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DI Repubblica - La Repubblica.it
Domenica
La
di
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
Repubblica
l’inchiesta
Tokyo, la rivoluzione dei “mutanti”
FEDERICO RAMPINI e RAFFAELA SCAGLIETTA
cultura
Altan prima di Altan, i disegni inediti
PINO CORRIAS e SIMONETTA FIORI
Oggi l’ex Beatles avrebbe compiuto 65 anni, a dicembre
ne saranno passati 25 dalla morte: ecco il suo ritratto
nel racconto della prima moglie Cynthia
FOTO BOB WHITAKER/CAMERA PRESS/GRAZIA NERI
Repubblica Nazionale 33 09/10/2005
“Mio marito
John Lennon”
GIUSEPPE VIDETTI
«S
LONDRA
arei diventata la signora Lennon se avessi saputo a quali perdite, a quanti dolori, tragedie e sacrifici sarei andata incontro? Ancora oggi, quasi
cinquant’anni dopo, non so rispondere. Se mi
fossi tirata indietro, non avrei quel meraviglioso figlio che ho e non
avrei preso parte a un’esperienza fantastica che milioni di fan dei Beatles avrebbero voluto fare. Non saprei scegliere neanche ora, col senno di poi». Cynthia Powell, la prima moglie, ha 66 anni, lenti da vista
spesse davanti agli occhi, lo sguardo triste di chi ha avuto tanto e perso di più. Irriconoscibile da quella mitica foto del 1966 in cui “il club
delle prime mogli” dei Beatles (Cynthia, Mo, Jennie e Patti) fu immortalato in costumi psichedelici. Da quando s’incontrarono al liceo artistico di Liverpool nel 1958, John e Cynthia trascorsero insieme dieci
anni, dall’anonimato al momento più esaltante della beatlemania.
Ora la trascurata prima moglie ha deciso di raccontare tutto in un libro, John (Ed. Hodder & Stoughton Ltd, 352 pagine, 30 euro; il secondo dopo l’innocente A twist of Lennondel 1978), «per far comprendere al mondo il prezzo che si paga a essere la signora Lennon».
Gli stucchi della sala conferenze severa e altissima dell’edificio che
ospita la stampa estera a Londra sembrano inadeguati per Cynthia,
che con la follia dello show business ha avuto solo un incidente di percorso. Ora vive in Spagna con il quarto marito (il secondo è stato un al-
bergatore italiano, Roberto Bassanini), vicino al figlio Julian, che ha 42
anni, ha scritto l’introduzione al libro della mamma, ma non riesce a
rimettere in piedi la sua carriera, dopo un buon esordio nel 1984 e un
letargo che dura ormai dal ‘98. La magra liquidazione di centomila
sterline una tantum con cui Lennon prese le distanze dalla prima famiglia deve essersi esaurita da un pezzo. Oggi l’ex Beatles avrebbe
compiuto 65 anni, se l’8 dicembre di 25 anni fa non fosse stato assassinato a New York. Per l’occasione ci sono un mare di libri in uscita
(compreso uno di Yoko Ono)), ma quello di Cynthia è senz’altro il più
autorevole su quel periodo, gli Anni Sessanta, in cui i Beatles entrarono nella leggenda e un’artista giapponese mandò una famiglia in rovina e il gruppo più influente della storia del rock allo sbando.
«Ho letto troppe inesattezze sulla mia vita e su quella di John e dei
Beatles. Il modo migliore di fare chiarezza era avere un libro scritto da
un insider. Ma c’è anche un altro motivo per cui l’ho fatto: volevo raccontare questa storia a Julian. Entrambi siamo cresciuti all’ombra di
John, mio figlio è un ragazzo ferito, tutta la sua esistenza è stata condizionata dal fatto di essere il bambino abbandonato di Lennon. Volevo ridargli quel senso di appartenenza che gli spetta. Sembrerò un
po’ drammatica, ma spero che quando leggerà questo libro, magari
quando non ci sarò più, Julian recuperi quell’amore che il padre gli dimostrò solo in tenera età e finalmente comprenda che non fu lui a tradirlo, ma la vita stessa». Cynthia parla sommessamente, ma ha voglia
di raccontare proprio tutto, dall’inizio.
(segue nelle pagine successive)
con i servizi di GINO CASTALDO e ENRICO FRANCESCHINI
la lettura
In ospedale con il dottor Malaussène
DANIEL PENNAC e MICHELE SERRA
spettacoli
Le strane coppie di Neil Simon
MARIA PIA FUSCO e ANTONIO MONDA
le tendenze
Il ritorno del trench, l’immortale
CORRADO AUGIAS e JACARANDA CARACCIOLO FALCK
l’incontro
Luciano Spalletti: io, allenatore contadino
GIANNI MURA
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
Biografia d’artista
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
“Sarei diventata la signora Lennon se avessi saputo a quali perdite,
a quanti dolori, tragedie e sacrifici sarei andata incontro?”, inizia così
il racconto confessione della prima moglie di John, Cynthia.
Che siamo andati ad incontrare a Londra, dove rivela: “Non odio
Yoko Ono, sono state le droghe e l’ansia creativa ad avermi allontanato
da mio marito. Adesso lei la vedrei volentieri per un tè”
“Lavitatristeconungenioegoista”
Repubblica Nazionale 34 09/10/2005
«L
a mia era una famiglia felice che viveva in un
appartamento minuscolo. John invece viveva con sua zia Mimi in una casa enorme.
Il fatto che io fossi più borghese di lui era un
gioco che ci faceva ridere, in realtà al di là
dello stereotipo della “posh girl”, la mia
educazione e quella di John erano molto simili. Diversissimo era
invece il nostro background familiare. Io non avevo mai sentito
i miei dirsi una parola spiacevole, John, al contrario, aveva avuto un’infanzia drammatica. L’unico rapporto affettivo l’aveva
stabilito con suo zio George, che morì tragicamente. Mimi, purtroppo, era una zia decisamente fredda e inespressiva».
In altre biografie la zia Mimi è stata descritta come l’amorevole tutrice di John, quella che si occupò di lui con la premura
di una vera madre. Cynthia non è di questo parere. «Ho vissuto con lei tutto il periodo della gravidanza e dell’allattamento e
so bene che era assolutamente incapace di dare affetto. La verità è che Mimi strappò John alla madre con l’inganno: spifferò
agli assistenti sociali che sua sorella era stata abbandonata dal
marito, viveva con un altro uomo e il bambino non era al sicuro. Fu così che ottenne l’affidamento. John era felice con sua
madre: lo copriva di coccole, ballavano insieme, gli insegnava
a suonare il banjo. Ma quell’affetto gli fu negato, e proprio per
questo crebbe a dismisura. Mille volte John mi ripeteva: “Se potessi fuggire lo farei, per tornare al mio porto sicuro, da mia madre”. Sfortunatamente, proprio nel momento in cui la relazione madre-figlio si stava rafforzando, Julia morì in quell’orribile incidente, nel 1958, travolta dall’automobile di un poliziotto ubriaco fuori servizio».
Uno dei lati del carattere di Lennon che raramente è stato messo in risalto dai biografi è la sua
aggressività. Già prima del matrimonio ci fu un’occasione in cui John picchiò Cynthia. «Il nostro primo incontro però fu dolcissimo», ricorda. «Ci
guardavamo da mesi, e nessuno osava fare la prima mossa. Poi finalmente c’incontrammo a una
festa e sgattaiolammo nell’appartamento di
Stuart Sutcliffe (membro dei primissimi Beatles,
ndr), e lì consumammo il nostro amore. Mi resi subito conto che John era gelosissimo e insicuro. I disagi familiari avevano accentuato fino all’ossessione il suo carattere possessivo. Mi voleva disperatamente, ma non passava giorno in cui non cercasse di mettermi alla prova, riempiendomi di domande, sperando di indurmi a confessare presunte infedeltà. E se le risposte non erano all’altezza
delle sue aspettative, sprofondava nella depressione. Accadde che a una festa di amici mi vide ballare con Stuart Sutcliffe e diede per scontato che tra
noi ci fosse del tenero. La mattina dopo mi fece la
posta al college, accanto al bagno delle ragazze.
Sbucò dal nulla, mi colpì in pieno volto e scappò
via. Mi dissi: “Posso sopportare le ingiurie e la gelosia in nome dell’amore che gli porto, ma non la
violenza fisica”. Fu la fine del nostro rapporto, ma
solo per tre mesi».
Neanche la rapida ascesa dei Beatles portò pace
nella coppia. Cynthia restò incinta, ma il manager
Brian Epstein insisteva che non era saggio: i Beatles dovevano restare eternamente celibi agli occhi
delle fan. «Ero disperata. A quei tempi le ragazze
madri venivano messe al bando e i bambini dati in
adozione. John mi sposò nel 1962, poi mi nascose
in casa di Epstein. Le fan furono in realtà molto
comprensive quando le prime foto di Julian apparvero sui tabloid alla fine dell’anno successivo».
Più la popolarità dei Beatles cresceva, più
profonda diventava la voragine che separava la
coppia. Era come se Cynthia non riuscisse ad adattarsiainuoviritmi;nonerafacileperunamadrecon
bambino tenere il passo con quella crescente frenesia. «A New
York, con il bambino al seguito, in mezzo a tutta quell’isteria, restavo sempre indietro, e lui mi gridava: “Perdio, Cyn, ma perché
sei così lenta, perché sei sempre in ritardo?”. Anni dopo, a Londra, avrei perso il treno per Bangor, dove il Maharishi aspettava
la band, perché John, arrivati in ritardo alla stazione, si mise a correre verso la carrozza, noncurante di me e del bambino che arrancavamo dietro di lui con i bagagli».
La fuga negli allucinogeni
La voragine diventò un baratro quando John incominciò a sperimentare le droghe. Cynthia decise di provare l’Lsd per cercare
di entrare nel suo mondo, ma i risultati furono disastrosi. «Rimasi scioccata da quell’esperienza, ma insisto: fu la vita a separarci,
il fatto che John trascorreva sempre più tempo lontano da casa,
da suo figlio. L’entusiasmo per l’Lsd fece il resto. Ma la creatività
di John aveva bisogno di quegli spazi, di quella libertà creativa che
poi ha prodotto tanti capolavori. La vita procede a fasi. Io ho fatto parte di quella in cui John aveva bisogno di stabilità».
La stabilità non è terreno fertile per il genio. E le stagioni della
vita delle rockstar si consumano più in fretta di quelle dei comuni mortali. Cynthia e i Beatles erano diventati sintomo di letargia
fatale per il suo spirito irrequieto. Alla fine degli anni Sessanta,
John stressò la situazione in modo che entrambi uscissero dalla
sua esistenza. Per farlo aveva bisogno di una complice, una compagna di vita meno “posh”, più spregiudicata e matura, più sfrenatamente artista. Yoko Ono faceva già parte del suo metabolismo quando ancora Cynthia neanche aveva il sospetto del tradimento. «John si nutriva ormai esclusivamente di esperienze
straordinarie. Non posso biasimare Yoko per aver distrutto i Beatles. Sarebbe successo comunque. Ha solo accelerato i tempi».
Cynthia scoprì di persona che una giapponese aveva preso il
suo posto, non ci fu mai un confronto diretto con il marito prima
del divorzio. «John sapeva che quel giorno sarei tornata da una
vacanza. In casa c’era uno strano silenzio. Spalancai la porta,
erano in soggiorno, seduti per terra uno davanti all’altro, Yoko
con indosso il mio accappatoio, era chiaro che aveva passato lì
la notte. Non sapendo che dire, ripetei la frase che mi ero preparata durante il viaggio ma che a quel punto non aveva più senso:
“Ciao John. Oggi ho fatto colazione in Grecia e pranzo a Roma.
Possiamo cenare insieme a Londra stasera, sarebbe perfetto”.
‘‘
Paul McCartney
“Hey Jude” era un messaggio
ottimistico di speranza per Julian:
“Dai, ragazzo, i tuoi genitori
divorziano ma andrà tutto bene”
Jude, che inizialmente si chiamava Hey Jules. Un inno dei Beatles e la fine della loro storia. Era il 1968».
Pochi momenti felici
Quando restiamo soli, dopo l’incontro stampa, s’illumina ricordando gli anni trascorsi a Pesaro con Bassanini. Prova a parlare
in italiano, ma ormai è inesorabilmente misto a spagnolo. «Le
mie relazioni con gli uomini che sono arrivati dopo John non sono state facili», ammette mentre scendiamo lungo la scalinata
vittoriana, verso Golden Square.
Ancora oggi la prima signora Lennon prova verso Yoko sentimenti contrastanti. Mai odio, solo un senso di inadeguatezza nei
confronti di una rivale che la fece sentire “artisticamente” inadeguata. La reazione non sarebbe stata la stessa se la seconda signora Lennon fosse stata una sciùra qualsiasi. «Sarò un’illusa,
ma vorrei provare ad avere una conversazione decente con lei,
per conoscere la donna che in qualche modo ha cambiato il corso della storia del rock. Ma non c’è verso, non me ne ha mai dato
l’opportunità. Julian e Sean sono fratellastri, dovrebbero conoscersi meglio, sentirsi regolarmente. Spero che un giorno, quando Sean sarà un po’ più maturo e i vecchi rancori si saranno placati, i due saranno in grado di sedersi in un pub, bere una birra
insieme e parlare del padre».
Ci sono stati dei momenti in cui è stata veramente felice con
John? «Pochi. Una volta che, da studenti, restammo soli in casa sua. Mimi era andata a far visita a una zia e non riuscì a rientrare a causa della nebbia. Così restai a dormire da lui, finalmente in una vera casa, non nel sudicio appartamento di
Stuart». Ha mai pensato di non usare più il cognome del suo primo marito? «Se l’ho conservato è solo per una ragione economica. Dopo la separazione, ho pagato conti salati. Chi comprerebbe un libro di Cynthia Powell?».
EVENING STANDARD/GETTY IMAGES
(segue dalla copertina)
Lui, perso negli occhi di lei, rispose: “No, grazie”». Una crudeltà
premeditata che Cynthia sorprendentemente è pronta a giustificare: «Sapeva che stavo arrivando, l’avevo chiamato da Roma.
Non so quale fosse il suo stato mentale quel giorno. Magari si erano fatti di acido tutta la notte».
La prima moglie di Lennon è stata ripetutamente accusata
di aver subito troppo passivamente quella separazione: «Cosa
avrei potuto fare? Ero già stata messa alla porta. A Yoko fu persino permesso di entrare negli studi di registrazione, cosa che
a tutte noi era stato vietato per anni. Paul (McCartney) fu l’unico a farsi vivo. Venne da me con una rosa, mi disse: “È spaventoso, non so come sia potuto succedere”. Poi, per tirarmi su:
“Hey Cyn, perché non ci sposiamo noi due? Questo sì che farebbe notizia”. Ma so che più di ogni altra cosa si preoccupava
per Julian. Fu quello il periodo in cui scrisse per mio figlio Hey
La fantasia al potere
GINO CASTALDO
N
FOTO AP
GIUSEPPE VIDETTI
ASSEDIATI
DAI FAN
Nella foto grande,
John e Cynthia
Lennon
al momento
dell’imbarco
all’aeroporto
di Londra nel 1965
Nella foto in alto
i Beatles salutano
i fan. Oltre a Cynthia
c’e Maureen,
la moglie
di Ringo Starr
Qui sopra John e
Chyntia nel ’65
Nell’altra pagina,
la folla di fan e
curiosi davanti
al Dakota dopo
l’omicidio
di Lennon.
In copertina
John, Cynthia
e il figlio Julian
in uno scatto
del 1965
LA VITA
otate gli occhi, mai calmi, sempre vigili. In quello sguardo inquieto ci sono le tracce della ricerca, dell’inseguimento, i segni tipici di chi per tutta la vita è corso dietro a un fantasma, ovvero la canzone perfetta, capace di parlare per tutti e in tutti smuovere la necessità di sognare un altrove, meglio ancora se un altrove realizzabile,
un anarchico guizzo di gloria poetica con cui costruire paesaggi. Forse la canzone perfetta l’aveva trovata, era Imagine il magico mantra che dopo trent’anni ancora produce effetti, ancora commuove, ancora ci costringe a pensare che forse un mondo migliore potrebbe esistere. In fondo se mai una volta la fantasia è arrivata davvero al potere è stato nelle canzoni di John Lennon, bagliori sfacciati di una nuova bellezza rivelata a un mondo brulicante di giovani rivoluzionari. Di quella rivoluzione Lennon incarnava in modo sublime l’innocenza, la sprovveduta e spavalda certezza di imminenti
cambiamenti, anzi il sospetto che già essere “uomini diversi” fosse una garanzia di riuscita. Canzoni come nuova moneta di scambio, canzoni come finestre aperte sull’imprevisto, canzoni come talismani.
