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We have a dream

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We have a dream
A ottobre 2013, Telecom Italia ha avviato un progetto di social writing con la Scuola Holden. I motivi di
una tale scelta rientrano nella forte convinzione del Gruppo che la tecnologia possa contribuire in maniera
incisiva a diffondere la Cultura e i suoi contenuti di eccellenza.
Telecom Italia crede fortemente nella tecnologia e nei contenuti che può veicolare. Crede nell’emozione
del sogno. Martin Luther King, cinquanta anni prima, aveva sognato un mondo migliore, e aveva, attraverso
il suo celebre discorso, intercettato il desiderio di milioni di persone, cambiando per sempre il corso della
Storia.
Quella Storia che ha visto l’evoluzione di una società più solidale grazie alla sempre più evidente voglia
delle persone di condividere idee, progetti, sogni.
Ora abbiamo un alleato che cinquanta anni fa non era ancora disponibile, la tecnologia e la sua potenza
digitale per connettere le persone in un concerto corale e universale. Le reti sociali, unite alla voglia
delle persone di condividere, oggi ci fanno scoprire un mondo altrimenti invisibile, passioni altrimenti
irrealizzabili, creatività altrimenti non diffondibili.
Per festeggiare la forza che nasce dall’unione delle idee, Telecom Italia ha messo a disposizione la propria
esperienza per affidarsi alla voce dei più autorevoli testimonial che poteva mai sperare di avere. Tutti voi.
La tecnologia abilita, ma sono le idee e i sogni che animano la vita e la rendono degna di essere vissuta.
Con il progetto #WEHAVEADREAM, Telecom Italia ha voluto sottolineare l’attenzione che pone alla
responsabilità sociale d’impresa di dare spazio e visibilità, grazie alla potenza delle connessioni tecnologiche,
alle nuove e più corali connessioni umane. Grazie ai numerosi tweet e ai tanti racconti ricevuti, Telecom
Italia, insieme a Scuola Holden, ha dato vita ad un esperimento unico: la scrittura collettiva di un discorso
comune ispirato dal potere del sogno.
Telecom Italia sostiene la modernizzazione del Paese con quello che di meglio ha, la volontà e l’esperienza
tecnologica da offrire a tutti gli italiani per partecipare alla costruzione di un mondo migliore. Il lavoro
di Telecom Italia è nella proposta di una tecnologia utile e umana. È nell’aiuto per permettere a tutti gli
italiani di essere connessi, di avvicinare i sogni e le speranze di milioni di persone, di aiutare l’Italia ad essere
sempre unita e decisa. È soprattutto nel mettere a disposizione la propria esperienza umana e tecnologica
per aiutare i talenti del Paese a rivelarsi al mondo. Solo dal talento e dalla sua messa in campo possiamo
sperare di vivere in una società migliore. Per realizzare insieme a tutti la nostra vera grande missione:
comunicare, connettersi, vivere.
Marcella Logli
Responsabile Corporate Social Responsibility di Telecom Italia
La narrazione cambia continuamente forme e direzioni, influenzata dai mezzi su cui vive e all’interno dei
quali si ambienta, evolvendosi sempre per non morire mai. Negli ultimi anni, una delle forme di narrazione
più nuove è quella che si è sviluppata sui social network, Facebook e Twitter in particolare. Un modo di
raccontare breve, conciso, che coinvolge migliaia di persone in tutto il mondo e che sta trasformando non
solo la narrazione in generale, ma anche forme di racconto più specifiche, come il giornalismo su Twitter,
dalla Primavera Araba al selfie della cerimonia degli Oscar, passando per l’abbraccio tra Obama e sua
moglie.
Il progetto #WEHAVEADREAM si inserisce quindi in un contesto in cui parole come “rete” e
“condivisione” assumono un’importanza sempre maggiore e persone che non si conoscono possono
entrare in contatto le une con le altre senza mai lasciare il loro computer. Un contesto che probabilmente
avrebbe trovato l’approvazione di chi, come Martin Luther King, lavorava proprio per abolire le barriere e i
confini.
Ecco perché, per noi di Scuola Holden che abbiamo a che fare tutti i giorni con le storie e con le parole,
#WEHAVEADREAM è stato un progetto in cui abbiamo creduto molto, un esperimento collettivo di
scrittura che ha aperto nuove strade e che ha coinvolto una moltitudine di persone.
Un esperimento di scrittura fatto da persone con esperienze e background diversi, ma che ha dato vita ad
un discorso finale con tematiche e aspetti comuni. Leggendo i tweet dei vincitori, infatti, si nota facilmente
come i sentimenti e le emozioni che più tornano siano di ottimismo e fiducia, anche se controbilanciati
da una grande concretezza che trova il senso e la felicità nelle piccole cose: il mare d’estate, gli abbracci
di chi amiamo, le risate, la luce quando fuori è notte. Citando gli stessi tweet: “Una fede che guarda più
all’umano che al divino, una fede che non si rivolge più verso l’alto, ma all’orizzonte; una speranza che non
dimentica mai di guardare al futuro, ma che ha fondamenta nel presente; una giustizia senza aggettivi e una
fratellanza ancorata in ciò che ci rende terribilmente simili gli uni agli altri.” Ne emerge quindi un discorso
collettivo che non ha perso la fiducia e la speranza nel futuro, ma che sa bene come, per cambiare il
mondo, sia importante prima di tutto partire da se stessi, da ciò che ci circonda e dalle storie che ognuno
di noi custodisce.
Lea Maria Iandiorio
Direttore Operativo Scuola Holden
IL PROGETTO
Nel 1963 Martin Luther King ha scritto il discorso più famoso della storia: “I have a dream”. 50 anni dopo,
abbiamo deciso di celebrare quelle parole, scrivendo insieme un nuovo grande discorso collettivo con un
esperimento di social writing: #WEHAVEADREAM.
1. SCOPRI IL TEMA
Abbiamo scelto 10 parole che esprimono i valori di “I have a dream”. E abbiamo invitato 10 autori italiani
a commentarle con i loro tweet, per riscoprire l’importanza di quei grandi temi.
Le parole: #FEDE; #LIBERTA’; #SPERANZA; #INIZIO; #GIUSTIZIA; #FELICITA’; #FRATELLANZA;
#UGUAGLIANZA; #DIGNITA’; #RETTITUDINE
2. INVIA UN TWEET
Per 10 settimane, tantissimi utenti hanno risposto ai tweet degli autori, inviando i loro tweet con l’hashtag
#wehaveadream.
Tutti i tweet sono stati raccolti sul nostro sito (www.telecomitalia.com/wehaveadream), creando una
grande narrazione collettiva sui 10 Temi.
3. SCRIVI IL TUO RACCONTO
Scuola Holden ha selezionato 4 tweet al giorno. E ha chiesto ai loro autori di scrivere un breve racconto,
per diventare autori del discorso collettivo. Tutti i racconti sono stati pubblicati sul sito, letti e votati dagli
utenti.
4. PARTECIPA AL DISCORSO
Per ogni Tema sono stati scelti 4 racconti, 3 da una commissione di Scuola Holden e 1 grazie al voto degli utenti.
I 40 racconti selezionati hanno creato questa raccolta digitale, insieme ai nomi e ai tweet dei loro autori. Le frasi
più suggestive sono state unite insieme, creando il discorso collettivo “We have a dream”.
GENNARO BORRELLI
@PocoDaRidere
IL TWEET
Cerchiamo una nuova fede nell’Umano più che nel Divino: che il nostro credere non guardi verso l’alto,
ma all’orizzonte. #wehaveadream #fede
IL RACCONTO
A sua immagine e somiglianza
Lo chiameremo Il Pellegrino e tanto ci basterà, perché a parte qualche roccia e un paio di tronchi secchi
annodati dal gelo non c’è niente da cui distinguerlo.
Non diremo neanche da dove viene perché ci interessa di più dove sta andando: in alto.
Avanza con fatica nella neve. Un passo dietro l’altro, affrontando il ruggito del vento e i dolori del corpo
con la quieta determinazione di chi cerca qualcosa da così tanto tempo che non ha più fretta di trovarla.
Sulla cima del Monte più Alto del Mondo vive l’Ultimo Saggio della Terra. La leggende su quell’uomo straordinario lo avevano raggiunto dall’altra parte del mondo: Dio si era
mostrato a quell’uomo misterioso; Dio gli aveva rivelato tutte le risposte; Dio aveva impresso la sua
immagine sul suo volto, come un marchio a fuoco.
È lì che sta andando.
A incontrare il Volto di Dio.
Se la Montagna come ascesa spirituale è una metafora abusata al punto di aver trovato posto tra gli
archetipi, è giusto ammettere fin da subito, a beneficio dei più smaliziati, che il Saggio della Montagna non è
da meno: Egli Conosce-ogni-Cosa, ma Risponderà-a-Una-Sola-Domanda.
L’aveva distillata da un oceano di dubbi, la sua domanda, dopo mesi di digiuno, preghiera e meditazione,
lontano dal rumore del mondo.
E, una volta trovata, era partito.
“Che cos’è l’Uomo senza Dio?”
Presto l’avrebbe scoperto.
Ogni giorno il cielo è più vicino e la terra più lontana.
Ovunque si posi il suo sguardo, incontra una bellezza sempre più assoluta e insostenibile.
Una perfezione che basta a sé stessa.
Più va avanti, più sente i confini del suo essere sfumare, confondersi col resto, in tratti sempre più vaghi e
indefiniti.
La sua coscienza arretra in un angolo della sua mente, braccata da quella grazia crudele, dissolvendosi nella
pura contemplazione.
A questa altezza è difficile respirare.
contatto con il freddo, il calore del fiato forma piccole nuvole di fumo che subito si dissolvono, rapide così
com’erano apparse.
Si concentra per cogliere un significato profondo in quel continuo senso di nascere e morire.
Non gli viene in mente niente. Non sente niente.
Guarda in basso: un pallido strato di nuvole separa il suo sguardo dal mondo degli uomini.
Sotto di sé, in quell’istante, grovigli di strade brulicano di vita e di risate, di amore e tragedia, di sangue e di
miseria, di pietà e di violenza, del tutto ignari della sua esistenza e del suo scopo.
Resta a guardare per un po’, come in attesa di una risposta che non arriva. Infine, riparte.
Poi, in un momento del tutto privo di solennità, la montagna finisce, così com’era cominciata.
Non c’è più niente da scalare.
Ha raggiunto il limite estremo.
La frontiera verticale del mondo.
Non un rumore, tutto intorno.
Silenzio.
Così pesante da coprire ogni cosa.
Può sentire il suo respiro e il pulsare del sangue ai lati della sua testa.
Quando realizza di essere completamente solo si sente fragile e scoperto.
Prova a dire qualche parola ad alta voce, per darsi coraggio, ma senza nessuno ad ascoltarle, le parole
sono solo suoni sordi e piatti che si disperdono all’istante senza lasciare traccia.
Ogni cosa gli comunica che la sua presenza in quel luogo meraviglioso, è un caso.
Un errore, forse.
Senza nessun rumore terreno a proteggerlo dall’anecoica armonia delle sfere celesti, senza la consolazione
della condivisa fragilità umana, è alla mercé di una consapevolezza impossibile da sostenere.
Non c’è sfumatura, lì.
La variabile umana non è necessaria.
Peggio: non è desiderata.
Rinuncerebbe a tutta la Bellezza del mondo per sentire ancora una volta il rassicurante vociare di un
mercato.
“Che cos’è l’Uomo, senza Dio?”, pensa, ma la domanda gli sembra artificiosa e superficiale e irrilevante.
Quello che arriva ai piedi dell’Ultimo Saggio è un uomo spogliato da ogni cosa.
Solo un uomo, al cospetto della Faccia di Dio.
Osserva l’anziana figura che siede su un piccolo seggio, a occhi chiusi, in attesa della domanda per cui ha
fatto così tanta strada.
Poi, accade l’incredibile.
Un sorriso.
Un segno umano potente e primordiale che risplende nelle tenebre del puro esistere, ricordandogli di
non essere solo. Lassù.
Osserva quel volto piccolo e scuro dai lineamenti semplici, segnato da rughe profonde ma morbide, come
tracciate sull’argilla.
I suoi pochi capelli bianchi, le cicatrici sulla pelle, tutti i minimi dettagli della sua fisicità.
E spoglio di ogni ricordo, di ogni dubbio, di ogni giudizio, riconosce la faccia dell’uomo nella Faccia di Dio. E capisce che solo al cospetto di un altro sguardo in cui ancorare il nostro, un punto fisso nell’infinito in cui
fermare la nostra anima tormentata dalle correnti, la vita ha davvero significato.
Che cos’è l’Uomo senza l’Uomo?
Aveva attraversato il mondo per poter fare quella domanda.
“Come stai?”, gli chiede.
ANDREA FIAMMA
@failflame
IL TWEET
Ho raccolto troppa uva per non credere nel vino. #wehaveadream #fede
IL RACCONTO
Fontanafredda
Fontanafredda è piccolo e minuto ma sapeva di buono. Gli ci volle un po’ per capire il motivo dello
stomaco rovesciato e delle fitte allo sterno. Il soffitto era ancora lì, una mano sul pettorale carnoso,
l’altra sulle lenzuola comprate durante il viaggio di nozze, in un bazar dove offrivano vinacci e pasticcini
scadenti. Frequenza a riposo regolare, respiro eupnoico, il letto sfatto per metà. Tanta era stata la fatica per
addormentarsi, dopo il rituale, una combinazione di battiti, preghiere o frasi da pronunciare in sequenza.
Alzava il capo, controllava che non ci fossero suoni, batteva le dita sulla tastiera del letto, schioccava la
lingua; se non ci riusciva al primo colpo - perché magari era andato fuori tempo o la lingua era scivolata
sul palato - doveva arrivare a quattro e se lo superava era obbligato a raggiungere il nove o un pari. Mai
il sei o un suo multiplo, eccezione fatta ai numeri che erano anche multipli di tre, quelli erano consentiti,
anche se lo facevano sentire incompleto per il resto della giornata. Aveva fede che servisse a sistemare le
cose, renderle giuste come le vuole lui. Ma certe sere, raggiunta una certa quantità di ripetizioni e pillole,
avrebbe voluto ficcarsi il cuscino in bocca e soffocare.
Cercò di stare immobile su un fianco; se avesse inspirato con forza avrebbe sentito la maglietta incollarsi
all’arco della schiena. Si sentiva decrepito, come fosse stato lasciato a invecchiare troppo. Sul comodino,
Fontanafredda lo auscultava silenzioso, con l’etichetta ritraente un melograno spaccato in due.
In principio erano le scarpe di gomma, ben piantate a terra, i lacci avviluppati al collo del piede come radici,
le fibre dei polpacci che guizzavano lungo le ossa, gli acini aggrappati al raspo. Le giovani braccia indurite
dal lavoro, i tralci incurvati dal peso del frutto zuccherino. Il sole che picchiava sotto il capello di vimini
sbalzato, fu lui a rendergli la pelle nera e coriacea come la scorza del cuoio. Tempo da uva, diceva il nonno:
non dura molto e non bisogna stare tanto a chiedersi quando le nuvole arriveranno, quanto ci sarà la luce,
come accade e se torna. Devi fidarti e andare.
Succedeva contro il suo volere, contro quello di chiunque altro. All’inizio credette che avrebbe avuto
bisogno di vedere il vino, per potersi dire soddisfatto, ma realizzò che per credere avrebbe soltanto
dovuto continuare a raccogliere grappoli e avrebbe sentito il fluire dei lieviti, le bollicine, sferiche e perfette,
particelle quantistiche che sono salite e salgono sulla bottiglia, in movimento perenne e continuo. Anche se
ora non c’erano, aveva fede. E l’uva era dolce, ma non c’era solo quello. C’era la chimica, che lui non capiva,
c’era l’amore che lui non capiva. C’era lei, che lui non capiva, ma si fidava. Lei, con i capelli lunghi, screziati
di rame, gli occhi azzurro sporco, come due grossi acini di cabernet-sauvignon, la voce che lo guidava tra
i corridoi del vigneto, dei tribunali sacri e profani. I polsi fini e i denti. Le piaceva la conversazione più di
quanto volesse ammettere.
La luce emaciata dell’alba gli rabboccò negli occhi e la testa iniziò a frizzare. Lasciò decantare i pensieri
finché il cervello non si ossigenò del tutto. Aprì gli infissi, una vetrata a nastro circondava la stanza come un
cappio. Se ne stava dritto, i piedi nudi sui lastroni di rovere ossidato, a respirare l’aria del mattino. In cima
al comodino le carte sulle quali aveva approntato il timbro circolare del bicchiere. Dalla finestra poteva
vedere il giardino estendersi tanto da far diventare il cielo l’unica cosa esentasse del panorama. Due filari
di pioppi mostravano la via verso casa, una botte di calcestruzzo armato nel quale potevano farvi breccia
soltanto Anna, il giovedì sera, e i giardinieri, ogniqualvolta avessero un conto da saldare.
Guardava la rimessa, piena di macchine mai guidate, la cantina, svuotata d’ogni memoria, e il campo da
tennis - doveva averci battuto un solo match point. Per una strana ragione, l’alcool o l’insonnia, credeva che
avrebbe avuto tempo per giocarci con Anna, che sarebbe bastato, in fin dei conti.
Ora ha raccolto parecchi grappoli. Li mise nella cesta per portarli via, si asciugò la fronte con il dorso della
mano e guardò il cielo. Tempo da uva.
FABIANA GIULIETTI
@Fabiana_giuli
IL TWEET
E se perdi la fede, guardati le mani, cerca i tuoi occhi nello specchio. Ricomincia da te stesso.
#wehaveadream #fede
IL RACCONTO
Il domatore di sdraie
Il gazebo lasciava filtrare un po’ di luce, non così tanta da sentire il bisogno di ripararsi, ma quanto bastava
per far sentire l’estate ancora prossima, giusto dietro l’angolo.
Aveva piovuto solo per poche ore, ma si sa, a settembre inoltrato la pioggia ha un nuovo odore, sa di
freddo e poco somiglia alla fragranza leggera della pioggia d’estate.
Ulisse si fermò un attimo a raccogliere qualcosa che gli era caduto dalle mani e lo fece guardandosi
intorno, come a controllare che tutto fosse a posto. E lo era. Quando mi passò davanti mi salutò
cordialmente come sempre, “pare passata la pioggia”, mi disse, e l’accento romagnolo lo rese ancora più
credibile, così annuii, e in effetti pareva passata davvero. La sabbia però era ancora umida, e un vento
leggero faceva sentire il bisogno di coprirsi un po’. Il mare a settembre è qualcosa di difficile da decifrare.
Non è ancora autunno e, in effetti, se becchi la giornata buona puoi ancora andare in spiaggia in costume
senza sentire freddo. Ma se piove, di colpo l’estate pare lontana e già dimenticata e il sole tramonta presto,
così la sabbia assume un colore ambrato che non si vede normalmente quando si va in villeggiatura.
Ulisse chiamò Lorenzo e bofonchiò qualche ordine. Le sdraio erano già tutte impilate, una sopra l’altra;
come cavalli di un circo formavano una sorta di coreografia acrobatica e simmetrica. Da giorni assistevo al
loro lavaggio lento e scrupoloso, che seguiva linee precise che chissà Lorenzo da quanto tempo conosceva.
Poi entrambi si diressero verso il tavolo da ping pong che per l’occasione ospitava dei secchi rovesciati
lasciati lì ad asciugare.
Parlavano di cose da fare, di quanto tempo ci sarebbe voluto prima di togliere gli ombrelloni delle ultime
file, di quando far stare Linda, la ragazza del bar, a casa. “Ma sì, vedrai che il prossimo weekend end sarà
bello, qualcuno ancora ci sarà”, diceva Ulisse, e Lorenzo annuiva e diceva “magari il bar aspettiamo a
chiuderlo”, e mentre parlavano continuavano a fare cose, a tirare acqua con la pompa per terra, a spazzare
un po’ intorno alle cabine, a spezzare con i gesti una sorta di malinconica conclusione difficile da accettare.
Ulisse si fermò e guardò il mare, poi guardò Lorenzo e infine ancora il mare. E quando cominciò a
piangere tutto parve come fosse giusto così, le sue lacrime scivolarono sull’aria vicino alle sdraio impilate
e ai secchi rovesciati sul tavolo, un panorama completo, la cosa più simile alla perfezione che avessi mai
visto. E così piangendo, Ulisse si voltò a guardarmi e di colpo in quel panorama c’ero anche io a renderlo
completo.
“E anche per quest’anno è andata - diceva - oh tu stagione effimera, doni forza e poi la togli” e questa
anima poetica non gliel’avevo mai vista addosso, così sorrisi e Ulisse si fermò. Il silenzio intorno divenne
leggero e, quando Lorenzo si mosse, spezzò qualcosa che pareva indistruttibile e io stesso restai in bilico,
senza sapere se respirare o sospirare. Poi entrambi iniziarono a ridere e Ulisse con il dorso della mano
si asciugò quegli occhi umidi di bagnino che aveva, “sempre così devi fare, padre mio”, disse Lorenzo
alzandosi, “che poi tra pochi mesi quelle mani già ritornano qui a decidere la mappa degli ombrelloni per la
nuova stagione”, e si capiva che era vero e che quel figlio conosceva a memoria quella routine di nostalgia
ed esplosione che suo padre gli aveva insegnato. Si fece forza, Ulisse, e si appoggiò alle parole del figlio e
anche alla sua mano, ché quella voce parlava con parole che lui stesso gli aveva insegnato.
Quando Ulisse aprì l’acqua la pompa tornò a fare rumore e le sdraio divennero lucide, pronte come le
altre a fare acrobazie simmetriche e speciali. Sorge il sole ogni mattina, sul mare di settembre, Ulisse non
dimentica, non lo dimenticherà.
NOEMI MILANI
@NoeMilani
IL TWEET
Fede è credere che uno sconosciuto voglia salvarci. #wehaveadream
#fede
IL RACCONTO
La lumaca di Porta Palazzo
“Credere permette agli uomini di esistere?” Aveva chiesto il professore alla classe. “Pensateci su e ne
riparleremo.”
Anna camminava per il mercato di Porta Palazzo chiedendosi se davvero la fede fosse così importante.
Erano passati tre giorni dalla lezione di filosofia e ancora non aveva trovato una risposta al quesito
dell’insegnante. Non basta pensare per poter esistere? Secondo Cartesio sì. Per Platone si esiste solo
per volere di un ente superiore. Aristotele, Agostino, Tommaso non fanno altro che ripetere la nostra
dipendenza da un’immagine perfetta di cui siamo solo il riflesso incompleto.
Anna era confusa. In cosa aveva fede? Non nel cristianesimo e nemmeno nelle altre religioni monoteiste,
l’aveva deciso da anni ormai. Nel Karma un pochino ci credeva perché solleva sapere che se si fa del bene
se ne riceve altro in cambio e poi la fisica non dice qualcosa di simile? A ogni azione risponde una reazione
uguale e contraria. I tarocchi l’affascinavano e l’oroscopo la incuriosiva, ma non ci credeva davvero.
Aveva fede in un futuro migliore? Forse, in realtà sì. Aveva solo vent’anni ed era certa che un giorno tutto
sarebbe andato meglio: la crisi economica risolta da qualche giovane economista, al governo una nuova
classe politica, l’inquinamento abbassato a livelli preindustriali.
Nella giustizia? Beh, in quella non tanto. Anna non credeva nella giustizia dei tribunali, troppo spesso
le pene non erano proporzionate al delitto, la pena di morte la indignava e il problema delle carceri
sovraffollate la intristiva, però aveva vent’anni e credeva nel cambiamento.
Il miglioramento, ecco qualcosa in cui Anna aveva fede. Ci credeva davvero, tuttavia non aveva ancora ben
chiaro come ciò sarebbe potuto avvenire.
Una rivoluzione? Anna si augurava di no, le guerre non le piacevano. Mentre si faceva tutte queste
domande, Anna camminava lentamente tra le bancarelle del mercato di Porta Palazzo. La luce bianca di un
mezzogiorno nuvoloso inondava la merce esposta, il vento trasportava l’odore acre del pesce, le grida dei
venditori si mischiavano alle chiacchiere dei passanti, ma Anna era così concentrata a cercare una risposta
che attraversava tutto ciò senza vederlo.
-Pesce fresco, pesce freschissimo!- Anna sussultò al grido di un venditore, una signora le tagliò la strada per
avvicinarsi al banco.
Negli altri bisogna avere fede? Si domandò Anna pensando alla moltitudine di esseri umani che la
circondava nel mercato. Se la massaia non credesse al pescivendolo, non comprerebbe al suo banco. Però
la fede nel venditore era basata su una prova tangibile: la qualità del prodotto.
Si deve credere negli altri anche senza prove? Anna credeva che un economista potesse risolvere la crisi
economica, quindi perché non credere anche in altri? Cristo, Maometto e Budda erano uomini e migliaia di
persone hanno creduto in loro quando erano in vita. Certo, ora che sono morti hanno ancora più fedeli.
Allora bisognava avere fede nei morti? No, a che scopo? I morti non fanno niente a meno che siano figli o
profeti di Dio.
Pile di fagioli ancora nel baccello, olive di un verde splendente, funghi posati in letti di foglie, lumache con
le cornette ritte che strisciavano le une sulle altre intrappolate in sacchi di rete. Anna le vide e si fermò. I
piccoli invertebrati, ignari della loro triste sorte, si movevano lenti nel poco spazio a loro disponibile. Anna
si avvicinò al banco per osservare gli animaletti, alcuni avevano il guscio marrone, altri biancastro come una
conchiglia, i loro corpicini umidi si allungavano per lo sforzo ogni volta che muovevano un passo.
