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diritto amministrativo - Università Telematica Pegaso

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diritto amministrativo - Università Telematica Pegaso
INSEGNAMENTO DI
DIRITTO AMMINISTRATIVO
LEZIONE II
“L’ORGANIZZAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE”
PROF.SSA IVANA MUSIO
Diritto Amministrativo
Lezione II
Indice
1 La struttura degli enti pubblici: organi e uffici ---------------------------------------------------- 3 2 Classificazione degli uffici ------------------------------------------------------------------------------ 6 3 Rapporto organico e rapporto di servizio ----------------------------------------------------------- 8 4 Titolari degli organi e degli uffici ------------------------------------------------------------------- 10 5 Rapporti interorganici -------------------------------------------------------------------------------- 12 5.1.1. Gerarchia -------------------------------------------------------------------------------------------- 13 5.1.2. Direzione -------------------------------------------------------------------------------------------- 15 5.1.3. Coordinamento ------------------------------------------------------------------------------------- 16 5.1.4. Controllo -------------------------------------------------------------------------------------------- 17 6 Difetto di competenza: acompetenza e incompetenza ------------------------------------------- 18 7 I conflitti di competenza------------------------------------------------------------------------------- 20 8 Il funzionario di fatto ---------------------------------------------------------------------------------- 22 Bibliografia ---------------------------------------------------------------------------------------------------- 24 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Diritto Amministrativo
Lezione II
1 La struttura degli enti pubblici: organi e uffici
Come tutte le persone giuridiche, non solo lo Stato ma anche gli altri enti pubblici hanno una
propria organizzazione interna, composta di beni e di persone fisiche che agiscono per conto
dell’ente. Nell’organizzazione di ogni ente pubblico occorre distinguere gli organi e gli uffici.
Sul concetto di organo sono state prospettate in dottrina varie teorie che possono essere
sinteticamente riassunte in tre orientamenti: la teoria soggettiva, la teoria oggettiva, la teoria
mista.
Secondo la teoria soggettiva per organo deve intendersi la persona fisica titolare
dell’ufficio1.
In base alla teoria oggettiva, invece, l’organo si identifica con l’ufficio, inteso come “la
sfera di attribuzioni assegnate al soggetto che agisce per l’ente ed è legittimato ad adottare atti
imputabili all’ente e rilevanti all’esterno”2. Tuttavia, tale interpretazione pure si è imbattuta in
critiche, in quanto è stato osservato3 che l’identificazione dell’organo all’ufficio finisce con il
negare rilevanza alla persona fisica addetta all’ufficio stesso.
Infine, secondo la teoria mista, per organo si intende “la persona (organo individuale) o
l’insieme di persone (organo collegiale) preposte ad un determinato centro di imputazione di
competenza amministrativa, cioè preposte ad un ufficio, che esercitano una potestà pubblica”4. In
tal caso il concetto di organo e quello di ufficio restano differenziati.
Elementi essenziali dell’organo sono, dunque:
•
il titolare dell’organo, vale a dire il funzionario, che è una persona fisica,
legata all’ente da una particolare rapporto giuridico, che è il c.d. rapporto di
servizio.
•
l’esercizio di una pubblica potestà da parte del titolare stesso. Pertanto,
organo in senso stretto può essere solo colui che esercita una pubblica
1
Contrario a questa teoria è U. Forti, Teoria dell’organizzazione e delle persone giuridiche pubbliche. Lezioni di diritto
amministrativo, Napoli, 1948, p. 76 e ss., secondo il quale tale orientamento dottrinale, erroneamente, identifica
l’organo con il titolare dell’organo e non distingue i casi in cui esso agisce come mero soggetto privato. In tal senso si
veda, A. Massera, Contributo allo studio delle figure giuridiche soggettive nel diritto amministrativo I. Stato-persona e
organo amministrativo, Milano, 1984, il quale, con riferimento al dibattito sul concetto di organo, riporta la posizione
dottrinale del Forti, e non solo. Sul punto, si veda anche A. Crossetti, Organi, in D. disc. pubbl., XXII, Torino, 1995 ad
vocem.
2
Così O. Ranelletti, Le categorie del personale al servizio dello Stato, in Foro dello Stato, in Annali dell’Università di
Macerata, 1927.
3
Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo. I principi, Milano, 1999, p. 109 e ss.
4
Così P. Virga, Diritto amministrativo. I principi, cit., p. 110.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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funzione e non anche il dipendente, il quale svolge un’attività meramente
esecutiva.
Solo eccezionalmente titolare di un organo non è una persona fisica ma può essere una
persona giuridica; in tal caso l’organo non agisce come parte integrante dell’ente, ma come soggetto
autonomo, dotato di propria personalità. Tale fenomeno va sotto il nome di organo-ente ed è il
caso: della Banca d’Italia, dell’Istat, del C.N.R. (Consiglio Nazionale delle Ricerche), ecc. Tuttavia,
secondo
parte della dottrina, in questi casi, sarebbe più giusto parlare di “enti pubblici
strumentali”5, piuttosto che di organi con personalità giuridica.
In conclusione, agli organi sono assegnate le persone fisiche, per cui gli atti che le stesse
persone fisiche pongono in essere, entro la sfera di attribuzioni dell’ente, sono direttamente imputati
a quest’ultimo.
Tra gli organi di una persona giuridica ve ne è uno o più di uno a cui viene conferita la
legale rappresentanza dell’ente, cioè la legittimazione ad esprimere la volontà dell’ente. La legale
rappresentanza è cosa diversa rispetto alla legittimazione di adottare atti amministrativi, in quanto
l’esercizio di tale potere-dovere spetta ai diversi organi in base alla propria competenza ed è altra
cosa.
