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Come vivere e valorizzare il conflitto. Gli errori da evitare. A cura di

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Come vivere e valorizzare il conflitto. Gli errori da evitare. A cura di
Né
vincitori
né
vinti
Come vivere e valorizzare il conflitto.
Gli errori da evitare.
A cura di
Andrea Farioli
Introduzione: I principi di buona
navigazione (ovvero i presupposti per
una relazione positiva e una gestione
costruttiva del conflitto)
L’egoismo non consiste nel vivere
come ci pare
Ma nell’esigere che gli altri vivano
come pare a noi.
(Oscar Wilde)
Partecipare ad una esperienza formativa così come leggere questa
dispensa è un po’ come fare un viaggio in barca. Quanto più i “principi di
buona navigazione” saranno chiari e condivisi tanto più il viaggio sarà
piacevole e ricco di apprendimenti.
Ecco quindi le 3 parole chiave che vi ho proposto prima di togliere
l’ancora e partire: Ascolto attivo, Allenabilità e Feedback costruttivo.
2
ASCOLTO ATTIVO
Ascoltare in modo attivo significa
assumere il punto di vista
dell'altro,
sia
pure
temporaneamente
e
provvisoriamente. Se una persona
mi parla posso dire che sono in
ascolto solo se presto attenzione alle
sue parole e cerco di comprendere la
rete di significati che esse acquistano
in relazione alla sua visione del
mondo1.
Ascoltare
in modo attivo significa quindi
sintonizzarsi profondamente con
lo stato emotivo dell’altro e
lasciarsi coinvolgere e interrogare da
quello che ci proviene da lui. Dal
momento che le emozioni sono una
diretta conseguenza del significato che
la persona attribuisce alla realtà,
possiamo dire che in questo senso
ogni vero ascolto è un ascolto
empatico.
Ascoltare in modo attivo significa
“fare spazio dentro di sé” per
accogliere l’altro, ovvero accettare
di
farsi
cambiare
dal
dialogo
instaurato e far tacere se stessi per
dare la precedenza all’altro.
Molto spesso crediamo di ascoltare un'altra persona ma in realtà siamo
centrati sul nostro dialogo interno (quello che con una immagine metaforica e
scherzosa chiamo “i criceti”). Mi dico ad esempio: "Qui ha ragione, qui ha
torto" o "potrei rispondergli così e così...". E così posso diventare insofferente
se l'intervento dell'altro si prolunga oltre un certo limite in quanto temo che mi
possa sfuggire dalla mente ciò che ho da dirgli. In tali casi il mio
comportamento è sorretto dalla presunzione implicita che il mio punto di vista
sia più corretto, più “vero” ed in ogni cado rivesta una rilevanza maggiore
rispetto al punto di vista del mio interlocutore. In tali casi inoltre, agisce in me
un'altra presunzione determinante: il trascorrere del tempo come occasione
perduta, dispersione (tempo perso!), lutto, anziché come nuova possibilità,
occasione per apprendere, integrazione di diversità.
Ascolto, accettazione, accoglienza, accompagnamento (le 4 A dell’educare
come mi piace definirle) sono concetti inscindibili, che si implicano
reciprocamente: non c'è ascolto senza accettazione ed accoglienza,
come non ci può essere un vero accompagnamento senza ascolto.
1
Cfr Mauro Scardovelli, IL Flauto di Pan, edizioni EGIC, 1998
3
ALLENABILITA’2
Nel leggere un testo, nel frequentare un corso di formazione così come in
tutte le situazioni di incontro-confronto con altre persone che la vita ogni
giorno ci regala, ognuno di noi più o meno consapevolmente si pone una
domanda: vado in tribuna o nel campo da gioco? Fuor di metafora: mi
tengo a distanza senza mettermi in discussione o mi metto in gioco ed entro
nella situazione, con atteggiamento accogliente e ascolto profondo?
Essere allenabili significa
decidere
di
“scendere
in
campo e allenarsi”, significa
vedere l’errore come una
occasione di apprendimento e,
in
atteggiamento
di
ascolto
attivo,
aprirsi
all’altro
valutandone
le
proposte
e
accettandone i commenti, le
opinioni ed i feedback come una
opportunità di crescita e di
confronto. Chi decide di stare in
tribuna nella migliore delle ipotesi
fa il tifo ma quasi sempre critica e
giudica le azioni altrui: distingue
ciò che è bene da ciò che è male,
il giusto dallo sbagliato.
Il concetto di allenabilità (che mutua la radice dalla parola allenamento –
da lena, respiro - ovvero abituare mente e corpo a determinati compiti)
applicato non solo allo sport ma anche al tema comunicazione interpersonale
ed all’utilizzo di “testi pratici” come questo che avete tra le mani, ci fa riflettere
sul fatto che il relazionarsi con l’altro in modo efficace, costruttivo ed assertivo
non è né semplice né derivante da un talento innato ma prevede un umile e
continuo allenamento. Eppure mentre la maggior parte delle persone trova
comprensibile anzi logico e doveroso il fatto di praticare per anni e con
costanza uno strumento musicale così come un’arte o una professione o uno
sport per arrivare a padroneggiarle, pochi sono quelli che direbbero la stessa
cosa per un aspetto che coinvolge ogni persona e continuamente, la relazione
interpersonale appunto.
