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LEZIONE 1 LA DISCIPLINA DELLA SISTEMA TELEVISIVO IN

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LEZIONE 1 LA DISCIPLINA DELLA SISTEMA TELEVISIVO IN
LEZIONE 1
LA DISCIPLINA DELLA SISTEMA TELEVISIVO IN ITALIA E
L’IMPATTO DELLA DIGITALIZZAZIONE
di Antonio Martusciello
1.
Il nuovo scenario dal sistema analogico al sistema digitale.
E’ in atto un momento di passaggio epocale per il settore della comunicazione. Eventi
come la digitalizzazione dei contenuti, la diffusione del protocollo IP, l’introduzione
delle reti a banda larga, lo sviluppo di smart-devices, la facilità di accesso ad internet
e la nascita dei social media stanno cambiando radicalmente l’architettura dei mercati
e la catena del valore del settore della comunicazione.
La convergenza, fra l’industria delle telecomunicazioni e quella dell’audiovisivo, ha
oggi subito, con lo sviluppo di internet, una forte accelerazione.
La Commissione europea, con il Libro Verde denominato “Prepararsi a un mondo
audiovisivo della piena convergenza: crescita, creazione e valori” e pubblicato nel
2014, ha contribuito a suscitare un ampio dibattito sulle implicazioni delle
trasformazioni in atto nel panorama dei media. Per la prima volta, la Commissione
ha associato al termine “convergenza” l’aggettivo “piena” per sottolineare
l’importanza del fenomeno che sta cambiando i connotati dell’industria delle
comunicazioni, le abitudini di consumo e gli stili di vita dei cittadini europei.
Attualmente, il livello di discontinuità tecnologica è forse ancora maggiore di quello
determinato dall’introduzione della telefonia mobile negli anni Novanta.
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La digitalizzazione. Verso un nuovo sistema regolamentare dell'audiovisivo. SIC, tutela della
concorrenza e pluralismo
Prof. Antonio Martusciello
L’industria delle comunicazioni e dell’informazione va progressivamente
assumendo i contorni di un ecosistema digitale sempre più complesso e articolato, in
cui si affermano nuovi attori economici. Le grandi internet companies (Yahoo,
Google, Facebook), le imprese manifatturiere (Samsung) ed i produttori di software
(Microsoft) rappresentano esempi di aziende che hanno raggiunto una posizione di
leadership nel mercato globale della comunicazione. La loro caratteristica è quella
di operare, in quanto prive di una propria infrastruttura, ai margini della rete, o,
meglio, al di sopra di essa (Over The Top).
Tali cambiamenti rappresentano una sfida per i regolatori e richiedono un
cambiamento di visione e di approccio metodologico rispetto alle politiche adottate
a partire dalla metà degli anni Novanta, quando, su impulso della Commissione
Europea, sono stati intrapresi rilevanti percorsi di liberalizzazione dei mercati.
1.1.
Il mondo analogico.
Per tracciare le linee del cambiamento è utile conoscere il precedente impianto del
sistema dei media, quando la tecnologia prevalente era quella analogica.
Tale precedente assetto era strutturato in comparti distinti sotto diversi profili:

Sotto il profilo giuridico: era sottoposto a discipline diverse per ogni comparto.

Sotto il profilo economico: era organizzato in mercati autonomi.