Secondo la dottrina dominante, per ufficio, invece, si intende il complesso organizzato di
persone fisiche, beni materiali e mezzi rivolto all’espletamento di un’attività strumentale dell’ente
(conoscitiva, preparatoria, esecutiva) tale da consentire all’organo di porre in essere i provvedimenti
per la realizzazione dei fini istituzionali dell’ente stesso. Pertanto, è ufficio, per esempio la
Prefettura o il Ministero, mentre è organo, rispettivamente il Prefetto e il Ministro.
Gli uffici si caratterizzano per la presenza di due elementi:
•
un elemento funzionale: ad essi, infatti, sono attribuite funzioni proprie;
•
un elemento strutturale: essi sono incorporati stabilmente nella struttura
dell’ente di cui fanno parte.
Gli organi, dunque, hanno sempre competenza esterna ed impegnano l’ente verso i terzi,
mentre gli uffici possono avere anche competenza solo interna.
Tuttavia, con la legge n. 241/1990 (e sue successive modifiche) sembrano doversi superare
le teorie volte a separare drasticamente il concetto di ufficio e quello di organo. L’art. 4 della legge
241/90, infatti, ha introdotto la figura dell’unità organizzativa che supera la visione separatista tra
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aspetti organizzativi e funzionali per offrire un nuovo modello in grado di sintetizzare l’efficienza
organizzativa con l’efficacia e la responsabilità. Con il concetto di unità organizzativa emerge
l’inutilità di ricercare a tutti i costi la distinzione concettuale tra organo ed ufficio ed, ancora di più,
la distinzione tra ufficio-organo ed ufficio non organo, ovvero tra organo esterno ed organo interno.
L’unità organizzativa rappresenta il centro di competenza funzionale che fa capo ad un
ufficio complesso che si struttura su più uffici-organi strumentali ed ausiliari, coordinati e diretti da
un ufficio-organo che ne assume la direzione e la responsabilità (il c.d. responsabile del
procedimento), deputato all’adozione di un provvedimento finale e che, perciò solo, può definirsi
esterno. Non per questo, tuttavia, si può affermare che gli uffici di supporto non siano veri e propri
organi, in quanto anch’essi partecipano allo svolgimento e al tradursi in atto delle funzioni
assegnate dalla legge all’unità organizzativa, i quali possono dirsi uffici-organi interni, purché si
intenda con tale termine fare riferimento solo alla loro collocazione endoprocedimentale e non
anche al fatto che essi non abbiano rilevanza giuridica esterna6. Tutto ciò per dire che la differenza
tra organo ed ufficio c’è, ma in molti casi, tale differenza va assottigliandosi, fino a assumere
fattezze più formali che sostanziali.
5
6
Così A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, Napoli, 1989, p. 200 e ss.
In argomento si veda R. Galli e D. Galli, Corso di diritto amministrativo, ed. IV, Milano, 2004, p. 187 e ss.
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2 Classificazione degli uffici
Accanto allo Stato esistono, quindi, altri “corpi” che operano a livello nazionale,
periferico ed anche comunitario, cioè apparati dotati di una propria personalità giuridica, che
agiscono autonomamente, anche se in collegamento con i poteri centrali dello Stato; ne deriva
che l’assetto organizzativo della P.A. è estremamente complesso e composito7. La tipologia degli
uffici appare, pertanto, varia tale da rendere impossibile una classificazione che tenga conto di
ogni aspetto.
Proprio per questo motivo sono state elaborate classificazioni che hanno un carattere
descrittivo. Si distinguono, innanzi tutto, uffici necessari e non necessari: i primi sono gli uffici
espressamente previsti da una norma, senza che all’amministrazione sia riconosciuta alcuna potestà;
esempio di ufficio necessario è il Consiglio nazionale della scienza e della tecnologia (istituito
dall’art. 10 della legge n. 168/1989) che è un organo di alta consulenza del Ministero
dell’Istruzione.
Altro tipo di classificazione è quello tra uffici monocratici e collegiali, i primi sono
costituiti solamente da una persona fisica, per esempio il Questore, mentre i secondi sono costituiti
da una pluralità di persone fisiche, per esempio il Consiglio di amministrazione di un Ministero.
Gli uffici collegiali, a loro volta, possono essere perfetti ed imperfetti, a seconda che, ai
fini di una decisione, sia indispensabile una discussione tra i componenti o sia possibile
semplicemente esprimere la propria volontà.
Vi sono, poi, gli uffici rappresentativi e non rappresentativi, a seconda che i titolari siano
eletti o designati da gruppi sociali (è il caso del Consiglio comunale) i cui componenti sono eletti
dal corpo elettorale.
Esistono, inoltre, gli uffici semplici, cioè quelli costituiti da una unità elementare non
scomponibile (per esempio la biblioteca pubblica statale) e gli uffici complessi, cioè quelli formati
da una pluralità di uffici che agiscono tra di loro in modo coordinato (per esempio le università).
Vi è anche la distinzione tra uffici entificati ed i meri uffici, i primi hanno la personalità
giuridica, i secondi no.
E’ possibile diversificare e classificare gli uffici anche in base alla loro durata, per questo
motivo si suole operare una distinzione tra uffici ordinari, che sono quelli istituiti in modo
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permanente, cioè senza termine, che assolvono a compiti di carattere continuativo (esempio INPS),
e gli uffici straordinari, che sono, invece, quelli istituiti temporaneamente, per un periodo limitato,
per assolvere a compiti circoscritti e determinati (esempio la commissione di un concorso
pubblico).
Anche l’area in cui operano gli uffici può essere un criterio classificatorio ed, infatti,
esistono gli uffici centrali che sono quelli che hanno una competenza estesa su tutto il territorio
nazionale (esempio il Ministero), quelli periferici che seppure dipendono dagli uffici centrali,
operano in periferia, ed, infine, gli uffici locali, che dipendono da amministrazione autonome ed
hanno una dimensione territorialmente circoscritta (per esempio, una Provincia) ed, ultimo, ci sono
gli uffici misti, che rappresentano interessi centrali e locali allo stesso tempo.