Già nei Beatles aveva scavato ombre e lande desolate, aveva invitato tutti a salpare verso l’ignoto nelle tenebre di Strawberry fields forever, aveva introdotto surrealismi raffinati (Norvegian wood), elegie smarrite (Julia), varchi nel crepuscolo oppiaceo del dormiveglia (I’m only sleeping), aveva giocato con spregiudicate capriole linguistiche (Come together), travestimenti folli (I’m the walrus), evocato solidarietà collettive (Help) e nostalgiche (In my life), sconvolto orizzonti spirituali (Tomorrow never knows) e infine scritto alcune tra le pagine musicali più alte della storia della musica popolare, soprattutto l’enigmatica A day in the life, la storia di un giorno, che sta alla canzone come l’Ulisse di Joyce sta
alla letteratura del Novecento. Poi ha proseguito da solo, tra disarmanti dolcezze dedicate alla osteggiata consorte giapponese, smentendo se stesso e perfino il mito beatlesiano,
ha urlato come in una primaria terapia liberatoria contro la madre e il padre, ha scritto canzoni di lotta, inni pacifisti e poi Imagine. Era soprattutto un modo di essere. Allora chiunque avrebbe fatto molta fatica a distinguere la persona dal musicista. Quando usciva un
suo disco era un modo per sapere “chi” era in quel momento Lennon, cosa aveva da dire,
seppure non sempre in modo diretto, su quello che succedeva in giro. I suoi silenzi erano
i silenzi di una generazione, le sue intemperanza erano quelle di altri milioni, la sua a volte ingenua volontà di sovvertimento era un monito e un imperativo categorico. Scriveva
canzoni ma era capace anche di riempire le capitali di tutto il mondo con manifesti di auguri o di inviare ghiande ai capi di stato perché riflettessero sul bisogno di “piantare” nuovi semi. Pubblico e privato si confondevano, erano poli mescolati in un concetto di vita come manifestazione costante di un pensiero. E le canzoni erano il frutto di questa scelta.
Quando è stato ucciso, è morto con lui un modo di intendere la musica. Poco dopo
scompariva l’altro grande sognatore Bob Marley. Calava il sipario su una stagione che era
stata caratterizzata da una sorta di frenetica creatività militante. Questo era in fondo Lennon, un guerriero che aveva scoperto nelle canzoni un modo di giocare con l’universo.
L’INFANZIA
I PRIMI BEATLES
IL SUCCESSO
John Lennon nasce
a Liverpool il 9 ottobre
1940. Dopo
la separazione
dei genitori è affidato
alla zia Mimi. Nel ’52
si iscrive alla Quarry
Bank High School
Nel 1957 Lennon
incontra Paul
McCartney. Due anni
dopo i Quarry Men,
primo gruppo fondato
da John, il nome
della band diventa
Silver Beatles
Il 4 ottobre 1962
esce “Love Me Do”.
Per i Beatles
è il successo:
la canzone
fa conoscere
al mondo una nuova
realtà musicale
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
FOTO CORBIS
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
Il ricordo di un cronista a New York il giorno dell’omicidio
Insieme a John
morì un’epoca
ENRICO FRANCESCHINI
FOTO GETTY IMAGES
N
IL VIAGGIO IN INDIA
LA SEPARAZIONE
L’ASSASSINIO
Il ’68 è l’anno
del viaggio
dei Beatles in India
presso il guru
Maharishi
che per una breve
stagione diventa
il loro padre spirituale
L’ingresso di Yoko
Ono nella vita di John
contribuisce
a incrinare l’armonia
del gruppo: nel ’70
i Beatles, all’apice
del successo,
si separano
Nel ’71 esce
“Imagine”. Nello
stesso anno Lennon
e Yoko Ono
si trasferiscono a New
York dove, l’8
dicembre 1980, John
viene ucciso
egli Stati Uniti, i corrispondenti italiani si svegliano presto: tra le sei e le sette, per seguire i
primi notiziari televisivi del mattino e avere
un quadro della giornata, in attesa della telefonata
da Roma, dove a quell’ora si è appena conclusa la
riunione di redazione. La mattina del 9 dicembre
1980 non ero ancora un corrispondente dagli Stati
Uniti, soltanto un free-lance in cerca di impiego, ma
accesi lo stesso il piccolo televisore in bianco e nero
sistemato su una sedia nella mia stanzetta di “Hell’s
Kitchen”, la cucina dell’inferno, come si chiamava il
quartiere di New York in cui vivevo. Il telegiornale
della Cbs aprì con una notizia drammatica su John
Lennon, questo lo compresi subito; ma a causa del
mio inglese, all’epoca tutt’altro che fluente, non ero
sicuro del resto. Lennon morto? Assassinato, la sera
prima, davanti alla sua residenza newyorchese? Da
un giovane killer che gli aveva sparato da pochi passi, come al cinema? Possibile?
Corsi in edicola a comprare i giornali, ma non tutti avevano fatto in tempo a riportare il fatto. Le notizie viaggiavano più lentamente di oggi: venticinque
anni fa non esistevano la Cnn con le “news” 24 ore
su 24, Internet, i telefonini. I particolari emersero in
seguito, poco per volta. Lennon era morto alle 22 e
50 dell’8 dicembre, mentre rientrava a casa con
Yoko Ono. L’omicida era Mark Chapman, giovane
squilibrato, ossessionato dai Beatles. Il cantante era
stato un suo mito, poi ne aveva fatto un mostro, simbolo di tutti i suoi sogni irrealizzati. L’8 dicembre era
rimasto ad aspettarlo sotto casa, con la rivoltella in
tasca, per ore. Verso le 16 e 30, quando lo vide apparire nell’androne, gli si parò davanti con la scusa di
un autografo: John glielo firmò, poi chiese se poteva «fare qualcos’altro per lui». Disarmato dalla sua
gentilezza, Chapman non riuscì a profferire parola,
tantomeno a estrarre la pistola. Ma restò lì. Quando
poco prima delle undici di sera una limousine riportò indietro Lennon, l’assassino gli andò incontro e aprì il fuoco, senza esitazioni, sul marciapiede.
Andai anch’io sul luogo del delitto, quella mattina. Lennon abitava da anni al Dakota, lugubre palazzo di stile gotico, alla 72esima strada, affacciato a
Central Park West. Un edificio anomalo, carico di
guglie, torri, figure minacciose, con la reputazione
di portare sfortuna: forse conseguenza di Rosemarie’s baby, il film dell’orrore che vi girò Roman Polanski, in cui John Cassavetes interpreta un demonio che vuole mettere incinta la pura Mia Farrow.
Maledetto o meno, al Dakota vivevano un sacco di
artisti: mesi prima c’ero stato a recapitare una richiesta d’intervista per l’attrice Lauren Bacall, che
si prese la briga di rispondermi con un cortese rifiuto. Quando arrivai, una folla di turisti, curiosi,
fans dei Beatles, premeva dietro le transenne della polizia. Non c’era niente da vedere, ma nessuno
si muoveva, nonostante un vento gelido: sembrava una veglia funebre.
Per giorni, in effetti, New York si sentì a lutto. Il
Village Voice, settimanale alternativo, a lungo bibbia della controcultura americana, uscì con un titolo provocatorio, «Perché non hanno assassinato
Mick Jagger?»: l’articolista si chiedeva come mai gli
assassini sparano sempre ai “buoni”, ai dolci, invece che ai duri e ai cinici. Perché a Kennedy e non
a Nixon, e così via. Invece di un funerale pubblico,
Yoko Ono organizzò una commemorazione musicale, a Central Park, di fronte al Dakota. Ci andammo in decine di migliaia: giovani e meno giovani,
padri che avevano vent’anni nel 1960 con i figli per
mano o sulle spalle, capelloni ed ex-capelloni. Dagli altoparlanti sugli alberi senza foglie uscì tutto il
repertorio dei Beatles. Poi, per ultima, Imagine.
Quando si sentì la voce di John intonare «Imagine
all the people», un singhiozzo collettivo si alzò verso il cielo grigio.
Piangevamo tutti per Lennon? Sì, ma non solo.
Sentivamo che stava finendo qualcosa, pur non
sapendo bene cosa. Quattro mesi dopo, un altro
psicopatico sparò al neo-eletto presidente Reagan, ferendolo. Ancora due mesi, e Alì Agca sparò
al Papa. Pareva che sul mondo fosse calato il “tempo degli assassini”, mentre in realtà il mondo stava voltando pagina. Dietro l’angolo c’erano i ruggenti anni Ottanta, l’“edonismo reaganiano”, gli
yuppies al posto degli hippies, il thatcherismo, il
collasso del comunismo. Se il Secolo Breve finì nel
1989 con il crollo del muro di Berlino, di fatto con
quegli spari su John Lennon, icona di «love and
peace», di «fate l’amore non la guerra», finirono gli
anni Sessanta, prolungatisi dal ‘68 sino al termine
dei Settanta. Finiva un’era, come in Italia ci avevano preannunciato altri due insensati omicidi,
quelli di Pasolini e Moro, e ne cominciava un’altra.
Quel giorno a Central Park, sulle note di Imagine,
eravamo diventati grandi. Avevamo perduto un
po’ di illusioni. E ci sentivamo più soli.
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
l’inchiesta
FOTO DI SHOICHI AOKI - EDITORE PHAIDON
FOTO DI SHOICHI AOKI - EDITORE PHAIDON
Svolte generazionali
Tutto è cominciato come un gioco, con le Harajuku Girls
a inventarsi una moda bizzarra a ogni giro di weekend.
Ma ora i giovani trasgressivi, individualisti e anarchici
del nuovo Giappone sono diventati un fenomeno economico
e politico, il segnale di una metamorfosi nazionale
che ha portato Koizumi al recentissimo trionfo elettorale
Tokyo, l’ora dei ragazzi mutanti
FEDERICO RAMPINI
Repubblica Nazionale 36 09/10/2005
L
TOKYO
a cantantepop californiana Gwen Stefani le imita e le esalta nella sua canzone Harajuku Girls. Spuntarono dal
nulla in una domenica d’estate del
1997 che sembra lontanissima, oggi sono un’attrazione mondiale, le teen-agers che hanno reso
celebre il quartiere Harajuku di Tokyo. Passano i
weekend lì, a passeggiare sulla Omote-sando, a
mangiare crèpes dolci e profumate, a far niente, a
sorridere disinibite e a tirare la lingua ai fotografi.
Sfoggiano ogni weekend cento nuove mode che
elaborano loro con un’unica regola: non esistono
regole, cioè gli stilisti e le grandi marche non contano più nulla, perché a comandare sono i capricci individuali e la fantasia bizzarra delle Harajuku
Girls. Combinano stracci vecchi insieme a costosi
capi firmati delle loro mamme; abiti da samurai o
da geisha dell’antica tradizione giapponese; divise regolamentari da scolaretta-lolita provocatoriamente accorciate; accessori punk-gotico o
neohippy o da clown o quant’altro suggerisce una
immaginazione maliziosa. È nato come un gioco,
è cresciuto fino a diventare un fenomeno di costume e un pezzo di antropologia contemporanea.
Attira giovani emuli da tutto il Giappone. Seduce
stilisti italiani francesi e americani in pellegrinaggio qui alla ricerca d’ispirazione. Un fotografo
d’arte, Shoichi Aoki, ha dedicato anni della sua carriera a collezionare i ritratti di centinaia di Harajuku Girls, ciascuna con il suo personalissimo
travestimento. Poi è spuntato un trend concorrente nel vicino quartiere di Shibuya, con le Shibuya Girls dallo stile più sexy, decise a farsi notare
dagli animatori di show televisivi: è nato un magazine dedicato solo a loro. Con il radicale rifiuto di
farsi dettare le mode da altri, con la loro inventiva
sfrenata, i teenagers giapponesi hanno una lunghezza d’anticipo sui nostri, e il mondo intero se
n’è accorto.
Che l’Occidente sia invaso da miti e stili venuti
Chi ha meno di trent’anni
viene chiamato la nuova
razza, come fosse
un alieno: è l’esercito
dei “freeters”, i lavoratori
precari che stanno
rovesciando la tradizione
da Tokyo non è una novità. Il sushi è la dieta più diffusa da Soho a Brera, il regista americano Quentin
Tarantino ha venerato l’estetica marziale del cinema nipponico nei cult-movie Kill Bill, Louis Vuitton fa disegnare le borse da Murakami Takashi, e
la giovane avanguardia artistica di Tokyo cresciuta sui fumetti manga è la vera erede di Andy
Warhol. Quello che non era ancora chiaro, però, è
quanto questo nuovo Giappone sia diventato “il”
Giappone: quanto cioè la vena trasgressiva, individualista e anarchica è diventata un tratto forte
della fisionomia nazionale.
A intuirlo è stato per una volta un leader di governo, il primo ministro Junichiro Koizumi. Il
trionfo alle elezioni dell’11 settembre, che gli ha
garantito una maggioranza parlamentare schiacciante, è più di un evento politico. È la rivelazione
di una metamorfosi nazionale. Non importa che il
suo partito liberaldemocratico sia al potere da
mezzo secolo, né che a 63 anni compiuti il premier
appartenga alla generazione dei nonni delle Harajuku Girls. Il carisma che Koizumi sprigiona, il
personaggio pubblico che si è costruito abilmente
in questi anni la dice lunga sulla sua scelta di campo lungo la linea di frattura generazionale. È divorziato e single in un paese dominato per secoli
dal rispetto confuciano dei valori familiari. Ha lanciato un cd-compilation delle sue canzoni preferite di Elvis Presley e si lascia fotografare con le star
del cinema e della pop-music nelle discoteche della Tokyo by night. Porta capelli lunghi e vestiti casual invece del doppiopetto grigio dei suoi colleghi. È rilassato e divertente davanti alle telecamere, non ossequioso e reticente come gli altri politici. Soprattutto, in una civiltà che era dominata dalla cultura del gruppo, dall’obbedienza alle regole
dell’organizzazione (esercito o azienda, scuola o
famiglia), da un conformismo disciplinato, Koizumi è un monumento vivente all’individualismo.
Ha personalizzato la campagna elettorale, ha umiliato i notabili del suo partito, ha fatto politica
usando il pronome “io”. Inoltre il suo cavallo di
battaglia — la privatizzazione delle Poste — è una
rottura con decenni di assistenzialismo, è l’abiura
di un dirigismo economico quasi socialista, l’inizio della fine del “capitalismo comunitario” made
in Japan. Koizumi recita la sua parte in modo da
smentire tutto quello che credevamo di sapere sul
Giappone. Il risultato delle urne gli ha dato ragione. C’era qualcosa di serio dietro gli estrosi sberleffi creativi delle Harajuku Girls.
Da quando nel 1989 la grandiosa macchina da
guerra dell’economia giapponese si è fermata, alla sclerosi dell’establishment economico e dell’antico ordine sociale ha risposto una formidabile esplosione di creatività, dal design alla moda,
dalla musica alla pittura d’avanguardia. Un’analogia storica è con l’Inghilterra degli anni Sessanta: la stessa transizione dolorosa verso una società
post-industriale, la decadenza di un vecchio ordine sociale moralista e conservatore, la lacerazione
generazionale che là generò i Beatles e i Rolling
Stones, Mary Quant e la Mini Morris, gli hooligans
e Arancia meccanica.
Per capire quanto sia dirompente la frattura generazionale a Tokyo basta il termine con cui i giapponesi definiscono chi ha meno di trent’anni:
shinjinrui, letteralmente “la nuova razza”. Quasi
che agli occhi del vecchio Giappone fossero dei
mutanti, alieni venuti da un altro pianeta. Nella
sua fascia più giovane la nuova razza non presenta sempre il volto giocondo o stralunato delle Harajuku Girls. C’è un lato oscuro, tragico e violento
della ribellione. I giovani che respingono la tradizione e l’autorità degli anziani non lo fanno solo
componendo simbolici caleidoscopi di vestiti colorati. Da dieci anni la polizia giapponese registra
una escalation della criminalità minorile. I teenagers tra i 14 e i 19 anni, pur rappresentando solo il
7% della popolazione, sono coinvolti nel 50% degli
arresti per crimini violenti, inclusi gli omicidi. Di
fronte a forme di severità e disciplina scolastica ancora (per noi) ottocentesche, esplodono improvvise e incontrollabili delle vere e proprie “epidemie” di insubordinazione selvaggia, spesso fin
dalle classi elementari. Tra le studentesse liceali di
buona famiglia dilaga la prostituzione occasionale, per procacciarsi denaro con cui comprare abiti
firmati e gadget elettronici di lusso. Dietro l’apparenza gioiosa dell’individualismo trasgressivo talvolta appare il baratro della disperazione. Una insegnante di scuola media di Okinawa ha raccontato quel che accadde il giorno in cui diede agli studenti un tema in classe su «che tipo di persona volete diventare da grandi e quali cose volete realizzare nella vostra vita». Alcuni rimasero a lungo con
gli sguardi fissi nel vuoto senza scrivere una riga,
poi scoppiarono a piangere. I sociologi alla ricerca
di una spiegazione razionale l’hanno chiamata “la
generazione senza padri”. Non tanto per via di divorzi e separazioni (pure in aumento), quanto per
l’etica del lavoro che ha regolato e continua a stritolare la vita di molti maschi adulti: al servizio dell’azienda dall’alba alle dieci di sera, spesso anche
il sabato e la domenica. I ragazzi sono cresciuti
senza quasi mai incontrare il padre. Un’assenza
resa oggi più destabilizzante dal fatto che le donne
si rassegnano sempre meno alla tradizionale gerarchia nei ruoli familiari.
