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è legittimo licenziare?

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è legittimo licenziare?
GESTIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
Malattia ed esercizio di attività lavorativa presso
terzi: è legittimo licenziare?
di Maria Chiara Costabile – avvocato
È legittimo il licenziamento intimato per giusta causa al lavoratore assente per malattia che, nelle
more, svolge in maniera non episodica attività lavorativa presso terzi.
È onere del lavoratore dimostrare la compatibilità del lavoro svolto presso il terzo durante la malattia
con l’infermità denunciata e la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie fisiche
e psicofisiche, restando peraltro le relative valutazioni riservate al giudice del merito all’esito di un
accertamento da svolgersi non in astratto ma in concreto.
In mancanza di tali prove, il licenziamento per giusta causa viene, pertanto, considerato legittimo.
La malattia e lo svolgimento di altra attività
lavorativa
Infatti, la giurisprudenza ha affermato che l’esercizio,
durante il periodo di assenza dal lavoro per malattia o per infortunio, di attività, lavorative o no, tali
da poter porre in pericolo, anche senza concreto ed
effettivo pregiudizio, la guarigione entro il tempo
di assenza giustificata, integra un inadempimento
dell’obbligo derivante dal contratto di lavoro e, precisamente, la violazione dei doveri generali di correttezza e di buona fede e degli obblighi contrattuali
di diligenza e fedeltà, di gravità tale da giustificare il
licenziamento, anche in difetto di previsione del contratto collettivo o del codice disciplinare.
Così, la Cassazione n.21438/15 ha, infatti, confermato la legittimità del recesso per giusta causa, atteso
che il lavoratore era stato sorpreso a lavorare su un
terreno di sua proprietà, arando col trattore e coltivando altresì alberi di agrumi, mentre era assente
dal suo posto di lavoro in azienda a causa di un infortunio, che aveva causato la rottura della base della
falange intermedia del secondo dito della mano sinistra.
Ancora, la giurisprudenza, con sentenza n.9474/09,
ha specificato che l’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore
durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a giustificare il recesso
del datore di lavoro, laddove si riscontri che l’attività
espletata costituisca indice di una scarsa attenzione
del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri
di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere
dimostrativa dell’inidoneità dello stato di malattia ad
impedire comunque l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 15 gennaio
2016, n.586, ha sancito la legittimità del recesso datoriale intimato a un dipendente che, durante la malattia, aveva prestato attività lavorativa presso terzi,
non avendo il lavoratore dimostrato la compatibilità
con l’infermità determinante l’assenza dal lavoro.
La decisione qui in commento, sebbene non nuova
nel panorama giurisprudenziale, ci offre lo spunto
per evidenziare i limiti entro i quali può essere consentito al dipendente prestare attività lavorativa a favore di terzi nel periodo di assenza per malattia, nonché evidenziare, alla luce varie sentenze intervenute
in materia, quanto, invece, il comportamento del
lavoratore abbia integrato una violazione dei doveri
generali di correttezza e buona fede e degli specifici
obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, costituendo, pertanto, una giusta causa di licenziamento.
La pronuncia in esame si inserisce, infatti, in quel filone giurisprudenziale oramai consolidato, in base al
quale costituisce giusta causa di licenziamento esercitare attività lavorative incompatibili con lo stato di
malattia, qualora l’attività del malato ritardi la guarigione o attesti la simulazione della malattia1.
Pertanto, da ciò si evince che, in linea di principio,
lo stato di malattia non permette lo svolgimento di
alcuna attività lavorativa durante l’assenza.
Tuttavia, è possibile svolgere attività lavorativa o anche non lavorativa purché questo comportamento
non evidenzi la fraudolenta simulazione della malattia o sia di per sé idoneo a pregiudicare o ritardare
la guarigione e il rientro in servizio del dipendente2.
Cass. n.21438/15; Corte Appello Torino, 26 novembre 2015, n. 679;
Cass. n.9474/09; Cass. n.10706/08; Cass. n.14046/05; Cass. n.17128/02.