La classificazione degli uffici può essere fatta anche in considerazione degli effetti
dell’attività da loro svolta, proprio per questo motivo sono definiti uffici esterni quelli che sono
legittimati ad adottare provvedimenti che determinano conseguenze nei confronti di soggetti
estranei agli uffici ed uffici interni, che sono quelli che svolgono un’attività che assume rilievo
solo nell’ambito della propria organizzazione.
7
S. Valentini, Figure, rapporti, modelli organizzatori, in Trattato di diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello,
Padova, 1996.
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3 Rapporto organico e rapporto di servizio
La dottrina ha a lungo discusso sulla natura giuridica del rapporto organico (detto anche
rapporto d’ufficio), ovvero del rapporto tra organo e soggetto ad esso preposto.
Secondo l’orientamento dottrinale più accreditato il rapporto organico consiste in un
rapporto di immedesimazione tra la persona fisica preposta o addetta all’ufficio e l’ente
pubblico, il che, tuttavia, non dà vita ad un rapporto giuridico, dal momento che quest’ultimo
presuppone almeno due soggetti. Pertanto, il rapporto organico è un rapporto non giuridico,
ma organizzativo. Il rapporto organico (o d’ufficio) attiene alle imputazioni giuridiche
dell’attività svolta dal titolare dell’organo; infatti, l’atto compiuto dal titolare dell’organo viene
direttamente imputato all’ente, con conseguente assunzione, in capo a questo, dei vizi dell’atto e
della responsabilità diretta per danni a terzi. Sulla base di tale rapporto organico, la persona fisica
acquista la capacità di esercitare i poteri e le funzioni che le norme attribuiscono agli uffici delle
pubbliche amministrazioni
La qualificazione giuridica del rapporto d’ufficio si è evoluta nel tempo fino a giungere a
ritenere preferibile considerarlo un rapporto di immedesimazione.
In un primo momento, infatti, si era andando diffondendo la teoria che qualificava il
rapporto d’ufficio come un rapporto di rappresentanza, e più precisamente come rappresentanza
necessaria in quanto si riteneva che l’ente non potesse operare senza la presenza di un
rappresentante. Tale concezione, tuttavia, è stato con il tempo criticata, in quanto si è stato
osservato che la rappresentanza è un rapporto intersoggettivo, cioè tra due soggetti distinti ( il
rappresentato ed il rappresentante). Il titolare dell’organo, invece, non può essere considerato
come soggetto distinto dall’ente, ma un elemento costitutivo dell’apparato amministrativo.
Il rapporto organico, dunque, esprime una relazione interna (organizzatoria) tra organo e
soggetto preposto ad esso.
Dal rapporto organico (o d’ufficio) va distinto, invece, il rapporto di servizio, che è al
contrario, un rapporto giuridico intersoggettivo che si instaura tra l’ente e la persona fisica,
titolare dell’organo e dell’ufficio e che presta la sua attività, a titolo professionale, alle dipendenze
della P.A.
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La distinzione tra rapporto di servizio e rapporto organico è rilevante anche al fine della
classificazione del personale pubblico. Il rapporto di servizio sorge con un atto amministrativo di
assunzione del soggetto o, in casi eccezionali, il rapporto sorge di fatto.
Il rapporto organico sorge anch’esso, in via generale, con un atto amministrativo, detto di
assegnazione del soggetto all’ufficio; a seconda del procedimento seguito si parla di nomina o
elezione. Di solito la preposizione ad un organo o ad un ufficio implica sia il rapporto organico che
quello di servizio; tuttavia, nel caso in cui l’attività sia prestata a titolo non professionale, il
rapporto di servizio non sussiste; è il caso, per esempio, dei funzionari onorari dello Stato e degli
enti pubblici8.
8
Cfr., tra gli altri, M.S. Giannini, Diritto amministrativo, Milano, 1988, p. 260 e ss.
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4 Titolari degli organi e degli uffici
Il preposto all’organo o all’ufficio è il soggetto che si trova nella posizione di autore
dell’attività svolta dall’organo o dall’ufficio, egli ne è il titolare, cioè colui che per legge ricopre
ordinariamente quella carica.
Nel corso di un rapporto il titolare di un ufficio può essere sostituito nell’esercizio delle
funzioni dell’ufficio, ricorrono, allora, gli istituti della supplenza, sostituzione, reggenza.
E’ supplente: il soggetto che sostituisce il titolare dell’organo o dell’ufficio
temporaneamente assente o impedito.
E’ sostituto: il soggetto che sostituisce il titolare dell’organo per incarico di quest’ultimo.
Tale sostituzione, quando è ammessa, è qualificata “delegazione interna dell’organo” o anche
“delega a firma”.
E’ reggente (o facente funzioni): il soggetto che sostituisce il titolare dell’organo
allorquando questi manca del tutto, per esempio, se il titolare deve ancora essere nominato9.
Tali istituti servono a garantire la continuità dell’esercizio dell’azione amministrativa.
La stessa ratio, ha anche l’istituto della prorogatio, che, prevista solo per taluni organi di
particolare importanza. Si ha prorogatio quando, pur se scaduto il mandato, il titolare dell’organo
mantiene ancora la carica, fino alla sua sostituzione.