Sotto il profilo tecnologico: era basato sulla corrispondenza tra mezzi e
contenuti/servizi, cioè sulla coincidenza tra il mezzo di trasmissione e il
contenuto/servizio veicolato.
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Nel merito, occorre ricordare in particolare il precedente diverso impianto dei due
grandi comparti della telefonia e della televisione:
-
Telefonia: rete caratterizzata da collegamenti punto a punto e dalla prevalenza
del mezzo sul contenuto; il vantaggio competitivo principale si basava sul possesso
e sulla gestione dell’infrastruttura di trasmissione.
-
Televisione: rete caratterizzata dalla diffusione punto - multipunto, consistente
nella capacità di diffondere messaggi ad un numero indeterminato di punti riceventi,
e dalla particolare attenzione ai contenuti, cioè a ciò che veniva trasmesso. Il
contenuto viveva in simbiosi con il mezzo trasmissivo, cioè poteva essere veicolato
solo da una specifica rete trasmissiva ad esso dedicata e ricevuto solo da terminali a
hoc, le TV.
La convergenza tecnologica ha annullato tale assetto e lo ha sostituito con ambienti
digitali in grado di accogliere qualunque tipo di contenuto accessibile su una
molteplicità di supporti.
1.2.
I fattori del cambiamento.
Quali sono i fattori che stanno producendo la trasformazione descritta?
Con la diffusione della tecnologia digitale hanno assunto particolare rilevanza due
fenomeni specificamente riferiti ai contenuti: la disintermediazione e la
dematerializzazione.
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La disintermediazione consiste nella duplice possibilità, per il consumatore, sia di
fruire contenuti senza intermediazione ‘istituzionale’ (acquisizione ed elaborazione
personale di informazioni, file sharing, social network), sia di creare e distribuire
contenuti propri (user generated content). Il fenomeno ha ricadute tanto a livello
economico-istituzionale, quanto a livello socio-culturale.
-
A livello economico-istituzionale: viene in rilievo il cosiddetto user
generated content e le ricadute consistono nell’eliminazione di tutte le forme di
mediazione presenti nelle diverse fasi della catena del valore tradizionale tra attività
creativa/intellettuale e circolazione e consumo dei contenuti;
-
A livello socio-culturale: la disintermediazione dei contenuti, da un lato, ha
comportato la nascita ed il proliferare di blog e dei social network, ossia le nuove
pratiche
di
interazione
sociale
finalizzate
anche
alla
produzione
non
istituzionalizzata di contenuti e fiorite su internet; dall’altro, essa si riferisce alla
diffusione, tra i fruitori dei contenuti digitali, della logica dell’open source, cioè
l’affermazione - sulla scia dell’idea della condivisione, tipica dell’originaria
ideologia democratica di internet - di un sistema di condivisione, appunto, di
contenuti.
Con la dematerializzazione, invece, nel mondo digitale il contenuto si è svincolato
dal supporto fisico e, di conseguenza, si è liberato da costrizioni quali, ad esempio,
quelle proprie della distribuzione (il tempo), o della riproduzione (qualità e quantità).
Non a caso, in ambito scientifico si parla di società dell’informazione come società
dell’immateriale.
Le ricadute di tale fenomeno si avvertono eminentemente a livello economico, in
quanto la dematerializzazione ha amplificato, soprattutto tra le giovani generazioni,
il diffondersi di pratiche dirette a superare le logiche di mercato, come ad esempio
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quella del file-sharing. E’ noto sotto il nome di Web 2.0 tutta una serie di usi sociali
di internet di carattere privato (es. chat) che, tuttavia, tende ad assumere impronta
collettiva e rilevanza pubblica. Si tratta dei forum, dei blog e dei siti come Facebook
e YouTube, che, non accidentalmente, costituiscono il punto di convergenza di
pratiche relative alla condivisione peer-to-peer di testi e immagini.
La dematerializzazione ha avuto inizio agli albori del secolo scorso, con la nascita
del primo medium elettronico, la radio, ed è poi proseguita con la televisione. Essa
va intesa quale mera perdita di supporto fisico tradizionale e non implica la riduzione
della
rilevanza
socio-culturale
del
contenuto.
L’elemento
culturalmente
rimarchevole è che tale fenomeno rappresenta un ulteriore passo verso la
decontestualizzazione spazio-temporale dei contenuti, processo avviatosi con i mezzi
di comunicazione “di massa” elettronici e caratterizzante la globalizzazione.
1.3.
Lo statuto dei contenuti digitali.
Come evidenziato, nel sistema mediale pre-digitale il contenuto era un prodotto
autoriale (individuale o collettivo) pensato e strutturato (quanto a forme espressive,
routine produttive, modalità di distribuzione, condizioni di consumo) in funzione di
uno specifico medium: era, cioè, un prodotto “organico” ad un determinato mezzo ed
alla sua piattaforma tecnologica. Nel caso dei quotidiani a stampa, della radio e della
televisione, il contenuto assumeva valore – simbolico, relazionale ed economico –
non solo in sé stesso ma, principalmente, come parte dell’insieme dei contenuti che
componevano (e compongono ancora) i singoli numeri dei quotidiani cartacei (o
delle pubblicazioni periodiche) e i palinsesti quotidiani radiofonici e televisivi.
Prodotti della cosiddetta “industria culturale”, i contenuti dei diversi media, ed in
particolare quelli del medium preminente – la televisione –, proponevano mappe
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socio/culturali e visioni del mondo attorno alle quali coagulare i pubblici che, in
genere, corrispondevano ad ampi segmenti delle comunità nazionali.
In ambiente analogico il contenuto era diffuso attraverso una specifica rete
trasmissiva ovvero mediante uno specifico supporto, determinando l’identificazione
fra il medium ed il contenuto. Ad esempio, i programmi televisivi potevano essere
visti solo con la televisione, mentre gli articoli di giornale potevano essere letti
soltanto sulla carta stampata.
La digitalizzazione dei contenuti ha invece determinato l’affrancamento del
contenuto dal mezzo: il medesimo contenuto può ora viaggiare su differenti reti ed
essere fruito attraverso differenti terminali. Così, tornando agli esempi precedenti,
un articolo di giornale può essere letto anche su un PC e un programma televisivo
può essere visto anche su un tablet. La fruizione del contenuto non è più legata ad
un contesto spazio-temporale definito ex ante in base alle scelte operate sul versante
dell’offerta dagli operatori tradizionali (editori, produttori cinematografici, ecc.), ma
viene sempre più decisa ex post, in base alle specifiche esigenze della domanda.
Punto di arrivo di questo processo è il paradigma “anywhere, anytime and on any
device”. Questo effetto non è stato ancora pienamente realizzato, ma idealmente
rappresenta l’apice della convergenza, con un consumatore che diviene parte attiva
della catena del valore dei contenuti digitali.
La digitalizzazione ha modificato in modo determinante lo statuto del contenuto.
Mentre in passato quest’ultimo era soggetto ai vincoli propri di un mezzo e della
piattaforma tecnologica attraverso cui veniva distribuito, attualmente presenta gradi
di “autonomia” molto elevati. Esso risulta infatti:
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declinabile in formati diversi, che ne rendono possibile la diffusione, e quindi
il consumo, da mezzi diversi;
-
adattabile alle scelte e ai tempi di fruizione dei singoli utenti.
Il contenuto, pertanto, è sempre più caratterizzato da modalità di fruizione individuali
o sociali diversificate nel tempo e nello spazio e risulta spesso connotato dal requisito
della cosiddetta crossmedialità, intendendo con tale termine “la diffusione integrata,
multipla e trasversale di contenuti e servizi attraverso diversi media, variandone il
formato secondo le caratteristiche di ciascun medium”.
L’idea di contenuto nell’era digitale si associa, quindi, al concetto di fruizione
personalizzata e presupposto della personalizzazione è la possibilità di svincolare i
contenuti stessi da ogni riferimento temporale.
In definitiva, il processo di convergenza in atto e la centralità acquisita dai contenuti
mettono in primo luogo in discussione la struttura tradizionale con cui il sistema della
comunicazione si era fin qui sviluppato, determinando conseguenze importanti su
soggetti e funzioni (editori, broadcasters) e producendo impatti significativi sul
sistema dei media nel suo complesso.
1.4.
L’impatto sulla TV.
La digitalizzazione delle reti e lo sviluppo di modalità distributive dotate di maggiore
capacità trasmissiva hanno aumentato, anche nel settore televisivo, la varietà e la
disponibilità dei contenuti, sia dal lato dell’offerta (multicanale, pay-tv, servizi a
richiesta), che dal lato della domanda (time shifting e personalizzazione del
palinsesto). Le possibilità di compressione del segnale e la sua codifica/decodifica
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numerica hanno, infatti, ridotto i problemi di scarsità dell’offerta audiovisiva
analogica e hanno ampliato le potenzialità tecniche correlate alla stessa, contribuendo
all’evoluzione delle attività economiche e dei modelli di business offerti dai
distributori di contenuti audiovisivi.
In tale contesto di transizione, il processo di cambiamento tecnologico dall’analogico
al digitale ha determinato le condizioni per una trasformazione del sistema, attraverso
la moltiplicazione dell’offerta e la differenziazione dei prodotti, anche in chiave
distributiva. A un’offerta generalista tipica del broadcasting si stanno affiancando,
in maniera complementare, nuove e più avanzate modalità di offerta e di consumo
dei contenuti (canali tematici, canali semigeneralisti), che contribuiscono a
trasformare la comunicazione audiovisiva, concepita originariamente come
un’offerta generalista e lineare, in un’offerta non lineare e personalizzata, con una
conseguente diversificazione dei modelli di business.
Nella piattaforma analogica terrestre il palinsesto ha sempre assunto una nozione
tradizionale di organizzazione di una sequenza di trasmissioni televisive, organizzate
dal fornitore di contenuti per un certo periodo (un giorno, una settimana, un mese,
un trimestre), con trasmissioni proposte al medesimo orario in un determinato giorno
della settimana, al fine di fidelizzare il telespettatore.
Ora, però, le nuove forme di fruizione dei contenuti audiovisivi consentono maggiori
possibilità di distribuzione e fruizione dei contenuti audiovisivi. Alla emissione
lineare tradizionale del palinsesto si può associare tutta una serie di nuove forme di
utilizzazione (quali il simulcast, la replay TV e la catch-up tv) che non coincidono
con singole trasmissioni televisive o distinte opere, ma con l'intero palinsesto o con
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porzioni di esso, spesso inscindibilmente associate con pubblicità, autopromozioni,
notiziari, e, in generale, con tutto quello che viene incluso nella fascia di palinsesto
selezionata. Con la TV digitale si vengono quindi a determinare scomposizioni e
aggregazioni di competenze e responsabilità.
Nel sistema analogico l’emittente, anche dal punto di vista legislativo, assolveva a
una duplice funzione di:
- editore: compositore dei palinsesti;
- operatore di rete: proprietario dell’infrastruttura tecnica (impianto) che
trasmetteva i palinsesti.
Oggi, l’evoluzione del servizio televisivo verso forme avanzate di interattività e la
convergenza sulla piattaforma digitale di servizi innovativi hanno delineato
un’architettura dell’offerta più complessa rispetto al passato. Già con lo sviluppo di
modalità distributive dotate di maggiore capacità, quali le reti via cavo e satellitari,
come pure con l’emergere di un mercato offline analogico (home video), sono
aumentate la varietà e la disponibilità dei contenuti, sia dal lato dell’offerta, che dal
lato della domanda. Con il digitale, infine, la “slinearizzazione” del palinsesto e la
fruizione di contenuti audiovisivi su richiesta hanno mutato e stanno ancora mutando
profondamente il settore, che, infatti, tende a trasformarsi in filiera, integrando
industrie e mercati in precedenza separati.
Se, sul piano normativo, già nel 2001, si era abbandonato il regime concessorio e si
era scomposta la filiera della televisione digitale terrestre in tre figure (operatore di
rete, fornitore di contenuti e fornitore di servizi), oggi tale approccio necessita di un
generale ripensamento alla luce delle nuove figure che si affiancano e si
sovrappongono alle tre originariamente previste, quale ad esempio l’aggregatore di
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contenuti. Si tratta di soggetti che normalmente non svolgevano attività nel settore
editoriale, ma che si stanno affermando nella nuova realtà sfruttando l’opportunità
derivante dalla convergenza per entrare nel settore dei media. Tali nuovi protagonisti
aggregano, appunto, i contenuti audiovisivi propri e/o di terzi e li offrono all’utente
finale in pacchetti gratuiti o a pagamento (es. YouTube).
Il vortice di opportunità tecnologiche sopra descritte sta, inoltre, mutando ruoli e
responsabilità degli attori televisivi non solo a livello nazionale. Esso, infatti, pone
nuove sfide e problematiche soprattutto per gli operatori esercenti attività televisiva
in ambito locale, componente significativa del sistema radiotelevisivo italiano con
un ruolo che non ha confronti nel resto d’Europa. In primo luogo, il webcasting o il
satellite, sistemi che per definizione sono di carattere ultralocale, mettono in crisi la
tradizionale architettura legislativa che distingue la radiodiffusione televisiva in
ambito nazionale e in ambito locale. In secondo luogo, gli editori televisivi locali
che, come i nazionali nell’ambiente analogico, hanno integrato verticalmente i
diversi anelli dell’attività radiotelevisiva, dalla produzione dei programmi e relativa
messa in onda sino alla diffusione degli stessi, tenderanno inevitabilmente a separare
i ruoli nei futuri scenari digitali.
Gli editori locali, oltre che operatori di rete in ambito locale, adesso svolgono anche
l’attività di fornitori di contenuti in ambito locale: se sino ad oggi l’attività editoriale
consisteva nel produrre e mettere in onda programmi di tipo “generalista”, cioè
palinsesti lineari nel cui ambito venivano inseriti programmi di tutti i generi, con il
digitale si aprono nuove opzioni. Gli editori televisivi locali potranno produrre nuovi
contenuti, realizzare palinsesti tematici (da affiancare alla programmazione
generalista), e veicolare gli stessi sulle proprie reti e su reti esercite da terzi,
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allargando così il potenziale bacino servito o, al contrario, veicolare a loro volta, in
quanto operatori di rete in ambito locale, contenuti e servizi prodotti da terzi. In tale
contesto, appare ancor più sfidante individuare i modelli di business e la tipologia di
offerta audiovisiva che gli editori locali dovranno porre in essere in un mercato, quale
quello dei contenuti audiovisivi, sempre più globale.
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2.
La disciplina del sistema radiotelevisivo in Italia.
Il settore della radiotelevisione, pur avendo un’obiettiva rilevanza economica, si
distingue da tutti gli altri settori per una caratteristica fondamentale: esso coinvolge
uno dei diritti fondamentali ed universali che gli ordinamenti democratici
garantiscono ai cittadini, e cioè il diritto di manifestare liberamente il proprio
pensiero (la libertà di informazione).
Negli altri settori economici (es. trasporti, energia, alimentare) l’intervento del
legislatore è principalmente diretto a tutelare la corretta concorrenza tra le imprese
che vi operano, al fine di evitare, ad esempio, cartelli, intese restrittive del mercato o
abusi di posizioni dominanti a danno dei concorrenti o dei consumatori. In concreto,
la tutela è affidata alla cosiddetta normativa antitrust e a quella sulla concorrenza
sleale, applicata dalla Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nonché dal
Giudice Ordinario.
Anche nel settore della radiotelevisione, e più in generale della comunicazione, tali
aspetti e tali tutele assumono rilevanza, in quanto l’attività di editore (cartaceo,
