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Prima e dopo Darwin

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Prima e dopo Darwin
Stefano Angeloni
Prima e dopo Darwin
Scienza e fede
Prefazione a cura di
Giuseppe Prestipino
Copyright © MMIX
ARACNE EDITRICE S.r.l.
www.aracneeditrice.it
[email protected]
00173 Roma
via Raffaele Garofalo, 133 A/B
(06) 93781065
ISBN 978–88–548–2863–6
I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,
di riproduzione e di adattamento anche parziale,
con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.
I edizione: novembre 2009
Alla memoria di mia madre Zelinda Teresi
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Prefazione
Indice
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Prefazione
17 Capitolo I
Prima di Darwin
31 Capitolo II
Il pensiero di Darwin
51 Capitolo III
Dopo Darwin
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Prefazione
Coloro che coltivano gli studi filosofici sono in obbligo, innanzi
tutto, di situare il darwinismo e il suo autore nella storia della scienza,
ovvero di astenersi dal considerare quella dottrina un errore assoluto,
ma anche dal giudicarla una verità definitiva e insindacabile. Storicizzare il darwinismo è ricondurlo al canone moderno, dapprima
illuministico e poi positivistico, di un sapere che cresca su se stesso
per accumulazioni quantitative e che, pertanto, ricerchi nel mondo osservato e analizzato un continuum da scoprire nella sua datità mediante gli strumenti concettuali e sperimentali di quello stesso sapere.
Se, come vuole Popper, sono provvisoriamente accettabili le ipotesi
scientifiche non ancora falsificate da esperimenti idonei, previsti da
quelle stesse ipotesi, e di fatto possibili e reiterabili con le strumentazioni a nostra disposizione, allora l’ipotesi darwiniana è accettabile
per alcuni fenomeni di breve durata e concernenti la vita o la morte di
singoli individui (il caso più banale è la morte di un topo per mancato
“adattamento”, se immerso sott’acqua, l’esempio più convincente è
dato dagli innesti e dalle ibridazioni ad opera di agricoltori o di
allevatori). Quell’ipotesi non è accettabile che come proiezione analogica o per indizi manchevoli (relitti fossili, distribuzioni geografiche
ecc.), se sono in questione i lunghi e lenti processi evolutivi conducenti alla nascita di una specie nuova, alla nascita della specie umana
in particolare. Perciò la condanna del darwinismo dichiarata da Benedetto XVI, dopo le caute aperture di Giovanni Paolo II, fa leva plausibilmente su due argomenti non trascurabili («non possiamo riprodurre
in laboratorio diecimila generazioni» e l’umanità, in particolare, non
può ridursi a un incidente naturale), ma è una condanna inaccettabile
perché, a sua volta, pretende di presentare l’ipotesi creazionistica
come assolutamente vera e definitivamente dimostrata. Essa è invece
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Prefazione
indimostrabile, non prevede nessun esperimento cruciale che eventualmente la falsifichi e pertanto non può competere, sullo stesso terreno,
con l’ipotesi darwiniana. Un Hegel o un Engels redivivi potrebbero
dire del creazionismo, senza rispetto per l’autorità che ne è garante:
“non è come il budino, la cui bontà si prova mangiandolo”. Noi, di
gran lunga più rispettosi, diciamo che è un atto di fede non suffragato
da solidi argomenti di ragione o da procedure sperimentali.
