delle esigenze delle altre persone. Il futuro delle democrazie di tutto il mondo è appeso a un filo» (ivi, pp. 21-22).
45
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9.
Ciò che oggi maggiormente caratterizza la criticità del passaggio dal moderno all’incognito, è il processo di incessante modificazione provocato da
grandi ondate di migranti, espatriati e rifugiati. In realtà queste figure sono
la realtà umana più importante del nostro tempo in ogni angolo del mondo,
senza dimenticare che essi hanno rappresentato il dato demografico e culturale originario degli Stati Uniti. Questo grande fenomeno dei nostri tempi
mette fuori causa ogni pretesa di verità e di autenticità e autoctonia originaria delle tradizioni culturali native ovvero di purezza delle identità culturali:
si tratta di una ideologia palesemente falsa e non fondata, fuorviante e fondamentalista. Di fronte ai molteplici, irreversibili processi di mescolamento
dei popoli, dobbiamo per forza ammettere – sostiene Said – che siamo tutti
degli outsider e, in misura minore, anche degli insider: ognuno appartiene a
qualche tradizione e nello stesso tempo è un outsider rispetto a un'altra tradizione, e nessuna di queste tradizioni è scevra di contaminazioni culturali.
Consapevole che le migrazioni e la mescolanza di uomini e culture costituiscono un fatto incontrovertibile che segna fortemente e drammaticamente –
considerando la sorte di molti migranti – il nostro tempo, l'umanista, secondo Said (che si riferisce ancora una volta in modo particolare al contesto
nordamericano), deve rendere disponibili tutte le differenti tradizioni, o almeno la maggior parte di esse, e interrogare il rapporto che ciascuna ha con
le altre allo scopo di mostrare come – in particolare negli Stati Uniti, ma
questo discorso saidiano può essere esteso certamente anche all'Europa e
agli altri continenti – molte tradizioni abbiano interagito e possano continuare a relazionarsi tra loro pacificamente. L'umanista deve oggi rendersi consapevole, secondo Said, della non omogeneità delle culture, della loro pluralità interna, della complessità e non linearità delle loro storie, mettendo in
questione le concezioni forti, essenzialistiche e veritative dell'identità culturale. Cogliere le contraddizioni e le voci discordanti all'interno di un determinato filone culturale significa anche fare attenzione alle contaminazioni
interculturali che hanno marcato e contrassegnano certamente ancora oggi i
rapporti tra comunità e popoli. A riguardo, è interessante segnalare come sia
stato Stuart Hall, figura chiave dei Cultural Studies, giamaicano trapiantato
giovanissimo in Inghilterra, a porsi nel solco tracciato da Edward Said e ad
approfondire questa problematica mettendo l'accento sul carattere ibrido,
storico e complesso delle identità: «[...] le identità non sono mai unificate e
[...] nella tarda modernità, sono sempre più frammentate e spezzate, mai costrutti regolari bensì multipli a causa di discorsi, pratiche sociali e posizioni
diverse, spesso intersecantesi e antagoniste. Le identità sono soggette a una
storicizzazione radicale, e si collocano costantemente all'interno di un processo di cambiamento e trasformazione»47.
47
S. Hall, Il soggetto e la differenza. Per un'archeologia degli studi culturali e postcoloniali, trad. it., Meltemi, Roma 2006, p. 133. Ma Said analizza anche le prospettive “neoumanistiche” che si
delineano anche nell’ambito degli studi afro-americani. «Tutto ciò ha contribuito al lento,
sismico mutamento della prospettiva umanistica» (Umanesimo e critica democratica, cit., p. 72).
A riguardo Said propone un esempio per chiarire il processo di cambiamento di cui parla.
Gli studi afro-americani, nuovo ambito degli studi umanistici – a dire il vero vergognosamente ostacolati o marginalizzati – hanno, da un lato, messo in discussione gli stereotipi e
l'ipocrisia latente dell'universalismo veicolato dal classico pensiero umanistico eurocentrico;
dall'altro lato, si sono imposti come componente fondamentale dell'umanesimo americano
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10.