Con riferimento alla prorogatio, tuttavia, parte della dottrina10 ha posto in dubbio il suo
carattere generale restringendone l’operatività solo ai casi previsti dalla legge. Importante, in tal
senso è la legge n. 444 del 1994 secondo cui il periodo di proroga non può superare i 45 giorni dalla
scadenza del termine di durata della carica. Infatti, ai sensi dell’art. 4 di detta legge, gli atti adottati,
oltre tale termine, sono nulli; inoltre, ai sensi dell’art. 3 i funzionari in regime di proroga possono
compiere solo atti di ordinaria amministrazione e “gli atti urgenti ed indifferibili con indicazione
specifica dei motivi di urgenza e indifferibilità”, a pena di nullità. Tutto ciò risponde al principio
secondo cui gli organi amministrativi dello Stato e degli enti pubblici svolgono le funzioni loro
attribuite sino alla scadenza del termine di durata.
9
Per tale classificazione si veda A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, p. 109.
In argomento, si veda E. Cannada Bartoli, Prorogatio tacita di organi amministrativi e art. 97 Costituzione, in Foro
amm., 1971, II, p. 55 e ss. In argomento si veda, tra gli altri, anche, A. Romano, Proroga e prorogatio, in Enc. giur.,
XXV, Roma, 1991, ad vocem.
10
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In tal senso è particolarmente significativa la sentenza della Corte Costituzionale n. 208
del 1992, dalla cui motivazione emerge che la inammissibilità del principio della prorogatio di fatto
si basa sul fatto che essa sia in contrasto con i principi di riserva di legge, di imparzialità e di buona
amministrazione espressi dall’art. 97 Cost. Infatti, se è vero che l’azione amministrativa è doverosa
e continuativa e non tollera interruzioni e vuoti di esercizio, è anche vero, tuttavia, che tali
evenienze non possono non rinvenire nella legge la loro fonte regolatrice, onde garantire la certezza
giuridica che è alla base dell’organizzazione amministrativa, volta ad assicurare l’imparzialità ed il
buon andamento nei confronti della collettività11.
Da questo discorso sono esclusi, tuttavia, proprio ai sensi dell’art. 1 della legge 444/1994,
gli organi rappresentativi delle Regioni, delle Province e dei Comuni, nonché gli organi che hanno
rilevanza costituzionale.
11
Cfr. R. Galli e D. Galli, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 193.
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5 Rapporti interorganici
I rapporti interorganici sono quelli che si instaurano tra organi appartenenti allo stesso
ente o allo stesso apparato amministrativo dello Stato, oppure tra organi appartenenti a diversi
rami della P.A. o a diversi enti pubblici. Anche se, in genere, gli organi non hanno autonoma
personalità giuridica, la relazione tra essi assume, comunque, carattere esterno, in quanto il
rapporto tra gli organi diventa giuridicamente rilevante.
Sono detti rapporti interorganici puri i rapporti che intercorrono tra organi appartenenti
alla stessa amministrazione o allo stesse ente. Un tempo di riteneva che tali rapporti avessero solo
rilevanza giuridica interna, circoscritta all’apparato burocratico interno, oggi, invece, si ritiene che
tali rapporti possono avere rilevanza giuridica esterna, sia pure indiretta, dal momento che le regole
che li disciplinano incidono sulle rispettive competenze, e la competenza (come si è detto nella
lezione n. 1), in quanto fissata per legge, ha sicuramente valenza giuridica esterna. Esempio di
rilevanza giuridica esterna dei rapporti interorganici puri può essere il caso in cui un organo
gerarchicamente superiore rispetto ad un altro, avoca (concetto esaminato nella lez. n. 1) a sé,
illegittimamente, un atto dell’inferiore; siffatta illegittimità si riflette negativamente, per difetto di
legittimazione, anche sul provvedimento che l’organo superiore ha adottato, quindi, il rapporto
interorganico puro, in questo caso, rileva anche nell’ordinamento giuridico generale, sia pure in via
indiretta.
I rapporti interorganici hanno risentito di recente delle profonde innovazioni che hanno
investito l’intero assetto organizzativo delle amministrazioni pubbliche. Già con l’entrata in vigore
della Costituzione nel 1948, si era dubitato che il rapporto di gerarchia che collegava gli organi
fosse in linea con il principio di cui all’art. 97 Cost. e con i modelli policentristi ed autonomisti
prefigurati nel titolo V della Costituzione; sicché si preferiva utilizzare la formula della direzione.
Implicante l’esercizio di poteri di direttiva e di controllo, oltre che di ingerenza nella scelta
fiduciaria degli organi di vertice.
La crisi del modello gerarchico, tuttavia, si manifestò, in un primo momento, nelle
amministrazioni statali con la riforma del 1971, che introduceva i Tribunali Amministrativi
Regionali, fino ad esplodere definitivamente con la riforma del riordino delle amministrazioni
pubbliche legge n. 59/1997 ed il d.lgs. n. 80/1998.
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Attualmente i rapporti interorganici hanno assunto una nuova dimensione, perché, venuta
meno la formula interorganica della gerarchia, i rapporti di sopraordinazione fra figure
soggettive pubbliche, si modulano secondo la formula organizzatoria della direzione, fatti salvi i
casi di riserva.
Sotto il profilo della relazione tra gli organi, dunque, sono possibili i seguenti rapporti:
gerarchia; direzione; coordinamento e controllo.
5.1.1. Gerarchia
Come detto, il modello del rapporto di gerarchia c.d. in senso stretto, attualmente, non è
particolarmente attuato.
