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Le frodi carosello in materia di IVA

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Le frodi carosello in materia di IVA
IVO CARACCIOLI
Avvocato, già Ordinario di diritto penale nell’Università di Torino, Presidente del
“Centro di diritto penale tributario”
LE “FRODI CAROSELLO” IN MATERIA DI I.V.A.
Per ben comprendere il fenomeno delle c.d. “frodi carosello” in materia di IVA riportiamo
qui uno schema che è stato redatto a cura del Comando Generale della Guardia di
Finanza, e che si ritrova in testa a molte delle verifiche effettuate.
Testo della circolare:
“La Guardia di Finanza annovera tra i compiti demandatigli di più elevato profilo
investigativo la tutela degli interessi finanziari dell’Unione Europea (UE).
Questi vedono la loro materiale rappresentazione nel Bilancio dell’UE, cioè nel documento
dove figurano le uscite, caratterizzate per lo più da stanziamenti e finanziamenti delle
politiche comunitarie (quali, ad es. quelli a carico del Fondo Europeo di Orientamento e
Garanzia – FEOGA, ovvero quelli finalizzati all’attuazione della Politica Agricola Comune –
PAC), e le entrate comunitarie. Queste ultime, definite “risorse proprie”, hanno sostituito,
ormai da anni, i contributi che un tempo gli Stati membri destinavano alla Comunità e
provengono sia dai dazi sugli scambi con i paesi terzi (extra UE), secondo le molteplici
forme previste (doganali, anti-dumping etc.), sia, in misura di gran lunga più elevata, dalle
entrate derivanti dall’applicazione dell’IVA sugli scambi di beni e prestazioni di servizi.
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La considerevole consistenza quantitativa delle entrate comunitarie riconducibili
all’applicazione dell’IVA rende, di conseguenza, facilmente intuibile l’estrema importanza
assunta dalle misure di contrasto alle frodi tese ad aggirarne la corretta applicazione.
Per meglio chiarire le tematica, è necessario descrivere, in estrema sintesi, il campo di
applicazione dell’IVA in specie in ambito comunitario.
Come è noto, a mente dell’art. 1 del D.P.R. 633/72, l’IVA “… si applica alle
cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate nel
territorio
dello
Stato
nell’esercizio
di
impresa
o
nell’esercizio di arti e professioni e sulle importazioni da
chiunque effettuate”. Come si vede, mentre negli scambi tra cedente
(imprenditore e/o libero professionista) e cessionario italiani l’imposta viene assolta dal
cedente (che è il “soggetto passivo” a mente del successivo art. 17), nel caso di
importazione
viene
assolta
dal
cessionario/importatore
(anche
se
non
imprenditore/professionista). In tale contesto per importazione si intende l’introduzione di
beni provenienti da paesi extra UE.
Per gli scambi tra paesi UE, infatti, dal 01 gennaio 1993 è in vigore la disciplina degli
“acquisti
intracomunitari”
per
la
quale,
dall’originario
intento
di
accompagnare
l’eliminazione delle frontiere tra paesi membri con l’introduzione della tassazione IVA nello
stato membro d’origine, dovette ripiegarsi, a causa delle diverse aliquote applicate dai
paesi membri, in un regime transitorio di tassazione nello stato membro di destinazione,
pur sopprimendo le barriere doganali in ambito comunitario.
Il regime degli acquisti intracomunitari trova dettagliata regolamentazione nel D.L. 331/93
convertito nella Legge 427/1993 che all’art. 38 li individua quali acquisti “…. di beni
effettuati nel territorio dello Stato nell’esercizio di
imprese, arti e professioni o comunque da enti soggetti
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passivi nel territorio dello Stato”. Devono, pertanto, escludersi gli
acquisti intracomunitari ove il cessionario/acquirente non sia soggetto passivo d’imposta
(vale a dire non sia imprenditore/professionista o ente e quindi consumatore finale), con
l’eccezione degli acquisti a titolo oneroso di mezzi di trasporto nuovi (co. 3, lett. e art. 38).