Eppure, anche noi non possiamo che criticare l’evoluzionismo
come teoria generale e onnicomprensiva. E dobbiamo riflettere sul
“paradosso” di un essere umano, in quanto essere che si pone fini e
pone se stesso come fine, ma che nasce dal caso o dalla necessità
(quest’ultima, per Darwin, indistinguibile dal caso). È il paradosso al
quale accenna Stefano Angeloni, in questo libro, e sul quale indugia
il libro recente di Andrea Parravicini, La mente di Darvin. Filosofia
ed evoluzione, edizioni Negretto. Darwin è visto come lo scienziato
di una modernità che ribalta il paradigma platonico–aristotelico di un
mondo e di una vita in generale rispondenti a una finalità intrinseca o
(specie nei presupposti del pensiero cristiano) preordinata dal
creatore. Nella scienza e nel pensiero moderni, specie nel percorso
che va da Kant a Darwin, tende invece a prevalere, da un lato,
l’abbandono delle cause finali con la giustificazione di tutti i
fenomeni naturali mediante cause necessarie e, dall’altro, la
parificazione di tutti i processi storico–naturali sotto la legge di una
evoluzione continua, per aggiustamenti gradualmente quantitativi, in
conformità al concetto, già illuministico, di un progresso lineare,
cumulativo e ascendente. Quanto poco differiremmo da uno
scimpanzè, se ci fermassimo a constatare che il nostro patrimonio
genetico è per il 99% già in dotazione dello scimpanzè. Ritengo che
il paradosso si dilegui se la comparsa dell’Homo sapiens sia studiata,
non soltanto dalle scienze sperimentali, ma anche e soprattutto da un
pensiero ontologico–filosofico–storico che faccia uso della dialettica
nelle sue formulazioni più avvertite, post–hegeliane e post–
marxiane. Potremo allora proporre l’ipotesi, non certa ma concettualmente e storicamente probabile, di un’inversione di dominanza che intervenga a segnare un discrimine (un “salto” dialettico
appunto) nei processi naturali: nella comparsa dell’Homo sapiens il
discrimine sarebbe tra gli esseri a–teleologici, dotati di
Prefazione
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predisposizioni dette da J. Monod «teleonomiche», significanti la
riproduzione inconscia del vivente, e l’essere dotato per primo di
teleologia cosciente. Taluno vede nello Heidegger distruttore o decostruttore della metafisica antica e moderna il filosofo che meglio
abbia saputo mostrare l’affinità speculare tra idealismo e materialismo. A dir vero, il primo e più rigoroso critico delle due “ipostasi”, l’Idea e la Materia, è stato Antonio Gramsci, il quale ha concepito una dialettica complessa delle “mutazioni” qualitative, affermando che nelle scienze naturali tutti i processi sono, sostanzialmente, quantitativi. Egli ha inoltre inficiato il presunto carattere
“contemplativo” del sapere e il concetto tradizionale di una oggettività scientifica, sostituendogli il criterio del consensus intersoggettivo tendente verso l’universalità umana e il criterio dell’operatività
nella pratica sperimentale o, per la filosofia, nella prassi politico–
sociale.
La dialettica storica ci permette di reinterpretare alcuni mutamenti
accertati dalle scienze del vivente. La stazione eretta amplia l’orizzonte per la vista degli umani e, congiuntamente, la mano divenuta libera
e prensile facilita la “presa” sugli oggetti afferrabili o manipolabili.
Una maggiore “teoria” in funzione di una peculiare e più produttiva
pratica. Non il lavoro produce l’uomo, perché il concetto di lavoro è
moderno, ma un più antico fare e quindi farsi. Fin dalle origini, noi
umani siamo migranti (todos/as somos migrantes), perché il nostro
vedere o esplorare più lontano ci induce a cercare sempre nuovi ambienti sui quali applicarci con il nostro saper–fare. Possiamo mutare
ambiente, cercando quello più adatto, anziché dover adattarci all’ambiente datoci e soccombere se non ci adattiamo. Ecco una tipica inversione tra il vivente pre–umano e l’umano. Inversione, non soltanto
emersione di uno strato ontologico qualitativamente nuovo. Il primo
conoscere è un conoscere–per–fare. In altri termini, il fare (inteso in
senso lato) primeggia, ma anche il conoscere, il socializzare e il ben–
volere (eticamente) sono compresenti sin dalle origini, benché tutti e
tre siano segnati o permeati dalla preminenza del fare. In tempi
posteriori, ciascuno di essi potrà tentare di affermarsi come a sua volta
prevalente o sovra–influente.