Del resto se un allenatore fa un rilievo o dà un’istruzione ad un giocatore
o se un insegnante di musica corregge un allievo, questi cercherà di mettere in
pratica il suggerimento, dedicandovi tempo ed impegno; è difficile immaginare
che si metta a discutere con l’allenatore o con l’insegnante, dicendo, ad
esempio, che gli è impossibile migliorare una determinata tecnica a causa del
suo carattere, o del fatto che ha avuto genitori di un certo tipo, o perché prova
2
Cfr Andrea Farioli, Allenabilità e feedback costruttivo, Innovazione educativa -mensile di discussione e
progettazione di nuovi itinerari formativi, gennaio 2006, edizioni IRRE E.R. (Istituto Regionale di Ricerca
Educativa per l’Emilia Romagna)
4
rabbia e risentimento nei confronti della fidanzata. Né avanzerà la
giustificazione che il rilievo o il suggerimento non era corretto in quanto non è
riuscito a metterlo in pratica subito. Eppure, sembra proprio questo il modo in
cui normalmente le persone reagiscono quando ad allenarle non è un
allenatore di calcio o un maestro di tennis, ma un insegnante, un formatore,
un counselor o un terapeuta.
Non si può non comunicare è il primo postulato della Pragmatica della
comunicazione3” Dunque “ognuno di noi è chiamato a scegliere se farlo in
modo casuale e subire tale ineluttabilità oppure scegliere di farlo in modo
consapevolmente costruttivo e positivo per se e gli altri”4.
Allenabilità significa quindi:
o impegnarsi con costanza ed essere responsabili dei propri
atteggiamenti comunicativi,
o disattivare il proprio orgoglio e criticismo,
o praticare l’autovalutazione e l’automonitoraggio anche alla luce
dei feedback ricevuti dagli altri.
FEEDBACK COSTRUTTIVO
Che cosa intendiamo per feedback
costruttivo? Desidero rispondere citando
Mauro Scardovelli5, ovvero la persona che
anni fa mi ha fatto conoscere questi temi
che
sono
diventati
tasselli
molto
importanti nella mia vita e nel mio
lavoro:
“Per
feedback
costruttivo
intendiamo un feedback che faciliti
l’instaurazione ed il mantenimento di
rapporti
positivi,
basati
sulla
comprensione, sulla stima e sulla
collaborazione
reciproca,
anziché
sull’antagonismo,
sulla
diffidenza
e
sull’incomprensione.
Intendiamo
un
feedback che favorisca la distensione, la
creatività e la motivazione produttiva,
anziché la tensione, la chiusura e
l’arroccamento. In che modo un genitore
può
facilitare
un
rapporto
di
comprensione e di fiducia reciproca?
Come un insegnante en educatore
3
Cfr Watzlawick, P., Beavin, J.H., Jackson, D.D. (1967), Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma,
1971.
4
5
Cit G.Nardone e A. Salvini, Il Dialogo Strategico, Ponte delle Grazie Editore, Milano 2004
Cit. Mauro Scardovelli, Feedback e cambiamento, ed Borla 2003
5
possono diventare più efficaci nel suo
lavoro, rivolgendo i ragazzi osservazioni
che li stimolino ad apprendere e a
migliorarsi? Che cosa può fare un
dirigente
per
motivare
i
suoi
collaboratori? Le persone comunemente
ritengono di conoscere queste cose e
rimangono regolarmente stupite quando
si accorgono che comunicando con gli
altri non ottengono i risultati desiderati.
Allora spesso si affannano e persistono a
cercare le cause dell’insuccesso in una
divergenza di interessi, in un conflitto
ideologico, o nella cattiveria, nella
stupidità
o
nella
follia
dei
loro
interlocutori”.
Sembra ovvio che tutte queste analisi, anche se condotte con grande
precisione terminologica e passione, al massimo forniscono solo delle ragioni
verosimili per cui le cose non hanno funzionato. Forniscono alibi, ma non chiavi
di soluzione. Avere un alibi è già qualcosa: può mettere temporaneamente in
pace il proprio senso di colpa. Se mio figlio non mi ascolta è perché è ottuso e
perché i giovani d’oggi non hanno più valori, se i miei allievi non studiano è
perché sono pigri e giovani d’oggi non hanno più il senso del sacrificio , se mia
moglie è depressa è perché è malata, se i miei pazienti fanno resistenza è
perché hanno delle rigidità, io non c’entro! Avere un alibi riduce l’ansia dovuta
al senso di responsabilità. Per questa e per altre ragioni l’arte di comprendere,
di sostenere e di incoraggiare se stessi e gli altri non sembra particolarmente
diffusa nella nostra cultura. Per questa e per altre ragioni i virus del potere
dominio e pensiero negativo-distruttivo sembrano proliferare in modo
preoccupante a tutti i livelli.
Crediamo invece che solo attraverso il “costruire insieme”, ovvero il vincere
CON l’altro e non SU l’altro si possa dare un senso pieno ad una relazione,
professionale o affettiva ed è poco meno che superfluo sottolineare la
centralità che il feedback costruttivo ha all’interno del concetto di alienabilità
prima richiamato.
Tutti noi abbiamo continuamente bisogno di imparare e l’arte di
cogliere gli aspetti positivi e di incoraggiare se stessi e gli altri è uno
splendido cammino che può essere continuamente perfezionato.
Siamo consapevoli che il costruire ed il cogliere il “bicchiere mezzo pieno” in
noi stessi e negli altri richiede più tempo, impegno e dedizione del distruggere
e dell’evidenziare tutto ciò che è per noi un difetto: del resto per costruire un
pianoforte ci vuole un artigiano competente nello scegliere i materiali e nel
lavorarli, tanti giorni di studio e di lavoro, pazienza e dedizione; per
distruggerlo basta una robusta mazza da baseball e qualche minuto.