Crescendo questi teen-agers scoprono un’altra
economia giapponese che per i loro padri sembra
una giungla misteriosa e feroce. Addio alla tranquilla prevedibilità della vita dell’uomo in doppiopetto grigio, ai binari che portavano dalla scuola
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
FRESHFRUITS
Le foto delle Harajuku Girls
pubblicate in queste pagine
sono state scattate
da Shoiki Aoki e sono tratte
dal libro “Freshfruits” edito
da Phaidon Press Limited
Maiko, una Harajuku Girl di quindici anni, si racconta
“La mia emozione contro la loro disciplina”
RAFFAELA SCAGLIETTA
M
TOKYO
FOTO DI SHOICHI AOKI - EDITORE PHAIDON
Repubblica Nazionale 37 09/10/2005
aiko è una creatura dark a cui piacciono le maschere dell’orrore ma detesta farsi fotografare. «Damè, foto damè. No, la foto no», dice in tono arrabbiato. Il suo volto dipinto di cipria bianca è
coperto da tre catene di pelle che scendono dalla cresta di capelli ingelatinati e rigidi, come il suo
sguardo. Al posto degli occhi Maiko ha messo due lenti colorate: una è rossa, l’altra tigrata. A guardarli sembrano due biglie di vetro, oppure occhi di una bambola vecchia che a forza di cadere si sono rotti. Le ciglia sono affilatissime. I denti nascosti da un rossetto aggressivo, nero. È seduta con le
sue amiche in quel piccolo spazio che è concesso alle adolescenti di Tokyo per essere trasgressive
per qualche ora a settimana: Harajuku. Le cosplayer — “costume player” che copiano stile e vestiti dai personaggi dei manga, dalle riviste specializzate o dai film dell’orrore — sono trasgressive
non per cambiare il mondo ma per distacco, disinteresse, nichilismo adolescenziale: figlie di una
rivoluzione passiva che vuole allontanarsi da una società in crisi orientata finora al successo sociale, alla ricchezza, al lavoro e alle severe tradizioni.
Maiko è seduta proprio davanti al parco di Yoyogi che porta al tempio Meji, luogo sacro e privilegiato per le ragazze di buona famiglia che si sposano ancora secondo il rito shintoista. Lei ha 15 anni, ha scelto uno pseudonimo che provoca: in Giappone una maiko è una giovane geisha che si appresta a imparare le arti per intrattenere il suo cliente. È vestita di nero, stivali a zattera, coperta da
corde, piume e lacci: sembra uno dei tanti corvi di Tokyo, pronta a spiccare il volo, invece è seduta a
terra, mangia da un pacchetto di patatine fritte americane e ride. «Mi chiamo Maiko — dice guardando con la lente rossa una compagna che invece è vestita di bianco e sugli occhi sfoggia lenti verdi — vengo qui ogni tanto, quando mi va, quando voglio farmi vedere. Mi piace vestirmi così perché
è divertente, veniamo qui e aspettiamo». Aspettate chi, cosa? «Niente, le nostre amiche. Questa è la
nostra identità — racconta Maiko — il nostro modo di vivere a Tokyo. Un modo per sfuggire a un ordine fisso, a una disciplina severa, a una società opprimente. A conferma di ciò che scriveva Mishima in Confessioni di una maschera: “Le emozioni non hanno simpatia per l’ordine fisso”».
all’università all’azienda, al tran tran della carriera d’ufficio con il posto garantito fino alla pensione. Il 50% dei giovani giapponesi che lasciano gli
studi dopo la maturità, e il 30% dei laureati, cambiano lavoro almeno ogni tre anni. Perché quindici anni di stagnazione economica hanno inaridito
gli sbocchi; perché anche le multinazionali giapponesi delocalizzano in Cina e tagliano i costi fino
all’osso; infine perché i giovani stessi aborriscono
l’idea del posto fisso a vita che dava sicurezza ai padri. «Il part-time ha avuto un’esplosione che sarebbe stata impensabile nel Giappone di una volta — osserva l’economista Takuro Morinaga autore de L’economia della sopravvivenza— oggi più di
un terzo degli occupati lavorano a tempo parziale,
con contratti a termine, o altre forme instabili e
precarie. In questa evoluzione è l’intera società
giapponese ad avere subito una trasformazione
drastica». È una società dura, dove il costo della vita è tra i più cari del mondo ma il 40% dei lavoratori a part-time guadagna meno di 750 euro al mese.
Tuttavia il mondo giovanile ha interiorizzato questa insicurezza fino a trasformarla in una scelta di
vita, in un sistema di valori. Lo conferma il consolidarsi nel gergo corrente del neologismo coniato
per i giovani che fanno lavoretti brevi, precari e dequalificati, con l’orgoglio o l’illusione di essere più
liberi: si chiamano “freeter”, un’invenzione giapponese che unisce l’inglese “free” (libero) col tedesco “Arbeiter” (lavoratore). È questo il cambio di
atmosfera che Koizumi ha cavalcato proponendo
più mercato e meno Welfare, un futuro ancora più
flessibile e senza garanzie.
Non tutto quel che dice e fa Koizumi è uno specchio fedele della nuova razza. Il 35enne Takahashi
Jun, ex cantante punk dei Tokyo Sex Pistols, habitué di Harajuku, oggi è lo stilista di avanguardia
considerato l’erede di Miyake Issey. Quando il premier va a visitare il tempio Yasukuni dove sono
onorati dei criminali di guerra, facendo infuriare
Cina e Corea, secondo Takahashi «rappresenta un
punto di vista della sua generazione, un vecchio atteggiamento che non corrisponde ai sentimenti di
tutti i giapponesi». Con la sua decisione di manda-
FOTO DI SHOICHI AOKI - EDITORE PHAIDON
re truppe giapponesi in Iraq, Takahashi è secco:
«Non capisco come possa farla franca». Tuttavia
neanche i giovani sono impermeabili al revival del
nazionalismo.
È arduo leggere dentro l’animo dei shinjinrui, gli
under 30, capire cosa pensano di grandi temi come
la guerra, il passato imperialista, in un paese dove
su Nanchino Pearl Harbor e Hiroshima si è steso
per decenni un velo di ambigua reticenza. Murakami Takashi, che oltre a disegnare per Vuitton è
il guru dell’arte visuale d’avanguardia, porta in giro per il mondo un’esposizione di pittori giapponesi intitolata Little Boy, il nomignolo che gli americani diedero alla prima bomba atomica. Le immagini dei giovani artisti mescolano con geniale
disinvoltura il linguaggio della pubblicità e quello
dei videogame, l’iconografia buddista e i fumetti
pornografici; Godzilla, il fungo atomico e lo tsunami. L’occhio occidentale rimane turbato dal continuo accostamento di immagini di bambine e violenza, con quella venatura di pedofilia presente in
tanti fumetti giapponesi divorati da milioni di lettori di ogni età e sesso. Nella pop-art nipponica appaiono altre creature infantili dai corpi minuscoli
(Little Boy) e dalle teste immense, con lo sguardo
incollato agli schermi dei computer, che giocano
alla distruzione del mondo. Ricordano i ragazzi veri che incontri a migliaia ogni sabato sera in quei
formicai luccicanti di fantascienza che sono le sterminate sale di videogiochi di Tokyo. Loro sono i gemelli delle Harajuku Girls. Dopo la discoteca,
quando l’ultimo metrò è partito e tornare a casa in
taxi (data l’immensità della megalopoli) costerebbe lo stipendio di un mese, i ragazzi affittano a ore
dei loculi elettronici, isolati ovattati e confortevoli
come piccole capsule spaziali, dove si può passare
la notte immersi nello stordimento degli effetti speciali. Si isolano nella tempesta magnetica della
realtà virtuale, finché scivolano nel sonno per qualche ora. Quando sorge il sole il giovane popolo della notte riemerge sbadigliando dalle migliaia di celle dei videogame, con gli occhi gonfi e i timpani indolenziti. È l’ora di tornare al lavoro part-time, l’alba di una nuova giornata da “freeter”.
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
il racconto
Il 9 ottobre di centocinquanta anni fa veniva depositato
il brevetto che lanciava la macchina da cucire: strumento
di lavoro destinato a diventare un totem domestico
e un fenomeno di costume in un Paese non più contadino
e non ancora industriale, un Paese in bianco e nero,
povero ma non necessariamente bello
Oggetti di culto
L’Italia piccola piccola delle sartine
P
er dire che una donna non
valeva granché si diceva:
non sa tenere l’ago in mano.
Oggi sono moltissime le
donne che «non valgono»,
secondo questo metro di
giudizio che vorrebbe signore e signorine di ogni età «all’opre femminili intente». Quello delle sartine è un universo
che appare tramontato per sempre, fotogramma di un’Italia in bianco e nero,
povera ma non necessariamente bella.
Sartina: già il diminutivo la dice lunga. È
uno di quei diminutivi che non comportano tanto tenerezza o affetto o nostalgia, quanto piccolezza. Piccolezza
di confini, claustrofobia di orizzonti limitati, stanze che odorano di chiuso.
L’Enciclopedia della Moda lo spiega
con chiarezza: mentre le sarte avevano
uno status riconosciuto e lavoravano in
un vero atelier, le sartine — modeste,
umili, alla mano, economiche — dispiegavano la loro industriosissima attività dentro casa, arrangiandosi spesso
in cucina, o nel tinello, o nella camera
da letto matrimoniale. Tutto ruotava attorno alla macchina da cucire, prima a
manovella, poi a pedale, lustra e ben
oleata, decorata con fregi e svolazzi. Era
un totem casalingo, oggetto avanzato
del progresso, simbolo di un’Italia attenta al risparmio, non ancora consumista, che rivoltava i cappotti e le giacche, un’Italia appena uscita dal mondo
contadino e pronta a entrare in quello
protoindustriale.
Il mestiere di sartina — mai nessun
mestiere è stato più in nero, senza protezione legislativa, senza limiti d’orario,
senza potere contrattuale — era molto
apprezzato poiché presentava caratteristiche che risultavano perfettamente
compatibili con la funzione di moglie e
madre e soprattutto di casalinga in cui le
donne venivano confinate. Un lavoro da
fare, magari fino a notte fonda, fra le
quattro mura domestiche e che aiutava
a quadrare il bilancio. Negli anni del fascismo quella della casalinga — all’epoca si diceva massaia — era una vocazione obbligata, meglio se madre di prole
numerosa. E non c’era casalinga che
non sapesse cucire, a mano o a macchina. Le bambine imparavano l’arte sin
dall’asilo e venivano cresciute senza
grilli per la testa. «La Patria si serve anche
spazzando la propria casa», si legge nel
decalogo della Piccola Italiana. Spazzando ma anche cucendo, rammendando, facendo orli, e nel tempo libero
— come uno svago — ricamando.
La sartina è per definizione dimessa,
pallida, affaticata. Vive nell’ombra.
Non rispecchia molto l’immagine stucchevole e frivola che ne dà una canzonetta d’epoca, Pippo non lo sa, anno
1940, di Kramer e Panzeri: «Ma Pippo
Pippo non lo sa/ che quando passa ride
tutta la città/ e le sartine/ dalle vetrine/
gli fan mille mossettine». Sandra Leschan, del Trio Lescano, ha raccontato:
«Negli anni in cui si cantava “Se potessi
avere mille lire al mese”, noi guadagnavamo mille lire al giorno. Avevamo
comprato un bellissimo appartamento
a Torino, possedevamo una Balilla fuori serie a quattro porte, i nostri armadi
erano pieni di vestiti».
Stile di vita ben diverso per le provinciali sartine, obbligate a guardare al
centesimo e a non concedersi non soltanto nessun capriccio, ma anche ben
poca visibilità o «mossettine dalle vetrine». Il loro mestiere, tipicamente femminile, spesso era un destino. Le ragazze che potevano preferivano lavorare
fuori casa. Negli anni del boom molte
scelgono di andare in fabbrica a fare le
operaie, le più fortunate trovano un impiego da commessa. Spesso fa la sartina
chi è già, comunque, confinata dentro
le mura domestiche: non soltanto la
madre di famiglia ma, per esempio, la
portinaia.
Le signore più fortunate la sartina la
facevano venire a casa, almeno due volte l’anno, a ogni cambio di stagione, per
periodi piuttosto lunghi, anche per una
settimana di seguito, anche per dieci
giorni. Iolanda — o Elvira, o Antonietta
— si fermava a pranzo e spesso anche a
cena e parlava tantissimo, raccontava,
commentava, essendo il taglia e cuci un
lavoro che molto si concilia con l’affabulazione. Era amatissima dalla figlia
della padrona di casa: di nascosto, a fine
giornata, dopo aver rivoltato un paltò e
trasformato un abito di Principe di Galles in una scamiciata, cuciva al volo un
vestito per le bambole con un ritaglio di
stoffa o uno scampolo luccicante. Siamo decisamente nell’epoca pre-Barbie.
In quella settimana la sartina rimetteva a posto il guardaroba dell’intera famiglia e qualche volta si improvvisava
anche tappezziere. Allungava le gonne,
allargava i pantaloni, rammendava, rivoltava, «rammodernava». Lavoro fati-
coso anche se dal dispendio energetico
contenuto: cucire a macchina col pedale fa bruciare 48 calorie ogni mezz’ora. Al
di là delle piccole ma indispensabili riparazioni non tutte le sartine erano in
grado di fare vestiti ex novo. Burdae Mani di fata erano la loro Bibbia, nell’Italia
ormai scomparsa del cartamodello.
Le signore che non potevano permettersi la sartina a domicilio ne avevano
tuttavia una di fiducia, che andavano a
visitare in quartieri non sempre vicini, in
sottoscala, pianterreni, portierati angusti, dove la sarta passava ore e ore china
sulla sua Singer a pedale, il metro a fettuccia giallo penzolante attorno al collo,
le forbici appese a un lungo nastro alla
cintola, sulla pettorina del grembiule un
puntaspilli che sembrava un istrice, gli
spilli stretti fra le labbra durante le prove. Per terra o nelle scatole aperte un
gran groviglio di fettucce, cerniere lampo, rocchetti di filo, bottoni, automatici,
spille da balia. Dalla porta socchiusa
della cucina arrivavano sempre vapori e
odori di cibi in ebollizione. Quante erano le sartine? Qualcuno ha azzardato il
numero di 400mila, un numero che
coincide perfettamente con quello delle “vedove bianche”: tante erano, nel
1959, in pieno boom economico, le donne senza più notizie né sostegno economico da parte dei mariti emigrati.
Alcune di loro, ma una minoranza
davvero trascurabile, hanno fatto carriera, arrivando fino a Hollywood. Che
cos’erano Zoe, Giovanna e Micol Fontana se non tre sartine che ebbero l’audacia di lasciare il loro paesino di Traversetolo, in provincia di Parma, per
marciare su Roma? Certo non immaginavano neppure lontanamente che un
Singer, l’attore fallito che inventò l’ago a pedale
MARINA CAVALLIERI
L’
invenzione che rivoluzionò la vita domestica delle donne e la storia della moda fu il frutto di una
vocazione frustrata e di un talento vissuto come
ripiego. Accadde 150 anni fa. Quando Isaac Merrit Singer brevettò uno dei primi motori per macchine da cucire lo fece soprattutto costretto dalle circostanze: aveva
quarant’anni, avrebbe preferito fare l’attore ma con le
ambizioni teatrali non riusciva a mantenere i suoi numerosi figli, così abbandonò l’arte per la meccanica, le
aspirazioni per il pane quotidiano e alla vita sregolata
preferì, come disse, «un lavoro vero». Andò a lavorare in
un’azienda che costruiva macchine da cucire che allora
erano apparecchi molto complicati, non adatti a una signora. A Singer bastarono undici giorni per mettere a
punto l’invenzione che avrebbe fatto la sua fortuna.
Dopo aver esaminato le macchine osservò: «Invece di
far seguire alla navetta un moto circolare, lo farei muovere avanti e indietro su una linea diritta. Invece di una
barra d’ago che spinge orizzontalmente un ago curvo
userei un ago diritto e lo farei lavorare verticalmente su
e giù». Quell’idea funzionò così bene che rimase quasi
intatta per oltre un secolo. Sotto l’ago verticale mosso da
un pedale (anche questa un’idea di Singer) è passato un
secolo di economia casalinga fatta di risparmio e creatività, magica combinazione di necessità e virtù. Perché
c’è stato un tempo, fino a cinquant’anni fa, che tutte le
donne sapevano cucire e questo è stato possibile anche
grazie a Isaac Merrit Singer.
La Singer fa risalire al 1851 la data di nascita della macchina da cucire ma è nel 1855, esattamente il 9 ottobre,
che fu depositato il brevetto. Quelli furono anni molto
produttivi per il suo inventore, uomo di aggiustamenti
più che di invenzioni pure, tanto che in pochi anni depositò una ventina di «miglioramenti». Le prime macchine furono vendute a 100 dollari l’una, troppo care, così nacque «l’affitto a riscatto», primo esempio di acquisto con anticipo e pagamento rateale, un mercato che si
diffuse rapidamente appena fu perfezionata nel 1858 la
UN SECOLO DI PUBBLICITÀ
Qui sopra, una Singer
a pedale del 1964. A sinistra,
pubblicità d’epoca
delle macchine da cucire
macchina leggera per uso domestico. Le vendite decollarono anche in Europa, un business vertiginoso, milioni di pezzi finirono nelle case di donne ansiose di avere
abiti alla moda a poco prezzo, del resto era al successo
commerciale che puntava Singer, dell’invenzione, ammise un giorno, non gli importò mai un granché.
In Italia bisogna attendere il primo dopoguerra perché
sorgano fabbriche di macchine da cucire: nascono la
Borletti, la Visnova, la Salmoiraghi, la Vigorelli e la Necchi. Nuovi marchi ma con poche novità sostanziali: aumento della velocità, possibilità di cucire a zig zag, luce
incorporata. Gli anni passano ma la macchina da cucire
rimane emblema di laboriosa femminilità, decoro, sana
produttività, quasi una garanzia di pace domestica, tanto che negli anni Cinquanta non disdegnano di farsi fotografare compiaciute accanto ad una Singer o una Necchi attrici famose come Sofia Loren. Macchine d’uso domestico, che rimandano ad un universo privato, familiare ma su cui si è esercitata anche la creatività di noti designer: la Visetta del 1949 è disegnata da Giò Ponti; la
Necchi del 1981 sarà pensata da Giorgio Giugiaro.