A cosa credono le lumache? Forse a una divinità che le rispecchi, un grande lumacone onnisciente che non
rischierà mai di finire in pentola.
Anna sfiorò il guscio freddo di una lumachina, chissà se era cosciente del suo destino? Probabilmente no,
come poteva sapere che era nata in un allevamento per essere poi venduta e mangiata? Se lo avesse
capito, questa povera lumachina non avrebbe cercato una via di fuga? Avrebbe tentato di scappare
dall’allevamento strisciando sul suo corpicino e poi, accortasi della propria piccolezza davanti al destino,
si sarebbe affidata a un’entità superiore, al suo divino lumacone, l’unico che l’avrebbe potuta salvare.
La divinità lumaca infatti, per sua stessa definizione, doveva essere dotata di poteri superiori a quelli di
qualsiasi altro mollusco.
Esiste un altro essere capace di salvare la lumachina?
Anna si guardò attorno, il fruttivendolo stava discutendo animatamente con una cliente sul prezzo dei
fagioli. Nessuno la vide sollevare dal mucchio la lumachina che aveva carezzato e mettersela in tasca.
Esisteva un essere capace di salvare la lumachina, non grazie a poteri straordinari, ma per volontà mossa
dal sentimento di pietas, d’amore verso il prossimo.
Se la lumachina, fin dall’inizio, avesse avuto fede in uno sconosciuto che la volesse salvare?
Anna si avvicinò a uno spazio erboso, prese la lumaca dalla tasca e la posò a terra. L’animaletto strisciò sui
ciuffi d’erba muovendo le cornette qua e là. Anna le fece un cenno, si alzò e proseguì per la sua strada.
Se non avesse creduto in una via verso la salvezza, come avrebbe potuto vivere fino a quel momento la
povera lumachina?
Anna era giunta alla risposta: la fede, sia essa in una divinità o in uno sconosciuto che decide di salvarci,
permette di esistere.
VINCENZA IOVINELLA
@vickyiovinella
IL TWEET
Cedere il posto all’anziano che racconta l’anima della città, ti fa piangere tutte le lacrime della libertà di
abbandonarla. #wehaveadream #libertà
IL RACCONTO
Allontanarsi dalla linea gialla
Queste mattonelle, lastricate di corse feriali e addii festivi, non mi sono mai apparse più sconnesse. Eppure
continuo a camminare per inerzia. Il corpo conosce, meglio di chiunque altro, buche e avvallamenti del
percorso e lascia libera la mente.
La #libertà è il mio tormento. Libertà di cambiare rotta, di lasciar partire le navi in totale assenza di vento,
libertà di abbandonare il sentiero, di voltare tutte le pagine fino alla quarta di copertina.
Libertà di modificare il titolo sul dorsetto e riscrivere il libro per intero, fin dal principio. Quanta fatica del
cuore mi costerà lasciare su quest’asfalto tutti quei pezzi che sono ancora in vita – penso. Non ho mai creduto
che si vivesse più leggeri senza il peso degli affetti. Ho conosciuto il dolore della perdita imposta e quasi mi
rifiuto di ammettere la possibilità di una perdita inflitta, pianificata. In parte desiderata.
Quanto entusiasmo per il futuro a venire. Quanta angoscia per quello altrui a cui si sta per rinunciare.
Ogni ruolo richiesto o naturalmente ottenuto s’infrange in una valanga di ore d’attesa, d’impotenza, di
lontananza. Appare sempre inconcepibile quella forma di vita nuova che ci costringe, per
rinascere, a stare a guardare mentre un po’ della sua essenza muore.
La metro è stracolma come sempre e sono finita, mio malgrado, a guardare le mie scarpe rosse a distanza
ravvicinata. Sedersi è una condizione ambita, in questo caos. Eppure riesco a ottenerla sempre quando non mi
sforzo di raggiungerla, appunto nel memorandum delle piccole leggi della vita.
Il passaggio dalle mie alle sue, di scarpe, mi sembra un raccordo perfetto.
Non mi ero neanche accorta fosse lì e lo guardo assorto nel mio stesso metodo di raccoglimento ‘Non
ho niente che possa valere la pena perdere – sembra pensare – fuorché questi piedi e queste scarpe. Niente
che possa procurarmi la pena della resa. Cosa vuoi che sia un giorno in meno se smetti di contarli?’. Il suo volto
comunica in un’espressione muta, scolpita dai dissapori e dalla malnutrizione.
‘Si vuole sedere’ – penso tra me. ‘Si vuole sedere?’ – grido nel rumore.
Lui si guarda intorno per un momento e poi s’illumina.
‘Io vado sempre a piedi tutti i giorni, da casa mia alla metropolitana. Vado a Mergellina. Pure se gli occhi non mi
funzionano tanto bene, lo posso sentire con il naso e pure con le orecchie.’
‘Cosa?’ – gli chiedo io.
‘O’ mare’ ‘Io mi sono innamorato due volte nella mia vita, signurì. Quando ho conosciuto mia moglie, che adesso
non c’è più, e quando ho visto per la prima volta il mare.
Sorrido perché la riconosco, questa storia. È così che questa città ti frega. Ti costringe a sapere ogni
segreto, a riconoscere ogni angolo buio, a stare alla larga da ogni faccia storta, a fare il callo alla paura e poi
ti mostra il mare. E tu le perdoni ogni tradimento, anche solo per quel momento.
‘Successe anche a me. Quando mi capitò di svegliarmi in città. È una bella sensazione, quasi inspiegabile.’
‘E come lo spiegate, signurì? – mi richiama – Certe cose mica si spiegano? Che pure se uno le spiega, l’altro
mica le capisce? Io pure mi sono innamorato come voi, guardando il mare a prima mattina. Ma per me era
diverso. Io non stavo qua. Io stavo in Germania.
Ci sono andato perché ci dovevo andare. Qua non ci stava niente e io tenevo già due figli.
Ci sono andato, si, ma senza voglia. Ho lavorato, eh se ho lavorato! Però non mi riuscivo a rassegnare. Si poteva
bere ma vi restava la sete, non so se mi capite.
Mi credete se ve lo dico? Io così ho capito che dovevo tornare, perché mi svegliavo e quando aprivo gli occhi
vedevo il mare. Mia moglie diceva che ero pazzo. Ma poi qua non mi è successo più. Come mai secondo voi?
Uno il cuore lo lascia dove lo lascia. Fa finta di dimenticare dove lo mette ma quello glielo ricorda e dice
“vienimi a prendere, io sto qua, vicino al mare“’.
Faccio fatica a trattenermi. Cedere il posto all’anziano che racconta l’anima della città, ti fa piangere tutte
le lacrime della libertà di abbandonarla. Abbasso lo sguardo. Le scarpe mi sembrano scomparse proprio
adesso che le cerco per nascondermi.
Deve aver capito perché mi tocca la spalla. Si è alzato. È arrivato alla sua fermata.
La mia è già passata da un pezzo.
‘Non vi preoccupate, signurì, a voi non vi succede. Voi sapete da dove venite. E quando ve ne andate voi, vi
portate appresso pure il mare’.
C’è una nuova macchia sulla sua scarpa destra ma lui non ci fa nemmeno caso e io sono incapace di
seguire oltre, con lo sguardo, la sua figura che si allontana. Decido di scendere alla fermata successiva.
Dovrò prendere un’altra corsa, andare in un’altra direzione, cercare un’altra coincidenza.
Dovrò varcare la soglia. Farmi coraggio. Muovere il primo passo.
Allontanarsi dalla linea gialla.
Attendere il treno, camminando a un altro ritmo. Quello che ti danno le scarpe di chi appartiene al mare.
CRISTINA LI CAVOLI
@Crili83
IL TWEET
Disegno la libertà cancellando barriere e catene, sfumando colori diversi, creando vortici interconnessi
#wehaveadream #libertà
IL RACCONTO
Compagne di banco
Dice “non voglio andare”, ma le sue parole si perdono nella routine mattutina. Lunedì, martedì, mercoledì,
i risvegli di Giulia sono sempre gli stessi: trauma, sottomissione, meccanicità. Le prime urla arrivano dalla
cucina “Colazione pronta!”, continuano in bagno “Lava bene faccia e denti”, continuano nuovamente nella
stanza da letto “Hai messo tutto nello zaino? Ricordati la merenda” e finisce sulla soglia di casa “Andiamo
che è tardi!”. E poi c’è la scuola, i rientri pomeridiani il martedì e il giovedì, le lezioni di danza il mercoledì
e il venerdì, di pianoforte il sabato, d’inglese il lunedì, il coro la domenica e la piscina la sera. Da non
dimenticare i compiti e le ripetizioni di matematica. Una vita frenetica, occidentale. Giulia ride e porta sulle
spalle il peso del suo zainetto pieno di raccomandazione e aspettative.
Dice “non voglio andare” e spesso il suo desiderio è esaudito, ma oggi no.
Lunedì, martedì, mercoledì, i risvegli di Sania sono esperienze sensoriali: rumori, odori, percezioni. Urla
esterne senza sosta; quelle interne in ogni stanza: mormorii nella stanza da letto “Fai attenzione quando ti
muovi”, dialoghi incomprensibili in cucina “Solo oggi andare, domani mercato”, liti davanti al bagno “Ci sono
prima io!” e infine per le scale “Sbrigati che perdi l’autobus”. E poi c’è la scuola, i corsi di recupero il martedì
e il giovedì – disertati puntualmente – il mercato il lunedì, il mercoledì e il venerdì e il negozio dello zio il
martedì e il giovedì, il sabato e la domenica variano a seconda delle esigenze familiari. Una vita frenetica,
orientale. Sania sorride e porta una borsa piena di raccomandazioni e sacrifici.
Giulia e Sania sono in classe, stessa età, stesso banco. Non hanno scelto di sedersi vicine, è stata la maestra
a decidere per loro. Parlano poco, non conoscono le loro vite, ma in quel momento sono fisicamente
nello stesso luogo, fianco a fianco: si guardano, ridono e disegnano. Sania ha matite e gomme speciali,
Giulia ha quaderni e portacolori magici. Strappano i fogli, tirano fuori i pennarelli e i pastelli, condividono
le matite e le gomme. Quello spazio che fino a poco tempo prima era ordinato, limitato, si trasforma
in un campo senza confini, caotico. “A me piace disegnare” dice Sania, “a me piace colorare” dice Giulia.
“Disegniamo insieme?” chiede Sania alla sua compagna di banco e senza aspettare la risposta crea vortici
interconnessi. Giulia ride divertita da quel movimento fluido e inizia il suo lavoro sfumando colori diversi. Si
avvicinano e si respingono, si chiedono scusa e continuano a divertirsi. Non si conoscono, probabilmente
non usciranno mai insieme dopo la scuola, non saranno mai migliori amiche e continueranno a trascorrere
le giornate ognuna nella propria normalità. Adesso disegnano e colorano, cancellando barriere fisiche e
catene sociali; poi ritornerà tutto al proprio posto: pennarelli e pastelli nel portacolori, quaderni nello
zaino, matite e gomme nella borsa.
“Cosa disegni Sania? E tu Giulia?” chiede la maestra, le bambine si lancino sguardi complici, Giulia risponde
senza esitare “la libertà” e Sania ribadisce: “disegno la libertà”.
ANGELA DI SALVO
@anysputnik
IL TWEET
libertà è il concetto più astratto dell’umano che interposto tra due parole vita/morte ci consente di dire
#wehaveadream #libertà
IL RACCONTO
L’incantesimo della libertà ci ha reso invisibili
Non impiegò più di venti secondi per prendere le sue cose, sbattere la porta, infilare il lungo corridoio e
allontanarsi da lì a passo svelto. Arrivata al portone per abitudine svoltò a sinistra e continuò a camminare
con la determinazione di chi sa dove sta andando.
In realtà lei sapeva solo che niente l’avrebbe più riportata a quella penombra, a quelle perenni luci
elettriche e a quelle interminabili discussioni imbastite su strategie sofisticate e tattiche demenziali che
detestava e alle quali era costretta a partecipare, con l’aggravante del ruolo insignificante e subalterno della
segretaria che quando offre la soluzione a un problema, lo deve fare con un gioco alchemico e lasciare la
constatazione della trasmutazione ad altri.
Nelle vene sentiva ancora un sovraccarico di adrenalina e di rabbia, quel giorno la sua vita avrebbe fatto
ancora un giro a trecentosessanta gradi, tornando al grado zero, che nella vita reale non ha lo stesso
valore immutabile dei numeri e quel grado zero diventava sempre più simile a un insignificante puntino. La
consapevolezza che questo tipo di libertà si paga, le veniva dall’esperienza.
Ma poi il ricordo dell’espressione attonita e ottusa del suo capo mentre ascoltava le sue taglienti parole
dette con spietato garbo, in punta di piedi, ma inesorabili, le strappò una risata. Non si era preparata
niente e il motivo scatenante era stato uno dei soliti insulsi commenti che lui era solito fare ai fatti del
giorno mentre sfogliava il giornale. Era stata un’improvvisazione la sua, nata nell’ ordinarietà della stanza che
condividevano in quel momento come un tornado che apparentemente aveva lasciato tutto al suo posto,
solo il fragoroso rumore di una porta che sbatte. Ma non per lei.
Senza rendersene conto era arrivata nel territorio del diavolo così usava definirlo con le sue amiche
quando si davano appuntamento per la pausa pranzo: un minuscolo giardinetto urbano con le panchine,
due imponenti platani e tutto il traffico rumoroso come contorno. Sedette sulla prima panchina che le
capitò di incrociare ai piedi della quale qualcuno aveva sparso del riso e c’era un grande affollamento
di piccioni, reclinò la testa e abbandonò lo sguardo tra le foglie giovani del platano, brillanti come solo a
primavera possono essere in città. I piccioni non la smettevano di creare un certo trambusto attorno ai
suoi piedi, come sanno fare loro: veloci nel raccogliere il bottino, mai veramente spaventati dalla presenza
di un umano ma pronti a cambiare posizione. In quel posto li aveva visti sempre, ma solo quella mattina
guardandoli si chiese perché mai si ostinassero a vivere negli spazi residui di una città. Improvvisamente
la domanda nella sua mente prese proporzioni bibliche, le vennero in mente i gabbiani e poi i tordi e
poi ancora un gruppo di pavoni allevati in una loggetta di un palazzo famoso e che l’abitavano come ne
fossero gli unici proprietari.
Ricacciò indietro quei pensieri e quella banale quanto vera risposta che le era balenata per un secondo
che finiva per accomunare tutto il vivente alla dura legge della sopravvivenza. Non era la giornata giusta
per domande del genere e distolse lo sguardo dai piccioni.
Fu in quel momento che la notò. Seduta su una panchina all’altro estremo del giardino c’era una donna
che si alzava e sedeva tutta presa da una conversazione fatta ad alta voce, ma era sola, con una serie di
buste di plastica piene che la circondavano e che aveva disposto con un certo ordine davanti a sé. Era
difficile darle un’età, sprofondata sotto una stratificazione di abiti e di un enorme cappello di lana. Una
delle tante donne solitarie, perse in una città che le guarda senza vederle e che non ne comprende i
soliloqui deliranti di tante guerre perse, pensò mentre notava il gesto elegante ma ossessivo con cui si
sistemava il cappello troppo grande. Le sembrò che quella donna cercasse di trattenere accuratamente in
quel cappello qualcosa di importante, forse tutti i fantasmi di una vita. Rimase a guardarla con uno sguardo
sempre più cupo poi si alzò con uno scatto improvviso che mise in fuga i piccioni e inaspettatamente disse
a voce alta: “I tuoi fantasmi Donna sento che potrebbero essere i miei”. Si spaventò di quello che aveva
appena fatto, ma l’altra continuava a parlare gesticolando alle sue buste, né dimostrava di averla sentirla,
poi lentamente alzò lo sguardo e la fissò con uno sguardo lucido e penetrante. Avrebbe giurato di averla
sentita esattamente la frase che accompagnò quello sguardo, le suonò come un ordine, si girò e si diresse
nuovamente verso la strada, ma in un’altra direzione.
OMBRETTA PIANA
@19op
IL TWEET
Ho respirato davvero Libertà, quando mi hai abbracciato senza chiedermi niente e raccontandomi tutto.
Libertà...#wehaveadream #libertà
IL RACCONTO
Un mondo senza confini
Le porte del “London Heathrow Airport” si aprirono repentinamente e un’aria frizzantina le schiaffeggiò
affettuosamente il viso scarmigliandole capelli. Fu questione di un attimo, giusto il tempo di ritrovare
il proprio baricentro. A quel punto Sharima alzò lo sguardo e tra la moltitudine di persone in attesa
al gate 27 – arrivi da Baghdad – riconobbe immediatamente Kim che, a sua volta, le corse incontro. Si
abbracciarono senza chiedersi nulla, ma raccontandosi tutto. Sharima era così entusiasta ed emozionata
che dovette socchiudere gli occhi e respirare a fondo. Solo allora realizzò che non si era mai sentita così
libera.
Si trovava a Londra per incontrare una delle registe più conosciute del momento, persona che lei stimava
infinitamente. Inoltre, aveva appena conosciuto la sua migliore amica, una ragazza che si era rivelata un
sincero aiuto e un caro affetto nelle situazioni più strane e grottesche della sua esistenza, ma che fino a
qualche secondo prima, non era altro che un puntino lampeggiante sullo schermo di un computer. Le
era già sembrato sconcertante riuscire a sopravvivere alla guerra, ma in quel momento si sentiva così
piacevolmente frastornata, che le pareva di esser appena scesa dalla macchina del tempo.
Tutto ciò che le stava accadendo era iniziato in maniera sorprendente. Alla riapertura delle università a
Baghdad, dopo il periodo di guerra in Iraq, Sharima riprese gli studi, determinata più che mai a laurearsi
in Storia Contemporanea. Adorava la materia, ed era alla continua ricerca di materiali interessanti. Fu per
questo che un giorno, seduta ad uno di quei cyber café che da qualche tempo popolavano i quartieri
della sua città, si perse a leggere informazioni su di un blog concernente la vita e la produzione di quella
regista che aveva già prodotto svariati documentari e due bellissimi film a fondo storico che, naturalmente,
Sharima era riuscita a non perdere.
Sulla pagina web, vi era l’opportunità di postare un commento o di scrivere un messaggio all’autore. Fu
così che Sharima preparò il suo testo in un inglese quasi perfetto e lo spedì. Qualche giorno dopo, seduta
allo stesso caffè, accese il PC e trovò la risposta, una risposta così dettagliata da farle credere che stesse
parlando con la regista in persona. Strabuzzò gli occhi e sentì il cuore smettere di battere fino al momento
della rielaborazione della sua profonda emozione. Per questo rilesse attentamente e rispose, a sua volta,
con una certa immediatezza. Solo al messaggio successivo, Sharima realizzò che non stava chiacchierando
con il personaggio pubblico che tanto ammirava, ma con una delle sue fans, fanatica quanto lei e patita
di storia, una ragazza europea che aveva aperto un blog per specialisti e appassionati. La delusione per
l’accaduto lasciò immediatamente spazio alla comicità della situazione.
Ripensando all’avvenimento, ancora ridono gli occhi di Sharima dietro i suoi occhiali da sole occidentali,
mentre ammira il profilo della capitale britannica disegnarsi all’orizzonte. Anche Kim ama ricordare quello
strambo qui pro quo, perché è il luogo in cui è nata la loro amicizia. Un territorio senza confini né barriere
al quale si accede tramite il “pass” della complicità.
A partire da quel buffo episodio iniziò una fitta corrispondenza fatta di mail intrise di silenzi e cariche di
parole che volavano oltre i fusi orari. Inafferrabili, attraversavano gli ultimi check-point presidiati da soldati
americani, solcavano il deserto e si perdevano tra cielo e mare per raggiungere la loro destinazione.
Sharima amava raccontare il suo mondo a Kim perché Kim l’ascoltava, senza chiedere né più, né meno di
ciò che Sharima scriveva. La stranezza stava nel fatto che era proprio Sharima quella abituata ad ascoltare,
tanto che aveva quasi scordato la piacevole sensazione di essere accolta e di volersi rivelare senza
difendersi. Rivivere quella sensazione riempì di umanità la vita apparentemente normale della giovane
bagadese. Erano semplici mail dove Sharima, però, poteva finalmente narrare una città viva e vivace. Nelle
sue lettere il parco Zawra era di nuovo affollato da giovani e bambini che camminavano senza più temere
attentati terroristici; il mercato di Soha, Al-Obeïdi nel quartiere di Mansour pullulava di prodotti moderni
ed occidentali come i cellulari all’ultimo grido o qualche i-pod. Anche i cyber café ora erano presenti nel
numero di tre o quattro in ogni quartiere ed era solo un avventuroso ricordo quello che la riportava alle
ore di cammino su sentieri inesistenti, dopo il coprifuoco, per raggiungere un Internet Point.
La paura delle bombe? Certo. Ma quel timore non era nulla di fronte al rischio di poter vivere.
Vedendo Londra per la prima volta, Sharima realizza che a Baghdad possa esserci posto per tutto
attualmente, persino per la voglia di diventare occidentali, ma dopo aver conosciuto Kim, è anche convinta
che questi confini entro cui qualcuno ci colloca non esistano.
Proprio in quell’istante, le due ragazze escono dalla stazione metropolitana di Kensignton Garden e si
incamminano verso la vicina sala congressi.
Arrivano giusto in tempo per ammirare Mia Heley mentre sale le scale e si volta a salutare i suoi fans
prima di inabissarsi tra la folla di reporter che la circonda. A Kim e Sharima, contente ed esterrefatte, non
resta che entrare e vivere insieme questa ennesima bella avventura. La vita.
FEDERICA BETTI
@decodificare
IL TWEET
La speranza è energia proiettata al futuro, la perseveranza al presente. Sperare e perseverare significa
inpegnarsi a vivere. #wehaveadream #speranza
IL RACCONTO
All’alba di una svolta
Oggi mi sono svegliata con un’idea fissa, strampalata, ma fissa.
Voglio un deodorante per ambiente.
Non ci sarebbe nulla di strano se non fosse che è il primo desiderio di senso compiuto capace di
insinuarsi inaspettatamente nell’automatismo artificiale della mia routine quotidiana, in quella scansione
monocorde che però da settimane mi permette di rimanere a galla.
Un deodorante per ambiente: non lo desidero, non ne ho necessità né urgenza, semplicemente lo voglio.
Chiudo la porta dietro di me, non prima di voltare inevitabilmente il viso indietro per una frazione di
secondo, giusto il tempo di accogliere l’eco di un mancato saluto e di riascoltarne mentalmente un altro,
quello che fino a qualche settimana fa mi accompagnava fin sulla soglia dell’ascensore. E così questo Vuoto
prepotente mi assale, e così questo pianerottolo assume le sembianze di sabbie mobili.
Inchiodata nell’angolo di una fredda panchina piantata in una girandola di negozi, stringo in mano l’oggetto
delle mie ricerche. Siamo soli io e lui, io e il mio deodorante per ambiente. Mi prende una rabbia furiosa
e un’altrettanta furiosa frustrazione nel pensare alla grande beffa che da sola inconsapevolmente avevo
ordito contro me stessa, la convinzione che un inutile prodotto commerciale avrebbe potuto cambiare le
cose, che solo l’atto di comprarlo mi avrebbe fatto stare meglio. Ora cosa me ne faccio di questo stupido
oggetto?
“Potresti iniziare con il metterlo sul tavolo o su una libreria...”.
Non mi ero accorta della coppia carica di buste seduta accanto a me, né avevo voglia di essere disturbata.
“scusi?” Non mi era sembrato di aver parlato ad alta voce.
“Dicevo che la sistemazione ottimale è il salone. Hai fatto proprio bene a comprarlo, d’altronde si
comincia sempre dalle piccole cose”.
Ha colto nel segno. Ma io non ho voglia di ricominciare, né dalle grandi né dalle piccole cose perché c’è
qualcosa che mi trattiene e che mi tira indietro, o meglio, è l’assenza di qualcosa, di quella speranza che mi
ha portato negli ultimi mesi a lottare e resistere. Ecco di nuovo il vuoto, ecco di nuovo la perdita.
“A volte è difficile”. Non avrei voluto rispondere ma c’è qualcosa nello sguardo di quest’uomo che mi ha
reso impossibile non farlo. È una trasparenza, una luce eterea di chi guarda al futuro con slancio, di chi
crede in quel futuro indipendentemente da tutto e di chi rende tale luce energia.
“Lo so”, risponde lui soprattutto ai miei pensieri “ora pensi di averla persa, in realtà semplicemente non
la vedi. La vita cambia di continuo nel suo vorticoso sali e scendi e lei a volte si nasconde dietro i muri
eretti dalle insidie; ogni tanto però fa capolino perché sa di non poterti abbandonare e quando meno
te lo aspetti, lei ti si riaccosta come una vecchia amica. Sta a te riplasmarla, prenderla sottobraccio e
trasformarla in energia da proiettare al futuro. Negarsi la speranza significa condannarsi al qui e all’ora,
significa ridurre il futuro a sterile sommatoria di giorni presenti”.
“La fai un po’ riduttiva”, si intromette la donna finora rimasta in disparte.
Tanto luminoso lo sguardo di lui tanto di brace lo sguardo di lei. “Ci fai poco con la speranza se ti manca la
perseveranza, cemento di qualsiasi progetto di vita. Se non si persevera, se non ci si impegna ogni giorno
con azioni concrete, la speranza da sola non basta, la rendi fuoco fatuo e riduci il futuro a nube dorata,
tanto sfavillante quanto inconsistente”.