6
Prima parte
Imparare ad affrontare creativemente
gli ostacoli
Dobbiamo imparare ad affrontare CREAtivamente gli ostacoli che
incontreremo nelle relazioni con i ragazzi.
Innanzitutto dobbiamo vedere ogni ragazzo come un soggetto attivo
capace di trovare delle proprie modalità personali di risposta (anche
per tentativi ed errori). In questo quadro, programmare significa sapere
predisporre delle situazioni fortemente interessanti e coinvolgenti capaci di
spingerli all'avventura della conoscenza, di incoraggiarli e incentivarli a mettere
in moto il meglio delle proprie risorse individualmente o in situazione di
interazione con i compagni per esplorare/progettare/ inventare/scoprire
soluzioni. Idealmente ci sentiamo tutti disposti a giocare questa scommessa,
ma dobbiamo renderci conto delle difficoltà in gioco!
Proviamo a rileggere alcuni dei "deterrenti" alla partecipazione attiva e
del pensiero creativo (identificati da Simberg):
• la paura di fare una brutta figura o di sbagliare
• la ricerca del successo facile
• il bisogno eccessivo di sicurezza e di protezione
• la paura del giudizio dei superiori o le critiche dei compagni
• la mancanza di motivazione
Sono ostacoli in cui inciampiamo ogni piè sospinto e "saltarli" non è certo
facile, anche perché siamo cresciuti insieme a loro! La scuola e la società si
basano in gran parte su di loro, poiché essi sono garanzia di stabilità.
Essere competenti nella gestione del conflitto
Troppo spesso ai ragazzi si raccomanda più che altro di “andare d’accordo”.
Piuttosto che farsi coinvolgere dal problema mettendosi in discussione,
l’azione educativa mira troppo spesso a un’armonizzazione e ad una
omologazione che consenta di evitare i conflitti, i quali vengono
tradizionalmente “archiviati” attraverso l’individuazione del colpevole
e il rimprovero. L’ambiente, inoltre, reagisce al comportamento aggressivo
con la punizione, la rappresaglia e l’emarginazione e ciò non solo non risolve il
problema dell’aggressività ma anzi viene percepito dall’interessato come
un’ulteriore minaccia che spesso porta non a una riduzione della rabbia e
dell’aggressività ma a nuovi comportamenti aggressivi.
A tutto ciò va aggiunta la ambivalenza del concetto di aggressività nella
nostra società: in molti casi, infatti, essa è ritenuta un valore: gli uomini
“veri” devono avere un approccio alle cose che sia anche aggressivo e
7
combattivo; il cronista sportivo esige più “aggressività” da parte dei calciatori
se la squadra sta perdendo, ecc, ecc.
Un confronto consapevole e mirato con questo “disagio normale” e la
rabbia e l’aggressività che ne sono i corollari è quindi necessario:
- la rabbia è una condizione interiore di alta tensione che si riproporrà sempre
e che non può essere ingoiata (chi tiene costantemente a freno i propri
sentimenti perde la propria vivacità e non offre all’ambiente circostante
occasione di reagire);
- L’aggressività pur essendo un concetto che viene genericamente equiparato
all’intento di distruggere e fare male dal punto di vista fisico e morale,
fondamentalmente significa “avvicinarsi”, “attaccare”, nel senso di smuovere e
descrive un impulso non solo negativo (non scordiamoci che etimologicamente
aggredire significa “uscir fuori”).
Chi vuol star bene con gli altri deve imparare a litigare
Un’armonia senza interruzioni, infatti, renderebbe la vita noiosa e
insopportabile; opinioni e interessi diversi la rendono invece stimolante e
pertanto vanno espressi e i conflitti conseguenti devono essere affrontati e
superati.
Nella nostra società spesso il conflitto viene evitato e considerato solo negativo
mentre noi crediamo che occorra imparare a convivere con esso in quanto la
conflittualità è parte integrante della vita dell’uomo ed è sua caratteristica
costitutiva.
Al contrario di ciò che normalmente si pensa, è il conformismo (cliché, ruoli
prefissati, criteri dominanti degli adulti) che porta alla violenza in quanto
schiaccia l’unicità della persona e preclude l’autenticità della relazione mentre il
convivere con il conflitto aiuta a vivere la creatività e a creare situazioni di
pace.
E’ in quest’ottica, in questa nuova prospettiva educativa che il litigio (che è
una forma di espressione del conflitto) può diventare una risorsa in quanto
aumenta la coscienza della differenziazione - vale a dire ci aiuta a prendere
coscienza di come i punti di vista sulla realtà possono essere diversi. Questa
consapevolezza non è solo frutto dell’istinto ma deve essere ricercata e la
capacità di sciogliere positivamente il conflitto deriva da precise competenze.
Tali capacità ancora una volta hanno come presupposto una filosofia interiore
di un certo tipo (esser disposto a morire a me stesso per l’altro) ed un
percorso individuale che parta dal “mettersi in discussione” e che,
attraverso il rifiuto della tentazione di voler piegare l’altro ed il ripensamento di
come ci poniamo di fronte agli altri, arrivi alla creazione di situazione di
pace.
Fiumi di parole sono stati spesi sull’argomento della PACE e ormai siamo
assuefatti a questa tematica. Almeno a parole siamo tutti d’accordo, tuttavia se
guardiamo ai fatti scopriamo che le diversità ci sono e sono tante.
