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Annotazioni paleografiche alle Note dorsali veneziane del Duecento

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Annotazioni paleografiche alle Note dorsali veneziane del Duecento
Annotazioni paleografiche I
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Antonio Ciaralli
Annotazioni paleografiche alle
Note dorsali veneziane del Duecento
Le note dorsali illustrate sotto il profilo storico e linguistico nel saggio di Vittorio
Formentin possono raggrupparsi, sotto il profilo grafico, in tre classi generali:
1. Prima di proseguire con la descrizione delle diverse mani che costituiscono la
documentazione qui edita, tuttavia, non sarà inutile avviare qualche considerazione
sui problemi e i limiti che offrono fonti esigue (graficamente esigue, intendo) come
1. Del n. 16, a causa dell’evanescenza della scrittura, visibile con difficoltà anche sotto luce ultravioletta, manca la fotografia.
2 Sulla terminologia (scritture elementari e usuali) rimando alle Annotazioni paleografiche a Il mercante veneziano del Duecento, in di V. Formentin, Il mercante veneziano del Duecento tra latino e volgare:
alcuni testi esemplari, in c. di s. in «Studi linguistici italiani; si veda ancora M. Signorini, Osservazioni
paleografiche sull’apprendimento della scrittura in ambiente ecclesiastico. Alcuni esempi in latino e in volgare, in
Libro, scrittura, documento della civiltà monastica e conventuale nel basso Medioevo (secoli XIII-XV), Atti del
Convegno di studi (Fermo, 17-19 settembre 1997), a c. di G. Avarucci, M. Borraccini Verducci e G.
Borri, Spoleto, CISAM, 1999 (Studi e ricerche, 1), pp. 263-283 per le precisazioni in merito al concetto di scrittura elementare. A proposito dei termini adottati nella presente descrizione si sappia
che indico con traverso un tratto verticale discendente (asta); con testa un tratto orizzontale costitutivo di lettera; con levata di penna il modesto segno di stacco sul rigo con orientamento diagonale
(da sinistra verso destra, dal basso verso l’alto) funzionale spesso alla legatura, differenziandolo dal
piede che è, invece, elemento strutturale, sebbene accessorio, della lettera); con volta la consistente
curvatura in basso o in alto dei traversi; che minimo, infine, è un imprestito dall’inglese mancando
un corrispettivo italiano: cfr. M. P. Brown, A Guide to Western Historical Scripts from Antiquity to 1600,
London, The Biritish Library, 1990: «The basic upright stroke of a letter will be termed a minim
(e.g. the three legs of ‘m’)», p. 3.
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a. scritture di livello elementare (nn. 5, 15, 16-20)1
b. scritture di esecuzione usuale e dalla discreta competenza grafica (nn. 1, 3, 4a
e b, 9, 14)
c. scritture di modello professionale realizzate a vari livelli di capacità (nn. 2, 6,
7, 8, 10, 11 e 13, 12).2
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delle brevi annotazioni tergali, in analogia e in collegamento con la premessa di
metodo che si legge nel saggio di Vittorio Formentin.3 La prima, e più ovvia, è la
rarefazione del campione di scrittura. Spesso le poche parole presenti non bastano
neppure a mostrare il disegno dell’intero alfabeto: cosa potrebbe dirsi, dunque, del
sistema abbreviativo o dell’interpunzione? È ovvio che, quando presenti, essi meritino, nella relativa descrizione, una particolare attenzione indirizzata, di norma, a
enfatizzare le capacità dell’esecutore. In casi del genere il pregiudizio, che è tale in
quanto mera applicazione di un procedimento induttivo, si manifesta nella considerazione per cui, se chi scrive mostra di conoscere un sistema brachigrafico coerente
e magari vario (per compendio, per sigla o per troncamento, con abbreviazioni
tipiche o originali, ecc.) e accompagna la sua registrazione con un sistema interpuntivo (ancorché di difficile interpretabilità e dalla dubbia funzione), allora costui
non potrà essere considerato uno scrivente ‘incolto’. Pari attenzione dovrà essere
rivolta agli aspetti legati all’impaginazione: la gestione dello specchio scrittorio, il
controllo dell’allineamento (delle lettere e delle parole), la giustificazione (quando
l’estensione lo rende possibile); al ricorso a mezzi o marcatori che incrementino la
leggibilità come un corretto uso degli espedienti grafici per indicare le cifre (la presenza di punti separativi prima e dopo; l’unità, quando finale, allungata sotto il rigo;
la cifra per cinque di modello angolare laddove il corrispettivo segno per la vocale
è sempre di forma tradizionale), l’uso di paraffi, la catalogazione per item. Sono,
quelli elencati, tutti aspetti che contribuiscono a definire il ‘grado di scolasticità’ di
una scrittura,4 il livello di ‘istruzione’ ricevuto da chi scrive, sebbene sui contenuti
e i modi di tale formazione ben poco, di solito, sia possibile dire. Grava su tutto un
limite non valicabile nel caso di testimonianze spesso prive di ulteriori confronti:
che quella attestata sia proprio la scrittura dell’estensore, il grado zero delle sue
competenze scrittorie è assunto inevitabile, ma non scontato. Intendo sottolineare
l’impossibilità, in circostanze come quelle che qui si danno, di stabilire quali ‘tendenze grafiche’ abbiano agito,5 se mai hanno agito, sulle intenzioni dello scrivente:
cerca egli di atteggiare la propria grafia alla migliore calligraficità di cui è capace?