Il rapporto di gerarchia in senso stretto è caratterizzato da forti componenti autoritative che
definiscono un rapporto di potestà-soggezione tra organi sopraordinati e quelli sottordinati, che si
manifesta in poteri di ordine, sostituzione, avocazione, delegazione, controllo, ecc. Questa è la
gerarchia pura che si traduce appunto in una serie di poteri autoritativi in ingerenza nella sfera di
competenza del sottordinato ad opera dell’organo sovraordinato; tali poteri possono essere così
sintetizzati12:
•
posizione di supremazia generale rispetto all’organo subordinato;
•
potere di direzione dell’attività dell’organo inferiore, attraverso ordini
amministrativi. Con il potere di ordine il superiore gerarchico può vincolare
l’organo subordinato a tenere un certo comportamento nello svolgimento
della propria attività;
•
potere di delegare all’organo inferiore l’esercizio di poteri propri;
•
potere di risolvere i conflitti di competenza tra organi gerarchicamente
inferiori;
•
potere di vigilanza, attraverso ispezioni ed inchieste.
12
Tale classificazione è stata fatta da C. Mortati, Le forme di Governo (Lezioni), Padova, 1973.
L’evoluzione del concetto di gerarchia si evidenzia secondo la lettura di A. Amorth, La nozione di gerarchia, Milano,
Vita e pensiero, 1936; T. Marchi, E. Casetta, Gerarchia, in Noviss. Digest. It., VII, Torino, 1957, ad vocem; G.
Marongiu, Gerarchia, in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, ad vocem; V. Bachelet, Evoluzione del ruolo e delle strutture
della pubblica amministrazione, in Scritti in onore di C. Mortati, Aspetti e tendenze del diritto costituzionale, Milano,
1977, I, p. 1 e ss.; S. D’Albergo, Direttiva, in Enc. dir., XII, Milano, 1964, ad vocem; V. Angiolini, Direzione
amministrativa, in D. discipl. pubbl., V, Torino, 1990, ad vocem.
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L’ampiezza di detto ultimo potere di vigilanza è inversamente proporzionale
all’autonomia dell’organo inferiore; pertanto, se all’organo subordinato non è attribuita,
attraverso una norma, la competenza esclusiva, il potere di vigilanza dell’organo sovraordinato è
maggiormente intenso e penetrante.
Il modello gerarchico sin qui delineato è chiaramente in fase recessiva, ed evidenzia,
come già precisato, l’incoerenza di fondo rispetto ai principi sanciti nell’art. 97 e nelle norme
del titolo V della Costituzione.
Nell’attuale struttura amministrativa si è, invece, sviluppato un modello di gerarchia in
senso lato, caratterizzato solo dalla presenza di alcuni poteri prima evidenziati. Tappe
fondamentali della crisi del modello gerarchico in senso stretto sono da ricercarsi in primis
nella legge n. 241 del 1990, relativa al procedimento amministrativo che, nell’attribuire la
responsabilità della gestione del procedimento in capo al funzionario designato quale
responsabile del procedimento, sembra volere attribuire allo stesso una posizione di sostanziale
autonomia operativa rispetto ai superiori13.
Altro colpo letale al modello gerarchico in senso stretto è provenuto dal d.lgs. n. 29 del
1993 in tema di privatizzazione del pubblico impiego ed ancora di più dal d.lgs. n. 80 del 1998
in tema di seconda privatizzazione del pubblico impiego, ora entrambi i d.lgs. confluiti nel d.lgs.
165 del 2001, meglio noto come Testo unico del pubblico impiego. In questo contesto, infine,
non si può dimenticare la legge n. 59 del 1997, già menzionata.
Nell’ambito di detta riforma relativa al nuovo assetto dell’organizzazione amministrativa
si assiste ad una progressiva sostituzione del modello della gerarchia con quello della direzione.
Più nello specifico, i nuovi rapporti di sopraordinazione e sottordinazione, delineati dal
d. lgs.n. 165 del 2001, operano una netta separazione tra gli organi di governo politico ed i
vertici direttivi deputati alla gestione amministrativa, instaurando tra loro un rapporto che si
basa non più su poteri di gerarchia, ma su poteri di direttiva programmatica e di controllo di
risultati nella gestione.
In ogni caso, è necessario riconoscere che tutt’oggi è ancora possibile individuare qualche
connotato residuale del modello gerarchico, come una sorta di retaggio culturale; si pensi, per
esempio, al fatto che il ricorso gerarchico, sebbene non è più proponibile davanti ad un organo
politico avverso gli atti posti in essere da un dirigente generale, continua, invece, ad essere
13
Così, R. Galli - D. Galli, Corso di diritto amministrativo, cit., p. 190 e ss.
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Lezione II
ammesso innanzi al dirigente generale avverso gli atti emessi dal dirigente sottordinato. Come
questo, ci sono altri casi, disciplinati normativamente, che attuano ancora sprazzi di modello
gerarchico in senso stretto.
5.1.2. Direzione
Come suddetto, anche la direzione si iscrive nell’ambito delle relazioni di
sovraordinazione-subordinazione tra organi14. Essa può intercorrere sia tra organi appartenenti ad
amministrazioni pubbliche diverse che appartenenti alla medesima amministrazione pubblica.
Nel primo caso essa assolve alla funzione di coniugare il fenomeno del pluralismo
dell’organizzazione dell’amministrazione con l’esigenza di raccordo tra Stato e gli altri enti
pubblici; nel secondo caso, invece, esprime il risultato della trasformazione del rapporto di
gerarchia in senso tradizionale.
La direzione è un potere dell’organo sovraordinato su quello sottordinato che lascia, però,
a quest’ultimo un notevole margine di autonomia nella determinazione delle modalità da attuare
per raggiungere i risultati prefissati.
Sarebbe sbagliato, tuttavia, credere che la direzione sia una forma meno intensa di
gerarchia, infatti, così come nel caso della gerarchia, ove esiste il c.d. potere di ordine che non
lascia al destinatario alcun margine di discrezionalità, anche nel caso della direzione esiste il
potere di indirizzo che si esplica attraverso l’emanazione di direttive che vincolano l’organo
subordinato.