Ecco perché noi crediamo che non si debba tanto parlare di pace ma cercare di
creare situazioni di pace partendo dal presupposto che ….
8
L’accettazione di se stessi è il primo gradino per accettare anche gli
altri e fondamentale per questo percorso è il SENTIRSI RICONOSCIUTI
al di là di ogni competitività.
La persona integra riesce ad accogliere la diversità perché non ha bisogno
di dimostrare una superiorità; non ha senso di inferiorità e, conoscendo
se stesso, sa quello che ha e quello che gli manca. La capacità dell’altro
non è vista quindi come minaccia o in maniera competitiva bensì come
ricchezza cui attingere e a cui dare
Nel rapporto con l’altro le identità deboli, invece, reagiscono o con una
dipendenza passiva in cui la realtà viene subita o con una trasgressione
non positiva (la cosiddetta “trasgressione contro”, vale a dire la trasgressione
di chi, sentendosi inferiore e minacciato nella sua integrità, reagisce con una
superiorità aggressiva).
Il punto di partenza nel rapporto educativo è il “CLIMA” che si respira
ed è fondamentale che sia l’educatore a “dare il la” guardando i ragazzi per
quello che sono, nella loro unicità ed autenticità e non a partire da
quello che non sono ma che secondo noi dovrebbero essere.
Uno dei compiti della pedagogia consiste, a nostro avviso, non tanto in un
insegnamento ma in un processo/percorso che porta la persona
(educatore/educando) ad avere una CAPACITA’ DI RESISTENZA CRITICA
intesa come:
• capacità di percepire/far percepire la violenza (non certo solo la
violenza fisica ma le mille sfaccettature della violenza psicologica);
• capacità di creare delle alternative positive e costruttive per
risolvere i conflitti;
• capacità di dare valore alla aggressività come forza positiva da
incanalare in un percorso.
Il litigio
Pensiamo che il litigio abbia una funzione polivalente in quanto non è solo
scontro ma anche contatto fisico (soprattutto per i bimbi) e tale contatto è una
opportunità sempre più rara in quanto, pur essendo tutti noi anima e corpo, la
scuola da sempre e sempre più punta sull’intelligenza e spesso si scorda delle
emozioni nonché del corpo e dei suoi messaggi.
Il contatto fisico anche violento, inteso come vicinanza e riconoscimento
reciproco è invece una possibilità di comunicazione da non sottovalutare in
primo luogo per il fatto che fa parte di un percorso naturale di crescita
dell’individuo (ed è pur sempre un modo, seppur sbilanciato, di “stare alla
pari”) e in secondo luogo in quanto aiuta a prendere coscienza del proprio
corpo, del corpo dell’altro e della forza che si possiede.
E allora che fare di fronte al litigio, anche fisico?
Come detto in precedenza, si deve avere fiducia nella capacità che hanno i
ragazzi di creare delle alternative e di risolvere i problemi (no fermiamoci
quindi al “chi è stato” ma “abbiamo questo problema, voi che situazione
9
proponete?”). I ragazzi, infatti, sono ricchi di creatività e hanno tanto da
insegnarci. Percepita la distinzione tra “gioco” e “attacco” abbiamo la possibilità
di aiutare i bambini a capire da dove parte il litigio attraverso la trasposizione
simbolica (ovvero prendendo le distanze dalla situazione e ristrutturandola),
grazie a giochi del tipo: fai finta tu di essere il fratello/la sorella, ecc.
Nell’adolescente, inoltre, è spesso presente (e pesante) il litigio con i genitori.
Tale litigio è del tutto fisiologico perché è il loro modo di prendere le distanze,
di allontanarsi e, quindi, di crescere. Pertanto i genitori devono abituarsi a
questo dato di fatto ed accettarlo con la giusta serenità. Nei momenti di litigio,
tuttavia, per il genitore è ancora più difficile analizzare le emozioni poiché
quello che viene a mancare è l’informazione sull’emozione che ha causato il
litigio. Ciò che deve esser ricercato dall’educatore è proprio una
CONDIVISIONE DELLE EMOZIONI.
Le modalità di gestione del conflitto
Verifichiamo a quale delle seguenti modalità ricorriamo più frequentemente:
• Integrazione: è la ricerca di soluzioni creative che rispettino i bisogni di
entrambi attraverso l’apertura, lo scambio di informazioni, l’esame delle
differenze.
• Compiacenza: è il tentativo di minimizzare le differenze per soddisfare gli
interessi dell’altro; può essere utile se il soggetto vuole in seguito ottenere
qualcos’altro dalla controparte oppure ritiene che gli interessi dell’altro siano
più importanti.
• Dominazione: è lo stile correlato con l’orientamento vincitore-perdente;
può essere utile in occasione di un conflitto su argomenti banali, in
mancanza di tempo oppure per decisioni impopolari.
• Fuga: è associato a comportamenti quali il ritirarsi, il lavarsene le mani, il
farsi da parte. E’ un approccio utile nel caso si affrontino argomenti banali o
quando gli effetti negativi di un confronto siano potenzialmente eccessivi.
• Compromesso: è lo sforzo di trovare una via di mezzo tra i propri interessi
e i bisogni dell’altro.
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Seconda parte
Le tentate soluzioni: ovvero le
soluzioni che non funzionano
Gli esseri umani nel corso della loro esistenza s’imbattono frequentemente in
problemi che cercano di risolvere mediante soluzioni.