radiotelevisivo, radiofonico o multimediale) è svolta da imprenditori che in regime
di concorrenza si contendono quote di mercato. Tuttavia, la circostanza che in questo
ambito venga coinvolta la libertà di informazione ha portato il legislatore a dettare
una disciplina specifica di garanzia diretta a tutelare in modo più ampio possibile tale
libertà del cittadino. In particolare, grazie soprattutto agli interventi della Corte
costituzionale, con le norme sul sistema dell’informazione si è inteso garantire:
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- il diritto di ricevere un’informazione pluralista ovvero espressione di tutti i
punti di vista, senza che siano censurate posizioni, ad esempio sulla base di
differenze di sesso religione o razza;
- la possibilità che siano presenti nel settore il maggior numero di operatori
espressione di pensieri idee ed opinioni diverse;
- il diritto di accedere ai mezzi di informazione per manifestare le proprie idee
ed il proprio pensiero senza discriminazioni politiche o legate al sesso, alla
religione o alla razza;
- il diritto a potersi difendere da abusi perpetrati attraverso i mezzi di
comunicazione con efficaci strumenti di tutela.
Ciò si basa su una considerazione fondamentale: attraverso i mezzi di comunicazione
si ha accesso a un’ampia fascia della popolazione, si entra nelle case dei cittadini
fornendo loro informazioni, contenuti e visioni del mondo e, in tal modo, si esercita
un’influenza determinate sulla libera formazione dell’opinione pubblica.
L’evoluzione storica della radiotelevisione nel nostro Paese può essere segmentata
in tre differenti periodi:
- I. Il monopolio statale (1910 – 1976);
- II. Dal monopolio statale al sistema misto (1976 – 2001):
- III. La rivoluzione digitale e la realtà multipiattaforma (dal 2001 a oggi).
2.1.
I periodo: il monopolio statale (1910 – 1976).
Nell’immediato dopoguerra, in Italia come nel resto d’Europa, la radio e la
televisione erano amministrate dallo Stato in regime di monopolio sulla base della
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normativa prebellica. Nella consapevolezza della particolare importanza politica di
questi mezzi, ben superiore rispetto ad altri mezzi di comunicazione come il telefono
o il telegrafo, i governi repubblicani mantennero l’impostazione della riserva del
servizio allo Stato. Lo Stato, tuttavia, non gestiva direttamente l’attività
radiotelevisiva, ma lo faceva mediante lo strumento della concessione esclusiva.
La legge n. 395 del 30 giugno 1910 affermava il principio della riserva allo Stato di
ogni forma di comunicazione attraverso la radiodiffusione.
Il R.D. del 1923, n. 1067, riconosceva la facoltà al governo di affidare in concessione
gli impianti o l’esercizio di comunicazioni nell’ambito della radiodiffusione.
Il R.D.L del 1924, n. 655, ed il R.D. del 1924, n.1226, definivano le condizioni di
esercizio della concessione.
Il R.D. del 1924, n. 2191, affidava il servizio in via esclusiva all’Unione
Radiofonica Italiana (URI), società a capitale inizialmente privato poi
gradualmente assorbita in ambito pubblico. L’atto di concessione conteneva norme
specifiche circa:
- il contenuto dei programmi;
- i limiti nella trasmissione dei notiziari (sottoposti ad approvazione
governativa);
- la trasmissione dei comunicati pubblicitari.
Tra il 1927 ed il 1944 il servizio venne svolto dall’ EIAR (Ente Italiano per le
Audizioni Radiofoniche) e con una serie di decreti vennero dettate disposizioni
finalizzate a garantire una stretta connessione tra gestione del servizio ed esigenze
pubbliche. In particolare, venivano sancite un’ampia presenza governativa
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nell’organizzazione e nella gestione, nonché la vigilanza censoria sulle
trasmissioni.
Nel nuovo ordinamento repubblicano, con decreto del 26 ottobre 1944, n. 457, la
società concessionaria assunse l’attuale denominazione di RAI (Radio Audizioni
Italia). Con decreto 1947, n. 428, venne riformata globalmente l’attività di vigilanza
pubblica sul settore. Vennero istituiti il “Comitato per le direttive di massima
culturali, artistiche, educative” (organo del Ministero delle Poste e delle
telecomunicazioni con funzioni consultive e di indirizzo tecnico sulla
programmazione della concessionaria, composto da esperti e da rappresentanti delle
categorie degli operatori, delle associazioni e degli utenti) e “La Commissione
parlamentare di vigilanza” (composta da rappresentanti di Camera e Senato e con
la quale veniva per la prima volta riconosciuto il ruolo del Parlamento par assicurare
l’indipendenza politica e l’obiettività informativa della radiodiffusioni). Il ruolo del
Governo rimaneva tuttavia centrale e determinante nella gestione del servizio
pubblico, sempre disciplinato attraverso le concessioni, come nell’organizzazione
della
società
concessionaria:
c’era
una
forte
presenza
nel
consiglio
d’amministrazione dei rappresentanti nominati dall’esecutivo e al Governo era
riservata la nomina del Presidente, del Consigliere delegato e del Direttore generale
della concessionaria.
Il primo intervento della Corte Costituzionale in materia radiotelevisiva è dato dalla
sentenza 13 luglio 1960, n. 59, con cui per la prima volta veniva posta in discussione
la legittimità costituzionale del monopolio radiotelevisivo statale rispetto al principio
costituzionale di libera manifestazione del pensiero sancito dall’articolo 21 della
Costituzione. La questione era sorta in seguito all’istanza presentata da una società
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privata (Tempo TV) che chiedeva al Ministero delle Poste l’assenso per la
realizzazione di un proprio servizio di radiodiffusione televisiva a carattere regionale.
In tale occasione la Corte, pur dichiarando infondata la questione di legittimità
costituzionale, chiarì i caratteri e la funzione del servizio pubblico radiotelevisivo
nell’ordinamento repubblicano. La Corte osservò infatti che la limitatezza di fatto
delle frequenze utilizzabili avrebbe caratterizzato in senso oligopolistico l’attività
radiotelevisiva e, pertanto, il monopolio pubblico doveva ritenersi fondato sul
precetto posto dall’articolo 43 della Costituzione, che appunto consentiva la riserva
allo Stato per legge di alcune categorie di imprese di preminente interesse generale
che si riferiscono a servizi pubblici essenziali. Il monopolio pubblico, tuttavia,
proprio perché destinato a prevenire situazione oligopolistiche da parte di privati
avrebbe dovuto rispondere a precise condizioni di apertura sociale
assicurandone così l’imparzialità e l’obbiettività (monopolio aperto).
L’effetto della sentenza del 1960 fu l’istituzione delle trasmissioni “Tribuna
politica” e “Tribuna elettorale”, con le quali si garantiva per la prima volta a tutti
i partiti politici l’accesso ad apposite trasmissioni RAI.
Tuttavia, è solo nel 1974 che la Corte pose i presupposti per una riforma organica del
servizio pubblico radiotelevisivo, definendone con precisione la funzione
informativa ed alcune garanzie idonee ad assicurare un esercizio effettivamente
diretto a fini di utilità sociale. Con la sentenza del 10 luglio 1974, n. 225, vennero
infatti fissati una serie di principi che costituirono il fondamento per il primo
intervento del legislatore sulla materia:
- obiettività ed autonomia degli organi direttivi rispetto al potere esecutivo;
- direttive idonee a garantire criteri di imparzialità per i programmi di
informazione;
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- ruolo di indirizzo e di vigilanza affidato al Parlamento;
- rispetto di canoni di deontologia professionale;
- adeguata limitazione della pubblicità;
- garanzia di accesso alla radiotelevisione ai gruppi ed alle associazioni;
- garanzia della rettifica, quale fondamentale diritto della personalità umana.
Gli indirizzi della Corte sono stati recepiti nella legge 14 aprile 1975, n. 103, recante
“Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva”, che ha provveduto
a un’organica riforma del servizio pubblico radiotelevisivo. In particolare, tale legge:
- sancisce che l’indipendenza, l’obiettività e l’apertura alle diverse tendenze
politiche, sociali e culturali, nel rispetto delle libertà garantite dalla
Costituzione, sono principi fondamentali del servizio pubblico;
- istituisce la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la
vigilanza dei servizi radio tv (in sostituzione a quella prevista nella normativa
del 1947), che viene dotata di funzioni dirette ad assicurare un vero e proprio
governo parlamentare
del servizio. Alla Commissione vengono infatti
affidate funzioni consultive, di indirizzo, di vigilanza di riscontro sulla
programmazione effettuata e di nomina dei consiglieri di amministrazione;
- detta norme sull’organizzazione e sul funzionamento della società;
- prevede il finanziamento della società attraverso i canoni di abbonamento ed
i proventi pubblicitari (fonte accessoria);
- stabilisce chela pubblicità viene limitata in termini qualitativi dagli indirizzi
della Commissione ed in termini quantitativi dal tetto fissato dalla legge (5%
dell’intera programmazione).
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Le disposizioni della legge n. 103 hanno rappresentato per anni le norme
fondamentali che hanno regolato l’attività e l’organizzazione del servizio pubblico
radiotelevisivo. Successivamente, nel 1985, con la legge 4 febbraio, n. 10, sono state
introdotte alcune modifiche ed integrazioni a tale complesso di norme (per esempio,
si è riconosciuta alla RAI la qualifica di società per azioni a totale partecipazione
pubblica di interesse nazionale, stabilendo ulteriori limiti alla trasmissione di spazi
pubblicitari secondo indirizzi annualmente fissati dalla Commissione parlamentare).
Nonostante le modifiche apportate, al sistema normativo introdotto dalla legge n. 103
sono state mosse due critiche fondamentali:
- la gestione eccessivamente frammentata del servizio pubblico sotto il
profilo della molteplicità dei controlli e degli adempimenti, con la conseguente
incertezza circa la programmazione dell’attività ed il funzionamento della
concessionaria pubblica;
- la ripartizione strettamente partitica degli incarichi di dirigenza delle reti
e delle testate, nonché all’interno delle medesime reti e testate (c.d.
lottizzazione). Paradossalmente, infatti, la realizzazione del pluralismo nel
servizio pubblico era venuta a coincidere con una sorta di chiusura ad un
numero limitato di rappresentazioni e di punti di vista facenti capo a
precise tendenze politiche.
2.2.
II periodo: dal monopolio statale al sistema misto (1976 – 2001).
Soltanto nel 1976, con la sentenza del 28 luglio, n. 202, la Corte riconobbe anche ai
privati il diritto di effettuare trasmissioni radiotelevisive in ambito locale,
osservando che in tale sede poteva ravvisarsi un numero di frequenze sufficiente per
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consentire la libertà di iniziativa privata senza pericolo di monopoli o oligopoli.
Contestualmente, la Corte sollecitava un immediato intervento del legislatore per
determinare le procedure ed i controlli per l’assegnazione delle frequenze e la
disciplina della relativa attività.
Tale ultima esigenza fu ribadita con fermezza dalla Corte in successive pronunce
negli anni 1981 – 1985, al fine anche di prevenire la realizzazione di concentrazioni
monopolistiche o oligopolistiche:
- sentenza 21 luglio 1981, n. 148 (necessità di garanzie legislative per ostacolare
il realizzarsi di concentrazioni);
- sentenza 30 luglio 1984, n. 237 (conferma del principio di libertà di antenna a
livello locale anche in assenza della legge di regolamentazione);
- sentenza 17 ottobre 1985, n. 231 (illegittimità delle disposizioni che vietavano
la diffusione di pubblicità trasmessa da ripetitori esteri).
Tuttavia, tali sollecitazioni non furono raccolte dal legislatore, con la conseguenza
che, in assenza di un intervento normativo diretto a disciplinare questo settore (nuovo
mercato), l’emittenza privata si organizzò spontaneamente. Fu questo il periodo del
c.d. Far West dell’etere, nel quale crebbero e si svilupparono centinaia e centinaia
di emittenti private e radiofoniche in considerazione del fatto che per avviare
l’attività radiotelevisiva non c’era bisogno di alcun tipo di autorizzazione o
concessione, ma bastava trovare un luogo favorevole da un punto di vista orografico
per
cominciare
a
trasmettere,
utilizzando
qualsiasi
frequenza
libera
o
momentaneamente non occupata.
In particolare lo sviluppo di tale mercato avvenne su due piani diversi:
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- a livello locale, mediante la nascita di emittenti radiofoniche e televisive
incentrate prevalentemente sull’attività informativa e finanziate dalla pubblicità
locale;
- a livello nazionale, mediante la costituzione di un vero e proprio network,
attraverso il sistema dell’interconnessione funzionale, che prevedeva la
trasmissione da parte di più emittenti televisive, contemporaneamente o in orari
leggermente diversi, di medesimi programmi preregistrati in videocassette.
Tale sistema, che prevedeva altissimi costi di distribuzione, si reggeva sulle
altrettanto forti entrate pubblicitarie e su una programmazione prevalentemente
orientata allo spettacolo, nella quale si inserivano frequenti spazi pubblicitari e forme
indirette di comunicazione commerciale come la sponsorizzazione.
Nel brevissimo tempo (circa cinque anni), si assistette alla riduzione del numero delle
imprese editoriali presenti nel settore (uscita dal mercato degli editori Rizzoli,
Rusconi e Mondadori, cui si ricollegavano inizialmente i circuiti Italia Uno e
Retequattro) e all’affermazione di un solo gruppo commerciale (gruppo Fininvest)
cui facevano capo:
- il circuito Canale 5;
- il circuito Italia Uno (acquisito in un secondo momento);
- il circuito Retequattro (acquisito in un secondo momento);
- la gestione della raccolta pubblicitaria di altre emittenti locali.
La situazione di fatto che si era prodotta portò, nel 1984, ad un clamoroso intervento
della magistratura in sede penale, che, anche sulla base degli indirizzi più volte
espressi dalla Corte costituzionale, procedette al sequestro degli impianti, ritenendo
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sussistente la violazione delle norme del codice postale che precludevano la
radiodiffusione in ambito nazionale in assenza di autorizzazione.
Tale evento traumatico, diede l’input necessario, nel dicembre 1984, per un primo
intervento sulla materia, attraverso il decreto del 6 dicembre, n. 807, poi convertito
nella legge 4 febbraio 1985, n. 10, rubricata Disposizioni urgenti in materia di
trasmissioni radiotelevisive. L’impianto normativo di natura transitoria prevedeva:
- l’autorizzazione alla prosecuzione delle attività delle emittenti radiotelevisive
con l’unico obbligo di dedicare almeno il 25% delle trasmissioni a programmi
di origine italiana o comunitaria;
- limitazioni alla trasmissione di messaggi pubblicitari;
- un censimento delle emittenti e degli impianti esistenti.
In tale contesto, la giurisprudenza della Corte, con diverse pronunce, affermava
soprattutto la necessità di un unico regime abilitativo per le trasmissioni
radiotelevisive su scala nazionale:
-
sentenza del 5 febbraio 1986, n. 35: si ribadiva la necessità di un unico
regime autorizzatorio per le trasmissioni radiotelevisive su scala nazionale, ivi
comprese quelle provenienti da ripetitori esteri;
-
sentenza del 13 maggio 1987, n. 153: si affermava che anche le trasmissioni
verso l’estero dovevano essere compiute in regime di concessione o di autorizzazione
e si ribadiva il forte rilievo sociale dell’attività radiotelevisiva.
Nel 1988, con sentenza n. 826 del 1988, la Corte, nel verificare la costituzionalità
della disciplina transitoria, evidenziò l’urgente necessità di un’organica legge
regolatrice del sistema radiotelevisivo misto, ribadendo l’esigenza fondamentale
del pluralismo informativo sotto una duplice accezione di:
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
pluralismo interno (rivolto principalmente al servizio pubblico), inteso quale
obbligo di dar voce a tutte o al maggior numero possibile di opinioni, tendenze,
correnti di pensiero politiche, sociali e culturali presenti nella società;