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Cass. n.5820/13; Cass. n.23444/09.
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La circolare di lavoro e previdenza n.11 del 18 marzo 2016
RISOLUZIONE
DEL CONTRATTO
GESTIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO
Gli accertamenti del datore di lavoro
La prova dell’incidenza della diversa attività lavorativa ed extralavorativa nel ritardare o pregiudicare la guarigione, ai fini del rilievo disciplinare
di tale attività durante la malattia, è comunque
a carico del datore di lavoro (nella specie, la Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento,
per mancanza di giustificazione, poiché il datore
di lavoro non aveva fornito la prova del fatto che
il lavoratore fosse stato visto svolgere attività da
cacciatore nei giorni in cui era assente dal lavoro
per malattia3).
Prima di riportare le conclusioni cui è pervenuta la
Cassazione con la sentenza n.586/16, pare opportuno aprire una parentesi in materia di controllo della
malattia da parte del datori di lavoro.
In base all’art.5 St.Lav.:
“sono vietati accertamenti da parte del datore di
lavoro sulla idoneità e sulla infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente.
Il controllo delle assenze per infermità può essere effettuato soltanto attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali competenti, i quali
sono tenuti a compierlo quando il datore di lavoro lo richieda.
Il datore di lavoro ha facoltà di far controllare la
idoneità fisica del lavoratore da parte di enti pubblici ed istituti specializzati di diritto pubblico”.
Inoltre, è opportuno evidenziare che, secondo la
giurisprudenza, il lavoratore in malattia che intende
prestare attività lavorativa presso terzi, svolgendo
mansioni che non pregiudichino il recupero della piena idoneità fisica, è tenuto, prima, ad offrire
tale prestazione parziale al proprio datore di lavoro.
Quest’ultimo, infatti, potrebbe, assegnare temporaneamente il lavoratore a quelle mansioni (art.2103
cod.civ.) qualora lo ritenga opportuno4.
Sul punto, secondo un consolidato orientamento
della giurisprudenza, nei casi di lavoratore assente
dal lavoro perché in malattia è consentito al datore di
lavoro di avvalersi di ogni circostanza di fatto (come,
ad esempio, di investigatori privati) per dimostrare
l’esistenza della malattia stessa o la non idoneità di
quest’ultima a determinare uno stato di incapacità
lavorativa e, quindi, a giustificare l’assenza.
In particolare, la Cassazione ha così statuito:
Pertanto, alla luce della giurisprudenza (Cassazione n.4237/15), è pacifico che non sussiste per
il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare ‒ durante tale assenza ‒ attività
lavorativa in favore di terzi, purché questi non
evidenzi una simulazione d'infermità ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero,
ancora, compromettendo la guarigione del lavoratore, implichi inosservanza al dovere di fedeltà
imposto al prestatore d’opera.
“Questa Corte in numerose occasioni ha chiarito
che le disposizioni del citato art. 5, sul divieto di
accertamenti del datore di lavoro circa l’infermità per malattia o infortunio del lavoratore dipendente e sulla facoltà dello stesso di effettuare il
controllo delle assenze per infermità solo attraverso i servizi ispettivi degli istituti previdenziali
competenti, non precludono che le risultanze delle certificazioni mediche prodotte dal lavoratore,
e in genere dagli accertamenti di carattere sanitario, possano essere contestate anche valorizzando ogni circostanza di fatto, pur non risultante
da un accertamento sanitario, atta a dimostrare
l’insussistenza della malattia o la non idoneità di
quest’ultima a determinare uno stato di incapacità lavorativa, e quindi a giustificare l’assenza,
quale in particolare lo svolgimento da parte del
lavoratore di un’altra attività lavorativa”6.