A volte le soluzioni si dimostrano adatte al cambiamento desiderato, altre
volte del tutto inadatte o addirittura dannose. Nel secondo caso, quando i
tentativi non portano i risultati sperati, capita un fatto curioso, invece di
abbandonarli ci si impegna ancora di più su quel tipo di soluzione innescando
un’escalation (un aumento, una corsa verso l’alto) dove si fa sempre di più la
stessa cosa.
Come afferma Watzlawick, “quando un tentativo non produce il risultato
sperato, noi tutti, uomini o animali, applichiamo la ricetta dell’infelicità che
prescrive una quantità sempre maggiore della stessa cosa aumentando così in
misura sempre maggiore lo stesso dolore...”
I tentativi di soluzione sono quindi quei meccanismi che non solo non risolvono
il problema, ma piuttosto lo mantengono e lo aggravano.
Dalle naturali difficoltà ai problemi
In alcune circostanze i problemi possono essere visti proprio come il
tentativo mal diretto di trattare una difficoltà.
Qualche esempio, sui tentativi di soluzione che non funzionano, ma anzi
peggiorano il problema, lo si può trarre da alcuni problemi che coinvolgono
persone che, per motivi professionali, devono relazionare davanti a vasti
uditori; in questi casi la paura di sbagliare o di imbarazzarsi davanti alla platea
può paralizzare l’oratore ed inficiare la prestazione. In genere questo tipo di
problema si verifica e si forma sulla base di reali o immaginarie paure che
nascono nei pensieri dell’oratore e che diventano dominanti rispetto a tutto il
resto. Sulla base di dubbi e pensieri relativi allo sbagliare qualcosa o al
manifestare imbarazzo davanti al pubblico, questi opera un allertamento nei
confronti delle proprie reazioni fisiologiche con conseguente tentativo di
controllo delle stesse e successivamente un continuo evitamento delle
situazioni ansiogene. La persona comincia a compiere sforzi di volontà al fine di
controllare la sua paura e nasconderne la sua esistenza agli altri, ma così
facendo finisce con il crearsi una vera e propria fissazione nevrotica che lo
porterà ad evitare sempre più le situazioni ansiogene, fino alla costruzione di
una vera e propria fobia sociale.
Una iniziale difficoltà, la paura naturale, della “grande platea” che poteva
essere superata con una semplice azione quale quella di ammettere che è
normale poter aver paura o provare ansia in situazioni del genere e quindi
comunicarlo agli altri, pubblicizzarlo piuttosto che nasconderlo, diventa invece
un problema perché il rimedio usato non è adatto, ma anzi deleterio.
11
Ciò che contribuisce allora ad esacerbare una difficoltà, paradossalmente è
proprio qualche particolare aspetto della soluzione adottata per risolverla, è il
modo stesso in cui noi cerchiamo di fronteggiare la difficoltà.
Quando una difficoltà si trasforma in un problema
Non sempre le difficoltà si trasformano in problemi, affinché ciò si verifichi
bisogna che siano soddisfatte due condizioni:
- la difficoltà viene affrontata in modo non adeguato;
davanti alla persistenza della difficoltà si applica di più la stessa
soluzione.
In forma schematica di seguito, possiamo vedere il processo attraverso il quale
una difficoltà diventa un problema.
La difficoltà viene affrontata in modo
non adeguato:
si interviene quando non si dovrebbe;
non si interviene quando si dovrebbe
si interviene in modo sbagliato
D
iff
ic
ol
tà
TENTATE SOLUZIONI
Non riuscendo a risolvere la
difficoltà non si fa altro che
applicare
di
più
la
soluzione.
P
ro
bl
e
m
La difficoltà viene affrontata in modo non adeguato quando:
* Si nega che il problema sia un problema.
Bisognerebbe agire, ma non si agisce, quando invece un intervento sarebbe
indispensabile. La principale ragione di un simile atteggiamento, per esempio,
potrebbe derivare dal desiderio di mantenere a qualsiasi costo una facciata
sociale accettabile.
* Si agisce quando non si dovrebbe.
Una difficoltà viene avvertita in modo pressante e si cerca di rimediarvi,
mentre non bisognerebbe farlo. Ad una attenta analisi la difficoltà si dimostra
12
inesistente o irrimediabile e ogni tipo di intervento addirittura dannoso. Il
problema consiste nel pensare di vedere una soluzione là dove non c’è e quindi
attaccarsi ad una pseudo-condizione che porta la persona a pensare di aver
trovato una soluzione perfetta e soprattutto definitiva.
* Si agisce al livello sbagliato.
In questi casi il problema esiste, ma purtroppo l’intervento che viene
tentato per cercare di rimediarvi si effettua ad un livello inadeguato.
Nell’esempio dell’oratore che ha paura di aver paura davanti al pubblico, si
evidenzia che il suo timore di non riuscire a controllarsi, lo costringe a
controllare la propria emotività, finendo proprio con l’aggravare il problema, in
virtù di un tentativo inadeguato. Soltanto l’introduzione della paura nella sua
dimensione relazionale, cioè come parte di un insieme che include l’oratore ed
il pubblico, e la dichiarazione dell’oratore della stessa emozione, o
l’allontanamento del tentativo di voler controllare volontariamente l’ansia,
eviterà quindi di intervenire in modo paradossale.
Le fasi di un intervento per la risoluzione di un conflitto o
problema
In questa parte, sempre in maniera schematica, si chiariscono attraverso
una esposizione sequenziale le fasi utilizzate per un intervento di risoluzione.