O, al contrario, non presta attenzione a come lo fa, ma semplicemente si preoccu3. V. Formentin, Note dorsali veneziane del Duecento, in «La lingua italiana», X (2014), pp. 17-38:
17-18.
4. Il termine, coniato da Armando Petrucci (Funzione della scrittura e terminologia paleografica, in
Palaeographica Diplomatica et Archivistica. Studi in onore di Giulio Battelli, I, Roma, Edizioni di storia e
letteratura, 1979 [Raccolta di studi e testi, 139], pp. 3-30: 9-10), per esprimere il quoziente di diffusione scolastica della scrittura, viene qui piegato a indicare il grado di aderenza al modello scolastico
e il livello di studio da esso implicato.
5 . Al concetto di tendenze grafiche (Shrifttendenzen). mutuato da un saggio di Harold Steinacker
del 1924, ha conferito respiro storico Giorgio Cencetti in Vecchi e nuovi orientamenti nello studio della
paleografia, in «La Bibliofilia», 50 (1940), pp. 4-23: 6-7.
Annotazioni paleografiche I
pa di registrare? Insomma l’esito di accuratezza o, all’opposto, di semplificazione
che si riscontra rappresenta realmente il suo grado di competenza grafica, o non è,
piuttosto, il risultato di circostanze occasionali e contingenti per noi imponderabili?
6 . A. Bartoli Langeli, Scritture e libri da Alcuino a Gutenberg, in Storia d’Europa, dir. P. Anderson, III, Il
Medioevo (secoli V-XVI), a c. di G. Ortalli, Torino, Einaudi 1994, pp. 935-983, a p. 940; «indizio di una
scarsa dimestichezza con il procedimento della scrittura», come scrive Formentin, Note dorsali, p. 33.
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2. Regina eponima della prima classe è Marchesina Foscolo, forse rampolla di
una delle famiglie patrizie di maggiore rilievo della città, avviata, come accadeva,
alla vita monastica e quindi destinataria, da parte del fratello Pietro (il quale forse
agisce per legato testamentario del padre), di un vitalizio diretto a coprire le spese
per sé correnti nel convento (doc. n. 15). Marchesina dimostra la propria scarsa
confidenza con la penna già con gli ‘errori’ e le omissioni che costellano il pur breve
testo (dittografia di charta, la seconda a del secondo charta corr. su lettera principiata,
h di che corr. su un maldestro dilavamento; omissione dei predicati) e dalla preferenza accordata alla resa sillabica delle parole, frutto, come sottolinea Formentin,
di autodettatura. L’esecuzione elementare risulta ulteriormente enfatizzata dall’assoluto isolamento dei singoli segni alfabetici (un procedimento che è stato definito
‘canone alfabetico’),6 dall’oscillante inclinazione delle lettere (ma in prevalenza sono
piegate verso sinistra) e dal loro incerto allineamento sul rigo, mentre la tenuta orizzontale delle due righe appare nell’insieme discreta. Per quel che riguarda il disegno
dei caratteri alfabetici, appaiono significativi i tratteggi di a con occhiello separato
dal traverso, di t con traverso che si eleva al di sopra della componente orizzontale,
di h col secondo tratto angolare e prolungato, come l’ultimo elemento di m, al di
sotto del rigo, di r, infine, col secondo segmento scollegato dal primo. Aspetti, tutti
quelli elencati, che mostrano l’estrema difficoltà e insieme artificiosità della scrittura di Marchesina e svelano un modello di riferimento ancorato a una tradizione
di matrice arcaizzante, ma ancora attiva intorno al terzo quarto del XIII secolo. In
effetti, per una migliore comprensione dei tempi e delle ragioni di redazione della
nota (quando e perché è stata scritta?), che è ovviamente posteriore al 1269, sarebbe
necessario sciogliere i dubbi che avvolgono l’ellittica formulazione. In particolare
occorre riflettere sulla piena disponibilità della pergamena che Marchesina mostra
di avere. Il documento è, con tutta evidenza, nelle sue mani e non ancora depositato
presso l’archivio del monastero (cosa che avverrà, ovviamente alla sua morte). Ma
allora, perché conferire quella formulazione al breve testo? E quale il suo scopo?