Said insiste a più riprese sul fatto che la filologia e gli studi umanistici non
sono pratiche staccate dalla società e dalle problematiche e tensioni politiche
delle società stesse. «Non siamo scribacchini o umili copisti, ma menti le cui
azioni diventano parte della collettiva storia umana che prende forma intorno a noi»48. Questo senso di un lavoro comune, di un'impresa condivisa con
altri garantisce l'onestà dello studioso: si tratta di un compito che implica
vincoli e impone una precisa disciplina. È interessante notare come sia la
tradizione islamica, sottovalutata o trascurata dagli studiosi eurocentrici (attenti a celebrare gli ideali umanistici occidentali), a fornire a Said un valido
paradigma per esplicitare ulteriormente la sua concezione umanistica. Poiché nell'Islam il Corano è la Parola di Dio, non se ne può avere una conoscenza piena ed esaustiva: tuttavia, occorre continuare a leggerlo e rileggerlo.
Trattandosi di un testo scritto, è d'obbligo per il lettore cercare innanzitutto
di capirne il senso letterale, ma nel far questo deve essere consapevole che
altri prima di lui hanno già affrontato la stessa ardua prova. Questi “altri”
formano una specie di comunità di testimoni, ognuno dei quali ha un debito
nei confronti di chi lo precede. Il sistema di letture interdipendenti del Corano, l'isnad, ha come obiettivo quello di avvicinarsi sempre più alle radici
del testo, ma implica una componente di impegno personale e di uno sforzo
notevole. Il richiamo a questa pratica di lettura intersoggettiva è di grande
interesse: attingendo ad una cultura marginalizzata dalla tradizione occidentale – come emerge chiaramente in Orientalismo – Said suggerisce come deve
svolgersi la pratica umanistica, e dà un piccolo saggio della vocazione “plurale”, del carattere aperto e critico dell'umanesimo. Entro queste coordinate
l'umanista deve attenersi alla regola che gli impone un rigoroso lavoro di lettura (non finalizzato esclusivamente a indagare strutture discorsive e pratiche testuali) e impegnarsi per portare alla luce significati e per contribuire
attivamente all'emancipazione e all'estensione della conoscenza. Tra queste
due direttive lo spazio di intervento dell'umanista è, secondo Said, ampio.
Nondimeno, allo stato attuale delle cose, Said diagnostica la perdita della
componente intellettuale della pratica umanistica, intesa come opposta alla
funzione meramente tecnica: gli studiosi di letteratura o si trasformano in
tecnocrati decostruzionisti, analisti del discorso, neostoricisti (e altro ancora)
o si rincantucciano sentimentalmente nella commemorazione delle glorie
passate associate all'umanesimo. Said affronta anche il problema dei rischi
costituiti dall'uso di una terminologia tecnica nel campo degli studi umanistici. A suo avviso i lessici specialistici non fanno altro che sostituire un idioma preconfezionato ad un altro. Occorrerebbe invece partire dall'idea
che il compito dell'interpretazione umanistica sta nel rendere più chiara ed
efficace possibile quella stessa opera di demistificazione e smantellamento
delle verità costruite dal potere che le è propria. Si dovrebbe non cadere nella trappola di sopravvalutare “come” una cosa viene espressa a detrimento
di “cosa” si dice. L'approccio umanistico non può essere percepito come
contemporaneo. Tali cambiamenti hanno messo in luce come la tradizione umanistica e la
vecchia idea di umanesimo si fondassero su una concezione dell'identità nazionale che era
certamente selettiva e riduttiva, limitata cioè ad un minuscolo gruppo di individui considerato presuntivamente rappresentativo dell'intera società.
48
Ivi, p. 93.
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una folgorazione religiosa e segreta, come una pratica misteriosa e inaccessibile ai più, ma dovrebbe mirare a trasmettere il senso di una scoperta. Se la
competenza viene intesa come mero meccanismo di aristocratico distanziamento e se questo meccanismo sfugge ad ogni controllo, allora la pratica
umanistica si appiattisce su e si snatura in certe forme di espressioni accademiche antidemocratiche e finanche anti-intellettuali. Al cuore dell'azione
di resistenza, che prende avvio dalla ricezione e dalla lettura, c'è invece la
critica intesa come «ricerca, incessante e auto-chiarificatrice, della libertà, di
un potenziamento della capacità di agire, e non del contrario»49.