Definizione del problema
Un primo indispensabile stadio per la costruzione della soluzione è
rappresentato da una chiara e specifica definizione del problema da risolvere.
A questo scopo è opportuno basarsi sulla descrizione quanto più concreta
possibile del fenomeno. Quello che veramente interessa è il concreto
funzionamento del problema nel suo processo, nelle sue manifestazioni
osservabili e nelle sue regole .
Definizione degli obiettivi
Definire un obiettivo significa darsi una meta, un punto di arrivo di
riferimento, capace di polarizzare i propositi, la condotta e i comportamenti di
una o più persone nell’ambito di una attività, di una impresa o del risolvimento
di un determinato problema precedentemente definito.
Oltre a una chiara formulazione degli stessi obiettivi è opportuno scegliere di
lavorare su obiettivi di cambiamento minimo per dare l’avvio ad un processo di
cambiamento.
Definizione delle soluzioni tentate
In questa fase si studiano attentamente tutti i tentativi messi in atto per
cercare di risolvere il problema.
La fase della ricerca delle soluzioni tentate rappresenta un momento
essenziale e centrale, e serve a capire come il problema si è formato e su quali
interazioni si mantiene.
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L’analisi si articolerà in due fasi:
a) cosa è stato fatto.
b) cosa attualmente si fa.
Definizione delle strategie
Una strategia rappresenta un insieme di tattiche e manovre preordinate al
fine di raggiungere l’obiettivo prefissato.
Nel nostro caso, l’obiettivo di una strategia è
1) fare in modo che si sospendano le soluzioni tentate fino a quel momento;
2) inserire cambiamenti comportamentali (in grado di sbloccare la situazione),
all’interno
dell’interazione nella quale il problema si manifesta.
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STRATEGIE E STRATAGEMMI PER IL CAMBIAMENTO
In questo paragrafo si passa alla descrizione di alcune procedure e strategie
utilizzabili nella risoluzione dei problemi.
Imparare ad usare il linguaggio dell’altro
Per raggiungere una comunicazione efficace risulta della massima
importanza saper riconoscere “la lingua” dell’altro per sintonizzarsi veramente
sulla sua esperienza e capirlo. Saper parlare la lingua dei propri interlocutori
aiuta a comprenderli e ad essere meglio compresi.
Il primo passo da compiere è quello di prestare attenzione al linguaggio di
chi ci sta davanti ed in particolar modo ai predicati che utilizza per esprimere la
sua esperienza. Per predicati si intendono gli avverbi, gli aggettivi, i verbi.
Dopo aver rilevato quali tra i predicati che l’altro utilizza compaiono con
maggior frequenza nel discorso si può tentare di sintonizzare i propri predicati
a quelli dell’interlocutore. Questo tipo di approccio ci può permettere di
facilitare il processo di ricezione, evitando così eventuali disturbi comunicativi
dati dalla difficoltà di comprendere qualcosa che non fa parte del proprio
modello del mondo.
Per rendersi conto di questo basterebbe osservare attentamente due
persone tra le quali si ritenga che ci sia feeling, per osservare come sia
presente un rispecchiamento reciproco degli aspetti micro e macro
comportamentali: per esempio in modo macro si osserverà la medesima
posizione dei loro corpi, in specifico la postura totale, o di alcune parti come il
tronco, la testa, e così via, in modo micro, calibrandoli attentamente si
potrebbe osservare una corrispondenza tra le loro mimiche facciali, le loro voci
nei termini di tono, ritmo, pause, ed anche il rispecchiamento delle loro
respirazioni. Da una osservazione esterna questo è quello che come osservatori
si riuscirebbe a percepire.
Esistono situazioni sia all’interno di contesti personali che professionali in
cui l’esigenza è quella di raggiungere rapidamente forme ottimali di
comprensione senza poter indagare tanto su tutti i livelli della dimensione
dell’esperienza dell’altro. Come fare ad entrare in rapporto in breve tempo?
Si può fare se si adattano i propri comportamenti a quelli dell’altro, se cioè
gli si propone una accettazione del suo mondo interno attraverso una iniziale
accettazione della sua veste comportamentale. E’ una potentissima chiave che
apre le porte dell’altro, che permette di fare sentire a proprio agio
l’interlocutore e che dà il modo di ottenere informazioni che difficilmente si
otterrebbero se l’altro, se non avvenisse sentimenti di fiducia e comprensione.
Connotazione positiva
Quando si vuole promuovere una partecipazione e una collaborazione attiva
anche in soggetti esternamente diffidenti e un po’ irrigiditi nelle loro posizioni
bisogna evitare di incorrere nell’uso di etichettature o incorniciatura negativa
del loro comportamento e delle loro azioni. Questo provocherebbe sentimenti
di colpevolizzazione nella persona che esprime un determinato comportamento
portandolo ad irrigidirsi e a mantenersi irremovibile rispetto a qualsiasi tipo e
15
forma di possibile cambiamento.
Invece di criticare l’operato di qualcuno, anche se tale operato risulta
essere disfunzionale, diventa più produttivo gratificare la persona e attraverso
tale gratificazione portarla alla modifica del comportamento.
In tale manovra comunicativa, le resistenze al cambiamento vengono
aggirate, le persone si sentono gratificate e stimolate a continuare a fare già
quello che stavano facendo con nuove azioni comportamentali, ma che
contraddicono quello che avevano cominciato.
La ristrutturazione
La ristrutturazione è una delle più sottili tecniche di persuasione.