In particolare se, come già suggerito, l’espressione che plena deve essere intesa come
che fa o è piena fede, la registrazione troverebbe congrua (o più congrua) spiegazione
in un àmbito di natura conflittuale (per es. nel caso di una contestazione del diritto)
che non come ordinaria nota di archiviazione (dove, per altro, almeno a quanto ci
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è noto, non trova paragoni).7 Una tale prospettiva implicherebbe la redazione del
testo in un periodo immediatamente successivo alla scomparsa di Pietro (si adduce
la carta, non l’autore) e dovrebbe essere messa in relazione con eventuali vicende
legate alla sua eredità.
3. Seguono, a caratterizzare la classe, altri promemoria di una mano femminile. Si
tratta dei regesti archivistici presenti nel verso dei docc. nn. 16-20 redatti, come
convincentemente argomentato da Formentin, da Maria Darpo tra l’aprile e l’agosto del 1293.8 Incapace di un corretto allineamento delle lettere e delle parole sul
rigo, con frequenti oscillazioni nel loro disegno, Maria scrive con tratto pesante e
scarsamente contrastato adottando un modulo medio ricco di numerose variazioni:
un aspetto, questo, che la differenzia da Marchesina e connota il suo operare di
una maggiore confidenza con l’atto scrittorio. In quanto elementare, anche questa
è scrittura del tutto priva di legature (né hanno particolare rilievo quegli espedienti
che sono funzionali alla connessione: i minimi delle lettere, per es. sono sempre
privi di levata di penna, assente persino nella l) e si mostra, invece, ricca in solecismi e errori (oltre a quelli segnalati in apparato all’edizione si notino: nel n. 18 la c
con incongruo frego di penna alla base9 e nel n. 19 la c corr. su lettera principiata).
Incapace di una conduzione regolare della penna, Maria non sembra in grado di
tracciare archi di curva: di qui l’occhiello angoloso della a dal traverso corto ma
sempre munito di testa; le esecuzioni geometriche di m, n, u; l’incertissimo tracciato della o. L’apprendimento schematico e arrestatosi ai rudimenti di base è reso
evidente dall’assunzione di forme grafiche statiche, di modelli di lettera, cioè, che
non rappresentano, nella coscienza della scrivente, il risultato della combinatoria
di più tratti di penna, non sono il frutto di un normale processo di ‘costruzione’
dei segni alfabetici. Il caso è particolarmente evidente con f e s, due lettere fra di
loro morfologicamente simili. Ebbene Maria realizza la prima abbassata sul rigo
7 . Diversamente, se si volesse intendere il plena come forma contratta di plenarie, cui dovrebbe seguire, secondo l’uso classico, il termine securitatis (in linea dunque con le definizioni spesso
presenti in questo tipo di documentazione, sebbene ellittiche in altro senso: cfr. segurtà) il senso
muterebbe e la nota acquisterebbe una fisionomia più aderente alla giacenza in un archivio. Ma la
formula è certamente troppo colta per la modesta Marchesina, per non dire quanto risulti arduo
ammettere che ella abbia avuto in suo possesso un così elevato numero di documenti da richiedere
un regesto esplicativo. E poi carta securitatis indica una quietanza, cosa che il documento in mano a
Marchesina evidentemente non è.
8 . Come si è gia detto, rimane esclusa dal presente commento la scritta al n. 16 oggi visibile, e a
stento, solo col ricorso alla lampada a luce ultravioletta. Si tratta di un’ulteriore testimonianza della
scrittura di Maria Darpo, non particolarmente significativa, dunque, stante la sua concisione e la relativa abbondanza delle prove autografe di Maria, nella definizione dei caratteri grafici di quella mano.
9 . Qui sembrerebbe anche che la l sia corr. da e ripetuta, piuttosto che d anticipata.
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(un atteggiamento che condivide con Marchesina Foscolo e che torna spesso nelle
scritture del tempo) con traverso rettilineo e con il tratto di sommità rettificato e
ortogonale al traverso (l’ultimo elemento, quello distintivo della lettera, è, infine, di
dimensione identica al secondo); la seconda lettera, invece, alta sul rigo, presenta
un traverso sinuoso e la testa curvilinea com’è nella norma. Si tratta, insomma, di
due lettere che, seppure, come si diceva, identiche, vengono eseguite in modi fra
loro divergenti in quanto interpretate nella loro sostanza di grafemi. Sono ancora
da segnalare i disegni di r col minimo curvilineo, la presenza di ç (un grafema arcaico), l’incostante presenza del diacritico per la i (cfr. n. 17 farti, la i di menori; n. 18
p(er)ricaor; n. 10 be(n)sani in tutte le occorrenze il diacritico si trova sulla lettera in
posizione finale, privo della specifica funzione dissimilatoria), l’uso di un sistema
abbreviativo non esiguo (de, per, titulus per la nasale e per indicare la contrazione),
ancorché apparentemente incongruo.