Poi qualcosa cambia, il Boom rende meno necessario il
risparmio, le donne cercano nuovi ambiti, lontani da casa, per la loro creatività. Le macchine da cucire vengono
incorporate dentro contenitori-mobiletto, chiuse con
coperchi a forma di valigia, si nascondono, si mimetizzano, si mettono da parte e le vecchie Singer finiscono in soffitta. Ecco ora l’ultima rivoluzione. I più recenti modelli
sono raffinati strumenti tecnologici, digitali, mille punti
al minuto, dove basta collegarsi ad un computer per trasformare in schema-ricamo la foto del videotelefonino
del figlio o del fidanzato. Dopo il grande rifiuto dell’ago e
del filo, si è formata in questi anni una generazione di donne che non disdegna il cucito, naviga su Internet, forma
una comunità virtuale che affolla siti dove si scambiano
informazioni e consigli sul punto overlock e il nido d’ape.
PatternReviw. com, Cactuspunch. com, Embroderyonline. com, l’antica virtù femminile riparte da qua.
giorno avrebbero abbigliato dive come
Linda Christian, Ava Gardner, Audrey
Hepburn imponendo nel mondo il primissimo Made in Italy e scalzando l’impero delle maison francesi.
La sartina è anche un personaggio
portante del cosiddetto neorealismo rosa, come nel film Le ragazze di piazza di
Spagna, di Luciano Emmer, anno 1952,
con Lucia Bosè e Marcello Matroianni. È
la storia intrecciata di tre sartine: una,
Lucia Bosè, sogna di fare l’indossatrice
ma rinuncia per sposare un semplice
operaio; un’altra tenta il suicidio per
amore ma ritrova la felicità accanto a un
tassista; la terza, minuscola di statura, si
innamora di un fantino. Ne esce un’Italia piccola piccola, storie quotidiane di
gente comune e laboriosa. Anche in letteratura la sartina è spesso percepita come un personaggio innocente, di buon
sentimenti, come ne La bella estate di
Cesare Pavese, un romanzo che mette in
scena lo scontro tra purezza e corruzione: è il storia di Ginia, una ragazza di 16
anni che lavora presso una sarta e si innamora di un pittore che non la ama, finendo per ammalarsi di sifilide. Le sartine hanno anche una loro santa protettrice, Santa Caterina, che cade il 25 novembre. In molti paesi quel giorno si celebrava la festa delle caterinette.
È sicuramente l’ascesa della confezione in serie a decretare il tramonto
delle sartine, diventate sempre più rare,
o forse ancora più sommerse, come
sempre più rari sono i negozi di mercerie e quelli che vendono foderami e stoffe a metraggio. La macchina per cucire
— ce n’era una in ogni casa — esce onorevolmente di scena, o al massimo resta
come oggetto di hobby, o icona di modernariato domestico. I modelli più
avanzati, quelli di oggi, anzi di domani
— sono avveniristici e hi-tech, e puntano a donne giovani che non hanno alcuna dimestichezza con i lavori tradizionali femminili ma ne hanno molta
con il computer. Sono macchine interamente assistite dal pc e possono scaricare da Internet milioni di decori e di ricami personalizzati. La macchina per
cucire, tuttavia, resta un emblema di efficienza, nitore, femminilità: non a caso
Bree, la più impeccabile delle “desperate housewives”, più che perfetta in ogni
faccenda domestica, ne tiene una elettrica al centro della propria casa e della
propria esistenza.
Sparite (o mimetizzate) le sartine, resta il problema, se non dei vestiti fatti in
casa copiando il cartamodello, delle
piccole e inevitabili riparazioni. Sono
affollatissime, specie in città, la catene
di negozi, spesso in franchising, che fanno orli rapidi e sostituiscono cerniere
lampo. Si legge nel sito della Caritas di
Roma la storia di Franca, 38 anni e due
figli, che lavora in nero per un laboratorio di riparazioni celeri e fa una trentina
di orli al giorno: «Prendevo seicento lire
a orlo e ora sono trenta centesimi, va
bene. Ma il negozio al cliente faceva pagare il lavoro diecimila lire; e
ora dieci euro. Io non posso protestare, perché trovano subito
un’altra che lo fa al posto mio.
Però è così: i prezzi sono raddoppiati e gli stipendi no».
Ci sono sartine che cuciono
come fossero alla catena di
montaggio e altre — in estinzione — che fanno cose più complesse, anche creative, e che
vengono pagate in proporzione. Le boutique di un certo tono
ne hanno sempre una di riferimento. Racconta Letizia Morini, proprietaria di “Dettagli”,
elegante negozio d’abbigliamento a Roma Parioli: «È la sarta che fa la differenza. La nostra
Lucia, che ha 79 anni, è insuperabile. Non si limita certo ad allungare e ad accorciare gli orli,
ma spesso ha intuizioni e soluzioni per modifiche che accontentano ogni nostra cliente. È così, dando la sensazione del capo su misura, che combattiamo la crisi».
FOTO GETTY IMAGES -RONCHI
Repubblica Nazionale 38 09/10/2005
LAURA LAURENZI
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
Repubblica Nazionale 39 09/10/2005
LE CURIOSITÀ
IL MARCHIO
IL DESIGN
LE DIVE
LE NOVITÀ
Il marchio Singer
debutta nel 1870:
la ragazza e la "S"
rossa diventano
uno dei loghi
più conosciuti
Nel secondo
dopoguerra
si cerca l’eleganza
Nel 1981 anghe
Giorgio Giugiaro
ne disegna una
Testimonial
per le macchine
da cucire anche
note attrici negli anni ’50
e ’60. Tra loro
Sofia Loren
Gli ultimi modelli
computerizzati
personalizzano
i punti e scaricano
da Internet
schede-ricamo
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
Cantieri aperti
Riapre dopo vent’anni di chiusura e di abbandono
il più celebre e modaiolo “roof” di Manhattan, in vetta
ai 259 metri del Rockefeller Center. Ascensori come
macchine del tempo per rivedere, sopra quella magica
terrazza , il dirigibile Hindenburg, il generale De Gaulle
e le scene del musical di Frank Sinatra e Gene Kelly
Top of the Rock,
New York ritrova il suo tetto
Repubblica Nazionale 41 09/10/2005
D
NEW YORK
all’alto dei suoi 259 metri
si può osservare New
York a 360 gradi, una vista unica che spazia dalla
Statua della Libertà fino al Bronx passando per Brooklyn e il New Jersey. Il
primo novembre, dopo vent’anni di
chiusura, riapre al pubblico il più famoso “roof” di Manhattan, il “Rockefeller Center Observation Deck”. Fu da
questa terrazza — che Repubblica ha
potuto visitare in anteprima, mentre gli
operai stavano ancora terminando i lavori — che nel maggio del 1936 centinaia di newyorchesi furono testimoni
entusiasti dell’arrivo di una grande
macchina volante: quell’Hindenburg
che, partito dalla Germania hitleriana,
dopo sessanta ore di viaggio era arrivato tra i grattacieli della “Big Apple”, un
viaggio transatlantico che sarebbe finito tragicamente l’anno successivo con
la distruzione del famoso dirigibile.
Fu qui che nel luglio del 1944, un mese decisivo per le sorti della guerra mondiale in Europa — da poche settimane
c’era stato il D-Day, l’invasione della
Normandia da parte delle truppe angloamericane —, il generale Charles De
Gaulle trascorse un’ora guardando New
York dall’alto e facendosi indicare nei
dettagli da una “centerette” — una guida che parlava francese — dove si trovavano Harlem, Central Park, la Fifth Avenue e Coney Island.
Fu in questo “roof deck” che nel 1949
tre marinai in licenza dai nomi famosi
(Frank Sinatra, Gene Kelly e Jules Munshin) portarono le loro amichette per girare alcune scene di uno dei “musical
movie” più popolari di Hollywood, On
the Town. Per la prima volta in un musical, gli attori avevano abbandonato palcoscenici e studios per girare le scene
nelle vere strade della città. E fu Gene
Kelly che, dopo una furiosa litigata con
la produzione, riuscì ad imporre quelle
scene dall’alto il cui sottofondo divennero i versi di una famosa canzone di
Leonard Bernstein («New York, New
York, a helluva town, the Bronx is up and
the Battery’s down»): una chiave del
successo nelle sale.
Quando nel 1933 il “Rockefeller Center Observation Deck” aveva aperto i
battenti l’America, ancora profondamente segnata e ferita dalla Grande Depressione, stava iniziando una nuova
era: il New Deal, quel sogno politico visionario che Franklin Delano Roosevelt sarebbe riuscito
a trasformare in pochi anni in una
grande realtà destinata ad incidere sui
destini degli States
per quasi mezzo secolo. Questa terrazza, da cui nelle giornate più limpide lo
sguardo poteva correre fino alla Pennsylvania, divenne
rapidamente lo spot
favorito
dei
newyorkers che lasciavano volentieri
ai turisti venuti dal
Midwest le lunghe
file davanti all’Empire State Building;
per ritrovarsi qui,
tra le guglie art decò, a parlare di affari,
per indicare ai bimbi la casa nell’Upper
West Side, o per salirci al tramonto per
baciare la ragazza o proporre alla fidanzata il matrimonio.
Anche se più basso di sedici piani rispetto all’Empire, il “Rockefeller Center
Observation Deck” aveva qualcosa in
più per meritare di essere il simbolo della “Golden Era” di Manhattan. Prima di
tutto la posizione, nel pieno centro di
Midtown, dove l’imponente grattacielo
al numero 30 di Rockefeller Plaza, attirava ogni giorno migliaia di persone: quelle che ogni sera riempivano il “Radio
City Music Hall” per concerti swing e
jazz che hanno segnato la storia della
musica americana; quelle che nel periodo natalizio si lanciavano sulla pista di
pattinaggio sotto l’albero di Natale più
famoso del mondo; quelle che facevano
la fila davanti agli studios della Nbc, do-
IL RESTAURO
Nella foto sopra, il roof
come si presenta oggi.
Sotto, due immagini
degli anni Trenta
In basso, la vista
dalla terrazza ristrutturata
FOTO ROCKEFELLER CENTER ARCHIVES
ALBERTO FLORES D’ARCAIS
Tra le guglie art decò
per parlare di affari
o d’amore. E godere
la vista più bella
ve nei primi anni Quaranta faceva la
tour-guide un certo Gregory Peck. Ma
c’era anche un altro motivo per cui il
“Rockefeller Deck” era considerato più
charming del suo rivale Empire, un motivo legato alla vista: dalla sua terrazza si
poteva osservare Central Park in tutta la
sua dimensione senza che nulla ostruisse la visuale, mentre dall’ottantaseiesimo piano dell’Empire State Building la
vista era (ed è tuttora) ostruita proprio
dal roof del Rockefeller Center.
Erano anni ruggenti quelli per New
York, anni in cui Cosa Nostra non aveva
ancora ceduto le
armi alle nuove
mafie cinesi e sudamericane e il sindaco Fiorello La Guardia teneva alto l’onore di tutti gli italo-americani.
Quando il deck aprì
i battenti mancavano ancora quarant’anni alla costruzione delle
Twin Towers, il
“Top of the World”
che sarebbe diventato il bersaglio del
più clamoroso attentato terroristico
della storia. Ma non
fu la concorrenza
delle torri del World
Trade Center e
neanche quella
dell’Empire che costrinsero alla chiusura il “Rockefeller Center Observation
Deck” nel 1986. Fu un motivo di business
apparentemente banale ma allora irrisolvibile. Con l’ampliamento della
“Rainbow Room” (la terrazza-ristorante
ai piani inferiori, che oggi appartiene a
Cipriani) non fu più possibile utilizzare
l’ascensore che portava al roof. E così per
quasi vent’anni il punto di osservazione
più trendy della metropoli dei grattacieli venne chiuso al pubblico.
Adesso, fra circa tre settimane, è il momento della riapertura con il nome di
“Top of the Rock”, pubblicizzato in tutta
New York da grandi cartelloni su cui
campeggia il grattacielo stilizzato. Tishman Speyer, il coproprietario del Rockefeller Center ha studiato il progetto nei
minimi dettagli, affidando allo studio di
architetti “Gabellini Associates Llp” il
FOTO DI CASEY KELBAUGH
le storie
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
design del nuovo osservatorio, con il
compito di assicurare l’integrità storica
del sito. Alla “Entertainment Group Bob
Weis Design Island Associates” è stato
dato invece l’incarico di ideare e sviluppare una «esperienza di intrattenimento» che sia unica e indimenticabile anche nel vasto panorama di divertimenti
che una città come New York offre.
Il risultato è una nuova entrata — sulla Cinquantesima strada tra la Quinta e
la Sesta Avenue — il passaggio in uno
spazio espositivo ricco di foto storiche e
dove vengono proiettati su tre grandi
schermi al plasma gli avvenimenti che
hanno segnato i decenni di gloria del
deck (anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta), per poi prendere gli sky shuttle,
gli ascensori che in 54 secondi ti portano
al 67esimo piano, che ha un’altezza
doppia del normale (per cui il 68esimo
non esiste) e che porta alle vere e proprie
terrazze — al 69esimo e 70esimo piano
— attraverso delle scale mobili. Gli sky
shuttle sono ascensori avveniristici,
sorta di macchine del tempo, con i soffitti trasparenti che consentono di vedere l’accelerazione mentre quattro videoproiettori mandano sui soffitti in rapidissima sequenza le immagini del
Rockefeller Center dagli anni Trenta fino ai giorni nostri. Il 67esimo piano negli ultimi anni è stato usato come sede di
macchinari, mentre un tempo una parte era uno splendido attico in cui aveva
l’ufficio il famoso impresario della boxe
Don King. Adesso diventerà la “Weather
Room”, una grande sala panoramica
che potrà essere usata per serate ed
eventi particolari (e probabilmente
molto costosi).
Per evitare le file che rischiano di essere lunghissime (come quelle che intasano ogni giorno l’Empire) i futuri visitatori potranno dribblare le sette biglietterie previste e comprare i biglietti
online (la vendita è già iniziata) prenotando mese, giorno e ora in cui scalare
il roof più trendy della New York anni
Duemila.
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
i luoghi
Bolivia misteriosa
Nella capitale più alta del mondo i ricchi abitano nei quartieri
bassi mentre i poveri sono confinati in cima alla montagna.
Per questo La Paz è una piramide rovesciata, che rappresenta
le contraddizioni di un Paese diviso fra due popoli. Dove gli eredi
del colonialismo possiedono tutto ma dove i nativi hanno trovato
il modo per difendersi: riducendoli alla fame
La vita sottosopra della città
di El Alto, l’ex sobborgo divenuto ormai
un’altra città, a quattromila metri. Così
La Paz è una piramide rovesciata, una
sorta di immenso imbuto con i ricchi giù
giù in basso e i poveri su su in alto.
Fondata a metà del Cinquecento dagli spagnoli, divenne capitale amministrativa della Bolivia — sede del Parlamento e dei principali ministeri — soltanto alla fine dell’Ottocento, quando
esaurito l’oro e l’argento delle rocce di
Potosì, l’economia del paese si concentrò sull’estrazione dello stagno. La Paz è
una città di grattacieli e villette in basso,
catapecchie di legno e pietra in alto. Il
suo paesaggio cambia mentre si sale.
Poco a poco le strade si fanno più strette
e rotte, s’aprono voragini nell’asfalto, le
fogne sono all’aperto, fiumiciattoli
d’acqua marcia che scende verso il basso. Le facciate diventano screziate, poi
del tutto senza l’intonaco. Ipotesi di case, costruite solo per metà. Questo scenario è abbastanza diffuso in America
Latina. Anche in megalopoli come Caracas e Rio de Janeiro, la piccola e media
borghesia vive nelle zone più basse, vicino al mare in questo caso, mentre l’esercito dei poveri s’arrampica sulle colline (cerros e morros), in favelas che
sembrano sfidare le leggi delle fisica,
con le case appese, una sull’altra, lungo
il costone.
La legge è sempre la stessa. Più devi salire e più sei povero, nonostante il panorama. E anche a La Paz, quando sali fino
a mezza costa, la vista è spettacolare. Da
OMERO CIAI
A
LA PAZ
FOTO REUTERS
ll’inizio è un mal di testa.
Come un chiodo a espansione nella base del cranio che ti lascia stordito e
dolente per ore. L’effetto dell’altitudine,
La Paz si trova a 3.600 metri, si cura solo
con molta pazienza e con l’infuso, il
“mate” di foglie di coca. Il primo giorno
passa così, seduti accanto alla teiera calda con la pianta benedetta. «Camina
lentito, come poquito y duermo solito»
(Cammina pianissimo, mangia pochissimo e dormi da solo), sono le tre regolette per superare il “sorochi”, quel giramento di testa che ti assale appena sbarchi dall’aereo dopo una discesa da brivido tra i picchi innevati dell’Illimani, la
montagna sacra degli incas che domina,
ad oltre seimila metri, la vallata della
città. Appena la guardi dall’aeroporto La
Paz sembra un cratere lunare. Una gola
brulla e spoglia di case e sassi. Scendendo verso sud, nella parte più bassa sorge
la zona ricca, i quartieri borghesi di Colacoto, La Florida, San Miguel. Man mano che si sale, a rovescio, la città impoverisce fino alle favelas aggrappate sul
costone della montagna e alla spianata
Agli indios in protesta
basta chiudere
la strada che scende
dall’altipiano verso
il centro per
paralizzare ogni
attività economica
e bloccare gli
approvvigionamenti
destra a sinistra si domina tutta la valle.