Gli acquisti intracomunitari, sotto il profilo contabile, comportano la cosiddetta “doppia
registrazione”: il contribuente integra la fattura ricevuta dall’operatore comunitario con
l’ammontare dell’imposta (art. 46, comma 1, del D.L. n. 331/1993), provvedendo inoltre a
registrarla nel registro delle fatture emesse (art. 47 del decreto-legge citato; in tal modo si
crea il debito d’IVA); correlativamente è ammessa la detrazione dell’imposta per il pari
importo ai sensi dell’art. 19 del D.P.R. n. 633/1972, cosicchè
la fattura viene anche
annotata, secondo i principi generali, sul registro degli acquisti (artt. 45 e 47 del decretolegge citato).
Così operando, l’effetto pratico dell’acquisto, sotto il profilo dell’IVA, diventa neutro per il
cessionario (IVA a debito e IVA in detrazione si compensano, annullandosi), ma l’imposta
è applicata quando, a sua volta, quest’ultimo provvederà a rivendere il bene in ambito
nazionale, emetterà fattura “aggiungendo” l’IVA e verrà così ad assumere il reale ed
effettivo debito d’imposta (consistente nell’obbligo di versare all’Erario l’importo pari all’IVA
pagatagli dal cliente italiano).
A questo punto, appare chiaro che un’impresa nazionale, la quale operi abitualmente
acquistando beni da una impresa comunitaria e rivendendoli ad altro soggetto nazionale,
viene ad accumulare un importante e crescente debito d’IVA, che viene a crearsi via via
che le merci sono immesse nel mercato interno.
Risulta quindi intuitiva la ragione per cui la normativa in esame si presta ad essere
“sfruttata” da condotte criminali gravissime ed insidiose: attraverso l’interposizione di un
soggetto che acquisti fittiziamente dal fornitore comunitario e rivenda al reale compratore
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assumendosi quindi l’integrale debito d’imposta, l’effettivo acquirente si trova ad utilizzare
fatture alle quali è applicata l’IVA, così da assumere il correlativo diritto alla detrazione; gli
importi pari all’IVA, formalmente versati dal reale acquirente all’interposto, vengono poi
variamente “spartiti” tra i due interessati atteso che, di regola, l’interposto stesso non
presenta alcuna dichiarazione ovvero pur presentandola non provvede ovviamente al
pagamento dell’imposta.
Il medesimo effetto viene a prodursi qualora l’interposto, pur non acquistando direttamente
da una impresa comunitaria, acquisti da un fornitore nazionale al quale abbia presentato la
“dichiarazione d’intento” prevista dall’art. 1 co. 1 lett. c) del D.L. 746/1983 convertito nella
L. 17/1984, e cioè il documento che attesta l’intenzione di avvalersi della facoltà di
effettuare acquisti o importazioni senza applicazione dell’imposta nel caso in cui dichiari di
essere “esportatore abituale” così come previsto dall’art. 8 co. 1 lett. c) del D.P.R. 633/72,
vale a dire operatore che dichiari di aver effettuato cessioni all’esportazione, quindi verso
paesi extraEU, nei limiti del’ammontare delle esportazioni effettuate nell’anno precedente.
Anche in questo caso, infatti, l’interposto, sul fronte dei suoi acquisti –così come visto per
gli “acquisti intracomunitari”, che comportano neutralità dell’IVA per via della doppia
registrazione- non dovrà assolvere l’IVA, con il risultato che nel caso le dichiarazioni
d’intento presentate al fornitore italiano siano false beneficerà di una indebita non
imponibilità e all’atto di rivendere ad altro operatore nazionale accumulerà “IVA a debito”
che, per lo stesso intento fraudolento descritto, si guarderà bene dal versare.