Ecco perché erano in errore i filosofi che identificavano gli
umani primitivi o come “lupi” azzannanti e divoranti altri lupi o
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Prefazione
come “solitari bestioni”. La critica di quelle teorie è valida, per
esempio, in Francesca Vitellozzi (La nascita della specie umana,
Prospettive Edizioni, Roma, 2006), ma l’autrice cade forse
nell’eccesso opposto, attribuendo una interezza compiutamente
umana ai primi individui della nostra specie e alle loro società. Gli
studi antropologici, pur benemeriti, tendono a “idealizzare” le
comunità primitive o ad accorciare la distanza che le separa
storicamente da noi. Se alcune ricerche antropologiche muovono
dagli studi compiuti su comunità di cacciatori e raccoglitori
sopravvissute ancora nel secolo scorso, possiamo escludere che
anche quelle comunità abbiano avvertito l’influsso indiretto dei
nostri modi di vita, di cultura, di tempo libero ecc.? Senza
l’urgenza del fare caccia, o senza l’esperienza dell’aver cacciato, i
primitivi non ci avrebbero tramandato le stupefacenti figurazioni
magiche degli animali in movimento nelle grotte di Altamira e nelle
altre cosiddette preistoriche. Similmente si dica delle sculture femminili simboleggianti la fertilità, come il fare primigenio, e dei
ritmi sonori o delle danze in accompagnamento o a propiziazione di
buoni raccolti e di fatiche operose. Ma lo specificamente artistico e
soprattutto il culturale–razionale si autonomizzeranno in tempi
posteriori. Come in tempi successivi si svilupperanno le vere e
proprie gerarchie sociali o le istituzioni normative in senso
precipuo. Una tendenza apparentemente opposta può affiorare tra
gli studiosi, se alcune pulsioni “malefiche” sono attribuite ai
“civilizzati” soltanto, non anche ai nostri più lontani progenitori.
Nel saggio della Vitellozzi si legge invece che «pulsioni aggressive
e violente», pur presenti sin dalle origini, sono state «smorzate e
contenute» dal ruolo delle donne. A me pare che questo assunto sia
comprovato, indirettamente, dai diversi comportamenti di bambini
e bambine, già nella loro prima età. L’aggressività dei maschi e la
loro maggiore “forza” fisica, rispetto alle donne, dipenderebbero
dal loro ruolo di cacciatori, secondo alcuni scienziati. Ma i primi
esseri umani erano principalmente cacciatori? E non è probabile
che il patriarcato sia stato preceduto da un “matrismo”, ossia da più
prolungati e qualificati, rispetto agli altri viventi, compiti di cura
collettiva dei loro nati, compiti assunti dalle donne mediante
pratiche nutritive, esercitative, educative ecc.? Dunque una
Prefazione
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“sapienza” femminile avrebbe “addomesticato” l’Homo sapiens, in
età infantile assai più dipendente dalle cure materne che non i
piccoli degli altri viventi? Il genere femminile sarebbe dunque
originariamente “senza peccato”? Nessuno è privo di difetti. Tutti
amiamo in Antigone il sentimento di una comune umanità, da non
offendere e anzi da onorare. Ma taluno potrebbe leggere nella
disobbedienza di Antigone una cura esclusiva per il nucleo familiare, ossia per una comunità ristretta, in una sorta di indifferenza, non verso una presunta superiore ragion di Stato, ma verso
la salute di un consorzio umano un poco più esteso di quello
familiare. Eppure vi è in noi, nella nostra unicità, il perdurare di
comportamenti biologi più elementari, così come negli animali superiori vi sono per contro barlumi o “presentimenti” di affetti o di
intendimenti e comportamenti umani.
Chi parte in cerca di un ambiente più adatto trasforma, sia pure in
superficie, anche se stesso. Si trasforma in alcuni caratteri somatici secondari (come il colore della pelle), che non ci autorizzano a supporre
nessuna differenza tra razze. Pare, anzi, che ciascuno dei nostri più
lontani antenati fosse uno “sporco negro”, perché popolava l’Africa
centro–orientale, e che i suoi discendenti pervenissero, da ultimo,
nell’America meridionale. Gli europei, nelle antichissime migrazioni,
sarebbero “gente di mezzo” (volgarmente, “né carne né pesce” nella
loro pelle bianca). Modifiche somatiche secondarie e anche più
estemporanee modulazioni della fisionomia facciale, della bocca più
che degli occhi, per effetto di una maggiore o minore acculturazione. Se
vien emergendo l’Homo sapiens propriamente detto, la sua bocca è
plasmata per sorridere, ma anche per contrarsi lievemente agli angoli
quando la tensione inventiva del pensiero contribuisce alla bellezza
della stessa bocca e del volto in genere, come nell’atteggiarsi ironico e
indefinito delle donne dipinte da Leonardo. Diverso è il parlare per
comunicare un pensiero, o per ben–volere eticamente, dal parlare o
gridare per impaurire o per aver aiuto nei perigli elementari. Quando il
pensare per apprendere e l’esprimere benevolenza divengono abituali, i
tratti della fisionomia si conformano stabilmente ai moti della vita
interiore.