Però la tua casa è sicuramente senz’acqua, probabilmente senza impianto del
gas e forse anche senza luce. Poi certamente è anche abusiva. Non ti appartiene. Ma se vivi a La Paz, hai un vantaggio
rispetto a Rio e a Caracas: puoi vendicarti abbastanza facilmente contro tutti quelli che stanno in più in basso.
Un paese in crisi perenne
La morfologia di La Paz è un controsenso politico e strategico. E se, solo
negli ultimi tre anni, crisi e proteste sono costati il posto a due presidenti bisogna rifarsi alla geografia della città
per capirne il perché. Qui, affamare i
ricchi è facilissimo. Ogni volta che coloro che vivono in alto decidono che
hanno sopportato abbastanza è sufficiente che chiudano la strada per ottenere il risultato e paralizzare la città.
Infatti qualsiasi cosa, per raggiunge La
Paz, deve scendere dall’altipiano. È
lassù che passano sia la strada provinciale che la ferrovia. Ed è lassù che c’è
l’aeroporto. Da lassù arrivano gli alimenti, la benzina, il gas, e perfino l’acqua. E, lassù, fra vie dissestate aggredite dal fango e baraccopoli sudicie, ci vivono solamente indios, “kollas”, poveri. Ogni volta che s’arrabbiano per
qualcosa, vincono. È facile. Qualche
mese fa mentre seimila vittime dei
blocchi della zona sud circondavano il
Parlamento esigendo la “mano dura”
dell’esercito, centomila indios nativi,
cinquecento metri più in alto, chiudevano tutte le vie d’accesso alla valle costringendo in meno di due giorni il presidente a fare le valigie. Negli ultimi anni il fenomeno si è ripetuto con straordinaria regolarità lasciando senza opzioni parlamentari e presidenti. A La
Paz comandano quelli di El Alto, la
gente della montagna, non c’è scampo: se vuoi governare devi scendere a
patti con loro. È come se, per uno
scherzo della geografia, gli abitanti di
una bidonville avessero il potere di vita e di morte su tutti gli altri cittadini di
un paese. E, da quando gli indios l’hanno capito, non c’è stata più partita.
Blocchi stradali, non mediazione politica.
Come in un gioco di scatole cinesi la
morfologia di La Paz simboleggia
quella dell’intero paese. Questa spaccatura così netta fra l’alto (i più poveri)
e il basso (i più ricchi) riproduce esattamente quella geografica fra le zone
dell’altopiano andino e le vaste pianure che confinano con il Paraguay e il
Brasile; e quella etnica. In montagna,
sopra i quattromila, vivono gli indios
nativi (30% quechua, pronipoti della
colonizzazione incaica, e 25% aymara), in pianura europei (15%, in maggioranza spagnoli) e meticci (30% per
cento del totale). Ossia, secondo la denominazione comune e abbastanza
razzista nei due sensi, in pianura vivono i “cambas”, mentre la montagna è
territorio dei “kollas”. Due popoli. I
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
METROPOLI IN QUOTA
LA PAZ
CUZCO
QUITO
KATMANDU
Con i suoi 3.627 metri
è la capitale più alta
del mondo: una città
adagiata su un canyon
e contornata
dalle cime innevate
del monte Illimani.
Conta un milione
di abitanti
Si staglia sulle Ande
a 3.500 metri: è la città
più famosa del Perù,
l’antica capitale inca
che con i suoi
220mila abitanti
viene chiamata
l’“ombelico
del mondo”
La capitale
dell’Ecuador è una
delle città più antiche
del Sud America:
sorge a 2.850 metri,
fiancheggiata da
maestose montagne.
Conta un milione
e mezzo di abitanti
Situata ai piedi
dell’Himalaya, la
capitale del Nepal
è a 1.300 metri di
quota. Ha una
popolazione di 800mila
abitanti. La valle di
Katmandu è una delle
grandi culle della civiltà
dove l’inferno tocca il cielo
primi sono imprenditori, funzionari,
laureati, aristocrazia coloniale al potere proprietaria delle — ancora numerose — risorse naturali, dal gas al petrolio; gli altri sono “nativi” poveri,
contadini, disoccupati, nullafacenti
che fanno della Bolivia uno dei paesi
con indici di sviluppo umano da quarto mondo. Esempio: il 36% dei boliviani non ha un lavoro; il 64% vive al di sotto della linea di povertà (cifra che sale
all’82% tra i nativi); il 37% è del tutto indigente; il 51% dei bambini soffre di
anemia.
Repubblica Nazionale 43 09/10/2005
Cinque secoli di saccheggi
L’eccezionalità della Bolivia è quella di
essere l’unico paese dell’America Latina dove la colonizzazione spagnola (o
portoghese) non ha concluso il suo ciclo di mattanze. Ragion per cui gli indios puri sono ancora la maggioranza
del paese. Sono più dei discendenti dei
colonizzatori e anche più dei meticci.
L’altra eccezionalità è quella di essere
stato uno dei paesi più saccheggiati negli ultimi cinque secoli. All’inizio furono le miniere d’oro e d’argento che sostennero gli sfarzi e gli eserciti della corona spagnola. Poi vennero gli inglesi
che cercavano fertilizzanti e salnitro
(per la polvere da sparo). Poi, non ancora era finito l’Ottocento, vennero i
cercatori di gomma, il caucciù, e la Bolivia — che era il secondo produttore
mondiale — regalò alla Goodyear le
ruote per la nascente industria dell’au-
to. E poi lo stagno, minerale strategico
durante la Seconda guerra mondiale. E
il petrolio, e il rame, e il gas. La storia del
saccheggio delle risorse naturali boliviane si confonde con quella della nostra modernizzazione industriale:
un’altra piramide a rovescio.
A dominare è sempre stata “la logica
di Potosì”, quella della colonia da spogliare di risorse. Come gli spagnoli, che
in un paio di secoli trasportarono in Europa tutto l’oro della Bolivia, quando nel
1924 la Standard Oil scoprì il primo pozzo di petrolio tenne nascosta la notizia
al governo locale. E per tredici anni, fino
al 1937, trafugò il greggio senza pagare
neppure un dollaro di tasse. Forse non
basta a spiegare l’assoluta povertà di
questa città e di questo paese ma di sicuro aiuta. I boliviani hanno avuto sempre pochissimo dal loro ricchissimo sottosuolo. E, fino a vent’anni fa, gli indios
avevano una sola risorsa per sopravvivere: la coltivazione della foglia di coca.
Nel 1990 il 30% della popolazione viveva grazie alle piantagioni. Poi arrivarono la Dea (l’antinarcotici americana) e i
programmi di fumigazione a tolleranza
zero. Dalla coca agli ananas. Ma la riconversione non funziona. È una questione di rendimento. Una piantagione
di coca regala quattro raccolti all’anno,
con pochissimo lavoro come valore aggiunto, e consente ad una famiglia di
contadini di vivere agiatamente, l’ananas no. Così, la tolleranza zero, ha prodotto un nuovo esodo di contadini im-
‘‘
Isabel Allende
La Paz è una città
straordinaria, talmente
vicina al cielo e dall’aria
così rarefatta che all’alba
si possono vedere
gli angeli, il cuore
è sempre sul punto
di scoppiare e lo sguardo
si perde nella purezza
opprimente
dei suoi paesaggi
Da PAULA
Feltrinelli 1995
poveriti dalle zone sub-tropicali del
Chapare alle montagne di La Paz. E
quando, nel 2000, il presidente Sanchez
de Losada ha firmato un contratto per
esportare il gas boliviano, via Messico,
fino alla California, le favelas sono
esplose, costringendolo alla fuga.
Così oggi — altra eccezionalità — la
Bolivia è uno dei luoghi tendenzialmente più conflittuali del Sud America.
Fratture sociali, regionali e politiche,
ormai ingovernabili, la rendono esplosiva. E l’ultima grande risorsa naturale
che le resta, nel sottosuolo boliviano —
la Pachamama degli indios — ci sono i
giacimenti più ricchi di gas del continente, è divenuta la calamita di uno
scontro finale. Nelle pianure cresce,
guidato dall’élite bianca, il movimento
separatista che vorrebbe staccarsi dalle regioni andine degli altipiani, commercializzare gli idrocarburi e agganciarsi al treno della globalizzazione;
mentre sulle montagne s’ingrossa
quello indigeno che, arroccato a difesa
dell’ultimo tesoro, s’oppone allo sfruttamento indiscriminato del gas così come s’è opposto alla distruzione delle
coltivazioni di coca. Global e no global,
ecco servito il terreno ideale per il conflitto del secolo in corso. L’ennesimo.
Stavolta all’interno. Nessuno dei due
blocchi sociali è in grado di prevalere
democraticamente sull’altro, né di avere la forza sufficiente per governare.
Dovrebbero scendere a patti. Ma, visti i
presupposti, gli spazi sono alquanto
stretti. Di guerre, in ogni caso, la Bolivia
è paese esperto: ha perso tutte quelle
che ha combattuto. Quattro in meno di
cent’anni. Contro il Cile, alla fine dell’Ottocento, perse il mare nella cosiddetta “guerra del Pacifico”. Contro il
Brasile, all’inizio del Novecento, perse
quasi tutta la provincia amazzonica
dell’Acre, quella del caucciù. E, infine,
contro il Paraguay e l’Argentina, nel
1932, perse la guerra per il controllo dei
giacimenti di petrolio del Chaco, regione che gli apparteneva.
Città dalle salite (e discese) mozzafiato, La Paz conserva sempre qualche
sorpresa per lo straniero che la percorre. Le più gioiose sono i suoi numerosissimi mercati che trovi all’improvviso
appena girato l’angolo e dove prevalgono le sciarpe, i maglioni e i copricapo di
lana di alpaca, morbidi e colorati. Basta
una piazza, uno slargo, perfino un marciapiede per fare spazio alle donne che
stendono a terra le loro vivaci mercanzie. Città di colori forti e condizioni un
po’ estreme ti lascia dentro una nostalgia ambivalente. Perché tornarci è comunque uno sforzo e una scelta come
sopportare il mal di testa che, finalmente, quando la lasci si dissolve lentamente insieme agli ultimi sguardi che
dall’aereo le concedi.
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
Un bestiario fantastico in quaranta tavole, per la prima volta
esposto al pubblico a Este: mostri piumati, uccelli grifagni,
donne bovine. Sono i lavori degli anni brasiliani del più
celebre disegnatore italiano. E l’autore racconta: “Li facevo di notte, con la
radio accesa... la testa era libera di andare per conto suo... mentre facevo mi
liberavo dagli incubi, una specie di terapia occupazionale”
Altan
Altan
prima di
SIMONETTA FIORI
«S
e mi riconosco in questi disegni? Li sento
ancora molto freschi,
come annusare un
profumo o ascoltare
una musica che ti riporta a quei momenti». Altan prima di
diventare Altan. Un bestiario fantastico
in quaranta tavole, che dalla casa di Rio
de Janeiro è volato in Italia e per la prima
volta viene esposto in pubblico. Mostri
piumati e terrifici, uccelli grifagni, donne bovine dallo sguardo spiritato: po-
trebbe sorprendere questo inedito incunabolo in bianco e nero del più celebrato disegnatore italiano. In un primo
tempo si esita nel rintracciarne la cifra
più consueta, l’incubo non appare ancora del tutto esorcizzato nel grottesco.
Ma il sospetto d’un «Altan nero» s’infrange sul lungo naso slabbrato ed ecco
il primo riconoscimento, uno dei tanti:
la proboscide dei suoi disincantati personaggi germoglia in Brasile, oltre
trent’anni fa, una stagione della vita ora
rievocata con grande nostalgia. «Stavo
bene, perché mi sentivo a casa. O forse
perché ero lontano da casa».
Singolare in molti sensi, questa mostra aperta ad Este. Non solo perché sconosciuti sono questi disegni a china firmati da un Altan non ancora trentenne,
e largamente in penombra è rimasto il
periodo brasiliano. Ma anche perché è
una mostra diversa dalle altre, d’impronta più intima, quasi famigliare, tenacemente voluta dalla moglie brasiliana Mara, che ora però ne è un po’ gelosa.
«È una cosa tutta nostra», dice con l’inconfondibile cadenza portoghese. «Ci
sono anch’io, là dentro, tra le magnifiche donnine di Checco, ma non dirò mai
quale. Era un periodo bellissimo della
nostra vita. Ci eravamo incontrati sul finire degli anni Sessanta a Rio, lavorava-
mo allo stesso film. Io ero costumista,
Checco faceva di tutto: autore, scenografo, tecnico del rumore. La prima volta che lo vidi era seduto dietro una scrivania, in mano un bicchiere di pessimo
rum. Scarabocchiava di continuo,
senza mai staccare gli occhi dal foglio:
erano disegni di inaudita cattiveria...». Poi la storia d’amore che dura
tuttora, e questa mostra ne è un po’ un
diario. «Nel 1970 andammo a vivere
insieme, l’anno successivo sarebbe
nata nostra figlia Francesca. La sera
Checco col pennino s’attardava su
suoi disegni: io con lui, in uno stato di
felicità. Erano solo per noi, per la nostra casa. Ne è uscito fuori questo strano bestiario affollato di mostri, grottesco e divertente. Se ne sono sorpresa?
Direi tutt’altro: Checco andava liberandosi dei suoi fantasmi».
Altan, è così: si stava liberando dei
suoi fantasmi?
«Sì, in un certo senso Mara ha ragione.
Ma prima devo soffermarmi sulla tecnica di questi disegni, che è diversa dai
miei lavori più conosciuti».
Sono disegni a china.
«Una tecnica che richiede disponibilità e tenacia. Un po’ come nelle incisioni: se solitamente lavoro con un tratto
unico, qui il pennino si stacca continuamente dalla carta, fino a trovare un giusto equilibrio tra ombre e prospettive.
Lavori che facevo di notte, con la radio
accesa. Lavori senza tempo. La testa era
libera di andare per conto suo, come
succede nel ricamo o nell’uncinetto. In
questo senso si trattava di una “terapia
occupazionale”: mentre facevo, mi liberavo degli incubi».
“Questi miei
disegni li sento
ancora freschi,
come
annusare
un profumo
o ascoltare
una musica
che ti riporta
a quei momenti
Stavo bene,
mi sentivo
a casa”
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
Gli ingranaggi
alle origini dell’arte
PINO CORRIAS
I
LA MOSTRA
Repubblica Nazionale 45 09/10/2005
Le illustrazioni
in queste pagine sono
tratte dalla mostra “Altan,
40 disegni inediti”,
inaugurata ieri a Este
(Padova)
e visitabile fino al 30
ottobre. L’iniziativa
è del Centro di cultura
La Medusa
e del Comune di Este,
in collaborazione
con Nuages edizioni.
Nella foto qui sopra,
Francesco Tullio-Altan
Quali?
«Non so se sia giusto definirli fantasmi. Era piuttosto la paura di quel che mi
aspettava. O, meglio, il timore di non essere adeguato alle sfide della vita».
Forse non aveva ancora capito in che
direzione muoversi.
«A dire il vero è una mia caratteristica:
non ho mai capito che strada prendere.
Sono sempre andato dove le cose mi
portavano. Nel tempo s’impara a non
sbandare troppo, ma la corrente rimane
sempre forte».
Cosa l’aveva condotto in Brasile?
«Arrivai a Rio la prima volta nel 1967,
insieme a un amico che doveva realizzare per conto della Rai un film sulla musica popolare brasiliana. Avevo 25 anni,
studiavo ancora Architettura a Venezia».
Ma poi si fermò là?
«No, ci tornai poco dopo con Gianni
Amico per girare un altro film, Tropici,
storie di migranti dal Nordest verso San
Paolo. Fu l’occasione per viaggiare
molto nel paese. E conoscere una
dittatura, che però in quegli anni
non si sentiva molto. Al generale Humberto Castelo
Branco era succe-
duto il più moderato maresciallo Artur
da Costa e Silva. Ma era pur sempre un
regime militare».
Ebbe dei problemi?
«Sì, un giorno fummo fermati dagli
agenti e portati nella sede della polizia
politica. Era la stagione della protesta
studentesca. Con me c’era il produttore
brasiliano del film, fratello di Chico Anisio, un attore comico allora molto popolare. Quando il commissario lesse il suo
nome, ci lasciò andare immediatamente: non voleva grane».
Cosa l’affascinava nel mondo del cinema?
«C’era il cinema nôvo brasiliano, si respirava aria di cambiamento. Sul naturalismo prevaleva la visionarietà, attraverso cui passava anche la denuncia. Insieme all’attore Joel Barcellos, scrissi
una favola che non aveva riferimenti alla realtà. Ne scaturì un film, Tatu Bola, in
cui ebbe una particina anche Glauber
Rocha, il capostipite di quel movimento. Io facevo di tutto: l’autore, lo scenografo, il tecnico dei suoni. Fu lì che conobbi Mara, mia moglie».
Così decise di non tornare in Italia.
«Sì, rimasi in Brasile da clandestino.
Non avevo il permesso di soggiorno ed
ero costretto a lavorare in nero. Disegnavo per un foglio satirico, ma senza figurare. Il giornale si chiamava Pasquim,
era l’unico libero in tempi di dittatura:
l’informazione passava nella forma indiretta della satira. Ogni tanto i censori
se ne accorgevano e qualche redattore
finiva in galera. A quel punto mi chiamavano a dargli una mano».
Cosa faceva esattamente?