pluralismo esterno, inteso quale possibilità di ingresso, nell’ambito
dell’emittenza pubblica e di quella privata, di quante più voci consentano i mezzi
tecnici, con la concreta possibilità che i soggetti portatori di opinioni diverse possano
esprimersi senza il pericolo di essere emarginati a causa di processi di concentrazione
delle risorse tecniche ed economiche nelle mani di uno o di pochi e senza essere
menomati nella loro autonomia.
In sostanza, si affermava che il pluralismo viene realizzato quando in un determinato
mercato si trovano ad operare una pluralità di soggetti, diversi tra di loro e
tendenzialmente equivalenti sotto il profilo tecnico ed economico. Veniva pertanto
riaffermata l’esigenza e l’urgenza di una specifica disciplina antitrust (sia relativa
alle reti che alla raccolta delle risorse) per l’emittenza radiotelevisiva estesa alle
connessioni, ai collegamenti tra imprese - anche indiretti o di fatto –, ed alla gestione
pubblicitaria, con la predisposizione di limiti e cautele finalizzati ad impedire la
creazione di posizioni dominanti tali da comprimere tale valore fondamentale.
A questi continui richiami della Corte, il legislatore rispose finalmente nel 1990
varando la prima legge di sistema del settore, la legge 6 agosto 1990, n. 223 (c.d.
legge Mammì), rubricata Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato.
Con tale legge:
- si affermava il principio della concessione da parte dello Stato per
l’effettuazione di trasmissioni radiotelevisive, mantenendosi il regime delle
autorizzazioni per la ripetizione dei programmi esteri;
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- veniva disciplinato il procedimento di pianificazione delle frequenze
mediante la definizione delle diverse utilizzazioni tra soggetti pubblici e
privati e dei bacini di utenza serviti;
- veniva istituito il Garante per la radiodiffusione e l’editoria, cui vennero
affidati i compiti di verifica e controllo del rispetto degli obblighi posti dalla
legge stessa;
- vennero introdotti, in recepimento della direttiva Cee 89/552, obblighi
qualitativi e quantitativi per la trasmissione di messaggi pubblicitari (4%
orario e 12% settimanale per la Rai; 18% orario e 15% giornaliero per le
emittenti private nazionali; 20% orario e 15% giornaliero per quelle locali);
- vennero previste disposizioni per la tutela dei minori spettatori;
- vennero posti limiti diretti ad evitare la costituzione di posizioni dominanti.
In particolare, sotto il profilo delle risorse tecniche, venne stabilito che le
concessioni rilasciate ad uno stesso soggetto non potevano superare il 25%
del numero di reti nazionali previste dal piano di assegnazione e comunque
il numero di tre.
- vennero introdotte precise limitazioni alla raccolta pubblicitaria. Qualora i
concessionari si trovavano in situazioni di controllo o collegamento nei
confronti di imprese concessionarie di pubblicità queste ultime non potevano
raccogliere pubblicità per:
-