La caratteristica tipica delle direttive è “quella di dettare regole di comportamento,
lasciando sempre un ampio margine di discrezionalità all’organo, poi, chiamato ad applicarle,
fermo restando l’obbligo di quest’ultimo di motivare circa l’eventuale disancoramento dagli
indirizzi”15.
Le direttive, a differenza degli ordini, non comportano prescrizioni concrete e puntuali,
ma si limitano a determinare gli obiettivi e i criteri cui deve uniformarsi l’attività del loro
destinatario. L’organo sottordinato ha, pertanto, un ampio margine di valutazione, non solo
riguardo alle modalità ed ai tempi della sua azione, ma anche in ordine alla possibilità di
disattendere le direttive, allorché ragioni di pubblico interesse lo spingano a discostarsene,
14
Cfr., V. Angiolini, Direzione amministrativa, cit., ad vocem; G. Marongiu, L’attività direttiva nella teoria giuridica
dell’organizzazione, Milano, 1969, p. 32 e ss.
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sempre che ottemperi all’obbligo di motivazione. In ogni caso, il destinatario della direttiva
deve, in linea di massima, adeguarsi alla direttive e solo in casi particolari e giustamente
motivati, disattendere la stessa; in tal proposito si è espresso il Consiglio di stato (sentenza n.
471/1981) che ha ritenuto illegittimo il comportamento di un organo che ripetutamente violasse
una direttiva, affermando, così, il principio secondo cui costituisce vizio di legittimità non tanto
il discostarsi da una direttiva, quanto il disattenderla sistematicamente.
5.1.3. Coordinamento
Il coordinamento è il potere riconosciuto ad un ufficio rispetto agli altri (anche
gerarchicamente non inferiori) di coordinare ed armonizzare l’attività amministrativa, secondo un
disegno coerente ed organico alla luce di quelli che sono i risultati di interesse comune16. Esso si
esplica attraverso il potere, riconosciuto all’organo coordinatore, di impartire le disposizioni idonee
per realizzare il disegno unitario, anche attraverso un’attività di vigilanza17.
Il coordinamento assume particolare rilievo nel caso di organi che si trovano in posizione di
equiordinazione tra loro18, in considerazione delle difficoltà che possono aversi a sincronizzare
l’operato di organi che sono reciprocamente indipendenti. Al fine di coordinare organi indipendenti
tra loro è possibile creare un organo collegiale in cui convergono tutti gli organi interessati che
devono coordinarsi; esempio di tale organo collegiale sono i Comitati interministeriali, che sono
organi che assumono un vero e proprio potere propulsivo.
Altro esempio di organo collegiale è la conferenza di servizi, in particolare, la conferenza
permanente; queste sono strutture collegiali formate da rappresentanti dello Stato, delle Regioni e
degli enti locali, alle quali la legge, in attuazione del principio di leale collaborazione, attribuisce
funzioni non solo consultive, ma anche decisionali.
Nell’ambito del coordinamento non è praticabile l’utilizzo di direttive in considerazione
della forte autonomia che connota le figure soggettive pubbliche tra cui si instaurano rapporti
giuridici di interferenza reciproca; proprio per questo motivo la scelta legislativa è incentrata su
strumenti volti a conseguire soluzioni attraverso politiche di scambi e di collaborazione reciproca.
15
Così si è espressa la Corte dei Conti, nella sentenza del 16.02.1994, n. 13.
In argomento S. Cassese, Le basi del diritto amministrativo, cit., p. 174; V. Bachelet, Coordinamento, in Enc. dir., X,
Milano, 1962, ad vocem; F. Piga, Coordinamento, in Enc. dir., VII, Roma, Ist. Enc. It., 1988, ad vocem.
17
Così A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, cit., p. 178.
18
Sui rapporti di equiordinazione si segnala C. Lavagna, Contributo alla determinazione dei rapporti giuridici tra Capo
del governo e ministri, Roma, 1942.
16
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5.1.4. Controllo
Con il rapporto di controllo si permette che un organo sindachi l’operato di un altro
organo al fine di prevenire, riparare e salvaguardare gli interessi collettivi cui è titolare quel
determinato organo19.
L’attività di controllo dà luogo ad un rapporto che, a seconda dei casi, può essere
interorganico o intersoggettivo, tra l’autorità preposta al controllo e l’amministrazione i cui atti o
la cui attività sono sottoposti a verifica.
Il rapporto di controllo non postula necessariamente la subordinazione dell’organo
controllato, infatti, vi sono rapporti di controllo tra soggetti di pari dignità, come, per esempio,
nel caso dei controlli ad opera della Corte dei Conti sugli atti del Governo.
La funzione di controllo è quella che tende ad assicurare che gli organi di
amministrazione attiva agiscano in modo conforme alle leggi e secondo l’effettiva opportunità in
relazione al concetto di interesse pubblico20.
In ogni modo, la trattazione dei controlli e la disamina di tale istituto sarà oggetto di una
specifica lezione, ove verranno approfonditi vari aspetti, dalla funzione dei controlli, ai tipi di
controlli, agli effetti ed alle conseguenze giuridiche dei controlli, fino ai controlli di gestione.
19
Così Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, cit. p. 39 e ss.; F. Garri, I controlli nell’ordinamento italiano,
Milano, 1998, p. 45; L. Arcidiacono, La vigilanza nel diritto pubblico, Padova, 1984.
20
Così Alessi, Principi di diritto amministrativo, Milano, 1971, vol. I; V. Cerulli Irelli, Corso di diritto amministrativo,
Torino, 1997, p. 170 e ss.