«Disegnavo vignette surreali, affidate solo all’immagine. In questo senso
diverse dai lavori usciti in Italia su Playman, giocati sulle parole. Non conoscevo ancora bene il portoghese. Anche in queste tavole a china, ora in mostra a Este, rare sono le didascalie: un
po’ in inglese, un po’ in finto inglese».
In che misura vi si riconosce? C’è
una continuità con la produzione
successiva, quel frugare negli
aspetti più bassi delle pulsioni
umane: sempre in forma di
bestiario.
«Quel tipo di gesto è sempre lo stesso: prende forma
segni remoti dell’eccelso Altan hanno il
valore di certi reperti cuneiformi, conducono ai primi attimi di vita della sua
scrittura e per dissonanza, persino alle fiorite scorribande della Pimpa. Trattandosi
di radici contengono la fibra del legno che
verrà e dunque la promessa dell’albero. Sono il fascio di linee che il tempo e l’esperienza scioglieranno. Carte segrete. Dimenticate. Anche se con qualche dettaglio
già inciso a futura memoria, come l’olfatto
speciale che promettono nasi tanto grossi.
E gli sguardi sgranati.
Arrivano dalla bottiglia del tempo, lungo
rotte che hanno alle spalle il Brasile, il suo
realismo magico, i suoi bestiari di zoologia
fantastica. Sono la traccia di un laboratorio
che si riempirà di altri segni, altri incanti,
pochissimo esotismo. Per diventare, in forma di disegno, una delle migliori storie della nostra vita quotidiana. Catastrofi comprese.
Altan prima di Altan. Come un Andrea
Pazienza ancora ignaro di Zanardi, ma già
carico di ombre magre. Come un Lorenzo
Mattotti in bianco e nero, prima del suo biglietto sola andata verso i colori di Parigi.
Come i primi soldatini geometrici di Pino
Pascali, che avrebbe fabbricato cannoni di
compensato, seminato il mare, arato la
spiaggia.
Ritrovare i lavori d’esordio di un artista è
come dare un’occhiata ai suoi ingranaggi
sotto la carrozzeria. E poter misurare la sua
energia iniziale, per calcolarne la traiettoria, l’intensità, la direzione. Talvolta sono
una sorpresa, rimandano proprio a altre vite, altri mondi, altre proporzioni, come (per
dire del più grande) le primissime ceramiche barocche di Lucio Fontana, le sue sculture così cariche di spazio pieno, non tagliabile.
Altan, dunque, viene da quei disegni ritrovati. E da quei viaggi. Figlio di un antropologo, ha realizzato il sogno di tutti gli antropologi. Si è messo a maneggiare i prototipi della nostra specie, studiandone le loro
mutazioni provvisorie. Così dal malinconico Cipputi, intercettato nell’era finale della
Tuta Blu, ha pescato lo sguardo asciutto che
ancora ci sorprende. E dal potere, i gomiti
sul tavolo. E dal Cavalier Banana (il suo capolavoro) l’avventurosa ridondanza del
suo dominio, dilagato dalle pianure alluvionali del Terziario, imbracciando bugie e
cattivi sogni scheggiati nella selce e ormai
nella nostra storia. Lui, che forse ancora un
po’ viene da quel remoto Brasile, ce la tramanda, giorno per giorno, con l’inchiostro
esatto della lontananza.
diversa a seconda della tecnica. Ho
sempre sentito fortissimo il piacere
dello strumento, che condiziona
profondamente l’esito del lavoro. La
mia parte infantile nasce dall’uso di un
pennarellone. Al pennino ho affidato
un’altra parte di me».
Il naso a proboscide nasce in quegli
anni.
«Sì, diventa una scelta forse inconsapevole ma definitiva».
Cosa della realtà brasiliana travasava in quelle tavole?
«Non riesco a metterlo a fuoco. Io vivevo là come se ci fossi nato. Dopo un
paio d’anni, sognavo in portoghese.
Stavo bene, perché mi sentivo a casa. O
forse perché non ero a casa».
Quanto la scelta del cinema, del lavoro creativo, segnava un’autonomia
da suo padre, Carlo Tullio-Altan, celebre antropologo culturale?
«Forse il problema l’avevo sentito
prima, quando ero ragazzo: non perché mio padre fosse uno studioso con
una dimensione pubblica, ma perché
l’avvertivo esigente. Negli anni dell’Università, ci vedevamo relativamente
poco: ciascuno viveva per conto proprio».
Non è mai stata una figura per lei ingombrante?
«No, ho un ricordo di grande discrezione: raramente esprimeva un giudizio, mai una censura. Ha sempre mostrato interesse per il mio lavoro, con
qualche preoccupazione: si chiedeva
se questa mia attività mi avrebbe dato
sicurezza per la vita. Poi le cose sono
andate bene, e lui ne era felice».
Nel 1975 lei rientrò in Italia. Incontrandola nella redazione di Linus,
Oreste del Buono pensò che fosse brasiliano.
«Sì, parlavo poco e quel poco lo dicevo con una certa cadenza. Del Buono fu
uno dei miei incontri fortunati, insieme a Marcelo Ravoni, un grande amico
argentino scomparso di recente: persone che mi hanno aiutato a trovare la
strada. Come le ho detto prima, ho
sempre avuto la tendenza a farmi portare dagli eventi».
È questo suo essere «brasiliano» in
Italia che le ha suggerito come un distacco dalla realtà?
«Sì, mi ha aiutato a trovare una cifra,
uno sguardo un po’ sorpreso e distaccato. Ripensandoci oggi, tutto questo
nasce da lì».
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Anticipazioni
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
Feltrinelli pubblica l’ultimo lavoro dello scrittore
francese,“La lunga notte del dottor Galvan”
Un romanzo breve che ha al centro un grande ospedale
parigino, una domenica di luna piena e un “Malaussène”
in camice bianco alle prese con una galleria di personaggi
stralunati e grotteschi. Ne anticipiamo i primi due capitoli
DANIEL PENNAC
«S
ono vent’anni oggi, signore. Quasi
un anniversario. Così
viene voglia di
raccontarlo a qualcuno... Ha
un momento? Le dovrebbe interessare, visto che mi hanno
detto che fa lo scrittore».
«...».
«No? Sì? Ma comunque fa lo
stesso, lei o un altro... Un caffè?».
«Come dicevo, era esattamente
vent’anni fa. Ero di guardia al
pronto soccorso della clinica universitaria Postel-Couperin. Era
domenica ed eravamo nel pieno
della classica frenesia notturna:
incidenti domestici, infezioni
eruttive, suicidi abortiti, aborti
mancati, sbronze comatose, infarti, attacchi epilettici, embolie
polmonari, coliche nefritiche,
bambini bollenti come pentole,
automobilisti in polpette, spacciatori fatti a colabrodo, barboni
in cerca di alloggio, donne picchiate e mariti pentiti, adolescenti fumati, adolescenti catatonici... Insomma, la tipica domenica
notte al pronto soccorso, e per
giunta con la luna piena. Tutta
quella bella gente faceva il possibile per sottrarsi al lunedì mattina e io come sempre iniettavo, otturavo, intubavo, cucivo, suturavo, sondavo, zaffavo, drenavo,
medicavo, facevo partorire, qualche volta addirittura prevenivo e
depistavo! Insomma, dispensavo. Ero un dispensario fatto persona. Sostituivo Pansard, Verdier, Samuel, Desonge: “A buon
rendere, Galvan...”. “Lasciate stare, ragazzi, lo faccio volentieri”.
(Tutti baroni, oggi, quelli). I più
ingenui vedevano in me un idealista facente funzioni di interno,
due soldi al mese per ottanta ore
alla settimana, a scapito della mia
salute, della mia giovinezza, della
Pennac
Il Dottor
Al pronto soccorso
col malato-camaleonte
mia carriera, della mia vita privata. La mia famiglia (tutti medici
sin dall’epoca di Molière, la medicina è la più diffusa malattia
ereditaria) mi trovava esemplare.
Mio padre già mi vedeva nei panni dell’arcangelo che sgomina il
cancro del sistema linfatico: “La
tua strada è l’ematologia, Gérard!”. Io lasciavo correre la fantasia di mio padre, ma facevo di
testa mia; sapevo che non sarei
mai stato l’uomo di una sola specialità. La mia specialità sarebbe
stata il pronto soccorso: tutti i
mali dell’uomo, i mali di tutti gli
uomini, come dire tutte le specialità. Il mago della medicina interna, ecco cosa volevo diventare.
Lei mi dirà che era un’ambizione
più che onorevole... No? Sì? Eh?».
«...».
«Be’, si sbaglia. In realtà, io sognavo una cosa sola... Quasi non
oso dirgliela, tanto è... Da non
crederci! Sognavo il mio futuro
biglietto da visita! Sul serio! Una
vera e propria ossessione. Non
pensavo ad altro che al giorno in
cui avrei potuto sguainare un biglietto da fare impallidire tutti gli
amanti del genere. Era questo, in
fondo, il mio grande progetto!
Françoise sposava la mia ambizione e io avrei sposato Françoise. Anche lei era figlia di un medico e in due contavamo di sfornarne altri quattro o cinque. Nel frattempo Françoise lavorava al progetto del mio biglietto da visita.
Cesellava discreti corsivi inglesi
in puro stile nouvelle revue
française: “Ti occorre un biglietto
da visita semplicissimo, Gérard,
hai una tradizione troppo importante alle spalle e un futuro troppo brillante di fronte per scegliere qualcosa di pacchiano!”. Aveva
ragione: mi occorreva un cartoncino discreto, infinitamente rispettabile, retaggio di un tempo
in cui il tempo non passava. Dire
che sognavo quel biglietto da visita è dir poco. Nella mia immaginazione si dispiegava come uno
stendardo la cui ombra cancella-
va i colleghi e copriva tutto il campo medico.
Un pirletta, insomma. Non avevo ancora scavato le mie fondamenta e già mi credevo la statua
di me stesso.
***
Quella famosa domenica di luna piena ero dunque di guardia
alla clinica ospedaliera PostelCouperin, e affrontavo ogni malato come uno scalino. Se mi pigliava una botta di stanchezza, il
mio biglietto da visita garriva al
vento della mia testa per darmi
una bella sferzata. Quatto quatto,
mi esercitavo a tirarlo fuori, dico
sul serio! Nella mano non c'è
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
LA TRAGEDIA, L’IRONIA, L’URGENZA
Sessantaquattro pagine per un racconto
dal gusto tragico e ironico di Daniel Pennac,
“La lunga notte del Dottor Galvan” edito
da Feltrinelli nei Super Ue e in vendita
da giovedì a 6,50 euro. Sessantaquattro
pagine, di cui anticipiamo qui un “assaggio
di lettura”, in cui il protagonista Dottor Galvan
racconta una notte drammatica e paradossale
al pronto soccorso alle prese con un paziente
dai mille malanni. La missione del giovane
medico è salvarlo ad ogni costo. L’uomo
è in fin di vita, ma all’improvviso ecco che...
Da Malaussène a Galvan
Eroi ingenui
ma teste fine
MICHELE SERRA
ILLUSTRAZIONI DI GIPI
D
niente, in tasca non c'è niente e
oplà! L'onorevole cartoncino tra
il medio e l'indice: Professor Gérard Galvan.
“Si metta distesa, signora Taldeitali, Cooooosì”.
E solamente medicina interna.
“No, signorina, ha fatto bene a
portarlo qui, un patereccio non è
cosa da prendere sotto gamba! È
il suo fratellino? Come ti chiami,
giovanotto?”.
Magari Medicina scritto maiuscolo, e anche Interna. Oppure...
Mentre sono alle prese con
un'impetigine, Eliane piomba lì
con il solito motociclista della
tangenziale. Ha l'orecchio in tasca e il braccio nello zaino.
“Chirurgia”.
E solo un numero di telefono.
Sul biglietto da visita. Niente indirizzo. Solo il telefono.
“Mi raccomando, prenda gli
antibiotici, signor Vattelapesca.
Non interrompa finché non ha finito il ciclo. Eliane, tesoro, a chi
tocca?”.
“C'è qui un attacco di asma, ma
quel signore là è un bel po'
che aspetta”.
Ecco, avevo iniziato il turno al pronto
soccorso alle nove del
mattino, Fatima aveva
sostituito Gisèle, Eliane
aveva dato il cambio a
Fatima e, dirigendomi
verso “quel signore là”
mi domandavo se un
cartoncino Lacermois non sarebbe stato più presentabile, per
il polpastrello, rispetto a un Adventis 12.
Uno stronzetto, ecco cos'ero,
ve lo dico io.
“Qual è il suo problema, signore?”.
Il signore non aveva né età né
ambizione. Era da un po' che l'avevo notato, con la coda dell'occhio. Aveva lasciato che gli passasse davanti metà del corridoio.
Qual era il suo problema? Non si
sentiva tanto bene.
“Non mi sento tanto bene”.
Aveva la carnagione pallida e la
voce neutra, il tono stanco e l'aria
mesta. Non si sentiva tanto bene.
Ma non stava neanche troppo
male. Il classico tipo che Eliane
detestava. Sapeva fin troppo bene che l'avremmo rivisto. “Ma
santo dio, Galvan, questo è un
pronto soccorso, mica uno Sportello Aiuto di vatelapesca!”. Men-
tre mi interessavo al signore, ho sussurrato: “Il soccorso di cui ha
bisogno è la
tua dolcezza,
Eliane, ha bisogno della
mamma”.
“E così lei
non si sente
tanto bene...
Vediamo un
po'... Si tiri su la
manica per favore...”.
Si tira su la manica.
Mentre sotto i miei polpastrelli il suo polso batte a
un ritmo tranquillo, l'asmatico
sulla panca di fronte vira a un color indaco.
“Mi scusi...”.
La maggior parte degli asmatici hanno una madre, la questione
è tutta lì. L'asma è una vera e propria mamma. A proposito di polpastrello, prestare la massima attenzione al rilievo della stampa
litografica! Ho detto proprio litografica. Un biglietto da visita litografato. Non liscio. Né uno di
quei biglietti in rilievo così tarocchi. No. Litografato! Litografato!
Quando ne ho parlato con
Françoise, ha alzato gli occhi al
cielo tanto era ovvio.
Dopo l'asmatico, ci siamo beccati un pittoresco delirium tremens con sfilza di verità tonanti neanche poi così
cazzute. Cui hanno fatto
seguito tutte le urgenze
prioritarie tipiche di una
notte di luna piena quando uno crede di aver già
affrontato le urgenze assolute. E poi, verso le due
del mattino, la sorgente si è
prosciugata. Il corridoio
era quasi vuoto. Con quel
buon odore di pausa caffè.
È stato allora che “quel signore là” è crollato a terra.
aniel Pennac, parigino di ceppo corso, è uno dei non molti
scrittori europei che abbia saputo far convivere serenamente una
vastissima popolarità con una seria
impostazione letteraria. Non è
un’alchimia facile, quella tra il “facile” e il “difficile”. Spesso lo stile comprensibile, di pronta lettura, va a
scapito della profondità intellettuale. E viceversa le ambizioni intellettuali sovraccaricano la scrittura, e
allontanano i lettori.
In Pennac si avverte che il problema è affrontato, perfino a monte
della scrittura, da una profonda
propensione al comico. È lo sguardo comico che alleggerisce e de-retorizza, che aiuta il lettore (e lo scrittore) a non soccombere nel mare
procelloso della solitudine, dell’egoismo, del classismo, dell’avidità e
delle vanità “professionali” nel quale, pure, ambienta le sue storie. Pennac lo applica, il suo sguardo comico, fin dagli esordi, a un paesaggio
umano (il nostro) spesso terrificante e violento. Il paradiso degli orchi
e La fata carabina, suoi primi grandi successi, trattavano orrende storie di pedofilia e delitti politici con
mano ferma e certo non esitante.
Ma se il protagonista buono, Malaussène, non arretrava mai, era
perché il suo status di eroe comico
lo immunizzava dal male, come altri famosissimi omini intrepidi
(Charlot, il Benigni della Vita è bella) protetti dall’aura quasi santa
dell’ingenuità. Impavidi di fronte ai
demoni.
La fortuna teatrale di Pennac dipende anche da questo efficacissimo, invidiabile mix tra tragico e comico: molto drammaturgico. Claudio Bisio, già protagonista del fortunatissimo Monsieur Malaussène,
porta in scena in questi giorni, sempre per la regia di Giorgio Gallione,
il monologo pennacchiano Grazie,
una conferenza in pubblico molto
sui generis, e per Bisio una prova
d’attore parecchio impegnativa.
Sarà al Teatro Strehler, a Milano, dal
12 ottobre. E Neri Marcoré (ancora
con Gallione, meritorio trasportatore di letteratura in teatro) sta per
debuttare proprio con la versione
teatrale di questo ultimo romanzo
breve, La lunga notte del dottor Galvan, del quale anticipiamo uno
stralcio in queste pagine.
Argomento e ambientazione sono tipici di Pennac. Il pronto soccorso di un grande ospedale urbano, la condizione di fragilità e paura
di chi sta male, la soggezione dei deboli rispetto ai forti, l’arrabattarsi
sussiegoso ed esilarante di un gruppo di medici che vedono nel paziente soprattutto l’occasione di indovinare la diagnosi, aggiungere un
mattoncino alla carriera e, sogno
dei sogni, abbellire il biglietto da visita, vero protagonista del racconto.
C’è un po’ dell’umore cinico e ribaldo alla MASH, un pizzico di Molière
nella descrizione della prosopopea
borghese dei personaggi, e c’è soprattutto molto Pennac: la morte e
la sofferenza presi per il bavero,
l’impaccio trafelato del giovane
medico protagonista, munito di un
biglietto da visita assai meno qualificato di quello dei colleghi più affermati.