Per le donne che scrivono Formentin ricorda «la difficile scelta di rispolverare in
età adulta, o forse addirittura d’acquisire ex novo, un’educazione grafica destinata a
rimanere approssimativa e imperfetta».10 È oggettivamente difficile discernere, sulla
sola base grafica, quando Marchesina e Maria abbiano imparato i rudimenti di scrittura. Tra loro le differenze sono consistenti e si sostanziano nello scarto generazionale che dovrebbe distanziarle. La prima, più incerta e rigida, sembra impersonare
il prototipo di chi, avendo imparato da grande, non ha acquisito grande confidenza
con la penna: la sua educazione potrebbe essere avvenuta quando ormai ella si trovava chiusa tra le mura monastiche e l’ombra dei modelli librari pare riflettersi nel
disegno della a, della p e della t che mostra evidente quella ispirazione. Al contrario
Maria abita stanze laiche e, sebbene non sia possibile stabilire chi le abbia impartito
10 . Formentin, Note dorsali, p. 30.
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4. Al novero delle scritture ‘alla Marchesina’ potrebbe aggiungersi una delle due
note presenti nel doc. n. 4. Si tratta, come specificato da Formentin, di un singolare
caso di doppia annotazione di tipo archivistico: l’ipotesi che a scrivere siano stati
i due fedecommissari (il marito e la madre di Angelera), ancorché perfettamente
plausibile, sollecita il desiderio, destinato a rimanere tale, di conoscere le motivazioni della doppia registrazione e lascia irrisolta la questione della reciproca attribuzione. E se le incertezze presenti nella seconda nota (4b) avvalorano il ‘pregiudizio’
in merito alla scarsa alfabetizzazione delle donne, la correttezza formale di questa
scrittura, associata a una certa qual disinvoltura di esecuzione (legamento er e gu in
sergutae, d di modello cancelleresco con occhiello chiuso, l’originale e rapida g) rendono questa minuscola, proporzionata e regolare, per certi versi anche più elegante
del sintetico regesto al n. 4a e pur sempre nella medesima linea esecutiva di quella.
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le basi dell’alfabetizzazione, ella dimostra più pratica, come chi, anche nolente, ha
comunque stabilito un rapporto meno episodico con la penna (ne fa del resto fede
il numero dei suoi interventi noti: almeno sette).
5. Diverso il grado di ‘elementarità’ espresso dalla nota nel doc. n. 5. Già la temperatura della penna, un calamo morbido con punta acuminata e fessa, utilizzato con
un appropriato alternarsi della pressione della mano, rivela un àmbito di scriventi
di più considerevole livello. Il modello delle lettere non differisce da quello che
sarà manifestato più tardi da Maria Darpo: s con traverso sinuoso, d con traverso
inclinato (ma qui sinuoso, come si conviene al referente grafico documentario), g in
quattro tempi e quattro tratti, apice sulla i (da notare la personale variante di p con
traverso mozzo). Ma ben diversa la sostanza: non mancano, ora, le levate di penna
al termine dei minimi (si veda m, n, r in dr.), la corretta formulazione delle cifre
(non solo l’ultima di IIJ e XXXJ è, infatti, allungata, come s’usa professionalmente,
ma anche V alla riga tre è angolare per differenziarla dalla u), la presenza di varianti
di lettera (cfr. r in grossi e quella in ser), l’uso della maiuscola per iniziare la registrazione, il legamento fi in Filicita, l’impiego delle abbreviazioni monetarie. In questo
tessuto tutt’altro che ingenuo, l’insipienza dell’amanuense si esplica nell’incostanza
del modulo, nel mancato rispetto dell’allineamento, nella irregolarità dell’impaginazione tutti aspetti, questi, che determinano il caotico arrangiamento della nota,
conferendole, appunto, l’attributo di elementare.