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Lezione II
6 Difetto di competenza: acompetenza e
incompetenza
Nella lezione n. 1 si è trattata la competenza in senso generico, ovvero si è detto cosa si
intende per competenza e quali sono i criteri in base ai quali si stabilisce la competenza di un
organo. In questa lezione, invece, si tratterà il problema delle conseguenze giuridiche nel caso in
cui un organo emette un atto o compie un’attività di diritto amministrativo in difetto di tale
competenza. Il difetto di competenza può dare luogo a tre diverse ipotesi:
a) la c.d. acompetenza;
b) l’incompetenza assoluta;
c) l’incompetenza relativa.
Si ha acompetenza quando sono compiuti atti o attività amministrativa non da un
organo diverso da quello “competente”, bensì da un soggetto che non riveste affatto, nel
sistema giuridico, la qualità di organo di un ente pubblico21.
Sono casi di acompetenza quelli in cui:
•
l’agente che si arroga la qualità di organo, cioè la titolarità di una pubblica
funzione, non ha mai ricevuto l’investitura di una pubblica funzione;
•
l’agente è stato investito di pubblica funzione con un atto nullo;
•
l’agente,
benché
validamente
investito
di
pubblica
funzione,
è
successivamente decaduto dall’ufficio, per cui non è più titolare di esso;
•
l’agente ha perso l’investitura della pubblica funzione in quanto
successivamente annullata.
Si verifica, invece, l’incompetenza assoluta, che dà luogo alla nullità dell’atto, quando:
a) l’organo amministrativo emana un atto in una materia del tutto sottratta
alla competenza amministrativa e riservata ad un altro potere dello Stato
(c.d. difetto di attribuzione)22.
b) L’organo amministrativo emana un atto riservato alla competenza di un
settore amministrativo completamente diverso.
21
Questo paragrafo riprende i contenuti e le definizioni del testo di F. Caringella – L. Delpino – F. del Giudice, Diritto
amministrativo, ult. ed., Napoli, 2007, p. 150, che riprendono, a loro volta, la definizione di Gasparri.
22
Cfr. P. Virga, Diritto amministrativo. I principi, cit., p. 79 e ss.; A.M. Sandulli, Manuale di diritto amministrativo, cit.
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c) L’organo amministrativo emana un atto relativo ad un oggetto che si
trova nella circoscrizione territoriale d’altro organo amministrativo (un
esempio è il caso di una Regione che disciplina la materia della caccia su
una zona rientrante nel territorio di un’altra Regione, in questo caso l’atto
è nullo).
Si ha, infine, incompetenza relativa quando la stessa legge prevede le ipotesi di
illegittimità dell’atto amministrativo, congiuntamente all’eccesso di potere ed alla violazione di
legge.
L’incompetenza relativa è ravvisabile tra organi appartenenti allo stesso ramo di
amministrazione e determina l’illegittimità dell’atto.
Il più delle volte l’incompetenza relativa si configura come incompetenza per grado, ma
può aversi anche incompetenza relativa per materia o per territorio. In tutti e tre i casi
l’incompetenza relativa rende annullabile l’atto posto in essere dall’organo.
Secondo parte della dottrina l’incompetenza rientra nell’ipotesi di difetto di
legittimazione, vale a dire nell’ambito della mancanza dei requisiti soggettivi che abilitano un
organo ad emanare un determinato atto, in questa fattispecie si fanno rientrare, per esempio, i
casi di incompatibilità del funzionario, di irregolarità nell'investitura dell’organo e di irregolarità
nella composizione dell’organo collegiale.
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7 I conflitti di competenza
Si ha conflitto di competenza quando due o più autorità affermano o negano,
contemporaneamente, la propria potestà di conoscere una determinata questione o materia,
ovvero quando esiste la sola possibilità che sorga tale contrasto.
Detti conflitti possono essere classificati in conflitti :
•
positivi, quando due o più autorità affermano la propria competenza di
conoscere della questione;
•
negativi, quando, invece, tutte le autorità negano tale potestà conoscitiva su
una questione;
•
reali, quando le due o più autorità si siano già pronunciate circa
l’appartenenza o meno ad esse della potestà di conoscere la questione;
•
virtuali, quando vi sia la possibilità che si determinano tali pronunce.
•
A seconda, poi, del potere cui appartengono le autorità in conflitto, possono
aversi le seguenti specie di conflitti:
•
conflitti di attribuzione: quando le autorità appartengono a poteri diversi (ad
esempio una ad un potere esecutivo, l’altra ad uno giurisdizionale);
•
conflitti di giurisdizione: quando le autorità appartengono ad ordini
giurisdizionali diversi, esempio l’una alla giurisdizione ordinaria e l’altra alla
giurisdizione amministrativa;
•
conflitti di competenza: quando le autorità appartengono allo stesso potere o
allo stesso ordine giurisdizionale, esempio, il conflitto tra due T.A.R.
Soffermando l’attenzione sui conflitti di competenza fra organi amministrativi
possiamo dire che tali conflitti possono insorgere:
•
fra organi investiti dalla medesima funzione amministrativa (conflitti interni);
•
fra organi o autorità, investiti di funzioni amministrative diverse (conflitti
esterni).
La soluzione dei conflitti può avvenire in due momenti:
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Diritto Amministrativo
•
Lezione II
in via preventiva o diretta, ad opera di un organo amministrativo
gerarchicamente superiore a ciò designato dalla legge;
•
in via successiva o indiretta, mediante i rimedi previsti dalla giurisprudenza
amministrativa, cioè impugnando gli atti.
La soluzione in via preventiva e diretta, appare quella più utile ed opportuna perché evita
di giungere alla emanazione di un atto amministrativo affetto da incompetenza. Tale tipo di
soluzione può avvenire spontaneamente, quando uno degli organi in conflitto riconosca la
propria incompetenza e si ritiri dall’esame della questione lasciandone la conoscenza ad un altro
organo; oppure la soluzione del conflitto di competenza può avvenire con l’intervento di
un’altra autorità amministrativa e, più precisamente, nei conflitti interni, decide il capo
dell’organo o dell’ente di cui fanno parte gli uffici in conflitto; nei conflitti esterni decide
l’organo gerarchicamente superiore, quando si tratta di organi disposti gerarchicamente, se,
invece, manca detto rapporto di gerarchia il conflitto si risolverà con l’intervento di un’autorità
esterna, solitamente espressamente indicata dalla legge.