Come tutto Pennac, il libro può
essere letto dagli otto anni in su, tanto è scorrevole la scrittura, rapidi gli
snodi, divertente la trama. Il colpo
di scena finale non va detto, si intende. Diciamo solo che si tratta
della rivincita del paziente sul medico, ma anche della ribellione del
medico alla sua umiliante sconfitta.
Perché Pennac, ripeto, è uno scrittore semplice ma mai semplicistico,
non ama dividere buoni e cattivi
con la riga netta del moralismo,
concede spazio e argomenti a quasi
tutti, perfino ai medicastri, che evidentemente gli sono simpatici perché, come tutti, fanno quello che
possono. L’ingenuo non è uno stupido, sapete. Ha la testa fina. Chiedete a Malaussène.
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
Ventisei settimane di programmazione con i biglietti già esauriti
in pochi giorni: è il ritorno trionfale di una delle commedie
più famose e rappresentate dello spettacolo. Abbiamo
incontrato l’autore nella sua nuova casa di New York, dove è tornato a vivere
E lui ci svela il segreto del suo successo: “Scrivo di cose che capitano
a qualunque persona e tutti ci si riconoscono”
ANTONIO MONDA
Repubblica Nazionale 48 09/10/2005
È
IL SUCCESSO
NEW YORK
bastato il semplice annuncio
che La strana coppia ritorna a
Broadway per stabilire il record assoluto di prevendite
nella storia del teatro americano: prima
ancora di debuttare, lo spettacolo ha già
collezionato il tutto esaurito per tutte le
ventisei settimane di programmazione
con un incasso che ha già superato i ventuno milioni di dollari. Chi conosce i
cambiamenti in corso nella Broadway
contemporanea sa che un successo di tali proporzioni è da attribuire ad una serie
di fattori differenti: il richiamo della magnifica coppia di protagonisti Nathan Lane e Matthew Broderick, reduci dal
trionfo dei Producers, di cui è in uscita
un’attesissima versione cinematografica; un formidabile battage pubblicitario
basato in egual misura sul ritorno di un
classico del teatro leggero americano ed
una interpretazione innovativa di attori
che sfruttano al meglio la diversità della
loro impostazione recitativa; una crescente reazione del pubblico di
Broadway all’invasione di spettacoli lontani dalla tradizione del teatro americano quali Mama Mia; ed infine la garanzia
del nome di Neil Simon, che dopo un momento critico alla fine degli anni Ottanta,
nel quale fu costretto a lanciare le nuove
commedie in teatri secondari mentre a
Broadway gli veniva intitolato un teatro,
ha riconquistato i favori del pubblico e
della critica con la trilogia autobiografica
Brighton Beach Memoirs, Biloxi Blues e
Broadway Bound, e con la commedia Lost in Yonkersgrazie alla quale ha vinto anche il premio Pulitzer.
Ad incontrarlo oggi, Neil Simon sembra molto più giovane dei settantotto anni che ha compiuto lo scorso luglio e il
sorriso con cui stempera gli argomenti
più seri di ogni conversazione riflette la
saggezza di chi ha scritto: «Se riesci a vivere senza provare dolore significa che
non sei ancora nato». Negli ultimi tempi
ha visto scomparire molti amici che hanno segnato profondamente la sua esistenza, ma il dolore più grande è stato
quello per la morte del fratello maggiore
Danny, primo responsabile della sua vocazione teatrale e mentore di un’intera
esistenza. Ha deciso di tornare a vivere a
New York dopo ventotto anni a Los Angeles e, come i protagonisti dei Ragazzi
irresistibili, si sente rinascere quando
avverte il caos, la frenesia e l’aggressività
della città in cui è nato e dalla quale andò
via dopo la morte della prima moglie
Joan. «Non riesco a credere che non ho
bisogno della macchina e non puoi immaginare quanto ne sia felice — racconta nel suo lussuoso appartamento di
Park Avenue — anche se so bene che
New York non è la Mecca, pur avendone
lo stesso odore».
La nuova edizione della Strana Coppia ha rappresentato il pretesto per un
trasferimento che anelava sin dai primi
anni californiani, ma le prove dello spettacolo rappresentano anche un momento di malinconia: «La strana coppia
è uno dei testi più personali che abbia
mai scritto, ed è basato direttamente sulle esperienze di mio fratello. Quando divorziò dalla moglie andò a vivere con un
amico che era a sua volta divorziato, ed
ogni sera mi raccontava la loro improbabile convivenza. Danny sapeva cucinare
e nel giro di poco tempo si occupò di tutti gli aspetti che almeno all’epoca erano
delegati alle donne. Fu proprio Danny a
scrivere la commedia, ma poi me la passò, forse perché per lui era troppo autobiografica. Nessuno dei due pensava che
avrebbe avuto un successo di questo tipo, e devo alle scelte di un manager inqualificabile se ne cedetti i diritti cinematografici e televisivi per una cifra modestissima. È incredibile come non si abbia mai la percezione di quello che si ha
tra le mani: mi è accaduto lo stesso anche
con A piedi nudi nel parco, un’altra commedia che racconta in maniera spudoratamente autobiografica la luna di miele con la mia prima moglie».
Da come parla, il commediografo di
maggior successo della storia americana
non ha alcuna intenzione di comunicare un senso di riflessione conclusiva rispetto alla propria carriera. Anzi, annuncia con un pizzico d’orgoglio che la prossima primavera ritornerà a Broadway
proprio A piedi nudi nel parco, mentre i
suoi spettacoli continuano ad essere
rappresentati in tutto il mondo. I ricono-
LA COMMEDIA
È del 1965 la prima
rappresentazione teatrale
di “The Odd Couple”:
“La strana coppia” avrà subito
un enorme successo, destinato
ad andare ben oltre
il palcoscenico
IL FILM
Nel 1968 la famosa
rappresentazione teatrale
di Neil Simon diventa un film
con Jack Lemmon e Walter
Matthau: la regia è di Gene
Sacks, la sceneggiatura
dello stesso Simon
LA SERIE TV
Negli anni ’70 prima in America
e poi in Italia (su Raiuno)
va in onda la serie televisiva in 114
episodi con Tony Randall e
Jack Klugman “La strana
coppia”, ispirata ovviamente
alla commedia di Simon
IL CARTONE ANIMATO
Nel 1983 arriva in Italia
“L’incredibile coppia”. Si tratta
di sei episodi, di 22 minuti
ciascuno, che trasformano
in cartoon il lavoro di Simon
Negli Stati Uniti il cartone animato
era andato in onda nel 1975
IL SEQUEL
Nel 1998 Jack Lemmon
e Walter Matthau tornano
sullo schermo con “La strana
coppia II”, il seguito del film girato
trent’anni prima. La regia
stavolta è di Howard Deutch
scimenti ottenuti durante la carriera sono impressionanti: oltre al Premio Pulitzer per Lost in Yonkers, Simon ha avuto
quattro candidature all’Oscar, ben
quindici ai Tony con tre vittorie (per La
Strana Coppia, Biloxi Blues e Lost in
Yonkers), un Golden Globe (per The
Goodbye Girl), oltre a una infinità di premi internazionali. Nel 1967 a Broadway
erano in scena contemporaneamente
quattro suoi spettacoli: Sweet Charity
(adattamento in chiave musical delle
Notti di Cabiria), La Strana Coppia, A
piedi nudi nel parco e Due scapoli e una
bionda.
All’interno di una carriera lunga più di
cinquant’anni, con un bilancio di trenta
commedie, cinque musical e sessantadue sceneggiature (comprese quelle televisive), La Strana Coppia è probabilmente il testo più noto e apprezzato in
ogni parte del mondo. Simon ne spiega il
segreto con un dato molto semplice:
«Non c’è nessuno che non abbia convissuto, almeno per un breve periodo, con
un’altra persona». E racconta che quando sentiva i racconti del fratello non
avrebbe mai creduto che un giorno ci sarebbero state anche delle versioni femminili. Simon non fu molto soddisfatto
del primo allestimento a Broadway e
“Non c’è nessuno
che non abbia
convissuto, almeno
per un breve periodo,
con qualcun altro.
E “A piedi nudi
nel parco” è ispirata
alla mia luna
di miele”
non si stupì che chiudesse i battenti dopo un anno e mezzo: durata per i suoi
standard quasi fallimentare ma, ricorda
ancora una volta con orgoglio, «pari a
quella della prima edizione di Morte di
un commesso viaggiatore».
Il film, realizzato da Gene Sacks, gli apparve decisamente più riuscito, e Simon
si dichiara tuttora particolarmente felice
di alcune soluzioni che scrisse apposita-
mente per il grande schermo, come l’inizio in cui si vede Jack Lemmon che non
riesce ad aprire la finestra dalla quale
vuole suicidarsi. Non lontano da uno
splendido olio di Modigliani che campeggia nel salone c’è un poster di un vecchio allestimento della commedia. Simon lo indica mentre continua il racconto: «Reagii per molto tempo con perplessità quando numerose attrici cominciarono a chiedermi la versione
femminile e decisi di cedere soltanto
quando mi chiamò Rita Moreno. Da allora la storia di Felix e Oscar è diventata il
simbolo di un modo di concepire la vita
eternamente provvisorio, e tra le tante
versioni mi ha molto divertito quella
spagnola interpretata da un attore di origine medio-orientale come Tony Shalloub. Oggi sono felicissimo per questa
incredibile prevendita, ma mi chiedo
che tipo di successo avrebbe incontrato
se fosse stata un testo nuovo».
Ci sono voluti molti anni prima che la
critica americana riconoscesse in Simon
un commediografo di prim’ordine e non
solo un abilissimo autore di gag. Il cambio di atteggiamento è stato prodotto da
California Suite, diventato celebre grazie
al film di Herbert Ross. «Credo che il successo di quel testo sia dovuto in gran par-
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
IL PERSONAGGIO
‘‘
Neil Simon nasce a New York nel Bronx
il 4 luglio 1927 e si fa le ossa come autore
di gag per comici televisivi. Il primo successo
arriva nel ’61 con “Come Blow Your Horn”
da cui è stato tratto il film “Alle donne
ci penso io” con Frank Sinatra. Da allora
non smette di mietere successi, vincendo
innumerevoli premi. Tra le sue commedie,
molte delle quali adattate per lo schermo,
famosissime restano “A piedi nudi nel
parco”, “La strana coppia”, “Plaza Suite”
FOTO GETTY IMAGES
Neil Simon
Se non si rischiasse mai
nella vita, Michelangelo
avrebbe dipinto il pavimento
della cappella Sistina
LE STAR
Inseparabili o rivali dispettosi
il segreto del successo sicuro
MARIA PIA FUSCO
sia sullo scontro tra l’ingenua stupialter Matuschanskayasky? Ma tu sei uno sciodità di Laurel e la burbera irascibilità
glilingua per balbudi Hardy. Il successo sfumò negli anzienti!», disse Jack Lemmon quando
ni della guerra, il loro ultimo film è
Walter Matthau gli confidò il suo vedel 1950, Atollo K. Tentarono senza
ro nome. «E tu che ti chiami John Uhrisultati strade separate e, poiché i
ler? Non è un nome, è il singhiozzo di
pettegoli del cinema parlavano di
un rospo nervoso», reagì Matthau e
gelosie reciproche, alla morte di
se ne andò indispettito per tornare
Hardy suscitò stupore l’annuncio di
dopo poco con un bicchiere in maLaurel: non avrebbe più lavorato.
no: «Manda giù il rospo». È una delle
Difficile parlare di amicizia tra
leggende sulla scontrosa e bellissiJerry Lewis e Dean Martin che pure,
ma intesa che legò i due attori fin dal
a partire dal 1949, con il film La mia
‘66, dal primo incontro favorito da
amica Irma, furono insieme in 16
Billy Wilder per il film Non per soldi...
film e formarono una coppia comima per denaro, una cinica commeca — folle, impacciato e surreale l’udia sull’avidità umana. Il sodalizio si
no; aitante, fascinoso e sicuro l’altro
impose due anni dopo con La strana
— che accompagnò dieci anni di
coppia, nacque una delle più infallistoria degli Usa. Si separarono alla
bili coppie del cinema mondiale,
fine degli anni Cinquanta per «inprotagonista di dieci film, tra i quali
compatibilità di carattere». Lewis
Prima pagina, Buddy Buddy, La stracontinuò una grande carriera, Marna coppia II del 1998 (Matthau morì
tin si affermò nella canzone, ebbe
ottantenne due anni dopo) in cui i
buone occasioni drammatiche e
due amici-nemici riproponevano le
mantenne la notorietà con l’ingresbizze e i litigi di sempre, non più nelso nella cerchia di Frank Sinatra.
la convivenza forzata in un appartaBreve ma intenso l’incontro tra
mento come nel primo film ma duPaul Newman e Robert Redford, due
rante un disastroso viaggio in Cafilm: Butch Cassidy nel 1969, che
lifornia.
portò a Redford la prima popolarità;
Malgrado la diversità di origini —
e La stangata nel ‘73, due capolavoLemmon, nato nel ‘25, di indole quieri da Oscar. Ma ormai anche Redford
ta, curiosa e accomodante, era creera una star, e due star dello stesso
sciuto in una famiglia borghese, colsesso raramente dividono un film. Il
ta e benestante; Matthau, figlio di imtempo attenua rivalità e gelosie ed è
migrati russi, aveva conosciuto la mirecente l’annuncio di Newman e
seria, era irruente e smodato, eccesRedford insieme per il remake di La
sivo nel fumo e nell’alcol per tutta la
stangata.
vita — la loro fu un’amicizia profonAnche in Italia le “strane coppie”
da che indusse Lemmon ad affrontadella comicità nascono, finiscono e si
re per la prima ed unica volta la regia
rinnovano da sempre. La più celebre
solo per il piacere di dirigere l’amico
degli anni recenti resta quella di Ugo
in Vedovo aitante, bisognoso d’affetto
Tognazzi e Raimondo Vianello, che
offresi anche babysitter.
ha attraversato decenni di teatro, ciSe quasi unico è il sodalizio tra
nema e tv, modernizzando la tradiLemmon e Matthau, attori di pari fazione della comicità da avanspettama, la ricerca di interpreti che nel
colo di “animali da palcoscenico” cocontrasto di coppia esaltassero la
me i fratelli De Rege, evocati poi da
comicità è nella tradizione del cineWalter Chiari e Carlo Campanini. E se
ma fin dagli albori. L’esempio più
l’inventiva isterica e irresistibile di
noto resta il felice incontro tra Stan
Tognazzi e Vianello è indimenticabiLaurel e Oliver Hardy, Stanlio e Ollio,
le e sono insuperabili le apparizioni
che con l’esito trionfale dei loro cendi una strana coppia sporadica come
to film, di cui 27 lungometraggi, suTotò e Peppino De Filippo, è imposperarono la fama di Bud Abbott e
sibile ignorare la popolarità della
Lou Costello, Gianni e Pinotto per
coppia Franco Franchi e Ciccio Inl’Italia. Inglese, classe 1890, Laurel,
grassia, uno dei fenomeni più intearrivato negli Usa ventenne e con
ressanti dello spettacolo italiano, inuna buona esperienza di teatro, non
sieme al fortunato e particolare sodafaticò ad affermarsi e nel ‘17 ebbe il
lizio western-comico tra Bud Spenprimo ruolo da protagonista in Cane
cer e Terence Hill. La più recente delfortunato. Tra le comparse c’era
le strane coppie nostrane è quella di
Hardy, americano della Georgia,
Massimo Boldi e Christian De Sica,
classe 1892. Allora si ignorarono, ma
oltre venti film, quasi tutti record di
nel 1926 il produttore Hal Roach li
incassi. Ma la separazione è annunaccoppiò, sfruttando con risultati
ciata: l’ultima volta sarà nel prossimo
esilaranti la vena delle loro gag, baNatale a Miami, poi le loro strade si
sate sia sul ridicolo contrasto fisico
separeranno.
«W
STANLIO E OLLIO
Dal muto al sonoro: Stan Laurel
e Oliver Hardy, i nostri Stanlio
e Ollio, sono la coppia comica
protagonista di una lunga serie
di film di successo che li porta
nel 1932 a vincere un Academy
Award con “The Music Box”
Neil Simon
“Racconto
la magia
della vita”
VIANELLO E TOGNAZZI
Nel 1954, quando nasce
in Italia la televisione, la riuscita
coppia formata da Raimondo
Vianello e Ugo Tognazzi
spopola con la trasmissione
“Un, due, tre”, che va avanti
fino al 1959
La strana
Repubblica Nazionale 49 09/10/2005
coppia
te alla sincerità: mi ero trasferito in California e sentivo la necessità di inserirmi
in quella società e una istintiva repulsione». Chi ha visto il film, ricorderà lo sconcerto della newyorkese Jane Fonda
quando incontra il suo vecchio marito
Alan Alda vestito con un golf giallo canarino indossabile solo ad Hollywood, e
l’atmosfera di malessere che emana
Maggie Smith nel ruolo di una celebre attrice immortalata in compagnia del marito omosessuale Sydney (Michael Caine) al ritorno da una cerimonia degli
oscar nella quale lei non ha vinto. Non si
era ancora in tempi di correttezza politica, ed il volto sconfitto dell’attrice inglese
chiarisce che per chi vive nel grande nulla di Hollywood ha avuto ben poco significato cambiare l’annuncio “the winner
is” con “the oscar goes to”. L’amarezza di
una mancata vittoria si rispecchia nel disastro esistenziale della coppia, ma Simon riesce sempre a trovare il modo di
sorridere e cogliere la tenerezza dell’elemento umano: «Ho conosciuto coppie
del genere, e mi sono sempre interrogato
sull’equilibrio che riescono a raggiungere: Sydney è certamente un compagno e
riesce a soddisfare alcuni aspetti della vita di coppia, ma c’è qualcosa tra i due che
mancherà sempre. Anche se devo dire
che gli anni mi hanno insegnato che la felicità è rara in ogni tipo di rapporto».