La consolidata esperienza maturata, al riguardo, dai reparti del Corpo ha dimostrato che le
suddette imprese “interposte” possano, pacificamente, chiamarsi anche “cartiere”
in
quanto aventi, quale minimo comune denominatore, una o più delle seguenti
caratteristiche:
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a. ditte individuali o società a responsabilità limitata, intestate ad un “prestanome”
nullatenente
e,
spesso,
senza
aver
maturato
una
specifica
esperienza
imprenditoriale;
b. forniscono, attraverso una fittizia copertura contabile e documentale, una parvenza
di regolarità alle predette operazioni;
c. riducono o azzerano, come visto, l’imposta dovuta sugli acquisti sia attestando
fittiziamente di effettuare “acquisti intracomunitari” da fornitori comunitari sia
acquistando da fornitori nazionali ai quali presentano false “dichiarazioni d’intento”,
in entrambi i casi non imponibili IVA, e vendendo, solo formalmente, ad altri
operatori nazionali accumulando una considerevole IVA a debito che non versano.
Da quanto descritto emergono evidenti condotte fraudolente, basate sulla fittizietà del
ruolo rivestito nella filiera della distribuzione dall’”interposto” che, infatti, non acquistando
realmente dal fornitore comunitario o dal fornitore nazionale al quale presenta falsa
dichiarazione d’intento, si interpone formalmente al solo fine di consentire al proprio cliente
nazionale, nei cui confronti risulta fornitore da fatture artatamente emesse, di accumulare
una considerevole “IVA a credito” da portare in detrazione (corrispondente alla sua
considerevole “IVA a credito” da portare in detrazione (corrispondente alla sua IVA a
debito non versata), cliente nazionale (anche detto “interponente”) che risulta, di
conseguenza,
il
reale
beneficiario
della
frode,
e
rispetto
al
quale
“l’interposto/cartiera/prestanome” riveste, quindi, una funzione servente, retribuita dal
primo (spesso per il tramite di soggetti terzi, per sviare sospetti) con un vero e proprio
stipendio.
Il riflesso penale immediato di tale frode è quindi l’emissione, ascritta a carico delle
imprese “interposte/cartiere”, di fatture per operazioni inesistenti nei confronti
dell’interponente, condotta prevista e punita dall’art. 8 del D.Lgs. 74/2000 mentre, di
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riflesso, nei confronti di quest’ultimo potrà ravvisarsi il reato di cui all’art. 2 del
D.Lgs. 74/2000, in quanto avvalsosi degli elementi passivi fittizi originati dalle dette
fatture per operazioni inesistenti in sede di dichiarazione annuale.
Più particolare, nel caso in cui le fatture, per quanto false, sottendano ad uno scambio
reale di merci –però, ed è questo il punto, non provenienti dall’interposto ma direttamente
dal fornitore di questo (sia esso comunitario o nazionale), o, al più, rispetto al quale
scambio l’interposto abbia solo prestato la propria disponibilità di stoccaggio per
pochissimi giorni o l’opera di trasportatore- le fatture saranno “soggettivamente”
inesistenti (in quanto recanti quale fornitore un soggetto non realmente parte contrattuale
e cioè l’interposto/cartiera), mentre se, addirittura, non vi è stata, in realtà, alcuna cessione
di merci si avranno fatture “oggettivamente”inesistenti.
Il beneficio che realizza l’interponente –cioè colui che, come ricordato, si giova della froderispetto all’acquisto direttamente dal cedente originario (comunitario o nazionale) è che
attraverso
lo
“schermo”
dell’”interposto/cartiera/prestanome”
realizza
un
duplice
considerevole vantaggio:
uno di carattere fiscale, perché invece di vedersi riconosciuta la non imponibilità IVA
all’acquisto, sia nel caso effettuasse direttamente l’”acquisto intracomunitario” ( per via
dell’accennata doppia registrazione e conseguente neutralità dell’operazione) sia
nell’ipotesi di acquisto da fornitore nazionale cui presentare falsa “dichiarazione d’intento”,
attraverso l’inserimento dell’interposto, matura il diritto alla detrazione dell’IVA sugli
acquisti, e cioè l’IVA a credito (non versata dall’interposto);
uno
di
carattere
economico,
conseguenza
del
ruolo
figurativamente
ricoperto
dall’interposto nella catena distributiva in un anello antecedente rispetto a quello
dell’interponente, posizione che comporta l’acquisto a prezzi più bassi (soprattutto se
l’acquisto è intracomunitario) e che consente allo stesso interposto di figurare nelle
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successive fatture per operazioni inesistenti quale fornitore ad un prezzo “sottocosto”
praticato all’interponente, avendo la possibilità di recuperare la conseguente perdita
proprio omettendo di versare l’imposta dovuta.