Se solo sapessero lo sforzo che faccio per mantenermi viva, non parlerebbero così.
Lei ancora una volta intercetta i miei pensieri, gli occhi ancora più penetranti “pensi che sia facile vivere?
pensi che significhi limitarsi a respirare e muoversi? vivere è un impegno Federica, bisogna impegnarsi a
vivere”.
Mi giro di scatto per rispondere ma sono spariti, neanche il tempo di chiedere il perché sapessero il mio
nome.
Torno a casa con la bustina nelle mani, ha un peso diverso ora.
Posiziono il deodorante esattamente al centro di quel tavolino di vetro davanti al televisore. La lastra
circolare lo accoglie, e lui è lì, solo al suo centro, ergersi con una fierezza discordante dalla sua natura
voluttuaria.
Eppure è proprio tale contrasto a nobilitare l’oggetto, reso ancora più piccolo rispetto al tavolo; ancora
più piccolo rispetto alla libreria in mogano che lo osserva severa dall’alto; puntino infinitesimale rispetto al
salone in penombra su cui galleggia denso quel silenzio carico dei mille suoni che ci sono stati.
Eppure a dispetto di tutto lui troneggia fiero perché sa di essere il primo. Il primo oggetto nuovo entrato
in casa.
Ora non mi sembra più uno stupido deodorante per ambiente.
Senza saperlo sto riponendo in quell’insignificante suppellettile tutte le mie speranze: quella di cancellare
profumi passati e immetterne altri nuovi, quella di apportare novità a questa casa troppo vuota eppure
troppo piena, quella di ricominciare da piccole cose, ma pur sempre ricominciare.
Lui rappresenta l’innesto per la ridefinizione della mia speranza.
Lo guardo meglio, e mi accorgo che forse accanto ci starebbe bene quell’ orso in porcellana che avevo
visto mesi addietro.
Potrei comprarlo domani e renderlo fiero di essere il secondo oggetto nuovo entrato in casa.
Le parole della coppia mi risuonano nelle orecchie come echi ovattati e capisco: oggi ho compiuto la
prima azione per impegnarmi a vivere.
Inaspettatamente, sorrido.
SARA MARIA SERAFINI
@serrenett
IL TWEET
Speranza di occhi che guardano il mondo per lacrimare lacrime piene. Lacrime che diano da bere. Alla
terra, agli uomini. #wehaveadream #speranza
IL RACCONTO
Billie Cristal
A Billie Cristal il salto mortale con lo skateboard non era mai riuscito.
Mai in vita sua che, dal punto di vista di un bambino di dieci anni, può essere un tempo corto o
lunghissimo.
Tom Lay se ne sta alla fine della discesa con le braccia intrecciate a fatica su quella cavolo di pancia piena
di merendine rubate alla ricreazione. Billie ha smesso di portarsele, tanto non riesce mai a mangiarne una.
Il dosso sterrato visto da lì è alto come una montagna, Billie ingoia la saliva un paio di volte prima di
riuscire a liberare la bocca.
- Allora cagasotto, noi alle sette si torna a casa. Ci vuole molto?
Tom ha una voce roca, che sembra arrivare da un’altra città. I quattro amici sfigati che si è portato dietro
gli fanno coro, fanno degli strani gesti con le mani, a ogni sua mossa si agitano.
Stavolta in palio c’è molto di più di una merendina.
Rebeca Stanford si tiene in disparte. Al riparo, tra le gonne colorate delle sue amiche del cuore. Li guarda
schifata, ma le femmine le questioni d’onore non le capiscono mai. Un po’ abbassa lo sguardo, un po’ si
tocca i capelli. Ha già tutto quello che le serve per diventare una vera stronza.
Eppure, è la ragione per cui Billie ha sfidato Tom a fare il salto.
Se la contendevano da mesi. Lei ovviamente all’oscuro di tutto.
E poi Tom aveva insistito che lui era troppo cagasotto per invitarla a uscire.
Che non sapeva fare neanche il salto. Che non era un uomo. L’aveva guardato fisso negli occhi e aveva
detto che se si lanciava giù col suo skateboard, lui lasciava stare.
Billie guarda la tavola di legno sotto ai suoi piedi. Raffigura un ragazzo più ganzo di lui che salta un muretto
riuscendo a tenersi in equilibrio senza nemmeno usare le mani. La superficie, un tempo liscia, ha perso
graffi di colore qua e là.
- Se mi spaccherò la faccia, almeno spero di farlo bene.
Immagina Rebeca raccontare alle amiche di loro due al cinema, al buio. A pensare di poter fare cose da
grandi, senza averne il coraggio.
Chiude gli occhi e vede la sala, con le poltroncine rosse di velluto e quel silenzio intorno che sembra
di fumo. Vede lui seduto e Rebeca che fa quella cosa che fa sempre. Scivolare. Lei non cammina, scivola.
Quando sono a scuola, non gli passa davvero davanti. Lei scivola. E anche questa volta, non si siede accanto
a lui sulla poltroncina rossa, ma scivola.
Billie apre gli occhi e guarda verso Rebeca. Lei incrocia le sue iridi scure e per un attimo abbandona il suo
piglio da snob elitaria e abbassa la testa. Forse, da qualche parte nel suo piccolo cervello, sa che un suo si
non vale la testa di Billie.
Ormai è fatta.
Billie appoggia il piede destro sullo skateboard e pulisce la suola dell’altro sul bordo, con cura. Come se
fosse a conoscenza di qualche formula fisica per cui dall’attrito di quella suola dipendesse tutto.
Forse, prende solo tempo.
Ma di tempo, adesso, non ne ha più.
Ingoia l’ultimo ristagno di saliva. Ha un gusto strano. Amaro. Sa già di terra rossa. Poi si dà una spinta col
piede a terra e parte.
Billie Cristal oggi ha 38 anni.
È un avvocato in piedi su una scesa sterrata. Se ne sta lì, fermo, in giacca e cravatta.
Quando torna da quelle parti, deve raggiungere quel posto a ristabilire gli equilibri. Quella è stata la prima
volta che ha chiuso gli occhi e si è lanciato.
La prima volta, di una lunga serie. Quando torna in quel posto si ricorda di com’è prendere una decisione.
Anche contro voglia. Com’è non riuscire nell’obiettivo e comunque essere fieri di se stessi, continuare a
credere. Si ricorda di quel dente scheggiato che ancora se ci passa la lingua riconosce chiaramente.
Quand’era piccolo con gli alberi ci parlava. Quando ci passava davanti li salutava con riverenza. Ora è
fermo sotto la loro fronda ombrosa. Al riparo dal sole di un caldo pomeriggio di giugno.
Sua moglie è a gridare e a maledirlo mentre cerca di dare alla luce il loro primogenito, in un ospedale a
neanche trenta chilometri da lì. Se chiude gli occhi e si concentra, la voce spezzata di quelle urla infrange la
barriera di rami e foglie e lo colpisce dritto al cuore.
Sua moglie spera che gli occhi del mondo guarderanno suo figlio proprio come lo guarda lei ora.
Vuole per lui carezze d’ovatta e lacrime piene. Cadute rotonde, acqua da bere.
Sua moglie è cento Rebeca Stanford messe insieme. Cento occhi verdi, cento labbra disegnate, cento
gonne corte a quadretti che scoprono le cosce.
E suo figlio riuscirà a fare il salto col suo vecchio skateboard.
Ci sono le cose in cui uno può avere fiducia e quelle che invece si sanno per certo.
Questa Billie Cristal la sa.
ILARIA DANESI
@Strandedmood
IL TWEET
Sperare è umano, illudere è diabolico #wehaveadream #speranza
IL RACCONTO
Celso e l’usignolo
“Dai su, questo è l’ultimo sforzo!”.
Dopo ore di cammino, fradicia di sudore, paonazza e con il fiato corto quelle parole le risuonavano in
testa. Le sporadiche frequentazioni di Mira con le palestre le erano bastate per capire il grande bluff. Un
insegnante di aerobica ripete sempre quella frase più volte, un paradosso che le pareva tragicamente
comico perfino allora. Quasi sul punto di lasciarsi rotolare giù per la collina accennò un sorriso,
appoggiando tutto il peso del corpo sul bastone di sostegno. Mancavano ancora 10 giorni di cammino,
vesciche, tendiniti e stiramenti più o meno. Per una che si teneva in forma sollevando il telecomando
con una mano e con l’altra si accendeva una sigaretta, aumentare il carico aggiungendo il volume “Ho un
usignolo sulla spalla - il cammino di Celso” non era stata cosa da poco.
Il caso di Mastro Celso aveva fatto il giro del mondo, giornali e tv ne avevano parlato per mesi.
Libri, pubblicazioni, guide di viaggio, app per telefono e tablet, merchandise e memorabilia ai limiti del
verosimile. Perfino un plastico dell’ultimo tratto di Camino, quello dove Celso aveva avuto la rivelazione.
Era passato quasi un anno ma il clamore non si era spento. Di Celso non si sapeva più nulla, si diceva fosse
sparito in qualche eremo in estremo Oriente, assieme all’usignolo.
Quando le gambe o il fiato cedevano, Mira ripercorreva a mente passaggi del libro. L’incredulità con cui il
villaggio di Novos accolse Celso, trafelato, in un pomeriggio cristallino di calura iberica era il suo preferito.
“Non siete al sicuro qui, dovete scappare subito, non c’è tempo da perdere! Presto presto, l’usignolo
vi indicherà la strada. Ma cosa fate ancora lì?” E quasi le sembrava di vederla la faccia della vieja che si
faceva il segno della croce davanti a quel ragazzone sudato, in camicia a fiori, con gli occhi strabuzzati e
l’accento mittleuropeo. Sarebbe stato l’ultimo gesto che la pobrecita avrebbe compiuto. Tutto il villaggio
pensò a un freakettone, ubriaco o fatto, in preda ad allucinazioni. Solo pochi illuminati – divenuti in seguito
fondatori del culto “Celso camina conmigo” - avevano scorto nel giovane metalmeccanico una convinzione
inquietante tale da credere a lui e all’usignolo garrulo che gli svolazzava sopra la testa. Un intero villaggio di
234 anime raso al suolo da una tromba d’aria gigantesca, improvvisa e repentina. Lo sparuto manipolo di
credenti si era salvato rifugiandosi nella grotta fuori il paese, guidati dall’usignolo e da un Celso sempre più
trafelato.
Anche Mira voleva trovare la sua rivelazione, l’usignolo che l’avrebbe guidata lontano dal pericolo della
rassegnazione. Aveva bisogno di speranze a cui aggrapparsi, per trovare l’incredibile nel quotidiano.
Lungo il Camino c’erano fiori, foto dei pellegrini, rosari, cartelli che segnavano i punti in cui era passato
Celso e offerte votive di ogni tipo, dal mangime per uccelli alle camice hawaiane. Mira li guardava con
occhio fiducioso, ora con passo svelto recuperando il fiato in pianura. Era tutto un po’ grottesco, si, lo
sapeva, ma quel culto pop-pagano la divertiva e rassicurava. In migliaia da tutto il mondo si ritrovavano su
quella strada, tutti per ragioni diverse ma in fondo una sola: sperare in qualcosa. Il prossimo ostello non
era distante, la app “Celso by your side” indicava ancora 2,7 km di marcia e per quel giorno Mira pensò che
fosse davvero l’ultimo sforzo.
L’indomani si svegliò con la luce del sole, dopo una sonora dormita che né le risate né il chiacchiericcio
esaltato degli altri pellegrini avevano potuto scalfire. Era riposata e pronta per ripartire. Non accese
nemmeno il telefono e scese diretta al piano di sotto per la colazione: c’era una specie di refettorio,
ricavato in quella che una volta doveva essere la stalla. L’aroma di burro e zucchero invadeva la stanza, su
un grande tavolo rettangolare una distesa di dolci fatti in casa, tartas, churrose pasteles appena sfornati. Mira
inspirò e chiudendo gli occhi le sembrò di rivedere sua nonna, nelle domeniche in cui preparavano insieme
la crostata di frutta - Brava Mira, ora lavora tu l’impasto ma fai attenzione, deve amalgamarsi senza che il
burro si sciolga troppo, altrimenti la frolla non reggerà.
“No me lo creo, no puede ser!”
“Joder...”
“Holy shit...”
In un attimo un uragano piombò nel refettorio, questa volta sui pellegrini che commentavano atterriti la
notizia dai titoli delle news online. “Celso e il cammino: un’immensa bufala mediatica”
“Da Truman a Celso, la fiction più vera della realtà” “Orson Welles e i Marziani salutano Celso e l’usignolo”.
Mira si affrettò a leggere dal telefono del pellegrino al suo fianco. In fondo dopo una tragedia come
quella di Novos chi poteva pensare che i superstiti nella grotta si trovavano lì perché troppo sbronzi per
rientrare in paese dopo la feira di San Juan, nel borgo di Rio Rojo. Chi poteva pensare che ridotti in miseria
si sarebbero fatti comprare da Hayden e i suoi compagni di viaggio, studenti dell’Università di Fretzel con il
pallino per l’hacking. Chi poteva pensare che mettessero su una storia simile, da principio per uno scherzo
macabro e poi con la prospettiva di farne un business milionario.
Un giovane messia con la camicia a fiori e il suo usignolo erano sembrati a tutti la spiegazione più
plausibile.
Si nonna, altrimenti non reggerà.
ELISABETTA BELOTTI
@Labiondaprof
IL TWEET
La speranza è un ponte, con fondamenta nel presente e ali nel futuro #wehaveadream #speranza
IL RACCONTO
Dal diario di una professoressa
Nebbia, stamattina c’è molta nebbia. Però, dai, siamo nel mezzo della pianura padana, a novembre, non mi
posso aspettare certo il sole della Sicilia o una brezza gentile, da laghetto alpino.
Come diceva Conte, l’avvocato che canta, “Cos’è la pianura padana, dalle sei in avanti, un bicchiere di latte
e anice…”? Sì, questa mattina, inzuppata di nebbia e stanchezza, mi sento davvero in un bicchiere di anice
e latte.
Grigio ovunque, suoni attutiti, sguardi bassi e automobili in coda; questa terra tra campagna e città appare
in tutto il suo squallore. Campi, capannoni, fabbrichette, serre, svincoli, centri commerciali e rotonde. Dio
mio, quante rotonde.
Eppure è la mia terra, e ho imparato fin da piccola a conoscerne suoni, odori, sapori e colori. La pesante
afa estiva, la nebbiolina magica di ottobre, il cielo bianco e duro di gennaio, le serate lunghe e profumate
del maggio odoroso… Uff, come sono vecchia. Ogni volta che parlo, le mie parole rieccheggiano altre
parole: un cantautore, un poeta, un filosofo. Sempre più spesso, ultimamente, mi sento vecchia. Un vecchia
professoressa, proprio un bel cliché. Solo una professoressa può sentirsi vecchia a quarant’anni.
Anche questa mattina entro a scuola, saluto le bidelle, scambio banali parole con qualche collega alla
macchinetta del caffè mentre mi preparo a entrare in classe. «Eh, sai, la Savoldelli è un po’ esaurita in
questo periodo…»
«La Savoldelli è esaurita da almeno dieci anni, per come la vedo io. E comunque, perché? Che le è
successo?»
«Non lo sai? Il marito l’ha lasciata, è andato via di casa. E ma non è tutto…»
Driiiin. La campanella suona e mi salva. Saprò solo domani mattina cosa ha combinato il marito della
Savoldelli. Comunque, al suo posto io sarei scappato molto prima, la Savoldelli non la reggo. Io e la mia
collega Filippetti l’abbiamo soprannominata Profondo Rosso, per l’aura di tragedia, di tregenda e di
melodramma che porta con sé. Oltretutto si veste sempre di nero, pare Irene Papas nei panni di Medea.
Minimo il marito è scappato con una ballerina di zumba.
Prima ora, sono in III C: Grammatica.
Mentre spiego per l’ennesima volta in vita mia il complemento di causa, il mio sguardo passa da un
viso all’altro dei mie alunni. Sono ventidue, e tra questi conto due rumeni, un’indiana, un pakistano, un
senegalese, una marocchina e un cinese. Sette alunni su ventidue: chi parlava di tetto massimo di alunni
stranieri? La Gelmini, tra un tunnel e l’altro sul Gran Sasso, mi par di ricordare. Certo, poi le anime belle
che parlano di alunni stranieri come “un’opportunità e non un problema”, dovrebbero venire in classe
certe mattine… Come il mese scorso, quando un incauto supplente ha proposto loro la visione del film
di Olmi L’albero degli zoccoli. Capolavoro, per carità, ma per i sette alunni stranieri abbastanza avulso dalla
loro realtà. Alla fine del film, i commenti:
Bello. e poi?
Bello sì ma lento. Certo, siete abituati ai film d’azione americani…
Bello ma un po’ triste. In effetti…
Non mi è piaciuto perché erano tutti poveri. Sì, e non griffati, né belli come veline e calciatori
Mi è piaciuta la scena quando hanno ucciso il maiale. Gusti cruenti, eh Cosa c’entrava Maradona? Maradona?
Spiegati, dimmi, caro (all’alunno senegalese)
Continuava a dire Maradona me! Risata generale… L’insegnante spiega, con le lacrime agli occhi “Madona
me, con la o stretta è un’espressione bergamasca”.
E tanti saluti a Olmi.
Però la realtà è questa, e con questi alunni devo lavorare. Al meglio che posso, con quello che ho. Ah, il
caro Machiavelli, sono da sempre una sua fan, lui e la sua realtà effettuale. Tradotto e calato nella situazione
della scuola italiana: soldi pochi, colleghi in gamba ancor meno, classi sempre più numerose, alunni svogliati,
sprazzi di tecnologia spacciata per la panacea di tutti i mali. Vorrei chiedere al ministro Carrozza: «Lei pensa
davvero che una collega apatica e incapace come Profondo Rosso si trasformerà nel professor Keating
dell’Attimo fuggente solo perché potrà utilizzare una LIM o un computer in classe?»
Però io non mollo: ogni giorno entro in classe, come un domatore nella gabbia dei leoni e lavoro. Spiego,
rispiego, controllo compiti, semplifico concetti, lancio spunti, pongo domande, striglio i disattenti, incoraggio
i timidi, ridimensiono i saputelli, accolgo proposte. E li guardo.
I miei alunni, tutti, sono belli. Belli perché stanno sbocciando; non più bambini, non ancora adulti. Prendono
le misure di sé; iniziano a capire cosa vogliono diventare. A volte procedono per negazione, hanno più
chiaro cosa non vogliono essere ma va bene, è un punto di partenza.
Seconda ora: ora buca.
Controllo la posta elettronica: una mail da una mia ex alunna. J. mi scrive, felice, che sta preparando la tesi,
non è che potrei leggerla, così, lei si fida della sua vecchia profe…
L’alunna J. Marocchina; i suoi genitori non volevano che frequentasse il Liceo. La ragazza, con il mio aiuto,
ce l’ha fatta. E poi, l’Università, lavorando, perché i soldi non bastano mai, e ci sono tre fratelli minori a cui
pensare.
La mail di J. si chiude con tanti abbracci e queste frase «Sa, profe, è proprio come diceva lei, non bisogna
scoraggiarsi al primo ostacolo. La speranza è un ponte, con fondamenta nel presente e ali nel futuro.»
Solo una professoressa a quarant’anni può sentirsi giovane, giovane come tutti i suoi ex alunni che hanno
spiccato il volo.
FEDERICO GIULIETTI
@dranath2001
IL TWEET
è come piantarsi sotto la terra, rimanere lì immobili e sentire i passi delle persone che passano sopra...
adagio...#wehaveadream #inizio
IL RACCONTO
Ho detto il tuo nome
è come piantarsi sotto la terra e rimanere immobili… e sentire i passi delle persone che camminano
sopra, adagio…
è come starsene fermi nel fondo del mare, seduti, e guardare distratti il fragore attutito della tempesta che
sconquassa il mondo di sopra e magari sorridere… magari sorriderne…
A questo pensavo, quieto, nella penombra di quella primavera tardiva, giunta inaspettata mentre il paese
intero attendeva intrepido il freddo leggero di autunno.
Invece, quella mattina, c’era un sole meraviglioso e dal terreno lì attorno saliva il profumo buono del
bosco, quasi sembrava di avvertire i funghi che crescevano lenti coperti dalle foglie dorate e, se prestavi
attenzione, avvertivi l’aroma della terra bagnata, e pareva di sentire, sopra la pelle, la carezza dei raggi del
sole che, con veemenza, entravano dentro l’intrico di quei rami deserti, rendendo ancora più atroce la
resa, all’avanzare del tempo, degli alberi immensi di quella faggeta stupenda.
Rumore di acqua che scorre, rumore di foglie che cambiano forma, rumore di un cuore che batte, niente
altro… neppure il canto degli uccelli nei rami, neppure il suono di persone distanti o lo stridore dei
pneumatici nella strada che, curvando, lambiva quel bosco perduto nel niente. In questo silenzio, la foschia
che saliva avvolgendo i tronchi maestosi coperti di verde, sembrava facesse rumore e salendo portasse
con se, lontano, i pensieri che mi avevano condotto fin lì. Nuovamente un inizio accompagna i miei passi
fin dove il mondo pare smarrirsi, nuovamente un inizio conduce il mio cuore là, dove altro non vedo che
orizzonti perduti.
Con le gambe raccolte, serrate da braccia, restavo seduto sopra una pietra coperta di muschio e guardavo
quel bosco mutare al calore del sole.
Nel silenzio interrotto dal poco che ho detto, rimasi sorpreso quando da dietro mi chiesero...
“Scusi… che ora è...?”
Mi sono girato… e ho detto il tuo nome...
BENIAMINA CASSETTA
@BeniaminaC
IL TWEET
Gli inizi che non finiscono. Inizi a non finire. #wehaveadream #inizio
IL RACCONTO
Inizi a non finire
Le basi filosofiche di questo scritto sono rintracciabili negli albori della filosofia occidentale che all’inizio,
come buon senso vuole, si è chiesta quale fosse il cominciamento di tutto, il principio primo. Anassimandro
lo chiamava àpeiron, forse ‘fango’ o forse ‘illimitato’, Anassimene lo chiamava ‘aria’, Talete ‘acqua’,
Democrito ‘atomi’. La filosofia degli inizi era dunque piena di inizi che giocavano a non trovare mai un
compimento. Poi arrivò Plotino che grazie ad una banalità – che come tutte le cose ovvie ha la capacità,
se somministrata al momento giusto, di fare più luce di una lampadina a incandescenza in una cantina
polverosa di notte – disse che il principio è l’1.
Uno.
È da qui dunque che parto. L’1 ricorre prepotente in molte occasioni perché sa che senza di lui non
esisterebbe nulla, neppure lo zero, suo grande antagonista.
Neppure Adamo ed Eva, i triangoli equilateri, scaleni e amorosi. La scacchiera e ogni suo scacco. Gli inizi.
Perché inizi ha cinque lettere, e perché gli inizi non vengono mai da soli – come la lotta filosofica per
determinare quale fosse l’inizio ci insegna – ma a gruppi di 5.
Quella che sto per raccontare quindi è una storia che ha cinque inizi.
Il primo inizio è la penna, quella per scrivere, che è pure quel ritrovato della termo e dell’aerodinamica che
permette a un corpo di volare senza difficoltà e di mantenere la temperatura del corpo ottimale. Ti regalai
una penna penna, un oggetto per scrivere ricavato da una di queste scaglie, impalpabili come lo zucchero
a velo che ti resta sulle mani due volte l’anno, a Natale col pandoro e a Pasqua con la colomba. Adoravi
scrivere, e siccome io adoravo te e tutto quello che scrivevi, volevo regalarti l’inizio di una tua passione.
Il secondo inizio è Yeats, il poeta delle notti irlandesi, mi dicesti. Più che notti però, io vedo una mattina a
Cork in cui mi hai fatto il caffè. Nessuno tranne mia madre mi aveva mai fatto il caffè e ho pensato che
quel momento, con il sole che faceva fatica a entrare in casa perché in mezzo c’erano le nuvole, il vetro
sporco, la veneziana impolverata e le mie palpebre ancora appiccicate di sonno, quel momento volevo
ricordarlo. Ancora non sapevo che di te non posso ricordare nulla. I ricordi lasciano la malinconia, si
trascinano nell’anima lasciandosi dietro una striscia densa di blu che fa male come fa male all’asfalto e ai
timpani il freno a mano tirato all’improvviso.
Invece con te è solo realtà. Tu sei il gerundio presente di ‘rivivere’, uno stato costante di rinnovo perenne.
Il terzo inizio sono cinque anni di silenzio. Cinque anni in cui non siamo esistiti l’uno per l’altra, e quindi
non siamo esistiti affatto, che sono iniziati con “Ciò che per me è stata la fine, per te sarà solo l’inizio”, e
sono finiti con “buona passeggiata”. Quelle due parole sono state il taglio a un nodo gordiano di pensieri
ingorgati e di parole gorgogliate.
Il quarto inizio è una bottiglia di mirto bevuta sotto a un pino. Non per la Sardegna né per l’alcool, il mirto
era il sapore dei pomeriggi passati tra i libri e la chitarra che inevitabilmente finivano con due gocce di
quel miele violaceo per curare raffreddori, consolare crisi di panico, schiarire le idee, annullare i pensieri,
annebbiare la vista e impiastricciare tappeti quando lo rovesciai sul pavimento. Da lì, più che iniziare
qualcosa, hai smesso di lasciarmi bottiglie in mano.