più di 3 reti nazionali;

2 reti nazionali e 3 locali;

1 rete nazionale e 6 locali.
Sempre per evitare posizioni dominanti nell’ambito dei mezzi di
comunicazione di massa, si precludeva la titolarità in capo ad uno stesso
soggetto di:
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
una concessione nazionale se si possedeva il controllo di quotidiani
con tiratura annua superiore al 16%:

più di una concessione nazionale se si possedeva il controllo di
quotidiani con tiratura annua superiore all’ 8%;

più di due concessioni nazionali se si possedeva il controllo di quotidiani
con tiratura annua inferiore all’ 8%.
In conclusione, volendo formulare un bilancio in merito alla citata legge 6 agosto
1990, n. 223, si possono evidenziare aspetti sia positivi che negativi.
- Aspetti positivi: la legge ha avuto il merito di disciplinare per la prima volta
ed in maniera organica il settore, introducendo una valida disciplina sia sul
sistema radiotelevisivo, sia sui contenuti (disposizioni a tutela dei minori, sulla
pubblicità, sugli obblighi di programmazione).
- Aspetti negativi: la legge ha avuto il grosso limite di essere una “legge
fotografia”, ovvero si è limitata a legittimare la situazione di fatto che si era
consolidata negli anni precedenti e che vedeva la presenza sul mercato
radiotelevisivo di soli due grandi gruppi (RAI e Fininvest) e la riduzione ad un
ruolo oggettivamente marginale da parte di altri soggetti.
La circostanza che tale legge si fosse limitata a fotografare la situazione di fatto senza
riordinarla si è tradotta inevitabilmente in numerose difficoltà nel momento in cui si
è cercato di dare concreta attuazione alle disposizioni in essa previste. In particolare,
tali difficoltà si sono avute nella fase di attuazione della parte essenziale della legge,
vale a dire quella della pianificazione delle frequenze e del rilascio delle concessioni.
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Nel 1992 sono state infatti rilasciate sei concessioni private:

Canale 5 - Fininvest;

Italia Uno - Fininvest;

Rete Quattro - Fininvest;

Telemontecarlo;

Videomusic;

Rete A.
La Rai (come concessionaria di servizio pubblico) manteneva invece una
concessione per le tre reti (Rai Uno, Rai Due e Rai Tre).
A causa dei forti interessi economici in gioco, il piano di assegnazione di fatto venne
realizzato solo a metà e tra fortissime contestazioni, anche nelle aule di giustizia. Alla
fine, come soluzione di mediazione, si decise di rilasciare un’autorizzazione ex lege
a tutti i soggetti operanti in possesso di un minimo di requisiti. Tuttavia, anche in
questo caso, a causa di una cattiva gestione della fase applicativa delle disposizioni
della legge, prevalse la situazione di fatto esistente e l’“occupazione” delle
frequenze.
Le difficoltà intervenute nell’assegnazione delle frequenze e la situazione di fatto nel
mercato radiotelevisivo portarono, nel 1994, ad un nuovo intervento della Corte
costituzionale. Con la sentenza del 28 luglio 1994, n. 420, la Corte dichiarò
l’incostituzionalità dell’articolo 15 della legge 6 agosto 1990, n. 223, nella parte
in cui prevedeva che un solo soggetto potesse possedere fino a tre reti su un totale
di dodici pianificate. La sentenza, tuttavia, non ebbe effetto immediato in quanto
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veniva mantenuta in vigore una disposizione transitoria contenuta nel decreto legge
del 1993, n. 323, che consentiva per un triennio (fino all’agosto del 1996) l’attività
delle emittenti operanti in quel momento.
Sempre nel 1994, prima della menzionata pronuncia della Corte, si erano tenuti una
serie di referendum sulla legge Mammì (organizzati da chi si opponeva all’assetto
radiotelevisivo varato dalla legge), formulati con una particolare tecnica di
abrogazione parziale. Il quesito su cui l’elettorato fu chiamato a pronunciarsi era
infatti diretto a ridurre ad una le reti consentite per ogni soggetto e a limitare
sensibilmente il numero delle interruzioni pubblicitarie. Dopo una serratissima
campagna elettorale, nel mese di giugno il referendum si concluse con la vittoria del
no in merito al suddetto quesito, lasciando sostanzialmente intatto ed inalterato il
sistema esistente.
Dal punto di vista tecnico-giuridico, il combinato del referendum e della sentenza
della Corte costituzionale ridusse le possibilità di intervento del legislatore nel
ridefinire l’assetto del settore radiotelevisivo al fine di adeguarlo alla sentenza n. 420
della stessa Corte. Infatti, in sintesi:
- la sentenza n. 420 del 1994 aveva stabilito che un solo soggetto non può avere
tre reti (ma non diceva quanto ne deve avere);
- con il referendum veniva bocciata l’ipotesi di una sola rete per soggetto.
Pertanto, la sola possibilità di intervento per il legislatore era quella di fissare, con
una nuova legge, in due il numero delle reti consentite per soggetto. Questo,
dunque, era lo scenario giuridico-amministrativo che si presentava alla fine del 1994.
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Tuttavia, come già ricordato, la sentenza della Corte n. 420 non aveva effetto
immediato perché veniva mantenuto in vigore il decreto legge del 1993, n. 323, che
consentiva la prosecuzione delle attività alle emittenti per un triennio (fino all’agosto
del 1996). Tale termine venne successivamente prorogato con il D.L. 23 ottobre
1996, n. 545, convertito con la legge 23 dicembre 1996, n. 650, allo specifico scopo
di assicurare al Parlamento il tempo necessario per discutere e approvare nuovi
interventi organici in materia, ed in particolare il disegno di legge 1021, dedicato
all’istituzione dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni e alla nuova
disciplina per la tutela del pluralismo. Il disegno di legge menzionato darà alla luce
la legge 31 luglio 1997, n. 249, conosciuta come “legge Maccanico” ovvero seconda
legge di sistema.
Con la legge n. 249 del 1997 venne innanzitutto istituita l’Autorità per le Garanzie
nelle Comunicazioni (che sostituisce il precedente Garante per la Radiodiffusione e
l’Editoria). L’Autorità venne dotata di rilevanti poteri di intervento nel settore delle
comunicazioni in generale e venne definita “autorità convergente”, in quanto
concepita come un organismo che nei settori delle telecomunicazioni, della
radiotelevisione, dell’editoria e della multimedialità esercita funzioni:
- di regolamentazione: attraverso i propri regolamenti detta disposizioni di
dettaglio, rispetto alle norme di legge, per la disciplina dei settori di
competenza;
- di vigilanza: effettua il monitoraggio constante dei mercati/settori di
competenza al fine di verificare che gli operatori ottemperino alle disposizioni
normative vigenti;
- sanzionatorie: applica sanzioni pecuniarie o misure ripristinatorie in caso di
accertata violazione delle disposizioni di settore.
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La legge fissava altresì nuovi limiti antitrust per lo svolgimento dell’attività
radiotelevisiva, sia con riferimento alle reti, sia con riferimento alle risorse
economiche acquisibili nei singoli mercati.
In particolare si prevedeva che:
- ad uno stesso soggetto non potevano essere rilasciate concessioni o
autorizzazioni che consentono di irradiare più del 20 % delle reti previste dal
piano delle frequenze (solo 2 reti);
- i soggetti destinatari di concessioni televisive in ambito nazionale non
potevano raccogliere proventi per una quota non superiore al 30 % delle
risorse del settore televisivo in ambito nazionale (analogo limite per le
radiofoniche, per le emittenti via cavo o via satellite, e per le concessionarie di
pubblicità);
- i soggetti che detenevano partecipazioni in imprese operanti nel settore radio
tv e dell’editoria non possono raccogliere proventi superiori al 20 % del
totale delle risorse dei due settori (telefonico + radiotelevisivo).
- i soggetti che eccedevano tali limiti potevano proseguire l’attività in via
transitoria
a
condizione che le trasmissioni
fossero
effettuate
contemporaneamente su frequenze terrestri e via satellite o via cavo (Rete
4 e Tele + Nero).
Inoltre, la legge attribuiva all’Autorità il compito di stabilire:
- il termine entro il quale i programmi irradiati dalle emittenti eccedenti
dovevano essere trasmessi esclusivamente via satellite o via cavo, tenendo
conto dell'effettivo e congruo sviluppo dell'utenza dei programmi
radiotelevisivi via satellite e via cavo;
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- il termine entro cui la concessionaria del servizio pubblico radiotelevisivo
trasformava una delle sue reti televisive in un’emittente che non poteva
avvalersi di risorse pubblicitarie.
In esecuzione dei compiti assegnati, l’Autorità ha:
1.
avviato una serie di istruttorie volte a verificare innanzitutto il rispetto dei
limiti fissati dalla legge circa la raccolta delle risorse del mercato televisivo;
2.
svolto l’analisi e la verifica richiesta dalla legge per l’individuazione del
termine finale del regime transitorio.
In particolare, con Delibera n. 346/01/CONS, l’Agcom ha svolto un’analisi, diretta
a valutare lo sviluppo (attuale e prospettico) delle trasmissioni via cavo, via satellite
e in generale delle trasmissioni svolte con mezzi diversi da quelli in tecnica
analogica. Per quanto riguarda le infrastrutture via cavo, lo stato sviluppo risultava
poco più che embrionale. Il numero di famiglie italiane che al dicembre 2000 era in
grado di ricevere segnali televisivi inviati via satellite era stimabile intorno ai 2,4
milioni. Uno studio sullo sviluppo dell’utenza dei programmi televisivi diffusi via
satellite e via cavo nel periodo 2000-2006 stimava a quella data 1,8 milioni di
abitazioni dotate di parabola. A differenza di quanto accadeva con le trasmissioni
via cavo e via satellite, risultava difficile, allo stato, stimare con metodi empirici la
curva di sviluppo della diffusione digitale terrestre.
Le conclusioni della delibera furono le seguenti:
-
al fine di pervenire ad un ragionevole bilanciamento tra la necessità di
procedere ad una rapida deconcentrazione delle risorse e le esigenze economiche
delle imprese, non elusivo di quanto sancito dalla Corte, la soglia del 50% di
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popolazione coperta dai sistemi di trasmissione alternativi alla via terrestre analogica
(satellite, cavo, digitale terrestre) si profilava come un punto di sintesi equilibrato.
-
alla luce degli scenari analizzati, si stimava che la soglia del 50% sarebbe stata
raggiunta entro il 31 dicembre 2003.
Tuttavia, poiché tanto gli scenari relativi allo sviluppo dei sistemi via satellite e via
cavo, quanto le simulazioni relative alla penetrazione del digitale terrestre
contenevano assunzioni speculative e ipotesi su comportamenti sociali
dipendenti da numerose variabili, l’Autorità si riservava il potere di verificare se
le previsioni assunte fossero corrette. In particolare nella delibera veniva specificato
che:

se al 31 dicembre 2002 la quota delle famiglie digitali fosse risultata inferiore
al 35% delle famiglie e, quindi, si avesse avuto un tasso di sviluppo inferiore a
quanto ipotizzato, l’Autorità avrebbe potuto posticipare il termine del 31 dicembre
2003;

se al 31 dicembre 2002 la quota delle famiglie digitali fosse risultata superiore
al 45% delle famiglie e, quindi, si avesse avuto un tasso di sviluppo superiore a
quanto ipotizzato, l’Autorità avrebbe potuto anticipare il termine del 31 dicembre
2003.
La data del 31 dicembre 2003 era dunque identificata come termine ultimo per il
passaggio di Rete 4 e TELE+ Nero sul satellite e dunque per la liberazione delle
frequenze occupate dalle reti eccedenti. Era tuttavia un termine “mobile”, in quanto
l’Agcom si era riservata la possibilità di anticiparlo o di posticiparlo qualora avesse
riscontrato un andamento diverso dello sviluppo del mercato rispetto a quello
ipotizzato e stimato.
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L’aspetto del termine mobile, o meglio l’assenza di un termine certo fissato dalla
legge, per terminare il regime transitorio è un elemento fondamentale della questione,
in quanto, nonostante l’esigenza più volte manifestata dalla Corte costituzionale e
dallo stesso legislatore (almeno in via di principio) di pervenire ad un sistema
radiotelevisivo pluralista - ovvero caratterizzato dalla presenza di più operatori –,
ancora una volta si produceva un elemento di incertezza e quindi di ostacolo a tale
obiettivo.
Non a caso, malgrado gli sforzi profusi dalla stessa Agcom per assolvere
puntualmente ai compiti che il legislatore le aveva affidato, il regime transitorio
introdotto dalla legge Maccanico e soprattutto la mancata previsione di un esplicito
limite temporale per la sua conclusione sono stati sottoposti al vaglio della Corte
costituzionale che, con sentenza del 20 novembre 2002, n. 466, ancora una volta,
con assoluta fermezza, stigmatizzava le scelte del legislatore in relazione
all’attuazione degli stessi principi fissati dalla legge, ed in particolare sanzionava:
-
la mancata previsione di un termine certo per la fine del regime transitorio;
-
l’attribuzione di una discrezionalità troppo ampia all’autorità amministrativa
per l’individuazione di tale termine.
La Corte, pertanto, riprendendo le conclusioni cui era giunta l’Autorità, ha
riconosciuto che la data del 31 dicembre 2003 dovesse essere considerata quale
termine ultimo e definitivo per la fine del regime transitorio. Si era alla fine
dell’anno 2002 e veniva sancito, quindi, che alla conclusione dell’anno successivo
aveva definitivamente termine il regime transitorio e, conseguentemente, con il
passaggio delle reti eccedenti sul satellite, sarebbero state liberate le frequenze
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necessarie per l’ingresso nel mercato nazionale radiotelevisivo di due nuovi soggetti
indipendenti dalle emittenti televisive esistenti.
La scadenza fissata al termine del 2003 venne poi superata nei fatti dall’introduzione
della televisione digitale terrestre, che permise di superare il collo di bottiglia delle
risorse frequenziale.
2.3.
III periodo: la rivoluzione digitale e la realtà multipiattaforma (dal
2001 a oggi).
Lo sviluppo delle tecnologie ha portato alla nascita della c.d. televisione digitale
terrestre.
La caratteristica principale di tale sistema è rappresentata dalla capacità di
moltiplicazione della capacità trasmissiva: mentre nel sistema analogico con lo
spettro elettromagnetico si poteva veicolare un solo canale, con il sistema digitale i
canali veicolabili sullo stesso spettro di frequenza aumentano fino a 5.
Analogico
Digitale
1 frequenza = 1 Canale/Programma
1 frequenza = 5Canali/Programmi
Ciò è possibile poiché, con la tecnologia digitale, il vecchio segnale radio analogico
(che appunto veniva trasmesso come impulso elettrico), prima di essere trasmesso,
viene codificato in “linguaggio digitale” (una stringa numerica composta di 0 ed
1) e compresso.
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Al posto delle reti tradizionali, che consentivano di veicolare un solo programma,
vengono realizzati dei multiplex, ognuno dei quali può veicolare cinque programmi
e consente di fornire servizi aggiuntivi, quali il televideo avanzato e le guide
elettroniche dei programmi, il tutto con qualità superiore rispetto alla trasmissione
di immagini in tecnica analogica. Il segnale digitale viene ricevuto dagli utenti
mediante l’antenna tradizionale e attraverso uno decoder (Set Top Box), che appunto
ha il compito di decodificare il segnale da stringa di numeri in immagini e suoni.
La trasmissione digitale costituisce una tappa di capitale importanza nello sviluppo
dei sistemi televisivi e dei cosiddetti new media. Essa rappresenta il passaggio
essenziale verso la convergenza di informatica e telecomunicazioni e consente di
trasformare l’apparecchio televisivo in una piattaforma per lo sviluppo dei servizi
interattivi, i quali si aggiungono così alla funzione tradizionale di diffusione dei
programmi.
All’origine delle attività europee in questo campo c’è il progetto Digital Video
Broadcasting (DVB), promosso dalla Commissione europea allo scopo di definire
standard comuni tra tutti i Paesi. Il progetto, cui hanno partecipato 170 società
coinvolte in diversi settori dell’industria televisiva, ha raggiunto l’obiettivo di
stabilire un unico standard condiviso su scala europea per le trasmissioni televisive
digitali via satellite (DVB-S), via cavo (DVB-C) e via terra (DVB-T).
I vantaggi principali della tecnologia digitale applicata alla trasmissione televisiva
sono:
1.
il potenziamento del servizio in termini di qualità dell’immagine. La
trasmissione digitale offre una migliore qualità di immagini e suoni e permette di
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utilizzare schermi televisivi di grande formato (dagli schermi a 16:9 a quelli
ultrapiatti a grani o di grandissime dimensioni). Inoltre, il broadcaster può utilizzare
le risorse di trasmissione con maggiore flessibilità. Ad esempio, in una determinata
zona può ridurre il numero dei programmi trasmessi, privilegiando una migliore
qualità delle immagini attraverso la trasmissione in alta definizione;
2.
l’offerta di una serie di servizi aggiuntivi di tipo interattivo accessibili
attraverso il televisore (es. televideo di nuova generazione, guida elettronica dei
programmi, acquisto prodotti in pay per view). Il decoder digitale (set top box), da
applicare al normale televisore, o il televisore integrato hanno capacità di memoria e
di elaborazione tali da trattare e immagazzinare le informazioni. L’utente vi può
accedere collegando l’apparecchio alla linea telefonica domestica. In sostanza, anche
nelle case prive di un PC è possibile accedere all’insieme dei servizi associati a
internet. Esistono diversi progetti messi a punto dai ministeri competenti che
prevedono il lancio di una serie di canali televisivi digitali della pubblica
amministrazione che oltre che informare i cittadini sulle attività svolte, consentono
grazie all’interattività di avviare le procedure per il rilascio di documenti, certificati,
prenotazione di servizi, ecc.;
3.
l’ampliamento dell’offerta di programmi e contenuti per meglio rispondere
alle richieste del pubblico. La digitalizzazione delle reti ha infatti prodotto un
aumento notevole della varietà e della disponibilità dei contenuti, sia dal lato
dell’offerta (es. offerte multicanale, pay-tv), che dal lato della domanda (possibilità
di time shifting, personalizzazione del palinsesto). All’offerta generalista tipica del
broadcasting tradizionale, si stanno affiancando nuove e più avanzate modalità di
consumo dei contenuti (canali tematici, canali semigeneralisti), che contribuiscono a
trasformare la comunicazione audiovisiva da un’offerta generalista e lineare in una
non lineare e personalizzata. Nel vecchio mondo analogico, il palinsesto coincideva
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con l’organizzazione di una sequenza di trasmissioni televisive proposte al medesimo
orario, predisposta dal fornitore di contenuti per un certo periodo (un giorno, una
settimana, un mese) con lo scopo di fidelizzare il telespettatore. Oggi, diversamente,
le nuove e maggiori possibilità di distribuzione dei contenuti audiovisivi hanno
svincolato l’idea di televisione dal concetto di canale e dalla temporalità rigida del
palinsesto. Nel nuovo ambiente digitale, al palinsesto generalista della televisione
tradizionale si va affiancando il palinsesto “personalizzato”, organizzato e gestito
direttamente dagli utenti. Grazie alla tecnologia digitale l’offerta televisiva oggi è
sempre più multi-canale e multi-piattaforma.
Il beneficio più importante per il sistema italiano è rappresentato dal fatto che la
nuova tecnologia digitale consente allo spettro elettromagnetico di veicolare un
maggior numero di canali (circa il quintuplo), con la conseguenza che viene di
fatto superato il problema della scarsità delle frequenze che ha per anni
condizionato lo sviluppo del mercato radiotelevisivo. Si ricorda infatti che:
-
la Corte costituzionale, a metà degli anni Cinquanta, giustificò il monopolio
della RAI proprio sul presupposto tecnico della scarsità delle frequenze disponibili;
-
a lungo si dovette affrontare il problema delle reti eccedenti e del loro
trasferimento sulla piattaforma satellitare.
In Italia, la legge 20 marzo 2001, n. 66, è stata il primo intervento legislativo sul
digitale terrestre ed ha disciplinato la fase di avvio delle nuove trasmissioni dettando
i principi generali per sviluppo della nuova televisione. In particolare, detta legge ha
previsto:
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1.
l’avvio di una fase di sperimentazione di trasmissioni televisive e servizi in
tecnica digitale da parte di soggetti che svolgevano l'attività di radiodiffusione
televisiva su frequenze terrestri, da satellite e via cavo;
2.
l’obbligo di cessione del 40% della capacità trasmissiva. Ciascun soggetto
titolare di più di una concessione televisiva doveva riservare pari opportunità e
comunque almeno il 40% della capacità trasmissiva del medesimo blocco di
programmi e servizi a condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie, per la
sperimentazione da parte di altri soggetti indipendenti;
3.
il trading delle frequenze. Al fine di promuovere l'avvio dei mercati televisivi
in tecnica digitale su frequenze terrestri venivano consentiti, per i primi tre anni dalla
data di entrata in vigore del decreto, i trasferimenti di impianti o di rami di azienda
tra concessionari televisivi in ambito locale o tra questi e concessionari televisivi in
ambito nazionale;
4.
il termine di spegnimento del vecchio sistema analogico. Le trasmissioni
televisive dei programmi e dei servizi multimediali su frequenze terrestri dovevano
essere irradiate esclusivamente in tecnica digitale entro l'anno 2006. Tale termine è
stato successivamente spostato, prima al 2008 ed infine al 2012.
5.
l’attribuzione all’Autorità del compito di definire il piano delle frequenze
digitali e di approvare il regolamento relativo ai titoli abilitativi ed alla disciplina
delle trasmissioni in digitale.
L’Autorità, in esecuzione dei nuovi compiti attribuiti dal legislatore, nel 2001 ha
adottato
la
Delibera
435/01/CONS, recante
Regolamento
relativo
alla
radiodiffusione terrestre, successivamente sostituita dalla Delibera 353/11/CONS.
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La principale novità del Regolamento in questione è costituita della prospettiva
adottata dall’Agcom per inquadrare e disciplinare il nascente settore della televisione
digitale. Infatti, in analogia con il sistema delle telecomunicazioni, viene superato il
concetto di emittente, caratterizzato dalla presenza di un unico soggetto
contemporaneamente gestore della rete ed editore dei programmi, e vengono
individuate e disciplinate tre distinte figure di operatori (Horizontal Entry
Model):
- operatore di rete: soggetto titolare del diritto di installazione, esercizio e
fornitura di una rete di comunicazioni elettroniche e di impianti di messa in
onda, multiplazione, distribuzione e diffusione e delle risorse frequenziali che
consentono la trasmissione agli utenti dei blocchi di diffusione;
- fornitore di servizi: soggetto che fornisce, attraverso l’operatore di rete,
servizi al pubblico di accesso condizionato mediante distribuzione agli utenti
di chiavi numeriche per l’abilitazione alla visione dei programmi, alla
fatturazione dei servizi, ed eventualmente alla fornitura di apparati;
- fornitore di contenuti: soggetto che ha la responsabilità editoriale nella
predisposizione dei programmi destinati alla radiodiffusione televisiva e
sonora.
Nel regolamento vengono poi previste, in dettaglio, le condizioni e le procedure per
il rilascio dei titoli abilitativi necessari per lo svolgimento delle attività (non si
prevede più la concessione ma l’autorizzazione).
Per ciò che attiene gli obblighi verso l’utenza a carico delle varie figure di operatori,
la delibera n. 435 ha previsto che i soggetti titolari di autorizzazione per la fornitura
dei programmi televisivi destinati alla diffusione in tecnica digitale su frequenze
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terrestri sono tenuti al rispetto delle medesime disposizioni previste per i
concessionari di programmi televisivi su frequenze terrestri in tecnica analogica in
materia di:
- Registro dei programmi e conservazione delle registrazioni (articolo 6);
- Responsabilità e rettifica (articolo 7);
- Pubblicità, sponsorizzazioni, televendite (articolo 8);
- Quote di emissione e produzione (articolo 9);
- Promozione di opere audiovisive (articolo 10);
- Tutela dei minori e dei portatori di handicap sensoriali (articolo 11).
L’Autorità con tali previsioni ha inteso immediatamente estendere l’insieme di tutele
previsto per la televisione tradizionale alla nascente tv digitale, al fine di evitare
possibili zone grigie a danno degli utenti della nuova tv digitale.
Il regolamento dell’Agcom è dunque il primo impianto normativo che disciplina in
maniera compiuta la nuova realtà della televisione digitale nel nostro Paese. Ad esso
seguiranno ulteriori interventi del legislatore nazionale e le relative disposizioni di
attuazione contenute in delibere sempre dell’Agcom. In ogni caso, l’aspetto forse più
importante del regolamento, indipendentemente dai suoi contenuti di merito, è legato
alla circostanza che per la prima volta in Italia, con riferimento alla radiotelevisione,
si introduce una normativa che disciplina preventivamente un settore nascente,
mediante regole certe e chiare, non condizionate da una preesistente situazione di
fatto.
La bontà dell’impostazione data dal regolamento dell’Autorità ha trovato conferma
nella terza legge di sistema nel settore radiotelevisivo, la legge 3 maggio 2004, n.
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112 (“legge Gasparri”), che, nel disciplinare nuovamente l’intero settore, ha
sostanzialmente integrato e finalizzato le previsioni contenute nella legge n. 66/2001,
confermando in pieno l’impostazione data dalla delibera 435/01/CONS.
In particolare, le principali novità introdotte dalla legge Gasparri sono:
- l’individuazione dei principi fondamentali del sistema radiotelevisivo;
- la conferma della nuova impostazione basata sulla tripartizione tra “operatore
di rete”, “fornitore di servizi” e “fornitore di contenuti” (e la relativa
disciplina sui titoli abilitativi);
- il rafforzamento della tutela dei minori;
- l’introduzione di modifiche alla disciplina sugli affollamenti (nazionali e
locali);
- la fissazione di principi generali in materia di informazione e di ulteriori
compiti di pubblico servizio nel settore radiotelevisivo;
- la previsione di una delega al Governo per l’emanazione del Testo Unico della
radiotelevisione (poi adottato con Decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177),
deputato a raccogliere, riordinandole, tutte le disposizioni esistenti in materia
radiotelevisiva, comprese quelle della stessa legge Gasparri, diventando il testo
normativo di riferimento del settore.
Di notevole rilevanza sono le soluzioni operate in tema di limiti alle concentrazioni
delle risorse economiche e tecniche in capo ai soggetti operanti nel settore della tv
digitale, per garantire un sistema pluralista, così come richiesto dalla Corte
costituzionale.
A questo proposito, le nuove norme poste a tutela del pluralismo informativo
rispondono all’intento dichiarato del legislatore di razionalizzare la legislazione
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precedente, formatasi per successive stratificazioni, secondo una visione separata dei
vari segmenti di cui si compone il complessivo sistema della comunicazione. In
particolare, il processo di razionalizzazione ha origine nella presa di coscienza che il
sistema della comunicazione, anche se articolato in segmenti diversi, oggi appare
orientato nel segno della convergenza e, pertanto, deve essere considerato
unitariamente nel momento in cui vengono definiti i limiti di concentrazione delle
risorse in capo ai soggetti che vi operano. Il Testo Unico introduce quindi i seguenti:

limiti di concentrazione nella raccolta delle risorse economiche:
- i soggetti che operano nel Sistema Integrato delle Comunicazioni (SIC)
sono tenuti a notificare all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni le
intese e le operazioni di concentrazione;
- l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni verifica che non si
costituiscano, nel sistema integrato delle comunicazioni e nei mercati che lo
compongono, posizioni dominanti;
- i soggetti che operano nei settori del SIC non possono, né direttamente, né
attraverso soggetti controllati o collegati, conseguire ricavi superiori al
20% dei ricavi complessivi del sistema integrato delle comunicazioni.

limiti di concentrazione al numero dei canali:
-
periodo transitorio (fino al 2012): fino alla completa attuazione del
piano nazionale di assegnazione delle frequenze televisive in tecnica digitale,
il limite al numero complessivo di programmi per ogni soggetto è del 20% ed
è calcolato sul numero complessivo dei programmi televisivi concessi o
irradiati in ambito nazionale su frequenze terrestri, indifferentemente in
tecnica analogica o in tecnica digitale. I programmi televisivi irradiati in
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tecnica digitale possono concorrere a formare la base di calcolo ove
raggiungano una copertura pari al 50% della popolazione. Al fine del rispetto
del limite del 20% non sono computati i programmi che costituiscono la replica
simultanea di programmi irradiati in tecnica analogica. Il presente criterio di
calcolo si applica solo ai soggetti i quali trasmettono in tecnica digitale
programmi che raggiungono una copertura pari al 50% della popolazione
nazionale;
-
regime definitivo: all’atto della completa attuazione del piano
nazionale di assegnazione delle frequenze radiofoniche e televisive in tecnica
digitale, uno stesso fornitore di contenuti non può essere titolare di
autorizzazioni che consentano di diffondere più del 20% del totale dei
programmi televisivi, o più del 20% dei programmi radiofonici, irradiabili
su frequenze terrestri in ambito nazionale mediante le reti previste dal
medesimo piano.
Se dunque questi rappresentano i nuovi limiti fissati dal legislatore, occorre ora
valutare quali interventi ha compiuto l’Autorità per specificare tali disposizioni
normative e darne concreta attuazione.
2.3.1. Risorse economiche.
Con riferimento alle risorse economiche, l’Agcom ha innanzitutto provveduto a
quantificare l’ammontare del SIC, che, secondo le previsioni del Testo Unico,
rappresenta appunto la base di calcolo per stabilire se un soggetto supera o meno il
limite del 20% dei ricavi.
Dopo una complessa istruttoria, con Delibera n. 341/06/CONS del 7 giugno 2006,
si è pervenuti alla valutazione delle dimensioni economiche del Sistema Integrato
delle Comunicazioni per l’anno 2005. In particolare:
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Queste verifiche vengono condotte annualmente dall’Agcom così da monitorare
anno per anno l’ammontare del valore del sistema integrato delle Comunicazioni.