Non si configura, quindi, giusta causa di licenziamento ove non sia stato provato che il lavoratore abbia
agito fraudolentemente in danno del datore di lavoro, simulando la malattia per assentarsi in modo da
poter espletare un lavoro diverso o lavorando durante l’assenza con altre imprese concorrenti con quella
con cui è contrattualmente legato, oppure, anziché
collaborare al recupero della salute per riprendere
al più presto la propria attività lavorativa, abbia compromesso o ritardato la propria guarigione, strumentalizzando così il suo diritto al riposo per trarne un
reddito dal lavoro diverso in costanza di malattia e in
danno del proprio datore di lavoro5.
Pertanto, il datore di lavoro, nel rispetto della vigente
normativa e alla luce delle pronunce della Cassazione, può legittimamente procedere ad accertamenti
Cass. n.4869/14.
Cass. n.7467/98.
5
Cass. n.4866/85; Cass. n.15916/00.
3
4
6
Cass. n.25162/14; Cass. n.6236/01.
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diversi rispetto a quelli sanitari, anche per il tramite
di agenzie investigative private, qualora lo ritenga
opportuno, sospettando, ad esempio, situazioni di
simulazione di malattia. stati ritenuti eccedenti rispetto alla finalità della società di dimostrare che il dipendente fosse in grado
di svolgere una normale vita di relazione, nonché di
riprendere l’attività lavorativa7.
Al di là della certificazione medica e degli accertamenti svolti ex art.5 St.Lav., il datore di lavoro
può, infatti, incaricare un’agenzia investigativa
di compiere un’osservazione sui comportamenti
del lavoratore durante il periodo di assenza dal
lavoro e, in particolare, richiedere accertamenti di circostanze di fatto atte a dimostrare che
la malattia non sussiste, oppure la non idoneità
della malattia stessa a determinare uno stato di
incapacità lavorativa tale da giustificare, quindi,
l’assenza dal lavoro del proprio dipendente.
Il caso sottoposto all’esame della Cassazione
Nel caso di specie, con ricorso al Tribunale il dipendente, premettendo di aver lavorato alle dipendenze
di un centro formativo in qualità di operaio ausiliario, deduceva di essere stato licenziato dalla datrice
di lavoro, a seguito di contestazione disciplinare relativa allo svolgimento di attività lavorativa in favore di
terzi in costanza di assenza per malattia.
Il lavoratore assumeva che il recesso aziendale era
da ritenersi illegittimo sotto vari profili e, comunque,
privo di giusta causa; in particolare, il dipendente
deduceva che lo stato patologico cui era affetto gli
consentiva di uscire in qualunque ora del giorno e, in
ogni caso, pur ammettendo la frequentazione presso il terzo, non vi era la prova che egli avesse svolto
attività lavorativa nei suoi confronti.
Ciò, del resto, è coerente con l’impianto normativo
in merito agli effetti della malattia sul rapporto di lavoro: infatti, com'è noto, in base all’art.2110 cod.civ.
la malattia giustifica l’assenza del lavoratore, comportando la sospensione dell’obbligazione lavorativa
a suo carico senza che le corrispettive controprestazioni datoriali vengano meno.
Proprio per tale motivo, è legittimo che il datore di
lavoro possa procurarsi la prova circa la sussistenza
di fatti assolutamente incompatibili con la patologia
lamentata o comunque in contrasto con l’obbligo
gravante sul lavoratore ammalato di evitare comportamenti che siano di ostacolo alla più sollecita guarigione.