Il quinto inizio è una calza. Anzi due, quelle che non riesco mai a mettere insieme. Tu le compri tutte nere.
Io non mi arrendo alla ridicolaggine di due sacchetti per piedi già ridicoli nel concetto, né tantomeno alla
monotonia di averli dello stesso colore, già monotoni nella forma, identica, sovrapponibile al millimetro,
nonostante si sappia che il corpo è diviso in due metà solo ingannevolmente simili.
Non è la geometria che ci ha plasmato ma qualche combinazione casuale di cromosomi, anche loro
fatti di due metà solo apparentemente uguali che si sono mescolate come le tessere di un domino.
Coerentemente con la loro natura ludica, si sono ricomposte in un serpente di tasselli, la manifestazione di
una partita giocata un po’ con l’aiuto del caso, un po’ con l’astuzia dell’esperto, e moltissimo con la fortuna
del principiante - uno che di inizi ne sa molto.
I filosofi di sopra, oltre a porsi il problema del principio, scoprirono anche un’altra verità logica ed
esistenziale a un tempo: per non far finire qualcosa, basta non farla mai iniziare.
Per me, tutto quello che non ha fine non è tutto quello che non ha avuto alcun inizio. Per me non finisce
tutto ciò che di inizi ne ha avuti 5.
Tu per me sei senza fine perché ritrovare i tuoi inizi e ripercorrerti nel tempo e nello spazio è, ogni volta,
un inizio che si rifiuta di realizzarsi perché così sa che non potrà mai finire.
Questa storia dunque finisce qui, perché non vuole finire. Gli inizi sono capaci di esistere soltanto nel
piccolo frangente della loro esistenza. Riescono ad attivare destini, a creare universi, a disegnare cornici per
i quadri più belli e a montare le scene per gli spettacoli migliori, ma non possono sopportare di spegnersi
in un attimo, un attimo dopo aver acceso la creazione. Amano riprodursi senza ripetersi, si danno energia
a vicenda per provare di nuovo, ogni volta, il brivido di cominciare. Di questo sono grata agli inizi: ché, alla
fine, gli inizi, non finiscono mai.
ELENA POME’
@eppi16
IL TWEET
La più dolce illusione ha inizio quando pretendiamo di essere tramonti per chi lo sguardo volge non al
cielo, ma alla terra. #wehaveadream #inizio
IL RACCONTO
L’eterno inizio del sogno
Goffredo si era innamorato di Margherita il giorno stesso in cui l’aveva incontrata. La ragazza aveva
attraversato i campi in bicicletta, aveva perduto non so che gingillo e s’era fermata a raccoglierlo; il giovane
si ritrovò immediatamente sospeso tra l’energico lavoro della terra e un indefinibile incanto ultraterreno.
Avrebbe potuto giurare che, nel recuperare l’oggetto birichino, Margherita gli avesse sorriso rivolgendogli
un inequivocabile sguardo d’amore.
Così, il ragazzo fu colto da nuovo e invincibile turbamento: trasognato, trascorreva le torride giornate ad
accarezzare le spighe di grano che avevano il colore del sole nei capelli di lei, e al minimo fruscio del vento,
gli sembrava di udire lo scampanellio di una bicicletta, o la risata della fanciulla; ansioso, pativa torride notti
tra lenzuola impregnate di sofferente desiderio.
Quando nel paese si diffusero impertinenti le chiacchiere sull’imminente matrimonio della ragazza che
viaggiava in bicicletta, Goffredo fu lentamente consumato da una angoscia sognante e divenne indifferente
alla realtà; poteva non mangiare per giorni, immaginando che Margherita gli avesse servito una calda
minestra, e non bere per settimane, perché Margherita aveva attinto l’acqua dal pozzo.
Il medico che si offrì di curare il giovane innamorato suggerì di alleviare il morbo furibondo (una completa
guarigione non era infatti auspicabile) con l’uso di libri e calamai, e agli scettici spiegò che questi due
strumenti, apparentemente lontani dall’universo clinico, avrebbero invece consentito a Goffredo di creare
mondi meravigliosi per donarli alla sua amata, offrendogli così quel poco di consolazione che tutti gli
uomini ricercano nell’arduo percorso della vita.
La più dolce illusione ha inizio quando pretendiamo di essere tramonti per chi lo sguardo volge non al
cielo, ma alla terra. Gli avvolgenti colori del crepuscolo, sfiorando delicatamente la creatura più bella e più
fragile, tentano invano di ghermirla e proteggerla, ma essa, guardando e non vedendo, viene rapita dalla
concretezza terrena.
Al sole è concesso soltanto un breve tempo per mostrarsi nel placido cielo. È destinato a calare, cedendo
la scena ad altre notti: le sfumature crepuscolari diverranno dapprima fioche, poi delicatamente indefinite,
e infine svaniranno, soffrendo l’amarezza della sconfitta ma trascinando eternamente con sé la bellezza del
sentimento.
Così, tra gli incerti ghirigori di inchiostro, Goffredo fece riposare il prezioso affetto che provava per
Margherita. Dedicò alla donna che gli aveva rapito il cuore poesie, versetti, canzoni che egli declamava alla
ragazza durante fuggevoli e irreali incontri d’amore.
Non ci volle molto perché la fantasia sopraffacesse beffarda la realtà e Goffredo rinunciò tutta la vita alla
propria esistenza per partecipare a quella di lei.
Chi ebbe l’occasione di curiosare tra le opere letterarie dello sventurato fu sorpreso dalla trasparenza e
dalla purezza delle parole che egli rivolgeva all’amata e la perfezione dei testi instillò in molti il dubbio che
in realtà il lume della ragione non avesse mai permesso alle tenebre di avvolgere la mente di Goffredo.
Tuttavia nessuno, o perché l’età aveva accantonato nei remoti antri della memoria i ricordi delle passioni
giovanili, o perché l’innata durezza d’animo era efficace riparo dalle passioni umane, fu in grado di
comprendere che lo splendore delle parole era il più naturale e sincero omaggio che Goffredo avrebbe
potuto offrire a Margherita e alla poetica nobiltà di una storia senza inizio e senza fine.
Era sufficiente questo per ricevere conforto nella solitudine della sua casa, e gremirla di sorrisi sereni al
pensiero che un giorno, se Margherita avesse levato lo sguardo al cielo, si sarebbe incantata dinanzi allo
splendore del calar del sole.
VALERIA GENTILE
@kindlerya
IL TWEET
lunacalante. decrescere, eliminare, depurarsi e lasciar andare: il nuovo #inizio di me stessa è uno spicchio di
luce nel cosmo #wehaveadream #inizio
IL RACCONTO
Lunacalante
Trentasei. Trentasette. Trentotto. C’è una lancetta dei secondi nella testa di Ilenia come un rubinetto che
perde. Si rigira nel letto perché si sente un tempo fisico addosso, tra il sudore e il lenzuolo, che le dà la
nausea e le toglie il sonno. Non è più un’idea, un metro teorico, un criterio astratto: il tempo è diventato
un corpo dentro al suo corpo, un’essenza da studiare e distillare, un andamento concreto della sua
frettolosa malinconia. Sta ad ascoltare i mille rumori del silenzio in città, cercando un segno, un ritmo. Un
latrato s’alza dal quartiere buio, un rombo di camion sfila sull’asfalto, si snoda la goccia intermittente della
mente. Ma niente.
Il profumo dell’incenso è una cenere sul comodino, pensa, neanche il tempo di una notte per consumare
una fiammella spenta. Le pareti della camera da letto inquadrano il palcoscenico della rincorsa e della
vita sempre trascorsa, ma senza far niente. Troppi libri impilati fino al soffitto, non letti ancora; la luce del
lampione sulla tapparella, una bottiglia d’acqua vuota sulla sedia. Il frigo, di là, è quasi vuoto anche lui. Un
sospiro le nasce dentro al petto come un pensiero: come lo acchiappo, come lo prendo questo giorno che
è appena nato? Dove va, in che direzione inseguirlo? In una diagnosi avvilente, si rende conto che è lo
stesso dubbio che lei vive da giorni, settimane e mesi interminabili; anzi no, si siede sul letto con le gambe a
penzoloni e le mani poggiate sulle cosce: è il dubbio a vivere lei.
Insomma, che cosa ne è stato della passione per la danza? Che cosa ha fatto della vita, nella vita? Si alza
con la flemma isterica di una luce al neon perennemente accesa, che non trova pace e che quindi non è
mai del tutto attiva, sveglia. Camminata disconnessa fino al guardaroba; ma ritta, percettiva per accogliere
– sì, esattamente questa notte – la risposta che cerca. Indossa per intimo un pizzo di bianca insofferenza,
poi si infila nel cappotto grigio a pois rossi ed esce. No, stasera non chiederà consiglio alla sua amica Alice,
a sua madre, alla naturopata emozionale, al mazzo dei tarocchi né alle spirali di incenso del taiwanese
monco. Stasera questo tempo lei lo vuole cacciare senz’arco né frecce, senza mira né inganno: a mani
nude.
Non ha mai visto il plenilunio dal tetto e questa, pensa, è la notte giusta per farlo.
Sono le zero quattro e quindici, sedici, diciassette. Qual è il nuovo inizio di me stessa?, continua a chiedersi Ilenia
a ogni scocco nella mente impertinente.
Eppure, arrivata sul tetto, il plenilunio è finito da un attimo. La luce rotonda è diminuita di un soffio, di uno
spiffero, di un sospiro ironico tra il sudore e il lenzuolo. La prima lunacalante, pensa Ilenia delusa - sempre
in ritardo come un orologio ingoiato. Fa uno sbuffo che dice dov’è andato quell’altro pezzo di luna, come
riacciuffo quell’altro spicchio di me? Dal tetto la città è un presepe di cioccolato fondente, illuminato qua e
là da stelline di zucchero bianco raffinato. Un incrocio lampeggia di giallo e nessuno passa. Una pipì di cane
si intravede sin da quassù, così nitidamente che Ilenia ne percepisce il tanfo. Una macchina ammaccata,
un’aiuola ben curata.
Tutto il disordine è in ordine.
Silenzio.
E si mette a scalare con lo sguardo la luna che cala, scende, si assottiglia, sfuma. Decresce, perde, rallenta
Ilenia come la luna, s’immedesimano l’una nell’altra e ora è lei a essere curva, gancio per abbracciare il
nulla, arrotolata su se stessa con il buio in gola. Seduta sul cornicione del tetto a ululare senza voce i suoi
sospiri che vogliono dire ora ho capito, ma certo, prima di iniziare mi devo svuotare, depurare, disinfettare.
Fa un cenno di complicità al cielo e corre via, giù per le scale e gli anditi e i piani e i pianerottoli, si sfila il
cappotto gettandolo a terra e poi si tuffa in bagno a vomitare, a orinare, a defecare, a perdere sangue dal
naso, lacrime dagli occhi, secondi dalla testa.
Cinque, sei, sette, otto.
E comincia a danzare, vuota e fresca sulle mattonelle blu.
ELENA CHIARA MITRANI
@lastanzab
IL TWEET
Contro soprusi, delitti, guerre e disuguaglianze: giustizia, e non vendetta, come unica panacea.
#wehaveadream #giustizia
IL RACCONTO
In principio ci vestirono tutti di bianco
In principio ci vestirono tutti di bianco. Venne un giorno in cui mia madre mi disse: «Da domani si va
all’asilo» e mi mostrò il primo grembiulino. Si allacciava sul davanti o sulla schiena, non ricordo.
Ricordo solo che era bianco, e mi andava leggermente lungo. «Così ti dura almeno due anni», diceva lei.
Oltre al grembiulino, portavamo tute colorate e scarpe comode, per lo più. Vestiti in quel modo, non
c’erano distinzioni.
Ricordo anche di aver pensato, per mesi, che alcune bambine con i capelli a caschetto corti fossero
maschietti, e che un maschietto con i capelli biondi alle spalle fosse una bambina. Scoprii la verità quando
per caso li sentii chiamare dalla maestra e associai i loro volti ai loro nomi. Il cambiamento di prospettiva,
allora, faceva poca differenza. E poi c’erano quelli con i genitori alti, bassi, giovani, anziani, italiani o stranieri:
ma non ci facevamo caso.
Eravamo tutti uguali.
Al mattino, prima di pranzo, spesso cantavamo. La maestra ci faceva scegliere tra tre o quattro
audiocassette che tutti noi conoscevamo a memoria. Ce n’era una con le canzoni dei cartoni animati del
pomeriggio. I cartoni giapponesi, per intenderci. Poi ce n’era una con le colonne sonore dei cartoni Disney.
E ancora, mi pare di ricordare, una dello Zecchino d’Oro.
La mia preferita era quella con le canzoni dei cartoni giapponesi, perché c’era la sigla di un cartone
coi robot che mi piaceva tanto. Solitamente, la maestra ci lasciava votare per decidere quale cassetta
volessimo mettere, e quali canzoni volessimo cantare. Io votavo sempre per quella dei cartoni giapponesi.
Ricordo che alcuni bambini, come me, erano piuttosto ripetitivi nelle loro votazioni, altri cambiavano idea
spesso. Non vi so dire perché.
Fatto sta che c’era una certa varietà nelle canzoni che finivamo per cantare.
Quasi mai le stesse per due giorni consecutivi. Eppure, anche quando non vinceva l’audiocassetta per cui
avevo votato io, cantavo lo stesso con piacere, ad alta voce. Mi divertivo. Ci divertivamo. Diciamo che
sapevamo accettare le scelte degli altri in un modo pacifico.
Ricordo quel giocattolo per il quale io e quello che sarebbe poi diventato il mio migliore amico durante
l’adolescenza litigammo. Allora, ci sembrava un giocattolo speciale. Era un camion dei pompieri. Era più
grosso delle altre macchinine e dotato di accessori. Emetteva suoni e aveva gli idranti, gli omini. Il camion
dei pompieri, come tutti i giocattoli, era di tutti e di nessuno. Eppure, io, un pomeriggio avevo cercato di
nasconderlo dentro l’armadietto dove lasciavo le mie scarpe e la mia copertina. L’avevo fatto cosicché,
nel pomeriggio, i miei compagni, non trovandolo nella zona giochi comune, avrebbero preso altri giochi,
e il camion dei pompieri sarebbe stato solo per me. Però, quando ero andato a cercarlo, dopo l’ora della
merenda, quel bambino mi aveva sorpreso. Ero stato colto in flagrante. «Volevi rubare il camion!» mi
accusò. Cercò di strapparmelo dalle mani. Entrambi tirammo il giocattolo, aggrappandoci a esso come
meglio potevamo.
Infine, una delle rotelline che io avevo agguantato si staccò, ed entrambi finimmo a terra e scoppiammo
a piangere. Io, stizzito, tirai contro il mio avversario la ruota di plastica del camion che mi era rimasta in
mano. Lui accennò una reazione, una specie di manata nell’aria. Ma arrivò la maestra, che ci aveva sentiti
piangere. «Cosa avete combinato, qui?»
Il giorno dopo, mentre gli altri furono portati in gita allo zoo, noi rimanemmo nell’asilo, con la maestra. Lei
ci spiegò che, per farci perdonare dal resto della classe per aver rotto il camion dei pompieri, avremmo
dovuto fare qualcosa di utile e bello per tutti. Per prima cosa, ci chiese di cercare e ripescare le biglie che
erano cadute nei due bidoni di plastica in cui erano sistemavamo i Lego. Non fu facile, anzi. Ma ricordo
che mi impegnai in quel compito. Mi concentrai davvero. Poi, la maestra ci chiese di aiutarla a decorare i
segnaposto per il pranzo del giorno seguente. La aiutammo a ritagliare e incollare pezzi di carta colorata
sulle targhette di cartone rigido.
Infine, ci toccò aiutare ad apparecchiare la tavola per il pranzo del giorno successivo. Prendevamo i piattini
da un carrellino e li sistemavamo sui piccoli tavoli esagonali.
Guardavo il mio compagno con aria rassegnata, cercando uno sguardo complice. Martino, si chiamava.
Quando incrociò il mio sguardo, fece spallucce e continuò il suo lavoro. Come dire «Ce lo siamo
meritato». Fu in quel giorno che diventammo amici.
Circa una quindicina di anni dopo, fummo in competizione per una ragazza e per un lavoro estivo: portare
le pizze in motorino. L’unica pizzeria del quartiere cercava solo un ragazzo per le consegne, ma quei soldi
servivano a tutti e due. Lui si prese il lavoro, io mi presi la ragazza, anche se era già uscita un paio di volte
con lui. Dopo quell’estate, non ci parlammo più.
Da bambini, avevamo un altro modo di approcciare le cose e di distinguere il bene dal male. Avevamo
occhi più grandi, ma non vedevamo le differenze.
E avevamo un senso diverso di giustizia.
Non so dirvi esattamente in quale momento della mia vita queste cose si siano perse.
Davvero, non lo so.
E dire che pensavamo di essere diventati grandi e di iniziare a capire tutto della vita, perché avevamo
iniziato a leggere i libri.
FLAVIA PATERA
@flapatty
IL TWEET
Rispetto per sé e per gli altri, per le leggi e per l’ambiente, un mondo civile dove i sogni si possano
avverare. #wehaveadream #giustizia
IL RACCONTO
La Giustizia
Ieri mi sono svegliata prestissimo e ho pensato che fosse profondamente ingiusto che avessi dormito
così poco e che dovessi andare al lavoro. Fuori diluviava e faceva davvero freddo. Ho acceso la mia moka,
perché io senza le mie tre tazzine di caffè mattutino non vado da nessuna parte e ho sfogliato il giornale,
mentre “azzuppavo” i miei biscotti preferiti nel mio cappuccino.
Mi è venuto un sorriso e mi sono ricordata di una frase che avevo letto da qualche parte “Se un uomo non
riesce ad essere felice con poco, non sarà felice con nulla.”
La mia piccolina mi aveva svegliato in maniera traumatica, appendendosi al piumone e iniziando a piangere,
urlando: “Non è giusto”. L’ho acciuffata con una mano e tirata su nel letto con me, l’ho coccolata, fuori era
ancora buio. Siamo state così, con Mia accoccolata fra le mie braccia, con la sua testolina un tutt’uno sul
mio cuore. Poi le ho chiesto cosa non fosse giusto e lei mi ha guardato con i suoi occhioni verdi scuro:
“Non è giusto che devo andare a scuola, che tu devi andare al lavoro, che noi non stiamo insieme, che papà non
c’è”. Mi si è stretto il cuore, ho sentito di nuovo quella ferita riaprirsi, non sapevo cosa dire, sì hai ragione
piccola mia, non è giusto che papà sia andato via. Mi sono venute le lacrime agli occhi, ma le ho ricacciate
indietro, non volevo che Mia vedesse. Allora le ho cantato la sua canzone preferita, “shorint’bread”. Ha
sorriso la mia bimba e ha cominciato a seguirne il ritmo allegro con la testolina. E io ho pensato che
aveva ragione, che non era giusto che suo padre ci avesse abbandonato, che non era giusto che io dovessi
lavorare 12h, che non era giusto che lei sentisse tutta questa ingiustizia, così presto e così forte.
Mia conosceva la storia della canzone e lei sorrideva felice e diceva che erano forti questi schiavi
d’America, che si erano inventati una canzone allegra contro la schiavitù. E così avevamo deciso che, ogni
volta che la tristezza ci assaliva, che ci sembrava che nulla fosse giusto per noi due, ci dovevamo fermare,
respirare forte e inventarci una situazione tanto bella quanto era brutta la sensazione che ci aveva assalito.
E ridevamo tantissimo alla fine delle nostre situazioni di contrappasso, perché Mia ne inventava di
tremende. Come quando aveva invitato i vicini per fargli vedere come mi aveva travestito e io mi ero
vergognata da morire. Ma io ci stavo, stavo a tutto quello che la mia piccolina voleva fare, perché volevo
cancellare l’ingiustizia che l’aveva colta così piccola, le volevo restituire il doppio dell’amore che le era stato
tolto.
Quella mattina, l’ho guardata e le ho detto: “ Piccola sai che facciamo? Oggi non vado a lavoro, tu non vai
a scuola, ci accoccoliamo sotto al piumone e ti leggo una storia fantastica, che ne dici?” Lo sguardo di Mia,
mi ha ripagato di tutto quello che avrei dovuto affrontare per quel premio che non avrei ritirato e ho
pensato che il tempo passato con chi si ama è un bene di cui bisogna essere avari. Quel tempo per sé e
per le persone della propria vita è la vera libertà cui bisogna ambire.
Ho chiamato in ufficio, ho detto che stavo male. Ho chiamato all’asilo, ho detto che Mia stava male. Poi le
ho strizzato l’occhio per la piccola bugia.
Ci siamo accoccolate sul divano sotto il plaid. Ho preso un libro e ho iniziato a leggerle una storia.
Lui è un anziano presidente di un piccolo paese del centro America, proprio di quel centro America
dove è iniziata la schiavitù della canzone che piace a te, piccola. Ha sempre lavorato contro la dittatura e
per l’uguaglianza di tutti, nella convinzione perenne che è meglio poco a tutti che molto a pochi. Sai, Mia,
una volta è riuscito a far scappare 106 prigionieri dalle terribili carceri del tiranno scavando un tunnel
sotterraneo. Ma l’hanno catturato e ha dovuto passare circa 14 anni in carcere. Poi quando finalmente
è uscito da quella prigione durissima, ha deciso di continuare a lottare per la giustizia sociale, per creare
un posto nel mondo dove i poveri avessero la stessa dignità dei ricchi, dove lo spreco fosse bandito. Un
mondo dove i sogni di tutti si potessero avverare, avendo i medesimi diritti e le stesse opportunità, un
mondo dove la sobrietà fosse una rotta da seguire. Un mondo dove le persone sappiano avere rispetto
per sé e per gli altri, per la natura che le circonda, dove non serve fare a gara a chi ha di più, a chi si sente
migliore e felice se ha di più di un altro. Un mondo dove l’onestà sia un valore e non una debolezza.
Mi chiedi chi ha scritto questa bella favola, no ti dico, tesoro, non è una favola, è una storia vera. Lui esiste
davvero, lui ci crede nella possibilità di un mondo più giusto per tutti.
Guardo i tuoi occhietti felici e sono contenta di aver cancellato l’ingiustizia che avvertivi oggi, rinunciando a
quello che credevo un grosso successo fino a stamattina. Ti ho regalato la gioia di sperare in un futuro con
meno ingiustizia, quella che oggi per te, è stare senza la tua mamma.
Adesso so come si sente l’anziano presidente del piccolo paese, quando incontra i poverelli che gli dicono
“Gracias” per aver rinunciato ai suoi soldi per loro.
Sa di aver cancellato l’ingiustizia che li ha accompagnati dalla nascita e di aver donato loro la speranza di
un futuro migliore. E quella gioia, per il presidente del piccolo paese è la prova provata che si può vivere
giustamente.
ANDREA PEGOLO
@SynthWriter
IL TWEET
Spesso la si definisce giusta o sbagliata. Io sogno un mondo in cui la parola giustizia non contempli aggettivi
#wehaveadream #giustizia
IL RACCONTO
Meno cento (ciò che resta)
Dedicato a tutti i Troy Davis
Ghiacciava tutto qui dentro. Faceva così freddo che la coscienza cominciava a non sentire più il corpo. Il
distacco sarebbe stato inevitabile di lì a poco, un conto alla rovescia che avrei vissuto senza cronometro.
Già, visto che l’orologio alla parete non aveva più le lancette, colpa di qualche detenuto in isolamento che
le aveva staccate, l’unica scansione possibile del tempo, per la verità piuttosto improvvisata, era data dai
miei respiri. Gli ultimi, come mi era appena stato comunicato.
Lei era seduta su una vecchia poltrona di paglia. Sfilacciata. Lei come la poltrona. Due masse sfilacciate
senza confini certi che all’occhio diventavano un’unica forma, indistinta, e nella mente si fondevano nello
stesso sogno: questo, l’ultima parentesi di un incubo.
Spannai il vetro, pennellando come un pazzo con i polpastrelli. Guardare oltre era un bisogno assoluto, più
impellente della ragione.
Fuori c’era il sole e i miei compagni, nudi, facevano la doccia nel cortile. Con gli occhi respiravo i silenzi, i
miei, non i loro; nel frattempo cercavo di intuire tutti i rumori esterni… Saranno stati davvero quelli giusti?
Quel vetro mi isolava dal mondo, ma non era l’unico ostacolo. L’altro l’avevo scelto io: la Moldava di
Bedrich Smetana, il mio ultimo desiderio di astrazione.
“Perché, DIAVOLO!?”
Qualcuno, dal corridoio, arrestò la musica, prima che terminasse il suo corso naturale e mi intimò di stare
seduto. Tentai di oppormi, ma alla fine scelsi soltanto di ubbidire, assecondando l’ultimo desiderio di quello
sconosciuto.
Staccai le dita dal vetro che si appannò di nuovo e mi “accomodai”, si fa per dire, sulla brandina. Il piccolo
termosifone davanti a me, spento forse da un secolo, fumava dal gelo. Per ripicca, mi accesi l’ultimo
mozzicone.
Dopo sette giri di chiave, un’ombra voluminosa anticipò un piccolo uomo dal viso intarsiato di rughe, il
quale, senza guardarmi negli occhi, si limitò a esclamare: “Quattro minuti e giustizia sarà fatta!”. Più che per
quelle parole, tremai a seguire il moto ondeggiante delle sue rughe, animato dalla fiamma (diabolica?) che
si portava appresso.