Il fenomeno ha assunto tali dimensioni da giustificare l’intervento dell’UE che attraverso la
Commissione Europea, nell’ambito dei lavori SCAC (Comitato permanente per la
cooperazione amministrativa), ha stilato, nel 2002, una guida pratica contro le frodi
“carosello” all’IVA intracomunitaria. In tale sede sono state individuate le figure tipiche
ricorrenti nello specifico tipo di frode:
A. Conduit Company (società del condotto). Il fornitore comunitario, rappresentato
dalla cosiddetta società del condotto. Tale società risiede in uno Stato membro
diverso da quello in cui la frode viene successivamente realizzata, per effetto del
mancato versamento dell’IVA. Essa provvede alla registrazione di acquisti e
cessioni intracomunitarie che risultano totalmente neutri dal punto di vista
dell’imposta sul valore aggiunto.
B. Missing trader (operatore assente, d’ora in poi “interposto/cartiera/prestanome”).
Si attua con la costituzione nel territorio nazionale di una o più società fittizie
convenzionalmente denominate “cartiere” (in quanto la loro unica attività è quella di
fornire, alle imprese che lo richiedano, fatture per operazioni inesistenti).
Solitamente tali società risultano residenti presso indirizzi di comodo o addirittura
fittizi e, in ogni caso, non svolgono nessuna attività commerciale effettiva. La
titolarità delle ditte missing traders viene solitamente attribuita a soggetti
“nullatenenti”. Ciò consente di ostacolare eventuali azioni di recupero dell’imposta
evasa da parte delle Amministrazioni finanziarie a meno che non si riescano ad
individuare i reali responsabili delle organizzazioni criminali.
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C. Broker (rivenditore o intermediario, d’ora in poi “interponente”). Il rivenditore è un
altro soggetto immancabile all’interno del meccanismo fraudolento; questo
provvede all’acquisto da un fornitore nazionale, registrando il relativo credito IVA ed
immette i prodotti sul mercato nazionale; per massimizzare la frode talvolta effettua
una cessione intracomunitaria della merce ad un operatore residente in un altro
Stato membro; in questo caso, la cessione risulta “non imponibile” per cui il cedente
intracomunitario –l’intermediario- ha diritto al rimborso dell’IVA pagata in seguito
all’acquisto effettuato dal fornitore nazionale, ovvero vende in esenzione IVA –ex
art. 8 D.P.R. n. 633/72 –a falsi esportatori abituali.
D. Buffer (filtro). Trattasi di soggetto non indispensabile per la frode. La “società filtro”
svolge funzioni di “stabilizzatore”, per effetto dell’interposizione tra la cartiera e
l’intermediario. Essa, infatti, acquista le merci dalla cartiera e le rivende
immediatamente all’intermediario emettendo regolare fattura. La società filtro
provvede all’effettivo versamento del saldo IVA pari alla differenza fra il credito
derivante dall’acquisto della merce –che corrisponde all’IVA formalmente versata
dalla società cartiera- e l’IVA a debito determinata dalla cessione della merce
all’intermediario. L’interposizione del buffer –come viene comunemente
denominata la società filtro a livello comunitario- consente quindi di creare un filtro
che potrebbe ostacolare la connessione diretta tra la società cartiera e l’effettivo
cessionario della merce.