22.144 milioni di euro per 2005;

23.640 milioni di euro per il 2006;

24.301 milioni di euro per il 2007;

24.229 milioni di euro per il 2008;

22.993 milioni di euro per il 2009;

21.096 milioni di euro per il 2010;

20.323 milioni di euro per il 2011;

19.063 milioni di euro per il 2012.
Il secondo intervento di rilievo compiuto in questo settore dall’Agcom riguarda
l’individuazione dei singoli mercati rilevanti che compongono il SIC.
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Ai sensi dell’articolo 43, comma 2, del T.U., l’Autorità, infatti, verifica che non si
costituiscano posizioni dominanti e che siano rispettati i limiti anticoncentrativi
previsti dal medesimo articolo, sia nel sistema integrato delle comunicazioni
(complessivamente considerato), sia nei singoli mercati che lo compongono.
La disciplina di riferimento in materia di posizioni dominanti nel settore
radiotelevisivo è prevista dall’art. 14 della legge n. 122 del 2004 (legge Gasparri terza legge di sistema), i cui contenuti sono stati successivamente trasfusi
nell’articolo 43 del T.U.S.M.A.R.. Con la legge citata si è profondamente innovata
la disciplina in materia, in quanto, a differenza delle precedenti leggi di settore
(Legge Mammì n. 223/1990 e Legge Maccanico n. 249/1997), è stata introdotta per
il SIC e per i mercati che lo compongono una nozione di posizione dominante non
più ancorata al semplice superamento di soglie anticoncentrative prefissate dal
legislatore, bensì fondata su un processo valutativo che tiene conto di diversi
parametri. In questo senso, il citato articolo 43 ha stabilito al comma 2 che l’Autorità,
individuato il mercato rilevante conformemente ai principi di cui agli articoli 15 e 16
della Direttiva 2002/21/CE, verifica che non si costituiscano, nel sistema integrato
delle comunicazioni e nei mercati che lo compongono, posizioni dominanti tenendo
conto, fra l’altro:
i. dei ricavi;
ii. del livello di concorrenza all’interno del sistema;
iii. delle barriere all’ingresso nello stesso;
iv. delle dimensioni di efficienza economica dell’impresa;
v. degli indici quantitativi di diffusione dei programmi (radiotelevisivi, dei
prodotti editoriali e delle opere cinematografiche o fonografiche).
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Il successivo comma 5 ha specificato inoltre che l’Autorità, adeguandosi al mutare
delle caratteristiche dei mercati, adotta i provvedimenti necessari per eliminare o
impedire il formarsi delle posizioni dominanti, o comunque lesive del pluralismo.
Con tale impostazione il legislatore del 2004 ha, di fatto, recepito nel settore
radiotelevisivo gli orientamenti dalla Commissione europea in tema di
determinazione del significativo potere di mercato (posizione dominante), espressi
in particolare nelle Linee direttrici per l'analisi del mercato e la valutazione del
significativo potere di mercato ai sensi del nuovo quadro normativo comunitario per
le reti e i servizi di comunicazione elettronica.
Nello specifico, la Commissione nel documento in questione ha precisato che:
-
(par.75) “… per stabilire l'esistenza di una posizione dominante si usano una
serie di criteri e una valutazione che si fonda, come specificato sopra, su un'analisi
previsionale del mercato a sua volta basata sulle condizioni esistenti sul mercato
stesso. Le quote di mercato sono spesso usate come indicatore indiretto del potere
di mercato. Per quanto le dimensioni della quota di mercato detenuta non siano
sufficienti a stabilire se un'impresa detenga un significativo potere di mercato
(posizione dominante), è improbabile che una ditta che non detiene una quota di
mercato consistente si trovi in posizione dominante. È quindi improbabile che
imprese aventi una quota inferiore o pari al 25 % del mercato in questione occupino
(da sole) una posizione dominante sul mercato stesso. Nella prassi decisionale della
Commissione, il problema si pone quando la quota di mercato detenuta da
un'impresa supera il 40 %, benché in talune circostanze si possa presumere una tale
posizione anche con quote inferiori dato che la posizione dominante non è
necessariamente legata al possesso di una quota di mercato elevata. In base a una
giurisprudenza consolidata, la detenzione di quote di mercato estremamente elevate
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— superiori al 50% — è di per sé, salvo situazioni eccezionali, una prova
dell'esistenza di una posizione dominante. Si può presumere che un'impresa che
detiene una grossa fetta di mercato goda di un significativo potere di mercato, ossia
abbia una posizione dominante, se la quota è rimasta costante nel tempo. La
graduale erosione della quota di mercato di un'impresa con una forte posizione di
mercato potrebbe indicare un'intensificazione della concorrenza, ma non esclude la
possibilità che si riscontri un significativo potere di mercato. D'altro canto, la
fluttuazione delle quote di mercato nel tempo potrebbe indicare l'assenza di potere
di mercato nel mercato rilevante”;
-
(par.78) “ E’ importante sottolineare che non si può stabilire l'esistenza di una
posizione dominante unicamente in base all'ampiezza delle quote di mercato: come
già detto, esse indicano semplicemente la possibilità che si sia in presenza di un
operatore che gode di una posizione dominante. Le ANR dovrebbero perciò
intraprendere un'analisi completa e globale delle caratteristiche economiche del
mercato rilevante prima di formulare conclusioni circa l'esistenza di un significativo
potere di mercato. A questo proposito, si possono anche usare i criteri sottoindicati
per misurare il potere di un'impresa di comportarsi in misura notevole in modo
indipendente dai concorrenti, dai clienti e, in definitiva, dai consumatori, tra cui:
- dimensione globale dell'impresa;
- controllo di infrastrutture difficili da duplicare;
- vantaggi o superiorità a livello tecnologico;
- mancanza o insufficienza di contropotere da parte degli acquirenti;
- accesso facile o privilegiato ai mercati finanziari/risorse finanziarie;
- diversificazione dei prodotti/servizi (ad es. offerta di servizi o prodotti aggregati);
- economie di scala;
- economie di diversificazione;
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- integrazione verticale;
- una rete di distribuzione e vendita molto sviluppata;
- mancanza di concorrenza potenziale;
- barriere all'espansione”.
Pertanto, l’Autorità, nel corso dell’istruttoria, è tenuta a riscontrare l’eventuale
sussistenza di posizioni dominanti o comunque lesive del pluralismo, attraverso
un’analisi diretta a verificare non solo la consistenza delle quote di mercato
detenute dai vari operatori nei singoli mercati di riferimento ma anche gli
ulteriori parametri di valutazione indicati dal legislatore nel citato articolo 43 del
Testo Unico.
In tale contesto, quindi, le quote di mercato vengono in considerazione come
semplice indicatore della possibilità che nel mercato di riferimento sussista una
posizione vietata e assumono particolare rilievo nella fase di avvio del procedimento
di analisi in quanto le stesse risultano funzionali ad individuare, in concreto, le
imprese operanti nel mercato cui notificare il provvedimento di avvio dell’istruttoria.
La sussistenza di una quota di mercato rilevante in capo ad una impresa, quale
elemento indiziario, giustifica l’avvio nei suoi confronti di un’istruttoria in
contraddittorio, finalizzata a verificare l’eventuale sussistenza di una posizione
dominante o comunque lesiva del pluralismo e, in caso di riscontro positivo, ad
adottare nei confronti della stessa i provvedimenti necessari per eliminare la
posizione vietata.
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Alla luce delle previsioni normative contenute nell’articolo 43, per poter svolgere le
istruttorie in materia di posizioni dominanti, è stato necessario procedere
all’identificazione dei mercati che compongono il SIC.
A tal proposito, il punto di partenza dell’intera analisi da cui ha preso le mosse
l’attività dell’Autorità è che l’individuazione dei mercati deve essere comunque
svolta tenendo conto della finalità sottesa alla disposizione normativa in questione,
ovvero la tutela del pluralismo. Il riferimento alla lesione del pluralismo contenuto
nel comma 5 dell’articolo 43 rappresenta, dunque, un criterio per la corretta
individuazione dei mercati rilevanti. Pertanto, la finalizzazione del processo di
definizione dei mercati del SIC alla tutela del pluralismo ha comportato uno
scrutinio circa la rilevanza di tali ambiti merceologici e geografici rispetto
all’obiettivo individuato dal legislatore.
Tale approccio, sul piano delle metodologie utilizzate, ha comportato che l’analisi
dei mercati abbia posto l’accento sul versante dei consumatori/cittadini e sul loro
accesso ed uso dei mezzi di comunicazione di massa. In questo senso, il versante
pubblicitario è stato visto in un’ottica di risorse complessive del mezzo (non
singolarmente considerato) e l’analisi ha riguardato principalmente la sostituibilità
dei mezzi tra i consumatori. Tale impostazione ha condotto l’Agcom a far largo
uso di analisi di rilevazione del consumo dei media da parte dei cittadino e a svolgere
un’indagine inerente il comportamento dei cittadini/consumatori nella fruizione dei
diversi mezzi.
All’esito dell’istruttoria sono stati individuati nell’ambito del SIC i seguenti mercati
rilevanti:
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1)
televisione in chiaro;
2)
televisione a pagamento;
3)
radio;
4)
quotidiani;
5)
periodici.
In questi cinque mercati l’Agcom valuta, attraverso l’impiego di strumenti economici
e metodologie consolidate, la sussistenza o meno di operatori in posizione
dominante, ovvero di operatori che detengono una posizione di potenza economica
tale che riescono a condizionare unilateralmente l’intero settore pregiudicando così
l’esistenza di un sistema pluralista della comunicazione.
2.3.2. Numero di canali.
Con riferimento al numero dei canali, invece, l’Autorità, ai sensi dell’articolo 23
del Regolamento relativo alla radiodiffusione televisiva terrestre in tecnica digitale,
allegato alla Delibera n. 353/11/CONS, ha l’obbligo di provvedere periodicamente
d’ufficio, comunque entro e non oltre il 30 ottobre di ciascun anno, alla verifica
del rispetto dei limiti alle autorizzazioni alla fornitura dei programmi televisivi.
Al fine di agevolare l’attività di verifica, il Regolamento prevede che i soggetti
autorizzati alla fornitura di programmi televisivi hanno l’obbligo di comunicare
all’Autorità, entro il 30 giugno di ciascun anno, il numero dei programmi autorizzati
alla diffusione, secondo il modello allegato alla predetta delibera.
Il Regolamento chiarisce, inoltre, che nel rispetto di quanto previsto dalle definizioni
di cui all’articolo 2, comma 1, lettere e), g) ed h) del Testo unico e dello stesso
articolo 43, commi 7 e 8, ai fini del calcolo dei programmi non si considerano:
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a) le trasmissioni meramente ripetitive o consistenti in immagini fisse;
b) le trasmissioni differite dello stesso palinsesto;
c) la prestazione, a pagamento, di singoli programmi, o pacchetti di programmi
audiovisivi lineari, con possibilità di acquisto da parte dell’utente anche nei momenti
immediatamente antecedenti all’inizio della trasmissione del singolo programma, o
del primo programma, nel caso si tratti di un pacchetto di programmi.
Dalle verifiche effettuate nell’anno 2014 (novembre) è emerso quanto segue.
Il numero di programmi irradiabili su frequenze terrestri in ambito nazionale
mediante le reti previste dal piano nazionale è pari a 132. Tale numero è stato