Se ne andò subito e, sbattendo violentemente la porta, chiuse anche i miei occhi. Ormai era chiaro:
dovevo rinunciare velocemente a me stesso. Così, cominciai a scandire a voce alta, come fosse un’omelia,
il conto alla rovescia dei miei ultimi respiri, mentre, con fare metodico, indossavo il vestito della domenica.
Volevo essere elegante, solo per lei.
Quando gridarono il mio nome e anche il mio cognome, che quasi mi ero dimenticato, la temperatura
scese ancora e il termometro esplose. Meno cento, come i respiri che mi restavano…
La porta della cella si aprì per l’ultima volta e lasciai libero il mio corpo di essere trascinato fuori.
Il resto non ve lo racconto, è tutto scritto in un referto medico-giuridico.
Sappiate solo che “GIUSTIZIA!”, il primo valore a cui ho cercato di aggrapparmi in tutti questi anni, è
anche l’ultima bugia che ho sentito.
FIAMMETTA GALBIATI
@fiammettaga
IL TWEET
Appena conobbe il gelo negli occhi dei vili, si mise a cercare la giustizia. Invano. Sarà un delirio dei folli,
pensò capitolando #wehaveadream #giustizia
IL RACCONTO
Solo i folli
È una macchia grigia appoggiata a una cornice scrostata, che poi è l’unica finestra del suo monolocale di
una periferia figlia del caso e dell’austerity, nutrita di grandi paure e poche pretese. Come lui.
Passando di lì, non lo noteremmo quasi, se non fosse per quel suo vizio di tenere sempre la luce accesa
e le tapparelle alzate. Del resto, chiuderle sarebbe impossibile, da quando sono state piegate dal tifone
che nel novantasette aveva tirato giù pure i cornicioni del vescovado e i cedri del libano di via Nenni.
Uno aveva colpito una macchina, da cui era appena scesa una donna con la figlioletta di due anni. Pochi
secondi, e sarebbe stata una tragedia. Non che la vita della donna oggi sia costellata di gioie: cupi presagi la
assediano da quando anche l’ultimo baluardo delle industrie cittadine, che un tempo richiamavano genti e
affari da tutto il paese, sta soccombendo sotto i frutti dell’avidità dei dirigenti, i suoi capi, fuggiti in salvo da
qualche parte, pur di scansare inchieste e pettegolezzi. Svaporati.
Ma torniamo a lui, e osserviamo i suoi occhi finché quel poco di luce autunnale lo permette: stanno
fendendo gli ultimi colli, oltre l’ansa del fiume, così negletto che tra dieci anni si ingoierà pure il molo
turistico, oltre le legioni di pioppi pelati, le risaie brunite, i campi appena arati che esalano tannini e
diossine, e quelli incolti che aspettano invano un nuovo raccolto da quando ha chiuso anche l’ultimo
zuccherificio.
Entriamo in lui e scopriremo che trascende il suo sguardo: è oltre ciò che esiste e che oggi non si vede
nemmeno tanto densa è la nebbia. Questa sera i colli, le terre, il reale è poco più di un’impronta nei
ricordi ereditati dalle giornate limpide. L’opalescenza di tutto quello che passa dalla cornice dei suoi
pensieri si confonde con questa sua nuova consapevolezza: folli, sono folli – pensa di quelli che ci credono
ancora.
È uno che, a quarantasette anni, si limita a esistere ogni mattina barricato dietro la cattedra di una scuola
col soffitto che gocciola al minimo scroscio.
E, quando ha finito, sguscia in ingresso, mormora un saluto a chi c’è e se ne va spingendo il maniglione
antipanico con il braccio, mai con la mano. La mano vorrebbe dire crederci ancora. Fuori non sorride, non
si ossigena: pare un burattino, giunture fisse e schiena rigida, mentre si predispone all’attesa del giorno
dopo e poi del Lunedì e di quel chiarore di giugno quando la scuola finisce con le ultime riunioni. Con
l’orizzonte sempre assediato da un altro anno, o un altro ciclo scolastico, nell’ingranaggio che un tempo
avrebbe oliato col suo stesso sudore, benché fosse ancora precario. Basta un salto indietro nel tempo di
un lustro per conoscerlo diverso: lo troveremmo sempre dietro la sua monofinestra, le persiane rotte e,
forse, un altro tramonto senza rosa come questo lento soffocare di grigi nel nero.
Lo troveremmo, però, bramoso di visioni:
- Non ci dobbiamo arrendere, diceva.
- Parli tu, che hai i genitori dalla tua!
Un miracolo, il consenso dei genitori. Frutto di sforzi compiuti nonostante quel fuoco incrociato di invidie
irrimediabilmente acquattato dietro i portoni delle scuole in cui insegnava.
- Io non capisco perché sprechi tante energie, gli aveva detto quella e tante altre colleghe.
La risposta l’aveva trovata da piccolo spettatore delle gesta dei bambini carnefici. Violenze ataviche, o
private, o instillate dagli albori della globalità, sgomitavano per inghiottire i deboli, suoi compagni. Crudeltà
insensate per chi le subiva senza respiro, tra capannelli di acclamazione dei forti e le compiacenze di adulti
che si limitavano a un’alzata di spalle. Le sopracciglia aggrottate di certe maestre infastidite. L’indifferenza
glaciale negli occhi di chi si ritraeva.
E, più tardi, era troppo vedere la ferocia che graffiava taluni fino a lasciare solchi indelebili. Le grida dei
potenti valgono il doppio di quelle degli ultimi, aveva pensato un giorno d’agosto, uno di quelli in cui
tutto pare sul punto di sciogliersi. Si era fermato al buio di un sottopasso: scappava. Sudava e scappava. Il
cemento del muro non serviva a niente, non calmava il fuoco indignato che lo accompagnava da tempo.
Pensava di congiungere mani, di aprire le menti alla civiltà, insegnando, ma col tempo l’inedia ha spento
anche il suo ardore.
È stato un lento vacillare attorno a lui delle illusioni dei decenni precedenti: sussulti riecheggiati
sapientemente dai nuovi media, sobillati dalle urla dei potenti.
Ha finito per perdere le redini.
I genitori, disorientati dal crollo delle loro certezze, sono masse di genti inferocite: quelli che hanno molto
esigono tutto, brandendo un’arroganza inedita. Le famiglie che non hanno di che pagare le cose, nemmeno
un quaderno, accompagnano i bambini con gli occhi attaccati al pavimento.
Chissà se li rivedrò il mese prossimo, pensa ogni volta. I fondi, ridotti all’osso, non coprono neanche
le spese ordinarie. E poi, le invidie erosive, il suo sprone nelle vecchie battaglie, lo hanno accerchiato,
inghiottendo ciò che ancora c’era di buono. I residui di fiducia. Presto perderà anche i bambini in questo
cinismo disperato, lo sa.
Quarantasette anni. Potrebbe essere prematuro per chiunque, ma non per lui, capitolare ora.
CARLA OLIVA
@leultimeparole
IL TWEET
le risate ridotte a sussurri per non farci sentire dai grandi, l’adrenalina, il fiato che manca felicità
#wehaveadream #felicità
IL RACCONTO
Alba
Le notti del Venerdì non sono mai le stesse.
Per quanto si sforzi di cadere nel sonno, anche in quello più leggero, risulta impossibile e gli occhi
rimangono spalancati a fissare le travi di legno sul soffitto, le labbra impegnate a boccheggiare mentre
scandiscono con precisione estenuante i secondi che passano, in sincrono con le lancette troppo
rumorose dell’orologio appeso alla parete della stanza. Il Venerdì è sempre così. Quando ha troppo caldo,
Malia si sposta sul divano in soggiorno, dove la porta-finestra è sempre aperta e una leggera e piacevole
brezza invade l’ambiente; qui misura il tempo contando le gocce d’acqua che s’infrangono sul lavandino.
Si volta da una parte all’altra del letto, consapevole che ormai dormire è inutile.
Cinque e quarantatré e ancora niente.
Ha fame. Non ha toccato quasi nulla a cena, e adesso pare sbuffare – sebbene dalle sue labbra non
provenga alcun suono – mentre mette le mani sullo stomaco, come a voler soffocare quel gorgoglio
interno fastidioso con la sola forza del pensiero; potrebbe alzarsi e prendere qualcosa in cucina, ma a quel
punto sveglierebbe qualcuno e la scoprirebbero, e proprio oggi non ne vale la pena.
Si sposta a pancia in giù e per qualche istante soffoca il respiro nel cuscino, per pigrizia o stanchezza.
Malia ha le dita affusolate e gli occhi azzurri come il mare di prima mattina, è l’estate dei suoi sedici anni e
crede di non aver ancora trovato un senso.
Ieri notte ha dato un bacio a Pietro e ha già scordato il sapore delle sue labbra, ha la sabbia da tutte
le parti e la prossima settimana in città c’è un concerto a cui non può mancare. Sua madre ha trovato
quel pacchetto di sigarette nella borsa celeste e si è sforzata di credere alla storia del «Le conservo per
un’amica»; eppure, lei, in una litigata ci sperava quasi: aspettava di beccarsi un ceffone in pieno viso, o di
dover subire lo sguardo di disappunto tipico di sua madre, altro che quella codarda scrollata di spalle.
Malia, anche se un senso ancora non l’ha trovato, di sogni ne ha tanti: come i colori a tempera e le tele
sparse nel garage senza un ordine preciso, tutti i braccialetti dell’amicizia che le coprono i polsi e la foto
con quel ragazzo che ha sullo sfondo del cellulare. Sul mappamondo accanto al letto ci sono tutti i viaggi
che vuole fare, le fantasie di una vita che sono solo caselle da riempire a poco a poco; fuori dalla finestra,
invece, c’è la spiegazione del perché è ancora bloccata qui e il motivo per cui presto scapperà.
«Sei felice?» le ha chiesto Luigi stamattina mentre giocava in cortile, con le mani imbrattate di fango e
gli occhi azzurri che brillavano, come brillano solo ai bambini di quell’età. Senza pensare troppo, Malia ha
detto che sì, può darsi, forse è felice.
Sono le cinque e cinquantuno.
Sospira, piano e impercettibilmente mentre adocchia la stanza accanto, dalla quale proviene solo un
russare sommesso e profondo.
Lo schermo del cellulare s’illumina e Esci grida un nuovo messaggio con la voce stridula di Serena, e Malia
può già sentire addosso il freddo mattutino mentre si scosta di dosso le lenzuola.
Serena e Francesco sono ad aspettarla sulla soglia, come sempre, impazienti e giovani, e seguono ogni sua
mossa mentre con lentezza e cura maniacale chiude il cancello in ferro battuto, rumoroso antagonista
delle loro piccole fughe del Sabato mattina.
«È tardi» sussurra Francesco adeguandosi al silenzio delle strade di una città che ancora dorme. «È quasi
l’alba».
Corrono. La spiaggia non è lontana, ma ora che sono fuori dalle case piccole e ingombranti respirano la
vita, e se volare non è concesso correre fino a perdere il fiato sarà una degna alternativa.
Le persiane delle case ai lati della strada sono chiuse fittamente e si può sentire solo il mare che s’infrange
sulla riva, e forse qualche macchina troppo lontana perché possa vederli sorridere tra di loro mentre
riprendono il respiro e si gettano sulla sabbia.
Malia ci pensa tanto, alla “felicità”: si chiede perché sia così importante per tutti, se esista davvero o sia
solo una convinzione dell’uomo; poi arriva il Sabato mattina e si chiede se non sia questa, correre fino a
perdere il fiato, sentire l’adrenalina nelle vene, insultarsi a vicenda con gli occhi rivolti al cielo e ridere fino a
non capire il perché; è questo vivere?
Serena, Francesco e Malia tutti i Sabato mattina vanno a guardare l’alba insieme, eppure in un tacito
accordo nessuno dei tre ama vedere il sole spuntare dalla distesa celeste. Piuttosto si fermerebbero per
sempre in questo istante di transizione, quando le stelle non ci sono più e il sole non arriva, incantati
nell’osservare la perfezione di un cielo scuro e incerto come i loro destini, che si diramano confusi su
troppe vie. E come il cielo adesso, anche loro non sono né notte, né giorno: hanno ancora fresco il ricordo
delle stelle e aspettano con impazienza la loro alba personale, ma per adesso... per adesso sono felici.
VINCENZO CASCONE
@VinVincas
IL TWEET
Felicità è trovare il proprio posto nel mondo, dopo aver sfidato l’onda, assecondato il flutto, abbracciato il
mare. #wehaveadream #felicità
IL RACCONTO
Biglietti, prego
Incrociarono lo sguardo, per non più di qualche secondo, e tanto bastò al diaframma di Giorgio per
restare sospeso, inaspettatamente. La ragazza distolse gli occhi color nocciola per fissare, oltre il finestrino,
sprazzi della stessa realtà percepiti da un’angolazione opposta, in lento movimento.
Il Frecciarossa sul quale erano saliti, fino a ritrovarsi seduti uno di fronte all’altro, aveva iniziato la sua
marcia: primo del giorno, usciva dalla stazione di Napoli per risalire mezza penisola.
Giorgio scrutava, furtivo, il volto di lei. Ne ristudiava i lineamenti, a distanza di tempo, cercandone il tesoro.
Lui, più di tanti altri, conosceva il segreto di quel viso: una graziosa fossetta spuntava all’angolo sinistro della
bocca, quando esplodeva in un sorriso. Te ne aspetteresti due in questi casi, ma Nadia ne aveva solo una, a
sinistra: magia.
Una voce superò il tramestio del vagone e giunse, improvvisa, a interrompere i pensieri del ragazzo. «Mi
sei mancato». Pausa. «Molto». Velluto. Quella voce era velluto. Giorgio sarebbe stato lì ad ascoltarla per
ore, ancora – certe cose non cambiano mai. Come potrebbero, del resto?
«Qualcosa nel tuo piano non deve aver funzionato, allora». Non troppo dolce, non troppo rude: Giorgio
avvertiva un certo pericolo nel lasciarsi avvolgere da quelle fibre. Ma non avrebbe mai rischiato di
strapparle.
«Non sono mai stata un’abile stratega, lo sai». Pausa, di nuovo. «Cambio troppo spesso idea sulle cose. Su
di me».
Decisamente.
La vita, nelle sue danze, aveva già portato Giorgio e Nadia a sedersi allo stesso tavolo da gioco, anni
prima. Avevano provato a mescolare le loro carte, per vedere cosa sarebbe uscito fuori. Le combinazioni
sembravano perfette: fu questo che la spaventò.
Era stato – si era detto Giorgio, col tempo – come trascorrere un’intera serata nella hall di un multisala, a
osservare i pannelli luminosi con le locandine dei film in proiezione. Non l’avresti definita una mossa molto
sensata, ma rimasero lì, a immaginare le storie dietro il vetro – le loro possibili storie, se solo avessero
voluto diventarne i protagonisti. Rimasero semplici comparse.
Giorgio ripose le sue carte in tasca e vide allontanarsi lei, troppo insicura sulle cose del mondo per
lasciarsi travolgere da un rapporto così intenso. La vita, allora, immancabile, li riprese nelle sue danze: un
altro giro, che li divise e li portò lontano.
Da quel giorno avevano viaggiato, tanto. Scoperto, molto. Amato, poco. La loro speciale alchimia, piccola
pianta del deserto, aveva resistito alla siccità e ora recuperava vigore. Goccia dopo goccia, parola dopo
parola.
Abbattevano le mura delle formalità e degli imbarazzi, quei due, mentre fuori fu mattina, meriggio e
pomeriggio. Coppia assai strana, quei due:
compagni di viaggio, senza neppure sapere fin dove. Non era stata una semplice dimenticanza – non puoi
fare un incontro su un treno e dimenticare di chiedere: dove stai andando? Era, piuttosto, il consapevole
desiderio di vivere la felicità di ritrovarsi, senza contare i minuti – loro che il tempo non l’avrebbero mai
posseduto.
E quando il treno ripartì verso l’ultima fermata e nessuno si mosse, sembrò naturale, quasi scontato, che
entrambi fossero diretti a Milano: visita alla sorella, lei; lavoro, lui.
Scesero dal treno. Il luogo più adatto dove confluire sembrò quel punto sotto i tabelloni orari all’ingresso
della stazione, crocevia di respiri, valige, destini.
Nadia iniziò a parlare, con quella velocità di parola che solo un sincero entusiasmo può donare. A
trascriverlo non useresti nemmeno una virgola.
Forse un punto, appena.
Era qualcosa riguardo il caso – o il destino. Chissà chi o cosa aveva riservato per loro due posti sullo
stesso treno, uno di fronte all’altro. Era difficile non pensare a un piano che aveva fatto di nuovo impugnare
la penna ad entrambi. A lui, che non era cambiato. A lei, che si diceva diversa. Perché non provare a
scrivere un altro capitolo della storia, lì dove si erano fermati?
«Sto immaginando noi due a cena, stasera, insieme a mia sorella. Sarebbe felicissima anche lei. Quasi più di
me».
Leggerezza. Come se il mondo, carico dei suoi mali, non sprofondi nel vuoto solo perché a tenerlo su ci
pensano persone come Nadia, con quegli inviti così, dal nulla. Velluto e leggerezza: tante volte Giorgio non
aveva desiderato altro.
Pausa, di nuovo ancora. Più lunga delle altre. Forse silenzio, per sempre.
Giorgio immaginò di trovare semplici parole per congedarsi dalla sua compagna di viaggio, uscire dalla
stazione e perdersi, da solo, nel reticolo di strade a lui ignoto, cercando il senso di quell’ordine fino a
perdere il suo.
Una cosa tranquilla. Poi, però, la razionalità si fece superare dall’istinto, all’ultima curva sul sentiero verso il
sacro altare delle Cose Da Fare Perché Ne Vale Sempre La Pena. Perché la felicità richiede passi diversi, il
sacrificio di orgoglio e pregiudizio per far rinascere l’anima a nuova vita.
Giorgio si abbassò e baciò Nadia, sulla fronte.
«Prometti solo che a cucinare sarà tua sorella».
Quell’ultima pausa fu davvero soltanto una pausa.
Avvenne Il miracolo di lei. Quello di scegliere in quell’istante, nel serbatoio dei mille movimenti possibili,
quello e quello solo che avrebbe dato carne e senso a quello stato: felicità.
La fossetta era ritornata, all’angolo della bocca. Nadia, raggiante, sorrideva.
NADIA DAVINI
@Nadezdavz
IL TWEET
sono gli occhi di mio nonno che ricorda la fuga nel giorno del suo
compleanno del ‘43. E’ nato l’8 settembre. #wehaveadream #felicità
IL RACCONTO
Fuga di felicità
Felicità. Paura. Felicità. Paura. Felicità. Paura. Quando scappi hai il cuore che quasi non si tiene più, sembra
che sobbalzi e che si strappi da un momento all’altro. Non hai ripensamenti, perché non hai tempo. Non
hai tempo per pisciare, per pensare, per ricordare, per piangere, per pregare, per smoccolare. Hai solo il
tempo di fare quello che stai facendo.
Meccanicamente. Un passo e poi l’altro. Di nuovo un passo e di nuovo l’altro. Prima il destro e poi il
sinistro, di nuovo il destro e di nuovo il sinistro.
A passo svelto, senza voltarti. Le gambe in fila, il tempo scandito dal fruscio dei pantaloni che sembrano
comporre una musica regolare.
Ma no, questo è venuto dopo. Mi confondo. Questo è già un ricordo, è già una ricostruzione. In quel
momento non sapevo se stessi portando i pantaloni lunghi o corti e che rumore facesse il velluto a
contatto col velluto stropicciato sopra gli scarponi sporchi di fango e fogliame.
A passo svelto, dicevo. Senza voltarmi, testa china, poi sempre più veloce, che quasi inciampavo, ma non
dovevo fare rumore. Mi arrotolavo su me stesso, i piedi si incastravano nei piedi, dovevo stare su. Il passo
lasciò presto il posto alla corsa affannosa e scomposta, poi alla corsa disperata e urlante di felicità. Stai
fuggendo, Mario. Sì, stai fuggendo. Sei in fuga, se qualcuno ti vede ti ammazza. Un colpo, secco, bam, a terra,
morto. Morto e sepolto chi sa dove. Chi sa da chi. Morto e casa è lontana. Casa è lontana davvero.
Ma no. Anche questi pensieri sono venuti dopo. Dopo la fuga, dico. In quel momento preciso c’ero solo io.
Io e altri cinque come me. Secchi e allampanati ragazzotti di provincia. Affamati, perché si mangiava poco.
Sconvolti, perché non sapevamo cosa stessimo facendo, ma lo stavamo facendo. E questo bastava. A me
bastava. Io non ho avuto ripensamenti.
Mai.
Sono nato a Viareggio. Sono cresciuto a Viareggio. E Viareggio è l’unico posto al mondo in cui vorrei vivere.
Mio padre è socialista. Di quei socialisti buoni, dico. Quelli antifascisti, quelli dei fratelli Rosselli e Matteotti.
Non ha mai preso la tessera del fascio e Viareggio, credetemi, Viareggio è piccola davvero. Anche se c’è il
porto, e che porto. Anche se c’è il mare, e che mare, Viareggio è piccola. Ci si conosce tutti. Giocavamo
per strada o in pineta, poi si andava sul Molo e si guardava il mare. Prima della guerra, dico.
È impossibile nascondersi e infatti mio padre non si è mai nascosto. È socialista e lo dice forte. Lo dice
forte anche mentre passano i fascisti, fascistacci anzi, della città. E io li conosco e li riconosco. Sono i nostri
vicini di casa. E da un giorno all’altro hanno iniziato a farci degli sgarbi, perché non salutiamo col braccio
teso quando passano quelli importanti, quei signorotti di paese arricchiti che pensano di farci paura. Mio
padre è stato licenziato, picchiato, minacciato, torturato. Oh sì, l’ha bevuto anche lui l’olio di ricino.
Le manganellate l’ha sentite precise e potenti sugli stinchi, certi lividi poveromo. Ma non si piegava, eh.
Per risposta ci portava in giro per Viareggio vestiti con i cappotti rossi. Siamo tre fratelli, io il più grande.
A me raccontava delle storie belle e mi ha sempre istruito a dovere: noi siamo socialisti e siamo per la
libertà. Siamo per un paese felice e libero, dove siamo tutti uguali, dove i più poveri vengono aiutati da chi
sta meglio e dove ci si chiama per nome. E se ci si chiama per nome oggi, ci si chiama per nome anche
domani. Perché l’umiltà, la giustizia e il rispetto vengono prima di ogni altra cosa.
Mi basta questo. Con queste parole nella testa sono tranquillo: sarà che mio padre ha quel vocione pieno,
rotondo, caldo, in tutto e per tutto uguale al suo nome. Gustavo. Forte, coraggioso, giusto. Sarà che quando
parla è sicuro di sé, non tentenna, ha negli occhi la forza della ragione e della speranza. È un uomo felice. Io
la felicità l’ho imparata così: ascoltando mio padre che sotto le bombe e mentre i crampi ti prendono allo
stomaco perché sono due giorni che non mangi, parla di libertà. Di giustizia e di sogni: di quel sogno che
abbiamo tutti, io, mio padre, mia madre, i miei due fratelli più piccoli e questi cinque soldati ragazzotti di
provincia, secchi e strampalati, che ora fuggono con me.
Ancona non mi piace, ma la stazione di Ancona oggi ha una luce tutta sua. «Otto settembre
millenovecentoquarantatré. Il treno per Viareggio delle ore 20 è in arrivo». «Ma siamo sicuri che oggi sia
l’8 settembre?» - chiedo perplesso e col cuore in affanno. «Sì, otto settembre. Hai sentito prima alla radio?
Diceva otto settembre», mi rispondono in coro. Oh Cristo, otto settembre - penso - Oggi ho 19 anni. E torno
a casa.
Mario figlio di Gustavo socialista di Viareggio a casa ci tornò davvero. 8 settembre 1943. Treno Ancona Viareggio. Indossava una camicia stracciata a quadri, i pantaloni di velluto consumati e gli scarponi di due
numeri più piccoli. Fuggì dalla guerra per tornare a Viareggio con altri soldati che, travestiti con panni
borghesi e ammassati sui tetti del treno, tornavano alle loro case. A Viareggio c’era la fame e poco dopo
partì per le Apuane.
Divenne partigiano. Un anno passato lassù. Parlando con formiche e rane nelle lunghe ore di solitudine. E
guadagnandoci una saggezza che oggi, a 89 anni, gli fa dire che «chi non è felice con poco non sarà felice
con niente».
SARA D’ORAZI
@SarettaDorazi
IL TWEET
La felicità è vedere di nuovo il mare dopo un rigido inverno in città. #wehaveadream #felicità
IL RACCONTO
L’onda, la sabbia, il vento
Alla fine è sempre lì che ti aspetta. Non sai esattamente in che stato lo troverai quando i tuoi occhi,
annullando ogni pensiero, fisseranno di nuovo quella sua linea iridescente che da sempre traccia
l’orizzonte. Non sai se sarà irrequieto, increspato o calmo, quello che sai è che è lì, proprio come l’ultima
volta, quando, con una valigia in mano, te ne sei andata salutandolo con la consapevolezza che, presto o
tardi, l’avresti rivisto il tuo mare.
E così è stato. Sei tornata, hai disfatto i tuoi bagagli pieni di vestiti colorati, hai indossato quel costume che
ti piace tanto, il panama che avevi comprato nel primo pomeriggio di quell’afoso ferragosto di un anno fa
in una bancarella a Punta della Suina, e sei corsa in spiaggia, consapevole che ciò che stavi per vedere ti
avrebbe reso profondamente felice.