A seconda dell’origine della merce ed attraverso il distorto utilizzo dei vari regimi di “non
imponibilità” previsti dalla normativa fiscale, i meccanismi dell’interposizione fittizia
vengono comunemente realizzati secondo i seguenti schemi di frode:
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a. nel caso di forniture da Paesi UE, le società cartiere assumono l’onere del
mancato versamento dell’IVA relativa alla successiva cessione in ambito nazionale
della merce di provenienza comunitaria (ai sensi degli artt. 38 e segg. D.L. 331/93);
Il precedente è lo schema più semplice e ricorrente di questo tipo di frode, dove in
sostanza: la società (A) effettua una cessione di beni intracomunitaria ad una
società (B), che è localizzata in un altro Stato ed è un “società fittizia”, nel senso
che è sostanzialmente una mera “testa di legno”, priva di qualsiasi solvibilità.
La società (B), acquirente intracomunitario, integra la fattura proveniente dal
cedente e liquida l’imposta dovuta, senza necessità,tuttavia, di effettuare alcun
versamento all’Erario, dal momento che la contestuale detrazione dell’IVA
neutralizza l’imposta a debito e l’obbligo del relativo versamento.
Successivamente (B) effettua una cessione interna ad un terzo soggetto passivo
(D), incassa l’IVA addebitata in rivalsa a (D), ma, prima di “scomparire”, non versa
all’Erario l’IVA sugli acquisti effettuati presso (B) (eventualmente con diritto al
rimborso) e successivamente può effettuare (o solo simulare) un’altra cessione
intracomunitaria, non imponibile, alla prima società (A). Quest’ultima può, a sua
volta, porre in essere una nuova cessione intracomunitaria a (B) e così il ciclo della
frode si ripete.
Per rendere più difficili gli accertamenti, nella parte “interna” del circuito di cessione
vengono, talvolta, frapposti degli intermediari, o cosiddette “società cuscinetto”,
attraverso cui i beni “transitano” da (B) a (C). Si passa così da una struttura
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triangolare a quadrangolazioni o a catene in cui sono coinvolti ancora più soggetti.
Queste “società cuscinetto”, la cui presenza è eventuale e comunque non
indispensabile alla perpetrazione della frode, possono essere consapevoli della
frode, ma possono anche esserne del tutto all’oscuro.
Le varianti dello schema-base sono molteplici: in particolare, specie nelle catene
“chiuse”, è frequente che l’acquirente comunitario effettui la successiva cessione ad
un prezzo “sottocosto”, altamente concorrenziale e vantaggioso per il cessionario, e
recuperi la conseguente perdita proprio omettendo di versare l’imposta dovuta.
In tal modo il vantaggio economico derivante dall’inadempimento dell’obbligo di
versamento viene di fatto “ripartito”, a spese dell’Erario, tra l’acquirente
intracomunitario e il successivo cessionario.
b. nel caso di forniture nazionali, l’interposizione della società cartiera avviene
di norma nella forma che prevede la presentazione al fornitore nazionale di
false dichiarazioni di intento per l’esportazione in assenza
dei requisiti previsti dal combinato disposto dell’art. 8, c. 1 lett. c) del D.P.R. 633/72
e dell’art. 1, c. 1, lett. a) e c) del D.Lgs. 746/83.
I prodotti della telefonia sono stati espressamente indicati –insieme a quelli dei
personal computers e componenti, degli autoveicoli, e degli animali vivi
bovini, ovini e suini- dal D.M. del 22 dicembre 2005 come quelli per i quali, attesa
l’esperienza investigativa che li ha visti più sensibili alla perpetrazione dei fenomeni
fraudolenti in parola, opera la c.d.”solidarietà passiva” al pagamento dell’IVA
prevista dall’art. 60 bis del D.P.R. 633/72 (introdotto dalla “Finanziaria” di cui alla L.
311/2004), che ha disposto, nel caso di mancato versamento dell’imposta da parte
del cedente relativa a cessioni effettuate a prezzi inferiori ai valori normali, che il
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cessionario, soggetto agli adempimenti ai fini IVA, sia obbligato solidalmente al
pagamento dell’imposta.
Al riguardo, a partire dalla Comunità Europea sino ad arrivare agli Organi del
vertice del Ministero dell’Economia, ivi compreso il Comando Generale del Corpo,
sono state diramate, negli anni, direttive volte a sensibilizzare il monitoraggio,
attraverso le banche-dati nella disponibilità della Guardia di Finanza, ed il contrasto
alle fattispecie criminali in rassegna.