Nel mondo naturale o nella sfera biologica, la selezione mediante la
lotta, il togliere la vita all’altro, se inadatto o più debole, o almeno il
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Prefazione
non impedirne la morte sono legge e regola secondo il darwinismo.
Con l’emergere o con il farsi dell’essere umano, la regola tende a rovesciarsi. Essa ora prescrive di soccorrere il più debole, di aiutarlo a sopravvivere con le sempre nuove tecniche approntate dall’ingegno umano. In questo rovesciamento è implicita la “nascita del male”. Il male
non c’era nella natura prima o in quella meramente biologica, ossia non
era un male ontologico perché, si direbbe nelle dispute teologiche, voluto dal creatore delle cose. Il male è istituito con la nascita dell’essere
umano e sarà vietato normativamente negli sviluppi ulteriori della
nostra civiltà («non uccidere» ecc.). Un tale enunciato potrebbe avvalorare proprio la teologia cristiana: il male sarebbe una scelta del libero arbitrio, ma il libero arbitrio sarebbe un bene, un bene che la
divinità avrebbe concesso soltanto a noi. La storia del male ha forse un
seguito. Ove non più la vita del disabile o del disadattabile nostro simile
ci stesse maggiormente a cuore, ma il porre un termine alle sue
sofferenze, allora il lasciarlo morire potrebbe ridiventare, non tanto una
obbligazione, quanto un umano atto di pietà. Non sarebbe un nuovo
“rovesciamento” nella storia naturale, o piuttosto in quella etico–
culturale, ma una variante possibile, peraltro una variante tuttora sub
iudice.
Il libro di Angeloni lascia soltanto trapelare una sua presa di posizione nella controversia sul darwinismo. Il suo intento principale è di
tratteggiare la durata plurisecolare e l’odierna reviviscenza della
contesa. Perciò il saggio è suddiviso in tre capitoli, il primo dei quali
ripercorre, sin dalle più antiche, le antecedenti avvisaglie di una teoria
evolutiva del vivente e ricostruisce le vicende biografiche che conducono Darwin alle sue scoperte; il secondo capitolo segue puntualmente l’evolversi dello stesso pensiero di Darwin sulle leggi dell’evoluzione biologica e fino alle ipotesi sulle condizioni naturali che
avrebbero dato origine alla specie umana, non sottraendosi Darwin, in
quelle sue riflessioni, ai sempre più pressanti dilemmi, che esse propongono, tra scienza e fede; il terzo e ultimo capitolo riferisce le contrastanti posizioni di coloro che hanno salutato con favore, o accettato
di buon grado la dottrina, e di coloro che invece l’hanno combattuta
fino ai nostri giorni. L’hanno combattuta, non soltanto autorevoli
gerarchie cattoliche, ma anche alcuni tra i più noti filosofi idealisti.
Benedetto Croce scriveva nel 1939 (in “La Critica”, XXXVII) che la
Prefazione
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storia sarebbe «nobile visione delle lotte umane e nuovo alimento
all’entusiasmo morale»; non potrebbe essere dunque «l’immagine di
fantastiche origini animalesche e meccaniche dell’umanità», ancorché
il Vico, per altri aspetti lodato dallo stesso Croce, avesse incautamente
chiamato bestioni i nostri più antichi progenitori. Ma sappiamo che
Croce concepiva la dialettica, non come sviluppo di contraddizioni
conducenti a una possibile “inversione di rotta”, ma come sintesi di
pacificate distinzioni circolari tra le forme spirituali soltanto.
Giuseppe Prestipino
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