Inoltre, a tali accertamenti richiesti dal datore di
lavoro non vi è ostacolo derivante dalla legge sulla
privacy; in tal senso si è pronunciato il Garante, respingendo il ricorso di un dipendente che era stato
licenziato dopo che, attraverso le informazioni raccolte da un investigatore privato, era stata verificata
l’insussistenza della malattia addotta per giustificare
alcuni periodi di assenza dal lavoro. In particolare,
nella fattispecie, l’investigatore incaricato dal legale
della società, in base a un preciso mandato, aveva
raccolto e trasmesso alla stessa società alcuni dati
personali del dipendente (fotografie, annotazioni
sugli spostamenti, orari etc.) che sono risultati pertinenti rispetto allo scopo della società di dimostrare
in giudizio, come poi è avvenuto, l’insussistenza di
una specifica patologia addotta dal lavoratore. Alcuni occasionali riferimenti a familiari presenti durante
gli spostamenti dell’interessato o altri particolari o
comportamenti (es. autovetture guidate), che si potrebbero desumere dalle fotografie riprese a distanza o dalle annotazioni dell’investigatore, non sono
Nella specie, al lavoratore assente per malattia
era stato contestato dalla società datrice di lavoro, sulla base di accertamenti effettuati da un'agenzia investigativa, lo svolgimento di lavoro, in
maniera non episodica e occasionale, presso l’esercizio commerciale (bar) gestito dalla moglie;
per tale motivo, il datore di lavoro gli aveva intimato il recesso per giusta causa.
Il dipendente ha sostenuto che il tipo di patologia
sofferta, ossia sindrome ansiosa depressiva, era
compatibile con l’uscita di casa e la frequentazione
del bar della moglie, specificando che tali attività
erano state consigliate dal proprio medico curante.
In primo grado, il ricorso del lavoratore veniva respinto; infatti, il giudice di prime cure, sulla base
dell’esame complessivo delle circostanze del caso
concreto, riteneva legittima la sanzione irrogata dal
datore di lavoro, provati gli addebiti e sussistente la
proporzionalità della sanzione adottata.
Tale sentenza veniva impugnata dal lavoratore presso la Corte d’Appello competente; la società datrice
di lavoro si costituiva resistendo al gravame e chiedendone il rigetto.
Anche il giudice di secondo grado, rigettando il gravame, riteneva provato l’addebito e legittimo il recesso datoriale intimato al lavoratore.
Il lavoratore proponeva, quindi, ricorso per la cassaGarante per la protezione dei dati personali, newsletter 8-14 gennaio
2001.
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zione di tale pronuncia, basato sui seguenti motivi.
Da un lato, il lavoratore lamentava che la Corte di
merito ritenne provato l’addebito sulla base della testimonianza del dipendente della società investigativa, incaricata dalla datrice di lavoro, e del rapporto
da questi redatto, senza tener conto di alcune significative circostanze: innanzitutto che in quel giorno
aveva accompagnato la figlia ad effettuare una visita
specialistica, come risultava dalla relativa documentazione prodotta sin dal primo grado, circostanza che
a suo avviso sarebbe stata ignorata sia dal Tribunale
che dalla Corte di merito, nonostante specifica censura al riguardo. D’altro lato, la tesi dell’appellante
evidenziava che la relazione dell’investigatore era
priva di allegazioni fotografiche, nonché, essendo
emerso che solo in un giorno il teste sarebbe entrato
nel bar constatando l’attività lavorativa del ricorrente, mentre nelle altre giornate si sarebbe solo trattenuto all’esterno dell’esercizio commerciale, non
era stata raggiunta alcuna prova certa di un effettivo
svolgimento di attività lavorativa presso il bar della
moglie.
Il lavoratore lamentava, inoltre, che le decisioni dei
giudici di primo grado non avevano tenuto in considerazione quel principio della giurisprudenza di
legittimità, in base al quale lo svolgimento di attività lavorativa in favore di terzi durante l’assenza per
malattia, rileva unicamente allorquando tale attività
lavorativa possa pregiudicare la guarigione, ovvero
quando, secondo le concrete risultanze di causa,
essa faccia presumere l’inesistenza o simulazione
dello stato morboso.
Alla luce di tali motivi il lavoratore concludeva, quindi, che nella specie la sua infermità (sindrome ansioso depressiva) era ampiamente documentata e che,
per la natura stessa della patologia, l’uscita da casa
e la frequentazione del bar della moglie costituivano
elementi atti (e non contrari) a favorire la sua guarigione.
dalla relazione del teste, e dalla relativa deposizione
testimoniale, era emersa la prova dello svolgimento,
costante e non episodico, di attività lavorativa presso l’esercizio commerciale della moglie da parte del
ricorrente.