6. È quella manifestata dallo scrivente della nota n. 5 la tipologia di scrittura che si
trova ben attestata anche nel secondo raggruppamento della classificazione che qui
si propone. Se ne vede la matrice, pura e di limpida interpretazione, nell’annotazione
che uno dei figli di Domenico Contarini stende a tergo del doc. n. 1. La nota, tra le
più antiche testimonianze veneziane conosciute (il doc. è datato al 1203, la scritta è
da ritenersi comunque anteriore al 1250), non è arcaica solo sotto il profilo linguistico, ma esprime anche graficamente la sua appartenenza a modelli dei primi decenni
del XIII secolo. Sebbene sia nome tutt’altro che raro nell’onomastica veneziana, con
la conseguenza che frequenti risultano le omonimie, è probabile che l’autore della
donazione ai figli Marino e Tomà «dela casa de Sanctus Bartolomeus» sia proprio
il Domenico Contarini della contrada di S. Silvestro consigliere del ducato per gli
anni 1198 e 1200 e destinatario dell’investitura di una terra in località Ultra Vena che,
d’ordine di Enrico Dandolo, viene compiuta in suo favore il 31 maggio 1197.11 Si è
11 . Cfr. Cfr. Storia di Venezia. L’età del comune, a c. di G. Cracco e G. Ortalli, Roma 1995, p. 120.
ASVe, San Giovanni evangelista di Torcello, Pergamene, b. 1 n. 107. L’atto, pervenuto in copia del
1206, è rogato dal notaio Pietro Stermina, lo stesso della donazione di cui si tratta. Quel terreno
verrà ceduto, per l’estinzione di un mutuo, l’8 maggio del 1206 (cfr. ivi, San Giovanni evangelista di
Torcello, Pergamene, b. 2 n. 21).
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8. Di qualche interesse il caso del testo nel doc. n. 9 perché, se giusto il ragionamento applicato da Formentin, ci si trova al cospetto di uno dei pochi appunti
databili con ristretta approssimazione: tra il luglio e l’agosto del 1276. Non è dato
riconoscere chi scrive: l’interesse per la registrazione della somma da scomputare
nel debito è del conte di Veglia, ma il documento doveva essere in mano al creditore
oppure, meglio, in mano all’abate del monastero di S. Cipriano, depositario della
somma. Piuttosto alte sono le competenze dimostrate: la M maiuscola in Marin, la
nota per et, i legamenti ri (di nuovo Marin), gr (Gradonico, grosi), li (piçoli); non povero
il sistema abbreviativo dove spicca la m con taglio di penna verticale per minus e
l’omografia tra s(er) e la sigla per soldi; suggestiva la d con traverso inclinato e eseguito in due tratti (Gradonico) a testimoniare l’importanza del disegno della lettera
con sinuosità dell’elemento discendente. L’ignoto computista è di sicuro il più colto
rappresentante del gruppo.
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dunque probabilmente al cospetto di una delle famiglie ragguardevoli della classe
dirigente veneziana e non sorprende che un rampollo di lì gemmato venga istruito
allo scrivere e istruito a dovere: egli occupa, dunque, con decisione l’intero campo
grafico, sa mantenere abbastanza regolare l’allineamento, costante il modulo e i
rapporti tra corpo e traversi, coerente il disegno delle lettere, inserisce un apposito
spazio a separare le parole (sillaba solo Bertolameo), adotta una elegante maiuscola
per un termine di rilievo (Sancto). Non lega i caratteri, questo è vero, ma accosta le
curve contrapposte (da in dao, de in dela, be in Bertolameo), conosce il grafema st (ma
è difficile capire se effettua il legamento o meno). Da notare sono la d con traverso
inclinato e sinuoso, la f ribassata sul rigo, la t col traverso che non solo è elevato (si
ricordi Marchesina), ma curva anche decisamente a sinistra, la r in tre varianti. Una
scrittura dunque colta e bene eseguita quella del Contarini, cui sembra mancare solo
la frequenza dell’uso per acquistare la sicurezza di una mano professionale.
7. Tutte posteriori di una generazione, e dunque più evolute, sono le altre note
tergali inserite in (b), la classe intermedia dove sono posti gli appunti caratterizzati
da una conoscenza non elementare dell’alfabeto e delle tecniche di scrittura pur
conservando, in generale, un mediocre livello di esecuzione. Poco può dirsi dell’attergato n. 4a, viste le pessime condizioni di conservazione in cui versa a causa dei
numerosi punti in cui l’inchiostro è distaccato (del 4b si è detto al § 4), se non che la
s poggia sul rigo, che l’ultimo minimo di n scende, come di consueto per le scritture
del periodo, al di sotto del rigo e che si trova utilizzata la nota tironiana per et: una
presenza che segnala la prossimità a processi scrittori di matrice più professionale
(documentari). La forte irregolarità che si riscontra nel disegno delle lettere, tuttavia, unita all’approssimativa impaginazione (su due righe per una erronea valutazione dello spazio da occupare), individuano uno scrivente dalle modeste attitudini, o
dalla scarsa frequentazione con lo scrivere.