Il disvalore conseguente alle condotte fraudolente in argomento –oltre a
manifestarsi nell’indebita detrazione dell’IVA (mai pagata “a monte”, sulla scorta
delle fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, emesse dalle
“cartiere”) e nella conseguente possibilità di poter praticare prezzi inferiori a quelli
di mercato, creando un effetto discorsivo della concorrenza– si estrinseca in un
vero e proprio attacco ai principi fondanti posti a base del nostro ordinamento
tributario ed in particolare quelli afferenti alla corretta contribuzione al carico
tributario, sanciti dall’art. 53, 1° comma della Costituzione”.
***
Osservazioni del relatore:
Nelle operazioni c.d. “frodi carosello” vengono in considerazione le fattispecie criminose di
cui agli artt. 2 e 8 D.Lgs. 10/3/2000 n.74, la prima consistente nella “dichiarazione
fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”, la seconda
nella “emissione di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti”. Entrambi tali reati
sono caratterizzati dalla mancata previsione di soglie quantitative di punibilità, e quindi si
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verificano anche se trattasi di fatture di modesto importo, salva l’applicazione di
un’attenuante.
In base all’art. 9 stesso D.Lgs., in deroga all’art. 110 c.p., non può esservi concorso tra
emittente ed utilizzatore. Peraltro, rispettivamente con il primo od il secondo, o con
entrambi, può essere punibile il concorso di un estraneo (ad es., il “mediatore”, che ha
messo in contatto la “cartiera” con l’utilizzatore delle fatture false; il consulente esterno che
ha parimenti operato).
Molto importante, in argomento, è la definizione di “fatture o altri documenti per operazioni
inesistenti” di cui all’art. 1 lett. a) stesso D.Lgs., che si basa sulla reale inesistenza
dell’operazione o sulla difformità dei soggetti tra i quali risulta effettuata l’operazione
stessa.
Alla luce di tali norme, valutiamo separatamente le varie operazioni che vengono poste in
essere nelle frodi-carosello (esaminate nella forma “triangolare” più semplice):
-
Vendita dei prodotti da parte della società “interposta” (che ha acquistato gli stessi
da fornitore intracomunitario) alla società “interponente” (reale interessata
all’acquisto dei prodotti): la fattura è gravata di IVA, che l’interponente versa
all’interposto, andando a credito il primo ed a debito il secondo; tale operazione, di
per sé considerata, non è censurabile sotto il profilo “oggettivo”, bensì
eventualmente sotto il profilo “soggettivo”, ma nel solo caso che l’interposto non
abbia alcuna struttura di impresa e sia soltanto un’emanazione dell’interponente; in
tale ultimo caso l’interposto è responsabile dell’art. 8 cit.; nell’ipotesi di interposto
completamente fittizio l’interponente non risponde dell’art. 2 cit., in quanto il
destinatario della fattura soggettivamente falsa non ha agito con il dolo di evasione,
avendo sostenuto dei costi realmente pagati;
12
-
Vendita dei prodotti da parte della società “interponente” al cessionario finale, che
paga con IVA: tali fatture non sono fittizie oggettivamente, ma, sussistendo le
caratteristiche di cui sopra circa la falsità soggettiva, procurano un debito di imposta
a carico del venditore, che può essere accusato dell’art. 8 cit.
Nel caso delle frodi-carosello, peraltro, ove sia dimostrato l’accordo preventivo tra tutti i
soggetti partecipanti all’operazione – posta in essere con il fine della “spartizione” dell’IVA
non versata all’Erario da parte di tutti i soggetti – onde superare l’ostacolo rappresentato
dall’art. 9 cit., molte volte la giurisprudenza riconosce l’esistenza dell’art. 416 c.p., sotto il
profilo che trattasi di un accordo preventivo finalizzato alla realizzazione di una pluralità di
reati tributari, ancorchè consumati anche con soggetti diversi. Tale impostazione,
comunque, può essere accettata sempre che sussista quel “minimo di organizzazione
comune” che la giurisprudenza della Cassazione ritiene necessario per l’associazione per
delinquere.