calcolato sulla base dei 22 multiplex nazionali pianificati (19 in uso1 e 3 oggetto della
procedura per l’assegnazione delle frequenze disponibili in banda televisiva per
sistemi di radiodiffusione digitale terrestre, bandita con Delibera 277/13/CONS),
ognuno dei quali può trasmettere 6 programmi 2. Pertanto, il limite di programmi
nazionali che ciascun soggetto può irradiare sulle reti digitali terrestri è pari a 26,4
(20% di 132).
Dalle verifiche condotte è emerso che la Rai raggiunge il 10,3% con 14
programmi/autorizzazioni; R.T.I. l’8,1% con 11 programmi/autorizzazioni;
Discovery Channel e Television Broadcasting service (TBS) il 5,1% ciascuno con 7
1
Come noto i multiplex attualmente in uso da parte degli operatori di rete in ambito nazionale sono 19: n. 5 Rai Way;
n. 5 Elettronica Industriale; n. 5 Persidera; n. 1 Retecapri; n. 1 D-free, n. 1 Centro Europa 7; n. 1 3lettronica. Ad esito
della procedura di gara bandita con Delibera 277/13/CONS, è stato assegnato un solo multiplex (dei tre messi a gara),
alla società Cairo Communication, che sta provvedendo alla costruzione della ventesima rete, mentre per i restanti 2
multiplex non sono state presentate offerte. In totale saranno quindi presto attivi in Italia 20 multiplex.
2
L’articolo 1, comma 1, lettera q) del Regolamento Allegato alla delibera n. 353/11/CONS prevede che per “blocco
di diffusione” o ”multiplex” si intende l’insieme dei programmi dati e radiotelevisivi numerici e dei servizi interattivi
diffusi su una rete televisiva assegnata e comprendente almeno sei programmi televisivi diffusi in tecnica Standard
Definition (SD), ovvero tre programmi televisivi diffusi in tecnica High Definition (HD), ovvero, in caso di diffusione
mista SD ed HD, almeno quattro programmi televisivi di cui uno diffuso in HD.
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canali, Media Italia Tv S.r.l. e Elda s.r.l. il 4,4% con 6 canali; Gruppo Editoriale
L'Espresso S.p.A. il 3,7% con 5 canali.
Risultano quindi rispettati i limiti anticoncentrativi attualmente previsti dalla legge.
2.3.3. Risorse tecniche.
Con riferimento, infine, alle risorse tecniche, l’Agcom ha svolto 2 interventi
fondamentali.
Il primo ha riguardato la cessione 40% capacità trasmissiva nella fase di
transizione dal sistema analogico al sistema digitale. Come menzionato
precedentemente, la legge 20 marzo 2001, n. 66, disciplinante per la prima volta in
Italia la tv digitale terrestre, ha previsto esplicitamente che gli operatori analogici
(RAI, RTI - Elettronica Industriale, Telecom Italia Media Broadcasting), legittimati
ad avviare la fase di sperimentazione delle nuove trasmissioni digitali, dovessero
cedere almeno il quaranta per cento della capacità trasmissiva loro assegnata a
soggetti indipendenti e a condizioni eque, trasparenti e non discriminatorie.
In un primo momento, e come gesto di fiducia verso il mercato, era stato previsto che
la fornitura di capacità trasmissiva sarebbe avvenuta sulla base della semplice
negoziazione commerciale tra operatori e soggetti indipendenti. Si richiedeva
soltanto che gli accordi, una volta siglati, venissero comunicati all’Autorità al fine
della verifica del rispetto delle disposizioni previste dalla normativa vigente.
Tuttavia, gli atteggiamenti ostruzionistici degli operatori assegnatari della capacità
(prezzi alti, poca propensione a negoziare a causa dei contratti in essere, ecc.), hanno
di fatto paralizzato l’attività di cessione del 40%. Pertanto l’Agcom, con Delibera n.
109/07/CONS, è intervenuta con una serie di regole più puntuali introducendo
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un’apposita disciplina sulle modalità di cessione del quaranta per cento della
capacità trasmissiva delle reti digitali terrestri.
L’Agcom ha naturalmente portato ad esecuzione tutti i punti previsti dalla delibera
ed in particolare la procedura di gara, all’esito della quale sono state stilate le
graduatorie dei fornitori di contenuti che hanno avuto accesso al 40% della capacità
trasmissiva di RAI Mediaset e Telecom Italia media. Grazie a tale procedura, sono
entrati nel mercato italiano nuovi fornitori di contenuti indipendenti che prima
trasmettevano solo via satellite (ad esempio alcuni canali della Disney; NBC
Universal).
Il secondo intervento importante in tema di risorse tecniche è rappresentato dalla
Delibera 181/09/CONS, con cui l’Agcom ha dettato i criteri per la completa
digitalizzazione delle reti televisive terrestri.
In particolare, tale delibera ha previsto:
1) l’uso della tecnica SFN (Single Frequency Network), già sperimentata con
successo nella Regione Sardegna, al fine di pianificare il maggior numero di reti
televisive possibili in ogni area territoriale;
2) un piano di assegnazione per 21 reti nazionali
con copertura
approssimativamente pari all’80% del territorio nazionale;
3) che 16 reti delle 21 pianificate sono destinate per la conversione del sistema
trasmissivo analogico (vecchie Tv terrestri) e per la razionalizzazione delle
reti digitali terrestri sperimentali gestite dagli operatori (da convertire in reti
isofrequenziali).
4) un dividendo digitale di 5 reti televisive nazionali, oltre ad una eventuale rete
DVB-H.
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La Delibera 181/09/CONS è stata successivamente “legificata” in quanto
appositamente richiamata dalla legge n. 88 del 2009. I contenuti di tale delibera sono
fondamentali, poiché, grazie all’attività di razionalizzazione delle frequenze operata
dalla delibera, sono state progettate ben 21 reti trasmissive nazionali di cui almeno
3 destinate a soggetti nuovi entranti nel mercato e quindi diversi dagli operatori
storici. Finalmente, a distanza di molti anni, si fornivano risposte concrete a quelle
sollecitazioni da sempre sollevate dalla Corte Costituzionale e dirette allo sviluppo
di un mercato radiotelevisivo pluralista, cioè caratterizzato dalla presenza del
maggior numero possibile di operatori.
In concreto, in un primo momento, le 5 reti televisive nazionali più quella riservata
al DVB-H dovevano essere assegnate agli operatori del settore mediante una
procedura di beauty contest, disciplinata dall’Autorità. Tradizionalmente il sistema
del beauty contest, è stato utilizzato (in Italia e in Europa) ai fini dell’assegnazione
delle risorse frequenziali nel settore audiovisivo perché meglio risponde alle esigenze
di garanzia del pluralismo informativo. Infatti tale procedura, a differenza dell’asta
con rilanci che predilige l’offerta economicamente più alta, determina l’assegnazione
della risorsa frequenziale sulla base di una valutazione qualitativa sia del piano
industriale sia di quello editoriale.
Nel quadro sin qui descritto si è successivamente inserito l’articolo 3-quinquies,
comma 2, lettere a), b) e c), del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16, introdotto dalla
legge di conversione 26 aprile 2012 n. 44 (di seguito: la “Legge”) recante “Misure
urgenti per l’uso efficiente e la valorizzazione economica dello spettro radio e in
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materia di contributi per l’utilizzo delle frequenze televisive”, che ha abrogato la
procedura di beauty contest, sostituendola con una procedura competitiva (asta).
In particolare, sono stati stabiliti i seguenti principi e criteri direttivi per la nuova
gara:
“a) assegnazione delle frequenze ad operatori di rete sulla base di differenti lotti,
mediante procedure di gara aggiudicate all'offerta economica più elevata anche
mediante rilanci competitivi, assicurando la separazione verticale fra fornitori di
programmi e operatori di rete e l'obbligo degli operatori di rete di consentire
l'accesso ai fornitori di programmi, a condizioni eque e non discriminatorie, secondo
le priorità e i criteri fissati dall’Autorità per garantire l'accesso dei fornitori di
programmi nuovi entranti e per favorire l'innovazione tecnologica”;
b) composizione di ciascun lotto in base al grado di copertura tenendo conto della
possibilità di consentire la realizzazione di reti per macro aree di diffusione, l'uso
flessibile della risorsa radioelettrica, l'efficienza spettrale e l'innovazione
tecnologica”;
c) modulazione della durata dei diritti d'uso nell'ambito di ciascun lotto, in modo
da garantire la tempestiva destinazione delle frequenze agli usi stabiliti dalla
Commissione europea in tema di disciplina dello spettro radio anche in relazione a
quanto previsto dall'Agenda digitale nazionale e comunitaria”.
La legge ha affidato all’Agcom il compito di predisporre il regolamento diretto a
disciplinare la gara per le frequenze. Al Ministero dello sviluppo economico è stato
dato il compito di emanare i bandi e di gestire il materiale svolgimento della gara.
In data 20 settembre 2012, il Consiglio dell’Autorità ha approvato uno schema
preliminare di provvedimento sulla base del quale i propri uffici hanno dato avvio
delle interlocuzioni tecniche con i competenti uffici della Commissione europea
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In data 11 aprile 2013, l’Autorità con Delibera 277/13/CONS ha adottato la
procedura per l’assegnazione delle frequenze disponibili in banda televisiva per
sistemi di radiodiffusione digitale terrestre e misure atte a garantire condizioni di
effettiva concorrenza e a tutela del pluralismo ai sensi dell’art. 3-quinquies del
decreto-legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 44
del 26 aprile 2012.
In particolare, per rispondere all’obiettivo di garantire un maggior grado di
concorrenza e pluralismo nella diffusione dei contenuti, come richiesto anche dalla
Commissione europea, il provvedimento consentiva di concorrere per i tre i lotti
(L1, L2, L3) messi a gara, ai soli operatori nuovi entranti o piccoli operatori (cioè
che detengono un solo multiplex) e per due lotti agli operatori già in possesso di
due multiplex.
Il provvedimento, inoltre:
- limitava ad un solo multiplex la partecipazione degli operatori integrati,
attivi su altre piattaforme con una quota di mercato superiore al 50%
della tv a pagamento (Sky);
- escludeva dalla partecipazione alla gara gli operatori che detengono tre o
più multiplex (Rai; Mediaset e Telecom).
In un’ottica di gestione efficiente dello spettro e di sviluppo futuro dei servizi
destinati all’LTE, è stato deciso di escludere dalla gara le frequenze dei lotti U di
durata quinquennale previsti nel primo schema di provvedimento, in quanto destinate
al futuro refarming (ovvero destinate agli operatori TLC per la banda larga mobile).
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Attraverso questo provvedimento l’Autorità individuava dunque un percorso atto a
portare un riordino complessivo e di pianificazione delle risorse frequenziali
nazionali assegnate alla televisione digitale terrestre, risolvendo così alcune criticità
in un orizzonte di breve-medio periodo.
3. Situazione attuale in Italia.
Il quadro di interventi descritto ed applicato nel corso degli anni ha oggi prodotto il
seguente risultato:
 in Italia saranno attivi 20 multiplex gestiti da 8 differenti operatori di rete;
 a seguito di operazioni di concentrazione sono nati operatori di rete “puri”,
come Persidera, che destinano il totale della capacità trasmissiva gestita a editori
indipendenti;
 operatori primari, come Discovery Channel, sono invece fornitori di contenuti
“puri” multipiattaforma;
 i programmi free trasmessi sulle reti esistenti sono attualmente 94 e sono
riconducibili a 26 gruppi editoriali differenti con una rilevante presenza di
operatori internazionali ovvero di nuovi entranti (tra cui NBC Universal; Sky;
Fox international; Feltrinelli; Discovery International; Cairo).
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