Inoltre, i giudici, ritenendo infondati i motivi di ricorso illustrati dal lavoratore, hanno ribadito il principio
giurisprudenziale secondo il quale è onere probatorio del lavoratore assente per malattia dimostrare la
compatibilità del lavoro, nelle more, svolto in favore di terzi, con l’infermità denunciata determinante
l’assenza dal lavoro, nonché la sua inidoneità a pregiudicare il recupero delle normali energie fisiche e
psichiche; tale onere è rimasto nella specie non assolto e, pertanto, la Cassazione ha concluso che il licenziamento per giusta causa intimato nei confronti
del lavoratore è del tutto legittimo, specificando che
tali valutazioni sono, in ogni caso, riservate al giudice
del merito.
In un caso del tutto simile, la Cassazione era pervenuta alle medesime conclusioni: infatti, con sentenza
7 ottobre 2014, n.21093, i giudici hanno ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa nei confronti del lavoratore che, durante il periodo di malattia
aveva svolto una diversa attività lavorativa per soggetti terzi, anche se suoi familiari, impedendo così
una pronta guarigione e una rapida ripresa lavorativa, a meno che il lavoratore non provi che il lavoro
svolto sia compatibile con la malattia, ovvero agevoli
il recupero dello stato di salute. Nella specie, si trattava di un lavoratore che soffriva di depressione, il
quale, mettendosi in malattia, lavorava per il negozio
del fratello dove svolgeva attività di vigilanza contro i
furti e assistenza ai clienti.
La Cassazione qui in commento, avvalorando le sue
conclusioni, ha infine evidenziato l’inconferenza della giurisprudenza citata dal ricorrente (in particolare
Cass. n.6375/11), inerente lo svolgimento, da parte
del lavoratore assente per malattia, dei normali atti
della vita quotidiana, con espressa esclusione dell’attività lavorativa presso terzi. Infatti, la pronuncia citata dal ricorrente altro non fa che ribadire i principi di cui sopra: nel caso di specie, il lavoratore, in
ottemperanza alle prescrizioni del medico curante,
si era allontanato dalla propria abitazione e aveva
ripreso a compiere attività della vita privata ‒ la cui
gravosità non è comparabile a quella di un'attività lavorativa piena ‒ senza svolgere un'ulteriore attività
lavorativa.
In conclusione, alla luce della decisione della Corte di Cassazione qui commentata e della giurispru-
La decisione della Cassazione
La conclusione cui è pervenuto dapprima il Tribunale
e, successivamente, la Corte d’Appello, viene pienamente confermata e fatta propria anche dai giudici
della Cassazione, in quanto sorretta da una motivazione adeguata e logica, oltre che immune da errori
di diritto.
Gli Ermellini hanno, infatti, osservato che, nel caso
che ci occupa, la Corte di merito, nell’ambito del
prudente apprezzamento delle circostanze di fatto
ad essa spettante, ha logicamente evidenziato che
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denza intervenuta in materia, si può affermare che
la condotta del lavoratore assente per malattia che
presti attività lavorativa presso terzi non costituisce
di per sé giusta causa di licenziamento, a condizione
che il dipendente dimostri che tale lavoro:
• è compatibile con la patologia comportante l’assenza dal lavoro, viceversa verrebbe meno la
sussistenza della malattia;
• è inidoneo a compromettere o ritardare la gua-
rigione, in caso contrario, oltre a venir meno la
funzione dell’assenza per malattia, volta, appunto, ad ottenere il corretto recupero delle energie
fisiche e psicofisiche, verrebbero violati gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione
del rapporto di lavoro allorché la natura dell’infermità sia stata giudicata incompatibile con la
condotta del dipendente.
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