Per le persone come te, il mare è molto di più di una distesa d’acqua in cui fare il bagno; è un luogo che
si racconta attraverso le piccole cose. Una paletta ripetutamente trascinata sul bagnasciuga dall’andare
e venire delle onde ti parla di un papà che ha trascorso, insieme alla sua famiglia, una piacevole giornata
giocando con i figli a costruire castelli di sabbia e vulcani fumanti, mentre la moglie si riposava serena sotto
l’ombrellone leggendo un buon libro. Poi l’improvviso acquazzone li ha fatti scappare in fretta, lasciando
solo quel ludico utensile come traccia del loro passaggio. Le impronte di un gabbiano, una bottiglia di birra,
le tracce di un falò, tutto ti narra una storia e non importa che sia vera o presunta, quello che importa è
che quanto ti è raccontato ti rende felice. Lo stesso potere narrativo lo ha quel tronco d’albero sbiadito
dal sole che giace indisturbato sulla sabbia, testimone del violento nubifragio che ha interessato la regione
nei mesi invernali.
Dopo la passeggiata, quello stesso tronco si è trasformato in una panchina, il tuo posto riservato dal quale,
da un momento a un altro, osserverai il sole scendere piano piano verso ovest mentre saluta il giorno
facendo alzare un tiepido vento che profuma di sale. Hai infilato il cardigan e ti sei goduta lo spettacolo.
Hai aspettato il crepuscolo, poi, ti sei alzata e sei tornata in camera per toglierti di dosso, con una doccia,
un po’ di sabbia e la salsedine rimasta tra i capelli.
L’indomani mattina ti sei diretta di buon’ora al porto, hai fatto la fila in biglietteria e sei salita sul traghetto
che ogni giorno solca il mare portando gli isolani sulla terraferma. Arrivata a destinazione, hai salutato Max
che ti aspettava al centro diving insieme al suo staff di “cani salati” per farti vedere tutto ciò che il mare
nasconde e condivide solo con chi è capace di guardare i suoi tesori con stupore e rispetto.
Il mondo sottomarino è il regno della pace, dove i suoni sono ovattati e l’unico senso che hai a
disposizione è la vista, affascinata da tanta naturale bellezza. È il luogo dove i pensieri si annullano e il cuore
si fa leggero e dolce.
Quando risali, nonostante le orecchie tappate dall’acqua e la ferita che ti sei procurata urtando contro un
corallo, sei così soddisfatta dell’esperienza e felice per le innumerevoli meraviglie marine appena vedute
che riscenderesti subito nel profondo blu, se solo non ci fosse quella tabella da rispettare.
Quel giorno hai capito che anche sott’acqua il mare ha tanto da comunicare. Ti sei sfilata la muta, hai
pranzato con i tuoi amici che in corpo hanno più azoto che ossigeno e nel pomeriggio, guardando la
schiuma delle onde dal ponte della nave, hai fatto ritorno sull’isola dove, puntale, ti aspettava il tramonto.
Hai sempre detto che la felicità è rivedere il mare; credevo allora alle tue parole e ci credo adesso perché
so cosa vuoi dire. Il mare è dedicarsi consapevolmente del tempo, lasciandosi dietro i grigiori della città,
del freddo dell’inverno che, spesso, nemmeno la fiamma viva di un camino riesce a scaldare, e tornare a
rivalutare ciò che è importante per noi, quello che ci rende davvero felici.
E la maggior parte delle volte, un sorriso nasce da un piccolo dettaglio trascinato da un’onda.
GABRIELE MONTANARO
@robadartista
IL TWEET
Guardo ogni uomo, cercando ciò che lo rende terribilmente simile a me. #wehaveadream #fratellanza
IL RACCONTO
[fra-tel-làn-za] s.f.
Era in quell’abbraccio che aveva scoperto il suono della fratellanza, quel suono regolare, sordo e ripetitivo
da quaranta milioni l’anno. Milioni di battiti, intendo.
Il concetto in sé lo lasciava abbastanza indifferente, una di quelle parole troppo lunghe e poco utili, legate
nella memoria ai calci tirati al pallone dopo il catechismo. Poi per lavoro aveva cominciato a viaggiare. Una
vocazione diceva la madre, che l’aveva battezzato Paradiso per aver letto Kerouak in una riduzione da
patinato del 1976. Sulla strada c’era rimasto davvero, e più volte, ma era servito: aveva imparato i trucchi
del mestiere e ora che gli toccava metterli in pratica era l’agente più economico di tutta l’area. E per
questo ce la faceva ancora.
Da subito aveva potuto costruirsi la sua personale idea di umanità. Gli aerei erano banditi dalla strategia
aziendale e non era un gran male, vista la sua ritrosia a guardare dall’alto: “troppo confuso – diceva – non
si capisce più cosa è grande e cosa no”. A impressionarlo non era tanto il campionario scadente che
aveva fino ad allora incontrato, ma piuttosto quello immaginario che era capace di figurarsi nei viaggi di
notte, in treno. Le luci che sfilavano dai finestrini, nei rari momenti in cui si procedeva tra precedenze e
coincidenze mancate, lo avevano convinto che il punto di vista soggettivo con cui siamo stati educati a
guardare il mondo fosse completamente storto. “Un giorno prenderò ferie, e mi farò lasciare da una di
queste carrette in una stazione a caso: voglio sapere cosa fa tutta questa gente con la luce accesa quando
io passo con il treno”.
Ferie non ne aveva mai prese, ma forse per stanchezza aveva cominciato con quello che prima era parso
un vezzo, poi un’abitudine, infine una mania: “Guardo ogni uomo, cercando il dettaglio che lo rende del
tutto simile a me”. Terribilmente simile, diceva. E ci riusciva, ormai senza nessuno sforzo.
Ogni uomo un dettaglio, prima ancora del nome: l’orlo doppio dei pantaloni, l’orologio alla destra, la
maglietta bianca che spunta sotto la camicia. “Piacere, Paradiso”. Il nodo alla cravatta un po’ troppo grande,
la testa leggermente inclinata quando non si sa cosa dire. Senza parlare degli occhi, perché quelli li evitava,
per prudenza. Lì ci sarebbero state troppe somiglianze: pericoloso, molto pericoloso.
Una sola volta aveva guardato negli occhi, ed era stata sufficiente a fregarlo. Viveva insieme con quegli
occhi da quasi tre anni e si era convinto, dopo una serie infinita di alti e bassi, che fosse la parte di
umanità che preferiva. Non l’unica possibile, ma la più adatta a lui. Così la sera, su un piccolo divano rosso,
abbracciava quello sguardo con tutto ciò che aveva intorno, ripercorreva i dettagli trovati nella giornata e
riusciva finalmente a dare loro un suono ed una voce, il suono della fratellanza, un suono da circa ottanta
battiti al minuto. E per sicurezza, spegneva la luce.
FILOMENA TUCCI
@millytucci
IL TWEET
fratellanza non è appartenenza a un club ristretto ma condivisione di una visione del mondo
#wehaveadream #fratellanza
IL RACCONTO
Fratellanza ai tempi della scuola
Le due ragazze Sandra e Elena non si erano mai viste prima.
Provenivano da città diverse, famiglie diverse, educazione diversa ma il destino le unì per sempre.
Erano compagne di classe e dopo i primi giorni di scuola, si creò una immediata simpatia, si scambiavano
consigli, studiavano insieme, trascorrevano la “ricreazione” a ridere e a scherzare. La sera tornavano al loro
mondo, alle loro famiglie una a piedi o con l’autobus, l’altra accompagnata in macchina dai genitori.
Mentre Sandra trascorreva le vacanze all’estero o in deliziose località turistiche italiane, Elena non sempre
poteva permettersi di partire per le vacanze, rimaneva a casa organizzandosi le giornate, lavorava in nero
come commessa in un negozio e quando le finanze lo permettevano faceva qualche gita fuori porta. Poi
al ritorno delle vacanze c’erano molte cose da raccontarsi, forse per Elena un po’ di meno, ma c’era nei
suoi occhi sinceri la gioia di ascoltare dei posti meravigliosi visti dalla giovane amica, in qualche modo
ascoltando il suo resoconto era quasi come se ci fosse stata anche lei.
In ogni caso in entrambe era chiara la gioia di rivedersi: a entrambe piaceva studiare e non si limitavano
a studiare sui libri inseriti nel programma didattico, andavano sempre alla ricerca di nuove informazioni...
La bellissima Biblioteca comunale era luogo di ritrovo e di riflessione, ore intere ad approfondire testi,
ore intere a commentarli insieme e a confrontarsi così giovani sui massimi sistemi, parole grandi e valori
immensi:
• giustizia
• fede
• tolleranza
• ma anche
• riflessioni sul senso della vita e della morte
• libertà
• arte.
Il tempo passa in fretta soprattutto quando ci si diverte e ben presto alla voglia di imparare si aggiunse la
voglia di sperimentare: di andare alla ricerca delle novità, il desiderio di libertà, la curiosità per il mondo.
Anche con i professori il rapporto cambiò: se nei primi anni le due allieve si erano sempre distinte per
disciplina e impegno scolastico, crescendo entrambe diventarono più ribelli e lo spirito critico si manifestò
anche in classe.
Elena un giorno discusse con il professore di filosofia: si commentava un articolo di Scalfari sulla scelta
che ognuno di noi compie tra etica del dovere e etica della responsabilità. L’allieva senza timore criticò
apertamente il professore che suggeriva di ricorrere alle raccomandazioni. Elena non aveva mai chiesto un
favore, né mai avrebbe accettato una raccomandazione.
Anni dopo capì che il professore stava cercando di metterle in guardia dal mondo, il messaggio
dirompente e provocatorio aveva un significato diverso: era proprio diretto a chi era solo bravo e che nel
mondo non sarebbe stata sufficiente la bravura, se non accompagnata da capacità relazionale. Ci vollero
circa altri 20 anni per capirlo e vederlo con occhi meno critici.
Le ragazze crescevano insieme uno spirito di fratellanza e solidarietà le legava profondamente, le cadute e
i momenti no di una erano sempre sollevati dall’amicizia e comprensione dell’altra.
Il destino però ritornò a fare capolino qualche giorno dopo il diploma:
Sandra partì per studiare in una prestigiosa università, Elena invece rimase nella piccola città di provincia
iscrivendosi all’università locale.
Il distacco fu traumatico, soprattutto per Elena, quasi simile a un lutto. La ragazza pensava che
perdendo l’amica aveva perso tutto: l’amore per l’arte, la musica, i film, la natura, la preghiera, la filosofia.
Provò un senso di rabbia, pensava che la sua crescita si sarebbe fermata lì...ci volle molto tempo per
riprendersi, per aprire il cuore agli altri e trovare altri amici con valori simili, con cui condividere lo stesso
sentimento di fratellanza.
Sandra certa che l’amicizia con Elena non sarebbe mai venuta meno, aveva però bisogno di andare via da una
famiglia medio borghese particolarmente severa, da regole antiche che prevedevano il debutto in società, un
buon matrimonio e uno stile di vita che non le apparteneva. Andando a studiare fuori non tornò mai più nella
sua famiglia di origine, ancora oggi il padre prova a organizzarle un matrimonio, trovarle un posto di lavoro
sicuro, ovviamente senza successo.
Elena rimasta sola ritrovò la forza di andare avanti proprio grazie all’amicizia della famiglia e delle persone simili
che poi incontrò nella vita (compresi professori e colleghi di lavoro) e che l’aiutarono a crescere e a riscattarsi
dalla condizione difficile di povertà, di disoccupazione, di caste chiuse spesso tipica di una città di provincia, dove
per le donne , anche se studiose è tutto più difficile. Elena visse in tante città diverse, anche all’estero ma decise
di stabilirsi in Italia. A Elena non mancarono certo momenti difficili, di sconforto, di incertezza per il futuro ma i
suoi valori e la fede e il grande amore per la famiglia e per il suo Paese la spinsero a resistere.
Quei giorni ai tempi della scuola non tornarono più ma le due amiche ancora oggi ogni tanto si ritrovano.
Ora sono due donne.
Elena oggi vive a Roma, si è sposata e con grande fatica e impegno negli studi porta avanti una carriera
dedicata al sociale, ai giovani, al sud, dialogando con il mondo politico, con cui ha fatto pace.
Sandra finita l’università è andata a vivere all’estero, in una grande metropoli dove finito di lavorare prende
la bicicletta e percorre il meraviglioso lungomare.
SILVIA GRECO
@thecalling90
IL TWEET
parleremo di fratellanza quando non dovremo più dire ai nostri figli di non accettare caramelle dagli
“sconosciuti”. #wehaveadream #fratellanza
IL RACCONTO
Il sapore di una fragola e la leggerezza di una farfalla
Oggi è uno di quei giorni in cui so che devo correre anche se il mondo gira lentamente. La pioggia è
arrivata puntuale ma io, questa mattina, mi sono svegliata tardi. Forse perderò l’autobus, oggi non ho il
tempo di fermarmi al tabacchi a comprare le caramelle. Ho finito le mie scorte ieri sera, ma si sa, il mondo
non aspetta, anche quando va piano. Non ho scelta, continuo a correre sperando che oggi la vita sia un po’
meno amara del solito.
Amaro fu quel giorno in cui mia madre mi disse che saremmo stati via da casa per un po’, una specie di
vacanza, così la definì. E se avessi fatto la brava, se avessi preso tutte le medicine, saremmo tornati presto a
casa.
Così mi ritrovai in una stanza insieme ad altri bambini. Mia madre mi disse che ero fortunata perché il
mio letto era accanto alla finestra e sulla parete di fronte erano disegnate tante farfalle colorate: io in quel
periodo avevo la fissazione delle farfalle, era il mio “tempo delle farfalle”.
I giorni passavano lenti o forse così sembrava perché dovevamo solamente attendere. I dottori dovevano
fare degli accertamenti. Per me, dopo un po’, quell’attesa divenne quasi normale: anche i bruchi devono
attendere prima di diventare farfalle, pensavo. Il Natale era alle porte e in uno di quei lunghi giorni piombò
nella mia stanza un gruppo di giovani: sembravano dottori perché avevano la loro stessa divisa bianca,
ma indossavano anche dei cappelli da Babbo Natale; alcuni strimpellavano delle chitarre. Mi ricordo che
fu come un’esplosione di gioia: le allegre canzonette di Natale, il ballare di quei giovani avanti e indietro
per tutta la stanza in modo buffo e coinvolgente. D’un tratto uno di loro si avvicinò a me e mi chiese di
mettere la mano dentro al suo cappello per prendere una caramella. La mia mamma non era lì con me in
quel momento, si era allontanata per un poco.
Eravamo io e quegli allegri e strani sconosciuti. Con ferma convinzione scossi la testa e dissi di no: mi
sembrò l’unica cosa ovvia che potessi fare. Mia madre mi aveva sempre detto che non si accettano le
caramelle dagli sconosciuti, e sebbene l’atmosfera in quella stanza fosse divenuta più familiare, io non ebbi
alcuna esitazione: non dovevo prendere la caramella.
La combriccola uscì dalla stanza, io guardai l’orologio appeso alla parete e ricominciai ad attendere La
musica faceva ormai da sottofondo ai miei pensieri quando mia madre ricomparve sul ciglio della porta
e con un grande sorriso mi invitò ad unirmi al coro di voci fuori dalla stanza. Mi prese per mano e mi
trascinò in quell’atmosfera colorata. C’erano medici, infermieri, tanti bambini come me e poi mamme, papà,
nonni, tutti uniti sulle note di un Jingle bells o di un Tu scendi dalle stelle. Palloncini colorati assumevano le
forme più stravaganti nelle abili mani dei dottori-babbonatale: io, naturalmente, scelsi un palloncino a forma
di farfalla. Tutti i bambini facevano a gara per prendere le caramelle più buone e c’era chi le barattava in
base al gusto o al colore. Io - non so ancora se per paura o per mio volere - rimasi a mani vuote. Un
bimbo che non conoscevo bussò sulla mia spalla e mi disse: “tieni, io ne ho due”. Non mi diede neanche
il tempo di aprire bocca e in quello stesso istante il mio vuoto si riempì: tra le mie mani una caramella
al gusto fragola, leggera come può esserlo solo una farfalla. La scartai con la stessa aspettativa con cui si
aprono i regali di Natale. Si sciolse in bocca in un attimo e mi rimase nel cuore per sempre.
Da quel giorno cerco di avere quasi sempre con me un pacchetto di caramelle, in tasca o in borsa, non
importa il gusto. Le tengo pronte per i momenti amari, i miei e quelli di un qualunque “sconosciuto”. Oggi
credevo di essere in ritardo a rincorrere la vita e invece l’ho ritrovata puntuale alla fermata dell’autobus. È
lì che vi ho visto, fratelli, con l’ incertezza scolpita negli occhi, la rassegnazione nelle vostre mani incrociate,
la delusione nelle vostre rughe. Ho ingoiato la vostra amarezza e l’ho sentita scendere giù come una pillola
spigolosa. Avrei voluto scioglierla quell’amarezza, ma non avevo caramelle nelle mie tasche. Il vuoto tra
le vostre mani l’ho riempito con un sorriso e ho sentito in bocca il sapore di una fragola e nel cuore la
leggerezza di una farfalla.
ELISABETTA GHISELLI
@elisabetta_web
IL TWEET
Noi. Prima persona plurale alla quale fare posto dentro di Noi. Per accogliere il presente, plurale.
#wehaveadream #fratellanza
IL RACCONTO
Noi. Fratelli di latte
In una piccola comunità stare al margine del “noi” è scomodo. Soprattutto quando patire assieme diventa
il più profondo sentimento condiviso, quando nulla è più somigliante a come ce lo siamo sempre figurati,
quando le differenze hanno la stessa cittadinanza delle identità. A seconda di come si sposta l’io, si sposta
anche il confine che più delimita uno spazio stretto, più diventa soffocante. Ma quando nasciamo, gli altri ci
sono già. E il “noi” esiste solo se c’è qualcuno disposto ad ascoltarlo.
Ho impiegato una vita intera a cercare di ricomporre le contraddizioni del mio “noi” andato in frantumi,
per capire quali sono le cose che più mi somigliano dentro un soggetto così molteplice e indefinito; in certi
casi molto più forte dei legami di sangue. Parentele immaginarie che racchiudono un senso di fratellanza e
solidarietà dai lineamenti intensi.
Abitavamo in una delle case popolari costruite dopo la guerra. A differenza delle altre famiglie, io non
avevo fratelli o sorelle, non di sangue almeno.
Avevo vicini di pianerottolo, compagni di giochi, amici di scuola. E poi c’era Paolo. Paolo era il fratello di
latte. Mia mamma andava a servizio presso la sua famiglia, in una casa signorile del centro. Diceva sempre
che, nonostante fosse faticoso e il padrone e la signora Claudia la trattassero con arroganza, le piaceva
lavorare lì, perché prendersi cura della bellezza di quel luogo faceva sentir più bella anche lei. Poco dopo
la mia nascita anche la signora Claudia partorì, dando alla luce Paolo. Non aveva latte, mingherlina com’era.
Così chiesero a mia madre di fare da balia. Sana e di forte costituzione, aveva tutte le caratteristiche
per prendere in affidamento il piccolo Paolo e farlo crescere bene. E lei, con la rassegnata generosità e
pazienza della gente di campagna, accettò di occuparsi del neonato. Fu da questo incontro che io e Paolo
diventammo fratelli di latte, nutriti dall’affetto della stessa donna, madre e balia allo stesso tempo.
Fu come condividere la stessa consapevolezza nei confronti della vita. Forse suggestione? O empatia? O
fratellanza. Forse tutte queste cose assieme.
Fatto sta che ci ha sempre uniti un legame speciale, fortificatosi nel tempo nonostante la diversa
estrazione sociale. Ci somigliavamo, pur restando ognuno a suo modo. Eravamo partecipi dell’identità
dell’altro e solidali nei momenti in cui ce n’era bisogno. Come quando, per contribuire al bilancio famigliare,
andavo a fare le consegne per il panettiere e non riuscivo a finire i compiti da portare a scuola il giorno
dopo. Paolo allora prendeva il mio quaderno e li faceva lui per me, evitandomi lo spiacevole inconveniente
di finire in ginocchio sui ceci dietro la lavagna. O come quando gli ho insegnato a pescare giù al fiume e ha
potuto dimostrare a tutti che, nonostante l’aspetto fragile e timido, aveva la forza e l’astuzia di un uomo
fatto.
Poi qualcosa si è frantumato. Il “noi” fatto di momenti, parole, risate, è esploso in tante schegge appuntite,
lasciando attorno a sé una zona grigia.
Sono bastate poche parole. “Parto. Mi trasferisco a Bologna. Frequenterò l’Università per diventare medico,
come mio padre”.
Prima persona plurale. Insieme di persone, plurali. Identità che marcano discorsi al plurale, per accorciare
differenze o per togliersi dalle responsabilità.
Ho impiegato una vita intera a cercare di ricomporre le contraddizioni del mio “noi” andato in frantumi,
per capire quali sono le cose che più mi somigliano dentro un soggetto così molteplice e indefinito.
Mi sono iscritto all’Università di Bologna nel 1966, un anno dopo di Paolo.
Ho lavorato duramente per pagarmi gli studi e altrettanto duramente ho studiato per rendere fieri di me i
miei genitori. “Abbiamo un solo figlio, noi, ma studia all’Università”.
Paolo l’ho incontrato una mattina di maggio, durante una manifestazione studentesca. Io da un lato della
barricata, lui dall’altro, a prestare soccorso come volontario della Croce Rossa. Solo uno sguardo, di pura
fratellanza. Ci si riconosce, fra chi si somiglia. E un sorriso, perimetro di un viaggio nella più profonda realtà
del nostro “noi”.
GIULIANO CASSATARO
@CassatGiuliano
IL TWEET
In utero e in morte l’uguaglianza. In mezzo il coraggio per affrontare disuguaglianze e affermare la propria
“diversità”. #wehaveadream #uguaglianza
IL RACCONTO
È scritto d’amore e d’inchiostro il nome madre
“Dovere del medico è la tutela della vita, della salute fisica e psichica dell’Uomo e il sollievo della
sofferenza… senza discriminazioni di età, di sesso, di razza, di religione, di nazionalità, di condizione sociale
e di ideologia”. Lo avevo letto proprio io il Codice di Deontologia medica il giorno della mia laurea in
Medicina, in un’aula magna stracolma di gente. “Senza discriminazioni di condizione sociale”. E invece ero lì, in
quella corsia di Ostetricia ch’era da tre anni ormai la mia seconda casa, a far preparare la stanza per la figlia
del commendatore. “Se ne occupi lei, dottore. Faccia in modo che tutto sia perfetto! La mia cliente sarà
qui dopodomani alle otto in punto”. Così mi aveva ordinato il direttore. L’aveva chiamata cliente la figlia del
commendatore, e tale era stata per lui, una ricca cliente per nove lunghi mesi. Un brivido mi corre lungo la
schiena ogni volta che un medico pronuncia la parola cliente, sarà che io do importanza alle parole più che
al denaro, mi è stato insegnato che paziente viene da patior, “soffrire”.
Quando sto in Ostetricia le chiamo signore, indipendentemente dal fatto che sian coniugate, ché tanto
pazienti lo diverranno ugualmente quando le prenderà il dolore del parto. Anche quella volta il brivido mi
attraversò la schiena, atteggiai un sorriso e vestii l’abito dell’obbedienza, “Va bene, professore” risposi. Per
due giorni fui il regista di una pièce ridicola, a impartire direttive impartitemi per rendere adeguatamente
accogliente un ambiente che doveva trasformarsi da modesta stanza d’ospedale universitario a salotto di
una clinica per gente dabbene.
La cliente arrivò puntuale. Una rotonda signora alla trentaquattresima settimana di gravidanza. Sul volto
un’espressione di profonda tristezza. Lei e il marito quel bambino non lo volevano, mi era stato detto
da una collega. Eran pronti a dimenticare tutti gli sforzi compiuti per averlo: superare l’onta dell’infertilità,
accettare di sottoporsi all’inseminazione artificiale, primo secondo terzo tentativo… e tutto il denaro
buttato via per nulla. La vita era stata crudele con loro, la scienza aveva saputo regalargli solo un bambino
malato: anoftalmia bilaterale e agenesia renale monolaterale. Lei era lì solo perché glielo estirpassero dal
ventre quell’essere… Poi lo avrebbe abbandonato, che se lo prendesse la scienza quel bambino malato.
Di abortire non aveva voluto saperne, il suo rigorismo cattolico non glielo consentiva, ma tenerlo dopo la
nascita no.