Il compito autentico dell'umanista non sta nella posizione o nel posto che egli occupa: non si tratta semplicemente di appartenere a un luogo o
a un'istituzione. La sua funzione consiste nello stare dentro e fuori rispetto
alle idee e ai valori che vengono messi in circuito dai gestori dell'informazione, nel creare occasioni di discussione nella nostra società o nella società
dell'altro. La pratica umanistica insomma, scrive Said, è una «pratica di disturbo»50. L'umanista, per usare una formula gramsciana che identificava lo
stile e il compito del grande intellettuale, «deve tuffarsi nella vita pratica»51 e
mantenere aperte – questa la declinazione saidiana del rapporto tra l'intellettuale-umanista e la società – le tensioni tra il piano estetico e il piano politico (soprattutto quando questo è dominato da ideologie nazionalistico-identitarie),
servendosi del primo per mettere in discussione, riesaminare e resistere al
secondo. Non è dunque né una forzatura interpretativa né un “fuori luogo”
ideologico, restar convinti che si possa dare un significato e una funzione di
critica democratica alla filologia che resta, è bene non dimenticarlo, non solo metodo e tecnica di lettura dei testi, ma anche e fondamentalmente un
sapere storico-prospettico. Un sapere che percepisce e comprende la differenza, ma senza esaltarla e senza trasformarla in un’essenza sovrumana.
Auerbach richiamava, senza retorica nostalgica, quell’idea, nata nel Medioevo prima della formazione delle nazioni, del riconoscimento del pensiero
come qualcosa che non ha nazionalità. «La nostra patria filologica – scrive
Auerbach – è la terra; non può più essere la nazione. La lingua e la cultura
della propria nazione, che il filologo eredita, costituiscono certamente tuttora il suo patrimonio più prezioso e irrinunciabile; ma solo nella distinzione,
nel superamento, esso guadagna efficacia»52.
11.
La filologia vivente di cui qui – grazie a all’inedito e pur fecondo incontro tra
Vico Auerbach e Said – si è tracciato un primo e parziale profilo, è certo
scienza e conoscenza delle parole e la sua finalità può essere, al di là della
sua specificità settoriale, anche e forse soprattutto l’acquisizione di uno
strumento critico di comprensione e di critica, sia pur radicale, dei contesti
storici e sociali dell’umanità contemporanea. I segni, i simboli, le forme e
soprattutto le parole, come ha giustamente detto Carlo Sini – in un breve
ma teoreticamente denso testo – sono «segno del riconoscimento e pegno
del ritorno». L’aura comunicativa della parola, quella che si manifesta fondamentalmente nella scrittura, è ciò che ha materialmente reso possibile la
49
Ivi, p. 98.
Ivi, p. 102.
51
A. Gramsci, Quaderni del carcere, 6, § 10, p. 689.
52
E. Auerbach, Filologia della letteratura mondiale, cit., p. 71.
50
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nascita della filosofia e del pensiero astratto. Tuttavia, non bisogna dimenticare, osserva ancora Sini, che la parola ha un forte «carattere memoriale». La
sua scienza particolare – la filologia – aiuta a comprendere, di volta in volta,
le sue modalità espressive e la sua genesi, insieme allo studio critico delle
condizioni materiali e storiche che l’hanno generata. «Importa comprendere
ciò che “vuol dire” e “ha da dire” ogni volta la parola, apprezzando le sue
differenti strategie memoriali, negli infiniti contesti del vivere umano presente e passato, delle sue azioni e passioni, delle sue conquiste e delle sue
tragedie, delle sue speranze e delle sue aspirazioni»53.
53
Cfr. C. Sini, Il carattere memoriale della parola, in «Anterem». Rivista di ricerca letteraria,
2011, 82, pp. 81-83.
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