In ogni caso è sempre possibile il ricorso ai mezzi di giustizia amministrativa da parte
degli interessati.
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8 Il funzionario di fatto
L’espressione funzionario di fatto viene utilizzata con riferimento a quelle ipotesi in cui
l’atto di investitura del titolare dell’organo sia viziato o manchi del tutto.
La tematica dello svolgimento di funzioni di fatto è da sempre stato oggetto di dispute,
specie in relazione al suo ambito applicativo.
In via preliminare occorre individuare le figure giuridiche riconducibili a tale categoria.
E’ possibile ricondurre tale fattispecie nella categoria dell’usurpazione, che implica una
appropriazione non consentita di poteri funzionali penalmente sanzionabili. Alla figura
dell’usurpazione va, per certi aspetti, equiparata quella dell’inesistenza dell’atto di investitura o
della sua nullità, anche se in quest’ultimo caso non ricorrono gli estremi dell’illecito penale.
La situazione del funzionario di fatto può essere fatta rientrare nell’ipotesi in cui
l’intromissione all’interno dell’apparato organizzatorio dell’ente sia tollerata o all’ipotesi in cui
l’ingerenza nella sfera organizzatoria sia autorizzata per effetto di una investitura formale,
intervenuta attraverso un atto di nomina. Infine, la categoria in esame può essere fatta rientrare
nell’ipotesi in cui, in periodo bellico, le autorità militari di occupazione abbiano costituito
organi di reggenza temporanea o siano state create strutture organizzative alternative o
contrastanti rispetto allo Stato.
Nell’ipotesi di usurpazione, venendo in rilievo un’attività illecita e penalmente
sanzionata, gli atti adottati dovrebbero essere, a rigore, considerati nulli, perché proveniente da
un soggetto che non riveste la qualità di organo amministrativo.
Con riferimento alla cd. ingerenza tollerata vanno inquadrati i casi in cui l’ingerenza
nella sfera organizzatoria della P.A., pur non essendo stata formalizzata, sia, però, di fatto
riconosciuta attraverso manifestazioni univoche e concludenti. Il vero problema relativo
all’esercizio di fatto di pubbliche funzioni si collega al principio dell’effettività e
dell’affidamento, che si verifica in tutti i casi in cui una pubblica funzione, sia stata
effettivamente esercitata da un soggetto che non possa considerarsi organo della P.A. e tale
esercizio sia stato accompagnato dalla convinzione pubblica della validità ed efficacia degli atti
posti in essere dal soggetto. Assume rilevanza, quindi, la tutela dei terzi destinatari degli atti, i
quali sono solitamente ignari di ciò che avviene in ambito organizzativo dell’ente. Si prospetta,
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perciò, una situazione tipica di apparentia iuris che esige la tutela dell’affidamento dei terzi
destinatari degli atti adottati in tutte le ipotesi considerate.
La giurisprudenza è incline a risolvere detto conflitto facendo ricorso al principio di
conservazione, in forza del quale gli atti in questione, ancorché invalidi, devono, comunque,
ritenersi produttivi di effetti nei confronti dei terzi, eccezion fatta per le ipotesi di usurpazione,
relativamente alle quali si propende per l’inapplicabilità di tale principio.
E’ costante l’orientamento giurisprudenziale che vede nella tutela della buona fede del
privato destinatario il fondamento di salvaguardia dell’atto. Occorre precisare che le soluzioni
prospettate investono i casi in cui gli atti adottati dal funzionario di fatto siano favorevoli ai terzi
destinatari. Per quelli pregiudizievoli è necessario operare una differenziazione. Ove si tratti di
atti dell’usurpatore o del funzionario investito in virtù di atto inesistente o nullo, venendo in
rilievo un vizio radicale dell’atto assimilabile alla cd. nullità inesistenza, non si pongono
problematiche interpretative relativamente alla tutela giurisdizionale dei terzi pregiudicati
dall’atto.
Se, invece, vengono in rilievo atti emanati dal funzionario la cui nomina risulti viziata e,
per ciò, caducabile, il regime della loro impugnativa si presenta più complesso. Infatti, il terzo
che intenda fare valere l’illegittimità dell’atto per difetto di competenza si vedrà preclusa
l’impugnativa quando l’atto di nomina viziato
(che ne è il presupposto) sia divenuto
inoppugnabile per decorrenza dei termini. Viceversa, ove l’atto di nomina sia stato già annullato
in sede amministrativa o giurisdizionale, il suo effetto invalidante si ripercuoterà negativamente
anche su quello adottato sul suo presupposto, consentendo l’impugnativa all’interessato, senza
preclusioni.
In ogni caso preme sottolineare che il servizio prestato dal funzionario di fatto, in molti
casi, offre un vantaggio alla P.A. e non può negarsi che costui svolge una vera e propria attività
lavorativa che comporta il riconoscimento di un compenso al funzionario, almeno nei limiti di
quanto previsto dal codice civile. Tuttavia la questione della remunerabilità non si presta a
soluzioni omogenee. Infatti, nell’ipotesi di tolleranza legittimata dall’inserimento effettivo nella
compagine organizzativa dell’amministrazione, si adotta la scelta di riconoscere la
remunerazione per effetto dell’art. 2126 c.c. Nei casi, invece, di usurpazione o di inesistenza di
investitura, dovrebbe optarsi per il non riconoscimento della remunerazione, salva l’applicazione
dell’art. 2041 c.c.
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