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9. Certamente a un livello inferiore si colloca l’ultimo esponente del ragruppamento: Romeo Quirini membro di nobile famiglia duecentesca (doc. n. 14). La sua è
una scrittura semplice prossima alle realizzazioni più elementari (con cui condivide
l’incorrere in errori: donona, testameto), ma è nell’insieme ben allineata, equilibrata nei
rapporti tra corpi e aste delle lettere e con impaginazione centrata (in altri contesti
si sarebbe potuto dire di modello epigrafico). Avvia la nota, altro fatto di un certo
rilievo, con un segno di paragrafo non banale e mostra di possedere un discreto
controllo della penna. Il disegno delle lettere è, per l’epoca (si tratta della testimonianza più recente tra quelle qui considerate), arcaizzante, come si vede, per es.,
dalla t con cospicuo tratto di attacco a sinistra del traverso (cfr. § 2 e 6). Mette conto
di registrare, ancora, l’ultimo minimo di m prolungato sotto la lettera, la s con volta
sotto il rigo, la solita d con traverso inclinato sinuoso.
Uno dei limiti maggiori che si incontra nel formulare giudizi in merito all’educazione grafica di chi ha redatto brevi frasi a mo’ di sunto, o di commento, o di
integrazione a testi documentari (ma il discorso può essere, ovviamente, esteso) è
costituito dalla frequente oscurità dell’autore. In qualche caso, del resto raro e fortunato, se ne può conoscere il nome, ma spesso, anche così, non ci si può spingere
oltre. Quando poi l’ulteriore ostacolo che si frappone non sono le eventuali omonimie, allora a complicare il quadro interviene l’incertezza dei dati biografici. È il caso
di Romeo Quirini, al quale volentieri attribuiresti un’età avanzata, giustificando con
questo le incertezze rilevabili nella sua annotazione.
10. L’ultima classe è contraddistinta da scritture nelle quali si riconoscono alfabeti
e componenti grafici accessori di fattura non elementare cui si uniscono elevato
capacità dello scrivente. La compresenza dei due aspetti induce a considerare gli appartenenti a questa categoria come scriventi che hanno ricevuto un insegnamento
di livello superiore e avuto un rapporto quotidiano con l’attività scrittoria. In questo
senso, con ampliamento del campo semantico del termine, essi sono qui definiti
‘professionisti’.12
Tali caratteri sono riconoscibili sin dalla prima registrazione (doc. n. 2), riconducibile all’erede di un non meglio noto Pietro Rossano. La concisa nota di tipo
archivistico è aperta e chiusa da punto medio (forse doppio all’inizio) e suddivisa
in due sezioni significanti da un semicolon. L’allineamento imperfetto è bilanciato da
una esecuzione fluida e regolare delle lettere. Si ritrovano le d con traverso sinuoso,
la s flessuosa e la t con tratto di penna a sinistra per l’attacco del traverso, ma qui
si constata la regolarità della a (disturbata solo dalla prossimità con il secondo segmento della r in tera), la presenza di una elegante k con occhiello superiore chiuso,
12. Dunque non solo chi scrive per professione: copisti e notai in primo luogo; ma anche chi ha
appreso scritture professionali (la textualis o la cancelleresca) piegandole poi agli usi della quotidianità.
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l’uso di un dinamico legamento st in cui la testa della t pare connettersi col tratto di
attacco della successiva r (lo stesso fenomeno si osserva tra t e e in tera). Ma il fattore
qualificativo è certamente costituito dalla forcellatura dei traversi di l e k: un aspetto
che accosta inevitabilmente questa scrittura a produzioni colte di ambito librario.
12. Il secondo filone è costituito dalle scritture di matrice cancelleresca. Si va dalle
forme di Tommaso Michiel, all’elegante e raffinata scrittura del doc. n. 10, dove
forte sembra agire un processo di imitazione libraria. La radice cancelleresca (documentaria, si vuole dire), riconoscibile nelle ampie volte di l, b (in Tibaldin quasi chiusa in occhiello) e di q e s, nell’accentuata sinuosità del traverso della d, nel ritorno
verso destra della parte sotto il rigo di m e n è come trattenuta dall’attuazione verticale e al tratto delle lettere, nel perfetto allineamento, nella corretta giustificazione e
temperata dalla composizione per unità sintagmatiche (elacarta, lacomesaria) nonché
dall’apparente assenza di punteggiatura.