Ristrutturare significa ricodificare la percezione della realtà di una persona
senza cambiare il significato delle cose, ma cambiando la loro struttura. Non si
cambia il valore semantico di ciò che la persona esprime, ma si cambiano le
cornici all’interno delle quali inserire tale significato. Ovviamente, cambiando la
cornice, si cambia in maniera indiretta il significato stesso.
Anticipazioni
L’anticipazione esige un assenso proprio in quanto indirettamente definisce
il disaccordo come una dimostrazione di poca comprensione, mancanza di
fantasia, o intelligenza limitata.
Es.:
“Lo troverà insensato, ma ho l’impressione che
“La cosa le sembrerà ridicola, ma si potrebbe dire che ...“
“C’è una soluzione decisamente semplice, che a lei sicuramente non piacerà
...“
Come peggiorare la situazione?
Questa tecnica rappresenta, il più delle volte, il primo passo da fare con se
stessi per produrr
reazioni alternative a quelle in corso.
La tecnica si esprime nel domandarsi ripetutamente nell’arco di qualche
giorno “Come potrei fare andare peggio le cose? Come potrei, se volessi
deliberatamente e volontariamente incrementare la situazione problematica
nella quale mi trovo? Cosa dovrei pensare o non pensare, per fare andare
ancora più male le cose?”
Ponendosi questa serie di domande, chi si trova a essere in una situazione
difficile e apparentemente senza soluzione si obbliga a cercare di orientare la
propria costruzione strategica verso l’obiettivo di un peggioramento della
situazione invece che di un miglioramento.
L’effetto di ciò di solito può essere di 2 tipi:
a) Si individuano tutta una serie di modalità di pensieri e di azioni per
peggiorare la situazione, in questo caso avrà chiaro cosa dovrà evitare di fare
o pensare. e questo è già un modo per bloccare le eventuali “tentate soluzioni”
che mantengono o complicano il problema.
b) Molto spesso, quando spingiamo la nostra fantasia nella direzione del
complicare i nostri problemi, emergono per reazione tentate soluzioni
alternative mai contemplate fino ad allora.
Lao Tsu, 4000 anni fa circa, affermava, “se vuoi drizzare una cosa, prima
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cerca di storcerla di più”
Immaginare lo scenario oltre il problema
Questa tecnica può avere molte varianti, il suo obiettivo è quello di
spostare la nostra attenzione dal presente problematico a un futuro senza il
problema.
In altri termini, si deve, proiettandosi mediante l’immaginazione di
situazioni concrete al di là del problema presente cercare di rilevare quali
sarebbero le nostre percezioni, i nostri pensieri e le nostre azioni in tale
contesto. Per facilitare questo si possono utilizzare alcuni espedienti fantasiosi.
Utilizzando una tecnica meno suggestiva, si può chiedere a se stessi di
immaginare lo scenario concreto della situazione futura oltre il problema.
In ogni modo, ciò che si provoca è, in primo luogo un effetto suggestivo del
tipo profezia che si autorealizza. poiché se io immagino la possibilità di un
cambiamento o di una situazione di soluzione del problema, apro comunque le
mie aspettative in tale direzione.
In secondo
luogo, lo spostare la nostra attenzione da un presente
problematico a un futuro non problematico, produce un rilasciamento della
tensione presente e un blocco delle attuali “tentate soluzioni”; tutto ciò
produce un sollievo concreto e apre la strada a modalità percettive reattive
alternative.
La tecnica del “come se”
Strettamente connessa alla tecnica precedente, ma molto più orientata a
un intervento attivo sul problema presente, è la tecnica del come se. Questa si
esprime nel chiedersi: “cosa farei di diverso oggi, come mi comporterei
diversamente in questa giornata se il problema che ho non ci fosse più?”
Tra le cose che vengono in mente, scegliere la più piccola e metterla in
pratica.
Ogni giorno farsi tale domanda e tutti i giorni mettere in pratica la più piccola
azione, come se il problema non ci fosse, tra quelle che ci sono venute in
mente.
In questa maniera si innesca ogni giorno un piccolo cambiamento che
innescherà una reazione a catena di ulteriori cambiamenti, sino al sovvertimento totale delle nostre precedenti modalità di percepire e affrontare in
maniera controproducente il problema.
Come nella teoria delle catastrofi (Thom, 1990) si produce l’effetto
“Butterfly”, ovvero quel battito d’ala di farfalla che, in un certo spazio e tempo,
innesca una reazione a catena di eventi naturali che condurrà al ciclone, a
qualche migliaia di chilometri di distanza da quel piccolissimo evento iniziale.
Evitare di evitare
Una delle tendenze più usuali negli esseri umani quando hanno un
problema è cercare di evitarlo, o di situazioni che lo possano esasperare.
In tale maniera, però si conferma in noi stessi la nostra incapacità di
fronteggiare il problema. Ogni fuga conduce a un’altra fuga che conferma la
precedente e prepara la successiva, ma tale catena di fughe alimenta e
incrementa la nostra sensazione di insicurezza e incompetenza personale.
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Pertanto, è necessario prescriversi, di “evitare di evitare”, assumendo
questa come regola di fondo nella nostra interazione con la realtà che
continuamente costruiamo e, poi, subiamo.