E’ inoltre da tenere presente che l’art. 60-bis D.P.R. 633/72 ha stabilito il principio della
c.d. ”solidarietà passiva”, in forza del quale, in caso di divergenza del prezzo rispetto al
“valore normale” (art. 14 stesso D.P.R.), è prevista la “solidarietà passiva” nel versamento
dell’imposta a carico del cessionario dei beni,in ipotesi di mancato versamento da parte
del cedente.
Il c. 3-bis dell’art. 60-bis, introdotto con L. 244/2007, ha previsto poi analoga disposizione
relativa al trasferimento degli immobili.
Con D.M. 22/12/2005 sono stati individuati i prodotti in relazione ai quali opera detta
solidarietà passiva: autoveicoli, motoveicoli, rimorchi; prodotti di telefonia e loro accessori;
personal-computer, componenti ed accessori; animali vivi della specie bovina, ovina e
suina e loro carni fresche.
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E’ possibile che tale (per ora) ristretta elencazione di materie, elaborata sulla base di
verifiche effettuate all’interno dell’U.E., venga in futuro ampliata, in quanto esistono altri
settori merceologici (ad es., quelli di cui all’art. 74 D.P.R.633 cit.) nei quali il fenomeno
delle “frodi carosello” è molto frequente.
E’ da sottolineare, peraltro, che l’introduzione dell’istituto in esame rileva esclusivamente
ai fini tributari e non direttamente ai fini penali (così, ad es., Cass. 16/1/2006 n. 1427), nel
senso che il fenomeno delle “frodi carosello” può appunto verificarsi anche nelle materie in
cui la solidarietà passiva non è prevista.
Cionondimeno chiediamoci se l’introduzione dell’art. 60-bis possa avere qualche
conseguenza penal-tributaria in relazione alla responsabilità per l’art. 2 D.Lgs. 74/2000 a
carico del destinatario.
Come si è detto, la responsabilità penale per tale reato a carico del destinatario della
fattura (e per l’art. 8 stesso D.Lgs. a carico dell’emittente) si può avere solo nel caso di
grossolane interposizioni dovute alla presenza di cedenti meramente “cartacei” o
comunque non dotati di sufficiente etero-organizzazione e nei casi evidenti di cessioni al di
sotto dei valori medi “di mercato” (ben conosciuti dagli acquirenti che operano nel settore
ed agiscono allo specifico fine di realizzare un’evasione propria e determinati dai cedenti
per consentire agli acquirenti la suddetta evasione).
Orbene, in argomento si può ipotizzare il seguente ragionamento: se l’acquirente dei beni
è “a priori” consapevole che dovrà versare l’IVA del cedente, non gli si può ipotizzare il
dolo specifico del fine di evadere le imposte, non essendo possibile individuare il pericolo
concreto richiesto dall’art. 2 cit.; invero, non vi sarebbe pericolo di lesione del bene
giuridico tutelato dalla norma (consistente nell’integrale percezione dei tributi), laddove
appunto, in base al cit. art. 60-bis, vi è comunque un altro contribuente (il cedente dei
beni) obbligo per legge al versamento dell’imposta.
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Non è, quindi, azzardato ipotizzare il ricorso all’istituto del “reato impossibile” (art. 49 c. 2
c.p.), determinante la non punibilità.
In un’ottica formalistica si potrebbe pensare alla residua applicazione dell’art. 8 D.Lgs.
74/2000, che tutela un diverso bene giuridico ed è caratterizzato da altro dolo specifico, a
carico del cedente, ma il ricorso all’art. 2 cit. può, appunto, nelle suddette materie
“privilegiate” (di tutela fiscale) dare luogo a qualche perplessità.
Allorché, con la L. 248/2006 (in vigore dal 4 luglio 2006), il Legislatore ha criminalizzato un
comportamento prima non punibile (”Omesso versamento di IVA” : art. 10-ter D.Lgs.