13. Perfettamente cancelleresca è la mano dell’annotazione al doc. n. 8. I traversi
di f, r e s raddoppiati e realizzati con un solo tratto di penna, il ritorno a destra dei
prolungamenti sotto il rigo di h e m, le ampie volte di d, h e l, la g con occhiello inferiore schiacciato e tratto di chiusura che lo oltrepassa in basso, la e con occhiello
ampio e verticalizzato: tutto è ben coerente con il contesto cronologico offerto dal
13. Al punti segnalati in edizione di aggiunga quello dopo carta in prima riga.
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11. Al medesimo ambiente rimandano sia l’annotazione tràdita col doc. n. 3, oggi
di scarsissima leggibilità, cui si associa quella del doc. n. 7 che Giacomo Trevisan
scrive con modulo assai minuto e incerta esecuzione (dove si noteranno almeno i
punti che delimitano la frase e la M e la S iniziale accanto alla f appoggiata sul rigo
con raddoppiamento del traverso), sia quella, elaborata e complessa, del doc. n. 6.
Quest’ultima è eseguita, come si usa dire, al tratto di penna (si veda la l in tre tratti;
la presenza di cospicui piedi al termine del minimo di r e del primo minimo di m; la
realizzazione, in qualità di elemento separato, della volta sotto il rigo della stessa m,
laddove, si noti, la n ne rimane del tutto priva) e con penna mozza a sinistra, che è
poi lo strumento necessario per la textualis. Sia è al cospetto, in effetti, della scrittura più colta fra tutte quelle qui presentate e di aulica formulazione, a cominciare dal
ricco apparato di maiuscole (C tre volte, E, S, V) usato con proprietà (l’unico caso
che potrebbe destare un sospetto di scarsa funzionalità, quello della E, è riservato,
certo non per caso, al verbo dispositivo), per proseguire con la non scarsa (sebbene
semplificata) punteggiatura,13 arricchita dal segno di paragrafo iniziale. Notevole,
infine, la q con occhiello aperto in basso e traverso distanziato (l’aspetto è quello di
c più traverso) che si ritroverà in altre mani della classe.
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Antonio Ciaralli
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documento che ne veicola il testo. Per quanto riguarda il fattore corsivo, basterà
guardare alla r tracciata con un unico colpo di penna, ai legamenti eg ma soprattutto
gu (segurtathe) e ri, alla t che si collega col primo segmento di h; per rendersi conto
delle potenzialità offerte dalla tipologia grafica e della piena padronanza che del
mezzo manifesta lo scrivente. La multifunzionalità del tratteggio è bene dimostrata
dall’identità di base tra f e s, tra il traverso di h e di l, del minimo di t (con attacco a sinistra) con quello di u. L’esatto opposto di quanto avviene nel caso di Maria Darpo.
14. Di livello usuale è, invece, la documentaria messa in opera da Tommaso Michiel
nelle registrazioni depositate nei docc. nn. 11 e 13. Se si potessero stabilire dei
rapporti di cronologia sulla base delle manifestazioni esteriori della scrittura, allora
verrebbe da dire che l’ordine delle due note dovrebbe essere invertito, in quanto
quella al n. 11 mostra segni di ‘anzianità’ della mano più evidenti che non l’altra. In
ogni caso, Tommaso dimostra di mantenere un ottimo allineamento, di conoscere
una pur modesta punteggiatura (nella nota al n. 11 due punti racchiudono la cifra
scritta in modo opportuno), un punto medio segue kasarol e di possedere un sistema abbreviativo specifico (lib., gross.) insieme all’et tachigrafico. Notevole la spigolosa g con tratto di chiusura dell’occhiello inferiore che supera la base della lettera,
la f appoggiata sul rigo e pure interessante il costante legame grafico dei sintagmi
introdotti da particella (delib., degross., deme, daka) o da articolo (delaprima, loconte, deleposesion), la q con traverso distanziato (cfr. § 12). Arcaismi grafici sono la k e la ç.
15. Rimane da dire qualcosa della scrittura di Pietro Peio (n. 12). Il commerciante di
pellicce veneziano dimostra un’alfabetizzazione di rango piuttosto alto e cronologicamente moderna: anzi, è forse la più moderna fra tutte le mani fin qui descritte.
Il livello esecutivo non è curato, la scrittura è veloce, inclinata a destra. Ma organizzato è il processo di registrazione, scandito per item, e cospicuo il panorama di
legamenti (notevolissimo quello di ch in charte). Bene sviluppati sono i caratteri della
cancelleresca, come il raddoppiamento dei traversi e il sistema delle volte sotto il
rigo (ormai limitato a h e p, sebbene per quest’ultima lettera non sia sistematico).
Duplice il tratteggio della d che ha l’occhiello superiore chiuso quando non esprime
il compendio d(e). In effetti il sistema abbreviativo appare articolato tra sigle (ser),
troncamenti (item) e grafemi monetari e numerici (1/2) e solo sporadicamente si
rileva un uso incongruo dei segnali di abbreviazione.14 Ridotta, ma pur presente,
infine, la punteggiatura.