Quello stesso giorno arrivò in reparto Michela. La teneva per mano sua moglie. Un anno prima avevano
suggellato il loro amore in America, matrimonio made in USA. La sua pancia era tonda: anche il suo
bambino era made in USA, come il suo matrimonio. Un velo di preoccupazione le oscurava il volto. Quella
mattina, al risveglio, aveva trovato del sangue… Io ero di turno in pronto soccorso. “Dottore, il battito…
Mi faccia sentire il battito del cuore!”, così mi implorava distesa sul lettino mentre muovevo la sonda
dell’ecografo sul suo ventre. E fu straziante non vedere lo sfarfallio del cuore sul monitor; il microfono
mi avrebbe dato conferma restituendomi un silenzio assordante. Non ci fu bisogno di parole. Gli occhi
di Michela erano già colmi di lacrime. In quella fredda mattina d’inverno si frantumava il suo sogno di
diventare madre e quello di sua moglie, di diventare madre anche lei. Crollava il castello degli sforzi
compiuti per organizzare quel viaggio in America, per accedere alla banca del seme, per accogliere in sé
quel bambino che avrebbe portato nel mondo in cui aveva combattuto per farsi accettare, per affermare il
suo diritto di donna di moglie di madre “diversa”, non uguale…
Due donne, due tagli cesarei: uno per far nascere un bambino malato, l’altro per portare al mondo un
corpo senza vita. Due donne, due mogli, due stanze d’ospedale. Due dolori diversi, diseguali…
Due giorni dopo aver partorito il suo bambino, Michela entrò nella stanza medici, avvolta nella sua
vestaglia bianca: “Lo allatto io, Eugenio!”, disse, e squarciò il brusio delle voci sommesse. Aveva origliato i
discorsi tra me e i miei colleghi. La figlia del commendatore era andata via due giorni dopo il cesareo, non
aveva voluto neppure vederlo Eugenio, di-nobile-origine, così lo avevamo chiamato noi medici quel bambino
malato. Il latte materno era necessario per la sua prima immunizzazione, lo sapevamo bene. E c’era lei,
Michela, con le sue mammelle turgide che non avevano potuto allattare. Ma come avremmo potuto
penetrare quella cortina di dolore e proporle di offrirsi?
La vita, a volte, accorcia i percorsi: Eugenio aveva chiamato a sé quella madre mancata. E fu un incontro
d’amore! Michela non mancava mai all’appuntamento: l’ora del latte era diventata l’ora d’amore. Glielo
lessi chiaro negli occhi una mattina, mentre allattava Eugenio sotto lo sguardo attento di sua moglie: quel
bambino volevano adottarlo. Sì, la vita, a volte, accorcia i percorsi, la società spesso li rende impraticabili,
pieni di ostacoli. Eppure c’era uno spazio bianco sul braccialetto al polso di Eugenio, lo spazio, vuoto,
che aspettava un nome di madre; eppure c’era l’amore tra quelle due madri-mancate, per quel bambino
malato. Ma l’amore tra due donne non ha sufficiente inchiostro per scrivere un nome di madre sul
braccialetto di un neonato.
CAROLINA PELOSI
@CarolCimPelosi
IL TWEET
Guardi il tuo riflesso su un finestrino in treno.Ti senti diverso, quasi solo. Poi ritrovi l’uguaglianza in due occhi di
fronte. #wehaveadream #uguaglianza
IL RACCONTO
Ma uguale a chi?
Sono cresciuta un pochino male, io.
Mi sono imposta, da sempre, di non voler stringere troppo con gli abitanti del mio paese. Che quelli sono
solo approfittatori. Ho pensato bene di lasciar perdere, di parlare l’indispensabile, di non ridere troppo.
Perché se ridi, là in mezzo, pensano di averti fatto fesso. Pensano che sei uno di loro.
Pensano che ti possono chiamare il sabato sera per una birra giù al pub. E a me, solo l’idea, fa salire il
vomito. Li ho capiti da subito, io, non mi è servito neanche averci a che fare.
Mia madre, invece, non ha mai voluto capire. Lei l’ha sempre vista come una malattia, questa mia
preoccupazione di non volermi mischiare con loro. Per lei, ero io quella sbagliata.
Si dice che nella vita di una persona, prima o poi, arrivi un’eccezione.
Io la mia eccezione l’avevo incontrata tra i banchi di scuola, al liceo. Lui se ne stava al banchetto vicino la
finestra, spesso guardava fuori e si perdeva, spesso la prof. lo doveva chiamare per nome per riportarlo in
mezzo a noi.
Due o tre volte, al giorno, rivolgeva parola a qualcuno, per chiedere una gomma o per chiedere la pagina
che ci avevano detto di studiare, che probabilmente in quel momento lui stava guardando fuori, di nuovo.
Qualche giorno, invece, se ne stava in silenzio tutto il tempo e disegnava.
Io lo guardavo, ma lui non se accorgeva mai.
Un giorno guardai fuori dalla finestra pure io e là era senza dubbio più bello.
Là, nel parco della scuola, c’erano gli alberi almeno. Lui cercava di scappare, come ho sempre fatto io.
Glielo chiesi, un giorno, che pensava nei suoi silenzi e nei suoi disegni e guardando gli alberi. Lui mi guardò
per cinque secondi, zitto e fisso negli occhi. “Quello che pensi tu”, mi rispose poi.
Ci eravamo guardati, avevamo pensato le stesse cose l’uno dell’altro, ci eravamo sentiti un po’ meno soli e
avevamo avuto il coraggio di dircelo solo dopo tre mesi di scuola.
Ci eravamo trovati e allora avevamo cominciato a parlarci, a vederci, a crescere e a considerarci una gran
bella salvezza. A mia madre lui piaceva e mi vedeva un po’ meno matta, almeno non me ne stavo da sola a
pensare chissà che. Un giorno mi regalò un braccialetto, lui ne aveva uno uguale.
Doveva essere il segno del nostro legame. Un legame che doveva arrivare lontano, più lontano di noi. Ci
eravamo promessi l’eternità. Ma il tempo ci ha fottuti. E ha fatto prima di noi.
Un giorno è scoppiato tutto.
Un giorno ci siamo urlati in faccia tanta di quella rabbia che sembrava quasi ci stessimo vendicando di tutta
la solitudine che avevamo provato.
Un giorno pioveva forte e lui scomparve sotto la pioggia. E dalla mia vita.
Non mi sono riconosciuta mai più in nessun altro. Non volevo. Nonostante ci fossimo detti addio, mi
sembrava di fargli un torto.
Poi, dopo tanto buio, avevo scoperto che se n’era andato. Si era trasferito per l’università. Eravamo
veramente troppo lontani.
Ma ho preso il coraggio tra le mani.
Ho ingoiato tante lacrime.
Ho sentito sulla pelle tanta solitudine. Più di quella che avevo già provato, prima di lui. Prima di noi.
Sono partita e lo volevo trovare e gli volevo parlare. Glielo dovevo dire che mi aveva lasciato il vuoto più
incolmabile dentro. Glielo dovevo dire che gli altri mi sembravano sempre più diversi da me e che io mi
sentivo sola.
Ci sono riuscita, alla fine. Con troppa paura negli occhi, gli ho parlato. E lui mi ha guardata per tutto il
tempo muto, come se non ci credesse. Come se io fossi un fantasma. E la mia voce sputava fiumi di parole
e io non mi sono sentita in me neanche mezzo secondo. Mi è sembrato me le stessero strappando dal
petto le cose che ho detto. Però non è bastato. Si è sentita la distanza che si è messa tra noi. E si è sentita
forte, ormai è indistruttibile. La sua vita è cambiata. La mia è rimasta la stessa, ma la sua no e io non posso
ficcarmici in mezzo come se fosse niente. O almeno, non posso deciderlo io.
Allora, con quest’atroce consapevolezza, sono ripartita promettendomi di non guardare più indietro.
In treno mi è tornato tutto alla mente. E ho capito che sarebbe successo ancora e ancora. Che certe
immagini non se ne sarebbero mai andate e sarebbero rimaste nella mia testa a vita.
Il mio riflesso sul finestrino mi ha quasi urlato quanto fossi sola, per tutto il viaggio.
Poi ho incrociato gli occhi di qualcuno di fronte a me. Ha guardato fuori dal finestrino, perdendosi, per
quasi tutto il tempo. Abbiamo sorriso insieme.
NADIA BIANCO
@pinky06_sere
IL TWEET
Due persone saltellano sullo stesso trampolino, pronte a tuffarsi, sanno che il risultato dipende solo da loro.
#wehaveadream #uguaglianza
IL RACCONTO
Non c’era più tempo
Partirono un martedì mattina, erano da poco passate le otto. Io e i mie genitori andammo a salutarli. Mio
padre strinse la mano del signor Leone. Si fissarono, per un lungo momento, negli occhi. Non vi fu bisogno
di parole. Il rispetto, la comprensione e la tristezza convivevano in quel gesto.
Cercammo di mostrarci sereni anche se facevamo fatica a nascondere la preoccupazione. Lele e io
eravamo insolitamente silenziosi. Lo aiutai a caricare la valigia e un paio di sedie, poi rimanemmo a
bighellonare lì intorno, senza sapere bene cosa fare. Avevo le biglie in tasca però non le tirai fuori e pensai
che neanche le figurine andavano bene.
Quando venne il momento di partire, il signor Leone si sedette vicino al guidatore. Lele, suo fratello più
grande, la mamma e la nonna si sistemarono sul retro della vecchia camionetta che alcuni conoscenti
avevano prestato. Era stata caricata all’inverosimile con mobili e vettovaglie di ogni tipo. Tutte cose che
pensavano potessero servire nella loro nuova casa. Le avevano messe insieme in fretta. Non c’era più
tempo.
La camionetta si avviò. Io rimasi, in mezzo alla strada, a osservarli. Le braccia lungo il corpo, i pugni che
si stringevano mentre pensavo che non potevo fermarli. Andavano nel ghetto. Non avevo capito bene
perché dovevano trasferirsi o chi lo avesse deciso. Sapevo solo che non potevano più rimanere. Anche
loro mi osservavano, dignitosi, quasi immobili, guardavano quella strada di cui erano stati parte per tanti
anni. Visi familiari che si fingevano impegnati per non doverli salutare, i vecchi caseggiati e il negozio, la
bottega di stoffe, che avevano dovuto chiudere qualche mese prima. Il futuro era incerto, il presente cupo.
Lele era impaurito, si appoggiava alla madre cercando conforto. Non so perché ma gli strizzai l’occhio
come avevo fatto tante volte quando condividevamo il segreto di una marachella. Lele rimase per un
attimo sorpreso poi ricambiò il mio gesto e sorrise. Era il mio migliore amico. Avevamo condiviso tutto
fino a quel momento. La camionetta svoltò e io mi mossi verso casa. La testa bassa, le mani piantate nei
pantaloni e la voglia di piangere che non riuscivo a frenare.
ANTONELLA SALAMONE
@SalamonAnto
IL TWEET
uguaglianza è il nome che ognuno dà ai propri desideri #wehaveadream #uguaglianza
IL RACCONTO
Quanto vale un desiderio?
Quanto vale un desiderio, ve lo siete mai chiesto?
Io sì e uno l’ho pure barattato, permutato quel giorno che la fiera dei sogni è arrivata in città.
La aspettavo da così tanti anni che attendendola avevo speso tutti quei desideri che tenevo velati.
Alcuni mi erano stati addirittura rubati.
Che poi li avrei nascosti meglio i miei desideri, io. A saperlo dei ladri, dei vigliacchi che mi hanno messo
sottosopra i cassetti. Per ognuno, dentro, proprio lì sul fondo, bagnati dall’odore del compensato loro
poggiavano. Li avevo ordinati, assettati. È vero, lo ammetto, non aprivo quei cassetti da tempo, ma sapevo
che i miei desideri stavano lì come io li avevo sistemati.
Magari ci fosse stata la polvere a coprirli, a nasconderli come solo la polvere sa fare quando cade tra il
cielo e la terra e tutto può e tutto cela. Quel giorno però, quando la fiera era arrivata in città annunciata
da un cantastorie che suonava la lira, mi sono ricordata di averne, forse, ancora uno.
Mi sono fiondata in cucina e mia mamma, conoscendomi, era lì che attendeva con lo sportello aperto del
freezer: un bel pennuto farcito di illusioni conteneva il mio ultimo desiderio.
Ma come si fa a sghiacciare una speranza congelata quando le delusioni fuori raggiungono temperature da
assideramento?
“Stai andando alla Fiera dei Sogni, lì non hanno microonde, hanno fornaci!”.
Ho cominciato a correre, come solo i pensieri sanno correre; tenevo stretto il mio desiderio in mano che
nonostante il freddo gocciolava ed è stato lì, in quel preciso istante, che ne vidi per la prima volta il viso. La
superavo e sorpassandola ne leggevo il nome stampato su una targhetta: Libertà.
Eravamo uguali, ero libera. Non ero più l’ultimo chicco di pasta rimasto nella pentola, l’ultima goccia di
doccia finita nel piatto: l’entrata della fiera dei sogni era davanti ai miei occhi.
Sembrava proprio un circo. Un grande tendone illuminato. La lira accompagnava le immagini di ognuno e
offriva un sottofondo di gioia ovattata.
Il cantastorie raccontava. “Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo
credo”.
Io invece avevo il mio ultimo desiderio e lo volevo vendere, ma non sapevo ancora che valore avesse. Né
quanto pesasse. Stava dentro la mia mano, lo giravo e rigiravo tra le dita.
Tante persone mi passavano accanto. Mi urtavano e mi colpivano trascinando a fatica degli scatoloni di
cui non sopportavano il peso. Altri arrivavano invece con dei sacchi così pieni e colmi che sembravano
raccolte nascoste di provviste di interi mesi in periodi di fame. Mi facevano pensare a mia nonna e ai suoi
racconti di guerra, alle sue cipolle raggrinzite, collezionate come oggetti preziosi nelle cantine di campagna.
Io stavo lì, col mio unico desiderio rimasto, piccolo e gelato e mi vergognavo di possederne solo uno
in quel via vai di bisacce rigurgitanti aspirazioni e ambizioni. Ne avevo avuto nostalgia una volta, forse,
rimpianto per non aver saputo desiderare abbastanza e quel giorno, in quel momento, mi intimidiva il non
aver bramato a sufficienza.
Ero diversa come il desiderio che mi conteneva. La realtà aveva mantenuto le promesse denudandoci
entrambi; ci aveva spogliati, svestiti, lasciati come spiriti senza scarpe. Un desiderio scalzo è un’idea che
cammina sulla terra perché non sa più arrivare alle stelle. Un desiderio nudo è uno scheletro, l’intelaiatura
vagante di una visione su cui prima, arrampicata, riuscivo a stare con la testa all’insù.
Fu in quella confusione che mi cadde. Mi scivolò dalle mani e ne persi le tracce. Sparito, come inghiottito
da un girotondo di intenti che cominciavano a ballare seguendo una musica di sottofondo che era
cambiata e si era fatta più veloce, incalzante, insistente.
Desideri sgomitanti che gareggiavano per farsi notare ed essere venduti.
“Sono felice di unirmi a voi in questa che passerà alla storia come la più grande dimostrazione per la libertà
nella storia del nostro paese”.
Era Libertà che parlava al microfono. Il mercato dei sogni era iniziato.
“E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre
davanti a me un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione
si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli
uomini sono creati uguali”.
Parlava del mio desiderio, non potevo crederci. Sfuggendomi dalle mani era arrivato ai suoi piedi. Libertà
riusciva a leggerlo attraverso il ghiaccio: UGUAGLIANZA.
Barattandolo era diventato un sogno per tutti.
Quanto vale un desiderio, ve lo siete mai chiesto?
Se la risposta è no, vi consiglio di farlo, chissà che la Fiera dei Sogni, prima o poi, ritorni in città.
SILVIA PEVATO
@SilviaPevato
IL TWEET
dignità significa saper dire no a chi fa domande senza aspettare le risposte. #wehaveadream #dignità
IL RACCONTO
Grandi progetti.
Ho perso. Non ho più un lavoro. Nessun rinnovo del contratto, tanti cari saluti e tutti a casa.
Cioè io me ne devo stare a casa. Gli altri – quelli a tempo indeterminato – continueranno a prendersi le
ferie, i giorni di mutua, le ore di permesso. Se ne staranno seduti alle loro scrivanie ad aspettare le 17.55
per alzarsi e arrivare all’uscita con il badge in mano non oltre le 18.01. Prenderanno i loro cinque caffè
quotidiani alle macchinette nel bugigattolo in fondo al corridoio e sparleranno del vicino di banco. Si
lamenteranno dei loro 1700 € al mese e non faranno più straordinari.
Io non sono abbastanza vecchio per i privilegi, non abbastanza in gamba per farmi furbo. Mi accontentavo
di qualche rimborso spese, cosa posso pretendere di più?
Benissimo, me ne starò a casa con il mio cervello laureato e tutto quanto.
Nessuna idea brillante, fine del piano di riordino degli archivi, basta con le proposte per il web.
Voi volete soltanto uno schiavetto che vi sbrogli i casini che create con la vostra inefficienza. Vi basta
qualcuno che faccia vagonate di fotocopie, che chiami il vecchio geom. Tirimastri e gli spieghi come si apre
un pdf, che si smazzi le tabelle Excel dei conti economici e faccia le nottate su PowerPoint. Certo deve
essere laureato, sapere almeno due lingue meglio dell’italiano, avere ottime conoscenze informatiche,
essere disponibile a trasferte e straordinari.
Ma poi non ce la fate a tenervelo più di due anni. Ci dispiace molto, ma purtroppo non si può continuare
la collaborazione, perché il ministro ha deciso che oltre un certo numero di Progetti non si può andare
avanti. Mannaggia, io li ho finiti, i miei Grandi Progetti. Le grandi speranze no, però.
Quelle sfavillano ancora nel mio cuore fiducioso perché so che se ci si impegna, se si dà il massimo, allora
si apriranno le porte dorate della carriera di successo.
Sì, cari signori, ci credo. Cosa posso fare io per l’azienda? Quanto riuscirò a farvi guadagnare? Come potrò
contribuire all’allargamento della nostra porzione di mercato?
Standomene a casa, zitto.
Ad aspettare una vostra chiamata, fra tre mesi, quando forse si potrà ripartire con un nuovo incarico,
leggermente diverso dal precedente. E così il ministro lo facciamo fesso.
Voi telefonerete e mi direte: «Ciao, caro Nicola! Come stai? Quanto ci sei mancato in questi mesi... Ti
chiamiamo proprio per darti una bella notizia: da lunedì ricominci! Abbiamo trovato un modo per farti un
nuovo contrattino, non sei contento?».
Contentissimo.
Sapete cosa vi dico? Una sola parola.
No.
Non torno più.Voi non fate domande, ma io ve la do ugualmente una risposta. La mia risposta è no.
Non tornerò da voi. Lo so che faticherete a capire come un giovane laureato decida di rifiutare la grande
azienda, ma è un problema vostro.
Io vi sbatterò il telefono in faccia e guarderò la mia dignità nello specchio.
CORRADO PAOLUCCI
@WilliamPeig
IL TWEET
Svegliarsi. Guardare. Sorridere. Cioè, esistere. #wehaveadream #dignità
IL RACCONTO
Guardare, cioè esistere.
“Il pensiero di William tornava sempre a quei momenti dove la paura lo fermava, gli impediva di compiere
quel passo. Di guardare più in là, rischiando un po’ di sé stesso.
“Rischiare il giusto” si ripeteva. Rimaneva sempre a guardare dalle vetrine, si limitava a osservare le
superfici delle auto, le cortecce degli alberi le fissava a debita distanza. Senza volersi mai addentrare, senza
voler rischiare.
William si immergeva spesso in questi pensieri e proseguiva volentieri la storia cambiando il destino delle
cose, azzardando una mossa.
Ma era solo pensiero, niente di reale.
Il suo piede se ne stava sempre lì, incagliato nella rete dei timorosi.
Intrappolato nei suoi rimorsi.
Il post-it coi programmi del giorno seguente era sempre fisso sul suo tavolo, a volte dentro al pc, suo
compagno inseparabile. Lì, dava adito ai propri pensieri, alle proiezioni del suo volere mentale. “Troppi
pensieri” si ripeteva, “Penso che le mie idee un giorno possano cambiare il mondo, o almeno una persona
nel mondo”. Forse era proprio questo lo scopo della sua vita.
Lo struggimento era quello dell’artista. La bomba dell’idea scoppiava ripetutamente dentro la sua mente,
era anche lui un “malato di idee”. Di quelli che pensano in 2 ore di poter ricreare la Cappella Sistina o la
Toure Eiffel, oppure di svelare la cura contro il cancro con una semplice formula o di battere il record del
mondo dei 100m senza allenamento. Questo era lo stato d’animo in cui William navigava quando l’idea
esplodeva nella stanza della sua intelligenza. Una stanza trascurata dalla realtà o forse dove la finestra
restava troppo spesso chiusa.
In quei momenti, sempre meno rari, in cui la trama lucente restava accesa, William si sentiva bene. In pace
con sé stesso. Pronto a comunicare che il mondo è bello, che la realtà è inesauribile fonte di ispirazione,
almeno per chi la sa guardare. Lui la squarciava in due con lo sguardo di chi è certo che troverà qualcosa
di buono, ma senza sapere come. Di chi non promette ma mantiene. Di chi in fondo ha la genialità di
aspettarsi tutto anche da un muro bianco, da un piovoso lunedì mattina, da un vicolo cieco o da un
fastidioso mal di testa. Perché se sei alla stazione ad aspettare la persona amata non c’è pioggia che tenga
e se finisci in una strada chiusa, metti la retro e riparti.
Sì, riparti. Come accade oggi a William, alla mattina, quando esce dalla scatola nera dei sogni e comincia a
guardare. A sorridere. Cioè, a esistere.”
Il motivo per cui William ha vissuto così, non ci è dato di sapere.
Mi piace pensare che tutti noi possiamo accorgerci, anche solo per un breve istante, che siamo degni della
nostra vita.
LORENZO ONGARO
@ongarolorenzo
IL TWEET
La dignità è il bene più profondo che ognuno di noi custodisce dentro di sé, senza di essa saremmo solo
un involucro vuoto. #wehaveadream #dignità
IL RACCONTO
Kalifoo Ground
Faceva veramente freddo nella baracca di Gwen, quel gelo ti succhiava via la vita. Vivevamo in dieci sotto
un tetto sfondato, una stanza larga pochi metri. Sentivo lo stomaco contorcersi come un animale morente
nella savana per la fame. Me li ricordo, i leoni, colpiti senza dignità dai cacciatori nascosti a decine di metri
di distanza. Non mi sembra così diverso, qui a Borano.
Sono qui da una settimana, e mi sembra di vivere in un incubo: ci chiamano i “kalifoo”, una parola libica per
gli immigrati in transito. La verità è che eravamo semplicemente schiavi, schiavi a giornata.
Erano le 5 di mattina, pioveva. Prima poche gocce, poi più intensamente.
Guardai Gwen e gli altri africani che stavano con me in quella prigione, consapevoli che non ci avrebbero
preso tutti.
In pochi minuti eravamo tutti pronti a uscire, tanto non ci si poteva preparare più di tanto. Presi un po’ di
acqua da una bottiglia e mi lavai al meglio. Non c’era l’elettricità, figuriamoci l’acqua. Dovevamo sbrigarci ad
andare alla rotonda poco più lontana, sarebbe sicuramente arrivato il caporale nel giro di pochi minuti.
Mio fratello Hossein almeno aveva un lavoro fisso. Lo pagavano meno, ma lavorava tutti i giorni in un
cantiere poco lontano dalla nostra baracca. Chissà che fine ha fatto.
Come uno schiavo passato di padrone in padrone, ero stato mandato di campo in campo: a Foggia per
i pomodori, a Cassibile per le patate, a Rosarno per le arance, nell’aversano per il tabacco, a Casal di
Principe per le fragole. Questa era l’ultima tappa, per i pomodori.
Ci pagavano una miseria, tre euro per un cassone di 3 quintali. Chi arrivava a raccoglierne venti era
fortunato, forse lo avrebbero richiamato. Dall’alba al tramonto, chini a raccogliere pomodori da vendere
nei supermercati.
Come morti viventi io, Gwen e gli altri ci avvicinammo verso la rotonda, dove potevamo vedere anche gli
altri kalifoo che vivono a Borano. È una piccola città dove muoiono lentamente almeno 300 africani, senza
niente in cui sperare se non morire.
L’Italia mi ha fatto male come l’Africa. Lo so io, come lo sapevano tutti quelli intorno a me che si
accalcavano come cani sotto a un tavolo dove cadono le briciole.
Il caporale ci guardava dall’alto, era in piedi sul retro del furgoncino. Ci guardava con disprezzo, sembrava
volerci sputare addosso. Aveva dei baffi folti, grigi. Indossava una camicia azzurra e fumava una sigaretta
arrotolata.
Stava cominciando la chiamata degli schiavi.
Uno dopo l’altro, i fortunati venivano fatti mettere a lato del furgoncino, pronti a lavorare per dieci ore
senza fermarsi nemmeno per mangiare un pomodoro. Se ti scoprivano a mangiare eri finito. Ormai
c’erano tutti, rimaneva l’ultimo posto.
Il caporale guardò nella direzione mia e di Gwen, indeciso su chi dei due prendere. Tutti si zittirono e la
tensione la potevi quasi toccare.
Sembrava di essere davanti ad una gazzella tra i leoni della savana. Gwen l’avevano preso anche il giorno
prima, lui lavorava abbastanza bene.
Mi guardò negli occhi: non mangiavo da due giorni. Scrutò il caporale, per poi riguardare me.
L’uomo si lisciò i baffi e mi fece cenno di salire. Gwen mi sorrise, tornando verso casa assieme a tutti gli
altri. Dopo quel giorno massacrante non l’ho più visto, c’era stata una retata e l’avevano spedito in un
centro d’espulsione. Forse è morto, forse è arrivato in Somalia.
L’Italia mi aveva fatto male quanto l’Africa, se non peggio: non mi sentivo più un essere umano, ma carne
pagata a cottimo. Gwen mi aveva donato quello che di più prezioso esiste nella vita: la dignità.
Andai di nuovo all’alba, alla rotonda. Assieme a me, c’erano tanti altri pronti a sbranare per essere sfruttati
come bestie. Cosa te ne fai della dignità se muori di fame?