Questa forma di autoinganno, tuttavia, non deve essere confusa con
l’esortazione a mettersi a prova costante, in quanto tale strategia è, come
vedremo poi, decisamente controproducente, talvolta realmente catastrofica
nei suoi effetti. Evitare di evitare, sta a significare non rinunciare ad alcuna
delle situazioni che la nostra esistenza ordinaria ci propone, per la paura di non
essere in grado di fronteggiarla o per il timore di soffrirne. Bisogna porsi di
fronte alle realtà che ci incutono timore come se fossero occasioni per nuove
esperienze di apprendimento e di crescita personale, incluse le sconfitte; anzi
utilizzare la paura degli effetti dannosi che il ripetersi di “evitamenti” potrebbe
produrre, come risorsa per superare la paura di ogni singola situazione che
vorremmo evitare. Usare la paura contro la paura stessa.
Il limite di ogni paura è, infatti, una paura più grande.
Sforzarsi di non sforzarsi
Per alcuni di noi, ciò che viene come tendenza naturale di fronte a una
difficoltà, è una reazione di maggiore impegno, maggiore sforzo nel tentativo
di fronteggiare le cose che ci vanno storte.
Il più delle volte questo sta a significare la inclinazione a insistere
caparbiamente nell’applicare tentate soluzioni che non funzionano, oppure il
mettersi continuamente alla prova cercando sempre nuove conferme delle
proprie capacità, con l’effetto di incrementare tale necessità di conferma e la
conseguente insicurezza personale.
In altri casi, lo sforzo è diretto al controllo delle proprie emozioni e della
propria impulsività; anche in questo caso il risultato più frequente è l’ancor
maggiore incapacità di controllo delle proprie reazioni emotive.
Il risultato finale è che il controllo riuscito conduce a una forma di perdita di
controllo del controllo stesso, ovvero tale inclinazione diventa compulsione.
In altri termini, l’autoinganno dello sforzarsi di non sforzarsi, per
incrementare la fiducia nelle proprie risorse, può essere metaforicamente
riassunto con la storia “del drago che cerca la perla della virtù suprema. Egli la
cerca ovunque, per mari e per terre, nelle foreste e nei deserti, senza mai
riuscire a trovarla, e continuerà a cercarla all’infinito se non si guarderà in uno
specchio d’acqua, accorgendosi che la perla della virtù è incastonata sulla sua
cresta esattamente sopra i suoi occhi”.
Incorniciare i ricordi
Chi di noi non ha alcun ricordo spiacevole se non triste?
Nessuno.
Questa semplice rilevazione, quasi banale, deve farci riflettere sulla
importanza della attribuzione che diamo ai nostri brutti ricordi: vicini o lontani
che siano, non possono essere qualcosa di irrilevante per i nostri umori e stati
d’animo.
Una tecnica per gestire positivamente le nostre memorie è quella di
immaginare di costruirsi nella nostra mente una galleria con tanti bei quadri,
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ognuno con una immagine importante del nostro passato.
Ovviamente tra queste ce ne saranno almeno alcune che ci indurranno
sofferenza; tra esse dovremo cercare di trovarne almeno una che ci provochi
anche una sensazione positiva. Anche nelle esperienze più tristi si può trovare,
osservando bene negli antecedenti, o magari nelle reazioni successive,
qualcosa di bello o di piacevole. Questa immagine sarà ciò che dovremo
mettere in risalto nel quadro di quel ricordo, in modo tale che riguardandolo,
esso ci dia prima del brutto qualcosa, anche un minimo, di bello.
Prescriversi la fragilità
L’ultimo suggerimento che può essere indicato, nell’ottica dell’utilizzo di
processi di autoinganno funzionale, è quello relativo al rapporto che ognuno di
noi ha con le proprie debolezze.
Anche in questo caso, abbiamo l’opinione diffusa che la fragilità o la
cedevolezza corrispondono sempre a qualcosa di assolutamente negativo.
Senza soffermarsi troppo sulla evidente inattendibilità di tale credenza, è utile
prendere avvio dalla constatazione di come “ogni presunta virtù rovesciata su
se stessa diviene un difetto, così come ogni presunto difetto può viceversa riorientato divenire una virtù”.
Nello stesso modo la nostra debolezza può divenire un nostro punto di forza
se non negata ma gestita ed utilizzata. La negazione della nostra fragilità,
infatti, espressa nel rifiuto di accettare i nostri limiti e le nostre cedevolezze, fa
si che questi divengano ingestibili e che pertanto in determinate situazioni ci
travolgano. Se, al contrario, ci mettiamo nella posizione di chi non solo accetta
le proprie fragilità ma se le prescrive, l’effetto è quello, il più delle volte, della
riduzione o dell’annullamento degli esiti negativi che tali debolezze possono
produrci. L’esempio più concreto è quello relativo ai cosiddetti uomini senza
paura, quelle persone che praticano attività estreme, (esploratori dell’estremo,
funamboli, ecc.); queste persone in realtà, come loro stesse riferiscono, non
sono esenti dalla paura, anzi la sentono, l’accettano e la utilizzano come
risorsa nell’affrontare le condizioni estreme alle quali si sottopongono. Anzi, in
questo caso, ovviamente estremo, i brividi diventano addirittura una sorta di
piacere.
Il gioco, anche in questo caso, sta nel trasformare qualcosa che si subisce
in qualcosa che si gestisce.
Una persona, inoltre, che serenamente dichiara in determinate circostanze
la sua fragilità agli altri, non solo non appare fragile ma decisamente forte.
Poiché è necessario avere molto più coraggio e forza per dichiarare la propria
debolezza che per celarla. Torna alla mente il vecchio saggio che dice
benevolmente alla sua nipotina in lacrime: “ Talvolta, sai, si deve avere un bel
coraggio e molta forza per piangere…”
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