16. Il campione di attestazioni considerato, limitato numericamente ma pur sempre
significativo, si presta a alcune provvisorie valutazioni. La necessità di annotare nel
14. Oltre ai casi segnalati in edizione si aggiunga quello sopra Sivestro.
Annotazioni paleografiche I
15. Appartengono alla prima metà del XIIIsecolo i nn. 1 e 2; al terzo quarto i nn. 3 e 8; all’ultimo
venticinquennio il n. 10; alla seconda metà i nn. 6 e 15; alla fine del secolo la n. 14; sono più o meno
coeve alle date degli atti i nn. 4 (1260), 5 e 7 (1265), 11 (1280), 12 (1284), 13 (1290), 16-20 (1293).
È databile la sola nota al n. 9 (giugno – metà agosto 1276).
16 . Cfr. Formentin, Note dorsali, p. 18, al numero 2.
17 . Una volta scartata la possibilità che sia il Tebaldino monetiere destinatario del finanziamento, è impossibile stabilire a chi, fra gli altri due due fedecommissari, appartenga la nota. Del resto
di uno, Antonio Naticherio, non si hanno al momento altre notizie. Un Tommaso Signolo della
contrada di S. Margherita, invece, forse lo stesso del fedecommesso di Pietro Foscolo, acquista il
3 agosto 1300 certo capitale dato a prestito, cfr. B. Cecchetti, Note sulle finanze antiche della Republica
veneta, in «Archivio veneto» XXXVI (1888) pp. 71-98: 91.
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verso di un ‘documento’ una frase o alcune parole, che risultano essere per lo più in
connessione (di solito diretta) con il contenuto registrato nel recto della medesima
pergamena, è un fenomeno che accompagna tutta la documentazione medievale
soprattutto a partire dall’xi secolo in poi, da quando, cioè, le necessità imposte dalla
tutela e dal recupero del patrimonio, in specie immobiliare, imposero una maggiore
cura nella conservazione archivistica dei relativi titoli legali. La stragrande maggioranza di tali note sono in latino: quando e perché si passa al volgare è questione che
merita considerazione.
Le venti annotazioni pubblicate, distribuite nell’arco di almeno tre quarti di
secolo,15 appartengono a quindici diversi scriventi. Di quattro tra costoro non possono stabilirsi relazioni esplicite con il documento che le tramanda (nn. 5, 6, 8, 9).
Per il n. 5, una volta esclusa l’autografia, non rimane che pensare a un amministratore di Pietro Trevisan, ma le forme elementari della sua scrittura ostano col
profilo di una figura professionale. Del n. 6 si può dire che, pur restando ignoto,
l’annotatore non usa il cognome per identificare Marco, il che lascia aperta la possibilità che pur si tratti di una persona in stretta familiarità con i Michiel.16 Chi scrive
il n. 8 doveva essere, evidentemente, in rapporto diretto con Tomaso Boldù da cui,
come dichiara, ha ricevuto in affidamento l’atto. Lo stesso tipo di relazione doveva
intercorrere tra chi ha redatto la nota a scomputo di un prestito e il mutuante (n.
9): se per ragioni di logica la pergamena doveva essere in mano al depositario della
somma, è però vero che le competenze grafiche dell’estensore, di impronta documentaria, non molto si addicono all’ipotetica cultura di un abate.
In cinque note a scrivere sono gli eredi diretti di un attore del negozio giuridico
rogato nel recto (autore o destinatario): si tratta di un figlio per il n. 1, di un discendente non meglio precisabile per il n. 2, nel doc. n. 3 a scrivere è un nipote, nel
n. 14 scrive Romeo Querini marito della testatrice. Nel doc. n. 4, infine, scrivono,
secondo l’ipotesi formulata, marito e madre della testatrice che svolgono, nel caso
specifico, anche la funzione di esecutori testamentari.
Una registrazione è frutto dell’intervento di uno tra i fedecommissari (n. 10).17
Antonio Ciaralli
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Le restanti cinque mani rivelano connessioni dirette e inequivocabili con l’azione
giuridica tràdita nel recto: per l’esattezza sono le mani dei relativi destinatari. La
quasi totalità delle annotazioni in volgare oggetto di queste note, dunque, risultano
essere l’espressione di un legame diretto e proprietario con il supporto che le veicola.
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Sette sono scritture che rivelano sembianze professionali, nel senso che a questo
termine si è inteso dare: di uno sappiamo con certezza che si tratta di un appartenente al ceto commerciale (Pietro Peio commerciante in pelli); tre sono destinatari
del documento (Giacomo Trevisan, Tommaso Michiel e Pietro Peio). Cinque sono
state inserite nella categoria intermedia e spettano tutte, tranne il dubbio caso al n.
9, al gruppo degli eredi. Tre, infine, come indicate all’inizio, sono quelle veramente
elementari e due tra queste appartengono, senza che ciò sorprenda, a donne.
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