CHIARA PIETTA
@PiettaChiara
IL TWEET
A testa alta respirava la luce tagliente del mattino. dignità era dichiarare tregua e finalmente ripartire.
#wehaveadream #dignità
IL RACCONTO
Crossword Puzzle
Forse non tutti sanno che... “Le persone che non gattonano sviluppano in misura minore le proprie
abilità matematiche. Numerosi studi dimostrano che la coordinazione necessaria per quel movimento
stimolerebbe il potenziamento dell’area del cervello dedicata a numeri ed operazioni.”
Una leggenda metropolitana inventata ad hoc per giustificare dei brutti voti in pagella oppure il curioso
risultato di un team di ricercatori? Non le importava poi molto della veridicità di quelle poche righe lette
nella rubrica della Settimana Enigmistica dedicata alle stranezze.
In quel momento, le cose certe erano due.
Ai numeri aveva sempre preferito le parole. Soprattutto, era affascinata dal vuoto e dal pieno del segno
grafico nello spazio di un foglio.
Aveva imparato a leggere molto presto: all’età di due anni, riconosceva la forma di pochi e semplici
vocaboli, la loro lunghezza e gli spazi tra le singole lettere.
Si era avvicinata alla lettura attraverso un gioco composto da grandi fogli preparati da sua mamma sui
quali spiccavano termini propri della sua quotidianità, da guardare e da riconoscere.
3 orizzontale, 5 lettere. “Colei che genera la vita”. M MMA. La persona che le aveva insegnato a leggere
era la stessa che aveva decifrato in lei alcuni segnali di uno strano cambiamento. Alla fine di un inverno che
durava ormai da troppe stagioni, aveva avuto la dolcezza e la determinazione di farle capire l’inutilità di
tutta quella sofferenza diventata insostenibile.
28 verticale, 5 lettere, AP A. “Cibo, nel linguaggio infantile”. Quella luce che portava negli occhi oltre che
nel suo nome proprio si stava spegnendo e con lei anche il suo fisico.
Gioiva delle coincidenze, amava stare in compagnia ed adorava cambiare il punto di vista sulle persone.
Golosa di dolci ed ancora più ingorda di sentimenti, sapeva emozionarsi di fronte ad uno sguardo
incrociato dal finestrino dell’auto ferma ad un semaforo come ad un vestito particolarmente estroso.
Proprio quegli abiti, uno dei tanti strumenti con cui esprimeva la sua naturale propensione alla
comunicazione, stavano diventando sempre più grandi. Il suo corpo era il termometro di un malessere
che, per il senso pratico e la responsabilità che da sempre contraddistinguevano il suo stile, continuava
a minimizzare. Di fronte allo specchio ed alla propria immagine che faticava a riconoscere, si arrovellava
alla ricerca di una soluzione per reagire. “Ricoprirò nuovamente di dolcezza la mia bambina” pensava sua
madre mentre la stringeva in un abbraccio.
7 verticale, 4 lettere, CA A. “Abitazione”. Era stato per lei il luogo in cui ritornare. Con la valigia sempre
pronta, aveva viaggiato per 10 anni alla ricerca del proprio futuro professionale e personale. Aveva
conosciuto tante città e provato più volte la sensazione di cambiamento, riconoscibile quando certi angoli
nascosti, alcuni volti anonimi, precise tonalità del cielo iniziano a diventare delle rassicuranti consuetudini.
Nonostante uno sguardo curioso, la sua casa era sempre stata il luogo in cui era cresciuta, un posto
magico ed unico dove tornare per rivedere la sua famiglia.
42 orizzontale, 5 lettere, PI O. “Soprannome di un Inzaghi”. I suoi riccioli neri ed il suo naso a patata lo
rendevano ancora più buffo. In casa con loro, c’era uno spinone sardo che saltava sulla tavola appena
la cena era pronta oppure leccava quel viso di bambina quando la sentiva piangere ed intorno alla sua
carrozzina non c’era nessuno.
Non aveva più la forza di leccarsi le ferite, ma poteva contare su alcune persone con cui condividere il
suo momento di svolta. Sentiva che era arrivato il momento di riprendere in mano la sua vita e che aveva
maturato una decisione. Doveva solo prendere coraggio, fare un respiro profondo per crescere un po’ di
più.
A passo svelto attraversava una piazza dall’aspetto rigoroso ed austero che le sembrava un teatro: era al
centro di un palcoscenico urbano e tutto era in attesa di qualcosa che stava per succedere.
Dignità. “Dignità” era la parola che le mancava per completare la definizione “Rispetto, considerazione di
sé”.
E qualcosa di bello era già accaduto.
Bianca era riuscita a dichiarare tregua a sé stessa, accantonando dalla mente i cambiamenti del suo
fisico ed accettando la spiccata sensibilità che rendeva unica quella giovane donna. Riconoscere i
segni nell’alternanza con gli spazi bianchi non è forse la difficoltà quotidiana che tutti sono chiamati ad
affrontare?
Aveva deciso con leggerezza di ripartire da una coincidenza, trasformatasi poi in una scelta di vita. A testa
alta respirava la luce tagliente del mattino, mentre pensava agli incroci di parole e, ancora una volta, alla
centralità delle parole in questa sua nuova vita.
La seconda cosa di cui essere sicura era che stava ricominciando a sorridere.
Lo sentiva, in quel momento, aprirsi sul suo volto.
CHIARA POLITO
@chrispolly88
IL TWEET
La rettitudine è una linea retta dove oneri e onori si abbracciano e il mondo s’inchina all’onestà. Utopia
degli eletti. #wehaveadream #rettitudine
IL RACCONTO
Cronaca di uno scontro
Come guerrieri armati contro i draghi, armati fino ai denti, con la rabbia che schizza fuori dalle orbite
oculari.
Guerrieri di strada con bastoni, forchette e coltelli. Come se gli avversari fossero cibo.
Ogni membro di quell’onda di folla, ogni maschera fatta di sangue e odio, ognuno di loro ha i propri
perché.
Le persone hanno idee, sogni, speranze. Le persone hanno progetti, sensi di colpa, principi.
Concentrato misto di risentimenti e rimpianti. Atmosfera di paura per il domani.
Quasi si percepisce nell’aria una nebbia di vecchio disincanto, dove un giorno non lontano non si temeva il
cambiamento e il futuro era amico.
Nebbia fitta e puzzolente che intossica i passanti: chi continua a camminare credendo che più sei in alto
e più non sarai sommerso dalla nebbia e chi prova a strisciare, pensando che la nebbia sia solo fumo di
sigaretta che gli vola sopra.
Guerrieri e guerriere che piangono, si stringono l’un l’altro in entrambi gli schieramenti. Si, perché gli
avversari non sono draghi, mostri, capri o mulini a vento: sono persone anche loro.
Ed è in quei pochi attimi di lucidità, in quei freddi momenti dove il fiato è spezzato da un salto del cuore,
che uno schieramento guarda l’altro attento e pensa.
Pensa ai propri perché, alle proprie storie e alle voci che circondano i pensieri.
Pensa al momento stesso in cui è stata presa la decisione di essere là in quel momento e di viverlo con
solo altri eletti.
Pensa a quando il mondo è divenuto una gabbia di bestie feroci senza pensieri che uccidono solo per
divertimento e che credono nella vendetta e non nel perdono.
Pensa a quando tutti hanno deciso che falsi Dei potessero decidere del nostro futuro e lasciarci morire nei
nostri escrementi.
Pensa a tutte le volte che è stata solo sfiorata la felicità perché è sempre alla ricerca di abbondanza e non
di qualità.
Pensa a quanto spesso la legge degli equivoci ha fatto uccidere fratelli e fatto cadere nel vuoto intere
generazioni.
Pensa a quanto fingano, ingannino e manovrino.
E si rende conto che alla fine, forse, si sta combattendo nel modo sbagliato un nemico non vero. Forse si
sta solo guardando se stessi allo specchio.
In un modo ideale probabilmente la rettitudine è una linea retta dove oneri e onori si abbracciano e ci
s’inchina all’onestà. Utopia degli eletti, che ancora credono che il cambiamento avverrà.
Nel frattempo si confonde l’inferno con i Campi Elisi.
DANIELE AGLIATA
@moonharper
IL TWEET
Essere un argine quando è più facile esser un’onda, esser una luce quando fuori è notte, sorridere quando
fa male #wehaveadream #rettitudine
IL RACCONTO
La fermata
Un giorno come tanti, banale.
La quotidianità uccide, ti ruba la vita, il tempo, a piccoli sorsi, come i videogame o i social network
(“un’altra partita ancora...”, “arrivo al salvataggio e basta!”).
La quotidianità, spesso, è seguita dalla stanchezza: “Uffa! Ancora? No, non voglio andare!”.
Quante volte l’ho pensato, prima all’asilo, poi a scuola, poi a lavoro...
Ti svegli quando la città è ancora nel suo lindo pigiama notturno, fatto di nebbia, gelo e di resti dei
girovaghi. È breve l’istante in cui ti guardi in giro, perché poi tutto è meccanico, mentre la mente indugia sui
sogni e le mani van cercando l’ultimo brandello della corazza quotidiana gettata qua e là per la stanza.
Non una voce. Come uno spettro scendo le scale, esco per la via, con la carezza del mattino che tenta di
svegliarmi.
Vita: qualche negoziante prepara la sua battaglia giornaliera, auto, tram... tram?!! Di corsa, è il mio, o
altrimenti chissà a che ora arrivo a lavoro, e poi sai le storie col capo!
Altri spettri come me, viaggianti, non si curano della mia figura seduta tra loro. Dormo… o forse no. È ora
di scendere, almeno questo dice la voce del tram (ottima invenzione la notifica delle fermate, per viaggiar a
occhi chiusi).
Ecco il mio giornale. Niente di particolarmente complesso, politico o che altro, il giusto compagno di
viaggio, che non ti disturba ma che è con te. Vediamo di svegliarci con una buona colazione.
Chiuso! Strano come a volte, un piccolo cambiamento nella quotidianità, ti stravolga l’intera giornata!
Come mai?!
Dimenticavo, oggi era quel giorno di cui si parlava, dovevano esserci manifestazioni o chissachè: ricordo il
collega che appendeva il volantino alla bacheca, con l’aria di chi è certo di “fargliela pagare”.
Sciopero, protesta, insomma problemi. L’avevo detto al capo che sarebbe stata dura arrivare: da buon
pendolare, gli imprevisti sono da metter in conto.
Avvisato a lavoro, il bus non in vista, si fa colazione altrove, in un bar dove novello, Caronte, il commesso
serve le frotte di formiche come me, che si adoperano per iniziar la giornata.
Fermo, mentre il mondo scorre, alla mia fermata. A volte l’immobilità esterna è l’opposto di quel che si
muove interiormente. Un po’ come se la crosta terrestre fosse la superficie dell’universo e l’interno della
Terra il cielo. Sono fermo qui da mezz’ora, il freddo come un mantello, ma intanto penso a cosa fare...
La via più semplice sarebbe mandare un messaggio e dire che causa blocco, non posso andare a lavoro,
capirebbero, tornare indietro e dormire (in fondo lo so che non riuscirei a prender sonno, ma ogni tanto
bisogna illudersi). Certo, perderei un giorno di lavoro, ma con tutti i giorni accumulati come permessi,
non sarebbe un problema. Tanto più che manca ancora solo un mese, e poi sarò lasciato a me stesso
(“Ragazzo, non so bene come andrà, ma alla scadenza del contratto se non avremo grosse commesse non
potrò rinnovartelo. Meglio che ti guardi attorno”).
I pensieri sono tanti, ma non voglio crucciarmi, non ora. Non voglio pensare al fatto che i miei sforzi
non siano valsi nulla, a fronte dei nuovi assunti, parenti o amici di chissàchi. So fare il mio mestiere, l’ho
dimostrato in questi tre anni (di già?!), e nonostante la distanza, i problemi logistici e tutto il resto, sono
riuscito a esserci tra pioggia, neve, fango e scioperi.
Oggi no, potrei fare un’inversione a U e tornare a casa: vadano alla malora, vado a cercarmi altro.
Cosa sarebbe? Un’inversione a U, già, ma rispetto a me stesso!
È più facile, certo, che un masso rotoli per una discesa, piuttosto che raggiunga una vetta, ma sai che vista
gode da lassù? Quel masso, spesso, sono io. La vita, a volte, per alcuni non è facile, anzi ti viene sempre
voglia di lasciar tutto, di non remar più e lasciarti trasportare dalla corrente degli eventi, chiedendoti
perché per gli altri sia tutto così semplice, e perché i problemi debba sempre trovarteli tu (certo, ci sono
problemi ben più grossi, ma in quei momenti non ci pensi).
Solo allora, in un barlume di lucidità, ti fermi su quella parola, e su molto di più: TU.
Tu sei quello che quella mattina ha deciso di svegliarsi. Tu hai deciso d’andare a lavoro. Tu hai rincorso quel
tram, tu hai deciso di accettare quel lavoro, e tu, solo tu, puoi esser protagonista della tua vita. Allora, e
solo allora, ti vengono in mente tutte le volte che hai preso le decisioni, perché l’hai fatto e perché non hai
fatto altre scelte, e cosa ne è conseguito. Ne è conseguito che sei la persona che sei oggi. Senza sconti, con
mille cicatrici, con un sorriso che ti può far male, ma che può aiutare gli altri a star bene, con un bagaglio
di esperienze che fungono da cerotti, per te, e più spesso per chi ne ha bisogno. Non basta un blocco per
fermarmi, non bastano le prospettive di una calda alcova a farmi tornare indietro, perché non è quello che
io voglio.
La mia strada è mia, sia che sia semplice, tortuosa, o cieca, resta sempre la mia, da costruire passo a passo,
per mano mia. Qualsiasi curva ci sarà, sarà per mia mano costruita, per mia volontà voluta, e per mio
orgoglio attraversata.
Andiamo, e vediamo che cosa succede da qui a lavoro. Chissà quando e come tornerò a casa.
Vedremo!
(Non arriva ancora il bus? Prendiamone un altro...)
Mr. EFIS
@MrEfis79
IL TWEET
Il miope, nel considerare la rettitudine, confonde la zavorra col propulsore #wehaveadream
#rettitudine
IL RACCONTO
Non un vantaggio, ma una slavina
Sì, Luigino: studia, studia. Tanto il concorso l’ho vinto io.
Ho pagato quel commissario grazie al contatto che m’ha trovato il barbiere e il posto nella pubblica
amministrazione a vita me lo beccherò io mentre tu rimarrai pizzaiolo part-time per il resto della tua vita
d’illuso.
Vedi, Luigino, la colpa è anche tua che vivi nella superfice, senza accorgerti delle ambiguità. Siamo tutti
mossi da interessi: il disinteressato esiste solo nelle parabole, quei racconti che servono a educare la gente
a esser pecora. La gente come te, Luigino.
D’altronde, Lugino, anche come requisiti magari non avresti vinto, dopotutto ho un voto di laurea migliore
del tuo e un curriculum (come gli stage all’Inps) che tu non potevi vantare perché non conoscevi nessuno.
E che: era colpa mia?
Questo concorso alla Regione mi sistemerà, potrò finalmente comprare una casa mia e, magari, con
una posizione convincerò anche Laura. Ok, non ho più risparmi perché quel commissario (che chiamo
benefattore) è stato un po’ esoso - e poi dovrò versargli il 10% dello stipendio per sempre… -, ma ne è
valsa la pena. Anche dei pranzi che gli ho dovuto pagare, mentre tu, Luigino, studiavi.
Comunque, volevo scriverti che se fossi stato un po’ più scemo avresti capito quanto è utile capire gli
sguardi della gente, senza accontentarsi delle parole e del tono di voce, caro mio.
Perché lo sguardo dello squalo, una volta conosciuto, lo riconosci sempre. E io sapevo quello che sarebbe
successo al tuo orale ancor prima che tu ti sedessi.
Devo riconoscere che sei stato bravo nel contenerti e che, nonostante il tono inquisitorio e i modi
scortesi, hai risposto bene. Certo non bene come avrei risposto io Luigino – che sono sempre stato più
preparato e tu lo sai.
Ti ricordi le interrogazioni killer all’Università? Non si può dire che non ci abbiano temprato. In effetti
anche senza perdere tutti i soldi che ho guadagnato in due anni di stagioni estive, forse il concorsone lo
vincevo comunque… ma perché rischiare: la certezza immediata del posto smetterà di angustiare il mio
futuro… Luigino maledetto!
Sì, maledetto tu ed il tuo ricorso campato in aria: maledetto quel tuo senso di giustizia che,
incrollabilmente - e incomprensibilmente aggiungerei… - ti sostiene lo sguardo.
Ti odio Luigino: ma non illuderti, lo sappiamo tutti che i ricchi non si pestano mai i piedi tra loro. “Cane
non mangia cane”, non dicono così gli americani?
E quel pubblico ministero sicuramente sarà della stessa congrega del mio benefattore, dello stesso circolo
di golf… sicuramente!
Sì, andrà tutto bene: è ovvio. Tutti noi sappiamo come va il mondo, no?
Ah, vabbé: a parte te e gli insulsi scarafaggi come te che vanno a fare l’Università e i concorsi pubblici
pensando di avere delle chances. Imbecilli. Vi biasimo Luigino; ma con un po’ di compassione: perché
anch’io ero come voi. Fortunatamente il mio barbiere aveva il contatto giusto e, certamente… Vedrai
Luigino che questo casino si rivelerà solo un nuvolone passeggero e non una slavina, come speri tu.
Sì, ho sentito anch’io che alla Procura della Repubblica c’è gente fresca, ma avranno capito subito l’andazzo,
vedrai che questo scandalo in cui, per ingenuità – va detto – s’è ritrovato il mio benefattore, non avrà
conseguenze.
Vedrai che la convocazione che mi hanno fatto, come “persona informata sui fatti” non pregiudicherà
niente: né il mio posto di lavoro legittimamente conquistato, né il mio progetto di famiglia.
Perché, vedi Luigino, Laura ha detto che se non mi davo una mossa, lei si sarebbe guardata in torno, e io
non potevo mica perderla e, grazie al-mio-barbiere-che-aveva-uno-zio-che-conosceva-un-tipo-che…
In effetti come poteva giustificare quelle case e quelle macchine..? In effetti non poteva: in effetti è sempre
la discrezione il complice più affidabile… ma sai come sono i ricchi! Tanto noi poveri ci vergogniamo del
mangiare merda, tanto loro si galvanizzano nel farsi notare, nel pasteggiare ad aragosta. Sono così, lo sai
anche tu Luigino.
Ma tanto vedrai che non succede niente e che domani vado, dico qualche scemenza, e tanti saluti. Vedrai
che non sanno niente. Farò la vittima, dirò che dovevo mangiare, che è colpa della società, che fanno tutti
così!
Ok, tutti tranne te, Luigino maledetto!
Maledetto te e tutte le anime belle che si sono svegliate in Italia!
Tanto, anche se mi rovinerete, non concluderete nulla!
Tanto, quella vostra sicurezza con cui camminate, finirà come una bolla di sapone sui cactus.
Tanto, vedrai che gli arresti di questi giorni saranno solo allontanamenti temporanei.
…E se va male, tanto meglio: vorrà dire che m’ammazzo! Sì, mi ammazzerò e sarà colpa tua e di questi
che blaterano di integrità… Preferisco finire giù dal Bastione piuttosto che biasimare me stesso per aver
ceduto a questa vergogna… Ma ero così sfiduciato e stanco e ho scelto male, come il miope che mi sono
rivelato essere.
Forse hai sempre avuto ragione tu, Luigino.
GIUSEPPE MACCARRONE
@CoSWoSP
IL TWEET
La rettitudine delle membra, così sintetica e astratta, nascondeva qualcosa di oscuro sotto i muscoli, in
fondo alle ossa #wehaveadream #rettitudine
IL RACCONTO
Storia di un’inesorabile rettitudine
- Si sieda, signor Malcolm, mi guardi negli occhi, si calmi; ci dica cosa ha visto. Mi racconti dall’inizio, respiri
lentamente e si sforzi di fare meno confusione possibile.
- Ho paura che ci senta qui, lei non capisce...
- Mi ascolti, è per il suo bene; provi a rilassarsi, questo luogo è sicuro...
- No! Mi ascolti lei, invece! Dove mi trovo? Perché evitate tutti le mie domande? Siete voi che dovete
rispondere alle mie! Finiamola! Non avete idea di cosa sta per abbattersi su di noi…
- Signor Malcolm, la prego, sia ragionevole, mi creda, farebbe bene a sfogarsi; qui è fra amici e le assicuro
che è tutelato in base alla giurisdizione internazionale della Federazione, che noi tutti rispettiamo.
Saremmo degli sprovveduti a mentirle, lei sa a cosa andremmo incontro.
- Vi sta cercando!
- Si, lo sappiamo. Anche noi le diamo la caccia da tempo; allora, non perdiamo altro tempo in chiacchiere,
com’è da vicino?
- Non potete sapere quali atroci disgrazie si preparano. Dovete avvertire il grande architetto, dovete
avvertire i lavoranti!
- Signor Malcolm, lei si trova in una condizione privilegiata, tuttavia ciò che mi chiede è impossibile, lei lo
sa, e sa anche a quale rischio ci esporremmo se così facendo suscitassimo il terrore collettivo: sarebbe
l’anarchia e questo, lei sa bene, è inaccettabile. Sono trent’anni che garantiamo la massima efficienza, non
abbiamo mai sbagliato, purtroppo tutto ciò non era previsto…
Non so dire bene come arrivai in quel luogo e nemmeno se fosse sicuro, perché oltrepassava i limiti di
ogni costruzione finora concepita: sembrava potesse svanire da un momento all’altro come in un sogno,
eppure reggeva miracolosamente. Sentivo quasi di aver recuperato una dimensione primitiva dell’abitare, in
una sorta di caverna-utero avvolgente, in cui l’atmosfera era neutra e rarefatta: la luce filtrava in modo così
armonioso che una volta lambita la pelle del viso potevi sentire una carezza. Mai visto niente del genere: a
volte l’insieme sembrava reagire al vento, cambiando la propria configurazione per adattarsi ai flussi d’aria,
a volte sembrava irrigidirsi, altre volte potevi notare che nella membrana coprente si configuravano dei
pannelli di controllo, altre volte ancora sedie e passaggi si plasmavano direttamente nel pavimento e nelle
pareti. Più che un edificio sembrava un essere vivente. Ai piani alti della Federazione si vociferava da tempo
che il Grande Architetto avesse fatto una scoperta senza precedenti, ma nessuno sapeva dire bene di cosa
si trattasse. Intanto sembrava di essere sospesi, di galleggiare in una membrana traslucida, come in una
nuvola, ma senza il vapore. Giacevo in quell’ambiente ovattato così stranamente confortevole, su quello
strano pavimento, eppure tutto emanava un ambiguo senso di precarietà senza che alcuna spiegazione
apparisse soddisfacente.
- Credo proprio che si trattasse di una donna. Assomigliava in tutto e per tutto ad una donna …
Non riuscivo ancora ad avere piena contezza di chi avessi incontrato. Ero confuso.
Ricordo la pelle candida e fragile, una sinfonia nelle labbra appena dischiuse, le chiome perse nel vento, i
cui ricci imploravano un ordine sempre negato.
Doveva essere Ottobre, in una bellissima giornata autunnale, passeggiavo per il corso ciondolando in una
delle rare ore di pausa, non ne avevo una da almeno due anni e con i piedi calciavo svogliato le foglie che
dagli alberi cadevano al passaggio dei droni.
D’un tratto la scorsi a un incrocio; vidi il suo corpo che si stagliava in modo così fiero ed elegante da
sembrare una statua: contro gli edifici, contro il cielo, quanto la circondava le era alieno, sembrava sfiorare
appena la strada, eppure la rettitudine non era che nelle sue membra, perché quell’armonia, troppo
sintetica, così astratta, sembrava nascondere qualcosa di oscuro sotto i muscoli e la pelle, in fondo alle ossa.
Era come se fossi attratto contro la mia volontà.
La incrociai. I miei occhi tentavano di dialogare, ma il suo sguardo parlava la lingua dell’assenza e il
messaggio che proveniva da essi era oscuro e a senso unico, non ammetteva repliche; sembrava davvero,
da principio, che potesse trattarsi di una donna santa e bellissima, ma questa sensazione, ancora una volta,
portava a una sospensione irreale e sinistra. Se esistesse l’anima, giurerei che le fosse stata strappata per
essere giustiziata: se l’avessero davvero uccisa così, intimamente? E questa sensazione di ostilità?
Se davvero le avessero estirpato la rettitudine con la forza? Ma cos’è in fondo questa se non un ideale
irraggiungibile, una futile costruzione umana; in questa nuova realtà in cui l’apparenza è metamorfica non
c’è spazio per questi antichi sentimenti. Così pensavo.
Allora non sapevo di avere sfiorato la Rettitudine in persona, o almeno ciò che ne rimaneva e non
coglievo pienamente il significato degli eventi. Fra tutti i passanti mi sentivo come se mi avesse scelto e
in effetti era così, lo capisco solo ora che la sua vendetta sta per compiersi; nessuno si sarebbe salvato
per i misfatti commessi e per l’omertà, per le devastazioni naturali, non avrebbe risparmiato neanche
me. Concludo la mia carriera umile come messaggero di questa dispensatrice di morte, la stessa che per
millenni ha ispirato gli uomini più saggi che siano mai vissuti.
Ora che lei è tornata per la resa dei conti nulla sarà più come prima.
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