74/2000), ossia l’omesso versamento dell’“IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale,
entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo”,
non si è posto specificamente il problema (non avendo previsto opportuna clausola di
riserva rispetto alle fattispecie precedenti) del concorso con i reati di utilizzazione ed
emissione di fatture false (artt. 2 e 8 D.Lgs. 74 cit.). Tale dimenticanza suscita il delicato
problema interpretativo se il nuovo reato sia applicabile anche nel caso che l’IVA risultante
dalla dichiarazione annuale sia stata scorrettamente indicata.
Generalmente si dice che l’art. 10-ter si applica solo nel caso di omesso versamento
dell’IVA dovuta; nel caso di IVA mendacemente indicata in dichiarazione si avrebbe,
invece, il relativo reato ed il nuovo non troverebbe applicazione. E’ proprio così?
Per rendersi conto della situazione venutasi a determinare in conseguenza di tale
“stratificazione” di fattispecie, ipotizziamo diverse situazioni concrete, che tuttavia non
pretendono di esaurire tutte quelle verificabili :
• Indicazione in dichiarazione di IVA in difetto, perché sono stati calcolati dei costi
fittizi risultanti da fatture “passive” false, e così riducendo l’ammontare complessivo
di IVA a debito : si verifica il reato di “utilizzazione” di fatture false in dichiarazione di
cui all’art. 2 D.Lgs.cit., che non ha soglia quantitativa di punibilità. Il nuovo reato
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dell’art. 10-ter in tal caso non è, ovviamente, applicabile ove l’IVA dichiarata sia
versata. Si sostiene, infatti, abitualmente che non si verifica il nuovo reato anche se
l’IVA dichiarata non sia versata, in quanto in questa ipotesi si avrebbe solo l’art.2.
• Indicazione in dichiarazione di IVA in eccesso, perché sono state emesse fatture
false, dando luogo al reato di cui all’art. 8 stesso D.Lgs., che si consuma al
momento dell’emissione delle fatture. Quid iuris se poi tale IVA in eccesso non
viene versata? Si sostiene la verificabilità del nuovo reato, sempre che il relativo
ammontare sia effettivamente quello risultante dalla dichiarazione annuale.
• “Frodi carosello” attuate nella classica forma dell’interposizione di società fittizia: il
soggetto “interposto” acquista i beni da Paese intracomunitario senza IVA e li
rivende al soggetto “interponente” italiano con IVA, che peraltro non la paga (o la
paga solo fittiziamente); l’interponente cede i beni con IVA al destinatario finale, che
invece la paga. Tale IVA non viene versata all’Erario, ma “spartita” fra i due (o più,
se trattasi di frodi maggiormente complesse).
Quale la conseguenza, sul piano sanzionatorio, di tale interpretazione, che sembra
corretta in base al rapporto reciproco tra la nuova fattispecie criminosa e quelle
preesistenti ?
La sanzione prevista per l’art. 10-ter (reclusione da sei mesi a due anni) è molto più mite di
quella prevista dagli artt. 2 e 8 (reclusione da un anno e sei mesi a sei anni); senza tacere
del fatto che questi ultimi reati sono privi di soglia quantitativa, mentre nel caso dell’art. 10ter, giocando opportunamente con plurime imprese, si può far in modo di non superare
mai la soglia quantitativa per ogni contribuente.
Le conclusioni che precedono dovrebbero far riflettere il Legislatore sulla proposta,
sostenuta in vari Convegni, di eliminare l’art. 9 cit. (ormai un “ferro vecchio”, inserito in un
momento storico nel quale le frodi carosello non avevano la dimensione attuale); oppure –
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meglio ancora - di configurare uno specifico ed autonomo reato rivolto a colpire il
fenomeno delle “frodi carosello”, senza dover ricorrere all’espediente della contestazione
dell’associazione per delinquere, molte volte applicata dai P.M. senza che ne esistano i
reali presupposti richiesti dalla giurisprudenza della Cassazione.
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