Dopo la morte della prima moglie
Joan, Simon si è sposato altre tre volte e
quando parla dei divorzi si limita a dire:
«C’era qualcosa che non funzionava».
Ma l’approccio che ha nei confronti del
passato è tutt’altro che freddo e ancora
una volta il commediografo rifiuta ogni
possibile idea di conclusione. I racconti
degli anni della tv, durante i quali scriveva gag per Woody Allen e Mel Brooks, sono pieni di umanità, e emerge il desiderio di riscrivere qualche capitolo della
propria vita per capirne il senso ultimo.
Il suo sguardo sullo spettacolo odierno è disorientato ma per nulla scoraggiato: «Sembra che oggi si possano produrre soltanto musical e show destinati
ad un pubblico giovane, ma poi arriva all’improvviso un testo appassionante come The Pillowman. Lo stesso si può dire
del cinema: recentemente ho visto Capote e ho ammirato la capacità di raccontare lo scrittore anche nei suoi lati più
sgradevoli, lasciando nello spettatore un
sentimento ambiguo. Alla fine mi sono
chiesto: cosa c’è che non mi piace di questo personaggio? E il dilemma etico mi
comunicava l’emozione del successo
drammaturgico».
LEMMON E MATTHAU
Sono la strana coppia
per eccellenza: Jack Lemmon
e Walter Matthau girano
insieme, nel 1968, il film tratto
dalla commedia di Simon. Trenta
anni dopo tornano sullo schermo
in“La strana coppia II”
REDFORD E NEWMAN
È una delle coppie mitiche
del cinema americano anni ’70:
Robert Redford e Paul Newman
vincono nel 1973 sei Oscar
con “La stangata”.
Nel ’60 avevano girato
insieme “Butch Cassidy”
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Natura in tavola
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
Ormai quasi introvabili, gli antichi prodotti della civiltà
contadina (come la pera cotogna o la sorba) potranno
essere riscoperti e degustati il prossimo weekend nel cuore
delle colline romagnole, a Casola Valsenio, dove tra visite
al giardino delle erbe e ricette golose si celebrano le varietà
sopravvissute allo strapotere dell’agricoltura globale
Azzeruola
Detta anche Lazzeruola, è come
una grossa ciliegia con uno o due
noccioli, polpa bianca o giallastra,
consistenza croccante e burrosa,
gusto dolce-agro, piacevolissimo
Ricca di provitamina A,
vanta proprietà antianemiche
Corbezzola
Se la pianta permette alle api
di confezionare un miele amaro
e prezioso, il frutto – una bacca
acidula – vanta doti digestive
e rinfrescanti. Si consuma fresca
spolverata di zucchero,
in gelatina o conserva
Mela cotogna
Forma tondeggiante, colore
giallognolo, gusto aspro
e allappante. Entra nella ricetta
dei mosti cotti arricchiti
(salse per carni o formaggi),
con le preparazioni di maiale
e oca come contorno rinfrescante
Mela da rosa
Medio-piccola e di forma
schiacciata, attira per le sue
macchie rossastre, che la fanno
assomigliare ad una gota. Matura
in autunno tardo, si usa sia cruda
che in confetture, torte e cotta
con le spezie
Melagrana
Repubblica Nazionale 50 09/10/2005
Il bellissimo frutto delle fiabe
è ricco di semi globosi color rosso
granata, deliziosi per insalate
verdi, di frutta, e come contorno
rinfrescante. Il succo, dissetante
e diuretico, serve nelle cotture
salate, per gelatine e bevande
Nespola
Simile all’albicocca, ha polpa
bianco-rosata, sapore acidulo
e astringente. Si consuma fresca
(squisito il purè freddo con
zucchero vanigliato e liquore) o
in marmellata e sciroppo. È
un ottimo diuretico e antidiarroico
Nell’Eden degli archeo-gourmet
LICIA GRANELLO
Rosa canina
La madre di tutte le rose produce
dei frutti, i cinorroidi, di forma
ovoidale e un bel colore rosso vivo,
ricchissimi di vitamina C. Raccolti
dopo le prime gelate, servono
per tisane, confetture, gelatine,
liquori, beauty-maschere
Sorba
Sembra una piccola pera di colore
tra il giallo scuro e il rosso-bruno,
con gusto acidulo. Se lasciata
maturare sulla paglia, diventa
dolce e succosa. In passato,
era usata per preparare bevande
dissetanti con proprietà astringenti
A
ndare in brodo di giuggiole. Per un film, un libro, una
musica, un sapore, un amore, un sorriso, un complimento. La sensazione è meravigliosa: avvolti in una
dolcezza languida e vagamente sciropposa, il mondo
appare un luogo di delizie infinite. Ma le giuggiole, in
brodo poi, che c’entrano?
C’entrano eccome. Perché nella quotidianità della civiltà contadina, il bicchiere della festa, quello da offrire agli ospiti per condividere una gioia, era spesso una ricetta di più o meno sapiente fai-date. Come la bevanda a base di giuggiole, uva e mele cotogne cotte insieme alla scorza di limone. Da gustare in compagnia, con grandi e
piccini, per alzare il bicchiere del brindisi o inzuppare i biscotti secchi custoditi nell’imprescindibile scatola di latta.
Dolce, languido, sciropposo: il brodo di giuggiole, appunto. Prima
che entri definitivamente a far parte dell’archeologia alimentare,
varrebbe la pena andarlo ad assaggiare là dove non hanno mai smesso di prepararlo. Insieme alla marmellata di azzeruole e di pere volpine, alla carruba trasformata in biscotti, alla melagrana in insalata,
al mosto cotto con le mele cotogne.
Sabato e domenica, a Casola Valsenio, a due passi dalla più celebre Brisighella, cuore delle colline romagnole, si celebrano i frutti dimenticati: quelli caduti in disuso, vittime dell’agricoltura intensiva,
dell’obbligo di stagionalità, del “più bello che buono”. Ci saranno i
frutti freschi e quelli preparati, laboratori didattici e visite guidate al
bel giardino delle erbe, degustazioni e concorsi per decretare la ricetta più golosa. Tanto per ricordarci che non si vive di soli duroni di
Vignola e pere Williams. Dicono che le varietà vegetali smarrite nel-
l’ultimo secolo ammontino a decine di migliaia. Due concetti in lotta: biodiversità contro erosione genetica. Diminuendo drasticamente il numero delle varietà e incrementando a tutti i costi quantità e perfezione estetica, si interviene pesantemente sugli equilibri
della natura. Siamo sicuri che sia la soluzione migliore?
Per fortuna, i frutti dimenticati resistono. Quasi duemila orti botanici, insieme alle oasi naturali e alle biobanche, custodiscono e accudiscono, come vestali premurose, le varietà sopravvissute. Del resto, per sposare fino in fondo la causa dell’archeologia fruttaria, basta regalarsi una passeggiata alla riserva dello Zingaro, superbamente adagiata di fronte alle isole Egadi.
Conosciuta, amata e frequentata soprattutto per le spiagge di sabbia finissima e il mare dai colori caraibici, in realtà è una riserva “terrestre”, dove le stagioni riempiono i prati dei colori e dei profumi delle diverse coltivazioni protette, estese dal mare alla mezza montagna, con esiti spettacolari. Ottobre è il mese giusto per imparare il gusto solleticante dell’azzeruola, la pastosità della sorba, la croccantezza dissetante dell’anguria gialla. E siccome biodiversità e globalizzazione virtuosa vanno assai d’accordo, durante l’ultima edizione
del Cous Cous Fest di San Vito Lo Capo i responsabili della riserva
hanno scoperto che il sommacco, coltivato allo Zingaro come pianta ornamentale (era utilizzato in passato per colorare le reti dei pescatori) è una delle più prelibate spezie nordafricane, grazie al suo
mix di sapori limonato e piccante.
Ma questo è anche il tempo delle mele. L’appuntamento con
“Pomaria” trasformerà nei prossimi giorni il Trentino in un immenso meleto da percorrere tra menù dedicati e percorsi guidati.
Armatevi di cestino, pazienza e allegria: obbiettivo, far scorta di mele per tutto l’inverno.
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
Frutti
itinerari
L'avvocato
ravennate
Guido Tampieri,
ex assessore
regionale
agricoltura
dell'Emilia Romagna,
è uno dei più colti
e appassionati esperti
internazionali di cultura
agricola e ambientale
dimenticati
Casola Valsenio (Ra)
La capitale dei frutti dimenticati,
appoggiata sul fondo della Val di Senio,
nell’Appennino romagnolo,
deve la sua fama al bel “giardino
delle erbe” fondato nel 1938
da Augusto Rinaldi, dove crescono
oltre 400 varietà botaniche
DOVE DORMIRE
HOTEL ANTICA CORONA
Via Roma, 38
Tel. 0546-73847
Camera doppia da 90 euro,
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
LA GROTTA
Via Metalli 1
Tel. 0546-81829
Chiuso martedì, menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
AGRITURISMO LA CA’ NOVA
(con cucina e camere)
Via Breta 29
Tel. 0546-75177
NATURA MORTA DI LIMONI, ARANCI E MELE GRANATE DI JACOB VAN HULSDONCK/FOTO CORBIS
Città di Castello (Pg)
Importante centro agricolo
e culturale appoggiato tra le colline
dell’Alta Valle del Tevere, ospita
l’associazione di Archeologia
Arborea, che recupera e conserva
molte varietà di piante da frutto
di antica origine, salvaguardandone
il patrimonio genetico
DOVE DORMIRE
HOTEL TIFERNO
Piazza Raffaello Sanzio 13
Tel. 075-8550331
Camera doppia da 90 euro,
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
IL POSTALE DI MARCO
E BARBARA
Via De Cesare 8
Tel. 075-8521356
Chiuso sabato a pranzo, domenica
sera e lunedì, menù da 40 euro
DOVE COMPRARE
IL SARALE
Località Coldipozzo 49
Bizzi di Sopra
Tel. 075-8540545
L’importanza di ritrovare i piccoli protagonisti della grande storia
Uno scavo nella memoria che dà allegria
MASSIMO MONTANARI
S
toria e memoria: si fa spesso confusione fra i due termini, quasi fossero la stessa cosa. Non è così, come ci ha insegnato Le Goff in un
celebre saggio. La memoria è corta e selettiva: ricorda solo i fatti più
vicini, o quelli che per qualche motivo le piace pescare dal mucchio. La
memoria non è un contenitore di ciò che è successo; è un’abilità, un organo mentale, una funzione che può atrofizzarsi se non la teniamo in
esercizio. Inoltre, la memoria deforma: ciò che crede di ricordare spesso non è la realtà, ma solo l’immagine che ce ne siamo fatta. Per questo
è utile il lavoro dello storico: per ricucire i frammenti di una memoria distratta, verificarli, confrontarli con le tracce che il passato ci ha trasmesso. Quelle tracce sono lì in mezzo a noi, basta guardare per vederle. Allora ci accorgiamo che qualcosa, che pareva perduto, in realtà era
solo dimenticato. E che valeva la pena ricordarsene, perché il migliore
dei mondi possibili non è il nostro, né quello di cento o di mille anni fa,
ma quello che riesce a far tesoro della parte buona che tutti i mondi possiedono.
Anche un frutto può servire a questo esercizio. Anche una nespola,
una giuggiola, un corbezzolo, una pera volpina. Se le abbiamo relegate in un angolo oscuro della nostra memoria, perché altre cose ci pressano, più importanti, più urgenti, non per questo sarà inutile recuperarne il sapore. Non sono stati dei grandi protagonisti della storia, questi frutti dimenticati. Anche il cotogno, il sorbo, il corniolo, il lazzeruolo potevano diventare marmellata o conserva, ma non era certo in
questo modo che si rimediava ai morsi della fame. Ma proprio in ciò
stava la loro importanza: introdurre qualcosa di insolito, di diverso, di
curioso nella monotonia della vita e della dieta quotidiana è sempre
stato essenziale per vivere bene. Il gusto del superfluo e il piacere del
bello (e del buono) non sono esclusivi della società del benessere. Nelle società tribali si stimano necessari certi oggetti inutili che hanno la
sola (utilissima) funzione di tenere allegro lo spirito, perché, dicono,
se lo spirito si annoia abbandona il corpo, e senza spirito non si sopravvive.
Eppure, è capitato che certe cose siano passate nel dimenticatoio proprio perché inutili. Ripensiamo ai nostri frutti: producono poco, non
sono grossi né belli, non durano, magari sono anche un po’ acidi. E soprattutto, non danno profitto: peccato mortale, nella società dei consumi. Ma quei frutti non sono perduti. Solamente dimenticati. E se — come accade ogni anno a Casola — riportarli alla memoria diventa anche
un successo commerciale, è perché la domanda di memoria cresce a vista d’occhio. Soprattutto cresce la domanda di quelle cose inutili che
servono a rendere più allegra e interessante la vita, ad accompagnare
senza angoscia il passo delle stagioni, a sentirsi in sintonia col mondo.
Attenzione: non è uno sfizio da ricchi, l’ennesimo capriccio da aggiungere alla nostra tavola sovraffollata di cibi. È il recupero delle differenze,
della biodiversità, del rispetto per la varietà delle cose, di un valore etico (sì, etico) che in fin dei conti ci conviene pure.
Dato il successo dell’operazione, proporrei ormai di chiamarli
“frutti ritrovati”.
L’autore è docente di storia medievale all’Università di Bologna
San Vito Lo Capo (Tp)
La splendida riserva naturale
dello Zingaro, conosciuta
per le spiagge incontaminate e il mare
dai colori caraibici, è prima di tutto
un’oasi floristica e faunistica,
che ospita una sontuosa selezione
di piante da frutto antiche e rare
DOVE DORMIRE
VENTO DEL SUD
Via Duca Degli Abruzzi 157
Tel. 0923-621450
Camera doppia da 70 euro
DOVE MANGIARE
THA’AM (con camere)
Via Abruzzi 32
Tel. 0923-972836
Chiuso mercoledì, menù da 30 euro
DOVE COMPRARE
BAGLIO CASE COLOMBA
(con cucina e camere)
Via Toselli 183, località Pianoneve
Busto Palizzolo
Tel. 0923-852729
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
le tendenze
Guardaroba d’autunno
Pelle, paillette, raso, tessuti hi-tech
l’impermeabile trionfa sulle passerelle
e torna ad essere un cult per uomini
e donne. Del capo “classico” conserva
il taglio, ma per la stagione gli stilisti
ne hanno cambiato forme e colori
INTRAMONTABILE
ISPIRAZIONE LONDINESE
VERSIONE MINI
È firmato Burberry,
in gabardine beige
con interno a scacchi
Ispirazione Swingin London
In pelle con cintura alta
firmato da Galliano per Dior
Si porta sopra il ginocchio,
il trench con allacciatura
doppiopetto. Massimo Dutti
Trench
Il boom di un cappotto in carriera
JACARANDA CARACCIOLO FALCK
Repubblica Nazionale 52 09/10/2005
T
uttocominciò alla fine degli anni Novanta quando una
geniale signora americana, Rose Marie Bravo, ex boss
del grande magazzino di Manhattan Saks Fifth Avenue, specializzata nell’arte di vendere sogni, venne
chiamata a lavorare alla Burberry’s (allora si scriveva
ancora con l’apostrofo) per ravvivare un marchio che
sembrava aver perso ogni appeal. Capo-simbolo della casa di moda inglese era il trench coat, quel “cappotto da trincea” in gabardine impermeabile, inventato negli anni appena precedenti la
Prima guerra mondiale da un giovane sarto di provincia. E divenuto, nell’arco di qualche decennio un vero pezzo cult. Uno di quei
capi, insomma, che ogni uomo o donna deve prima o poi acquistare. E che, quasi tutti, conservano gelosamente in fondo all’armadio anche nei periodi di magra, con la certezza che prima o poi
tornerà in auge. Un po’ come il little black dress, il classico abitino
da cocktail, il twin set, o i jeans a cinque tasche che, ciclicamente,
entrano e escono dal nostro guardaroba.
Nei Novanta però il trench stava vivendo uno dei periodi più infelici della sua gloriosa carriera. Snobbato dai cosiddetti trendsetter che lo consideravano un capo-oggetto ormai obsoleto, superato come prestazioni tecniche da una pattuglia di agguerriti concorrenti (giacche a vento, mantelle, eccetera), ignorato da stilisti e creativi per i quali era diventato sinonimo di un certo stile un po’ troppo british e conformista, la sua popolarità sembrava avviata al tramonto. In modo definitivo. Poi, da un giorno all’altro, con l’arrivo
di Rose Marie Bravo, tutto è cambiato. E l’impermeabile è tornato a
essere quello che era: uno dei capi d’abbigliamento icona del nostro
secolo. Le cui origini si fondono con quelle della moda stessa.
La prima mossa della Bravo fu commissionare al celebre fotografo di moda Mario Testino una campagna pubblicitaria con la
top model Kate Moss, allora all’apice della popolarità, come testi-
monial. Contemporaneamente la manager mise sotto contratto
un nuovo stilista, Christopher Bailey. E nel giro di pochi mesi, le
vendite cominciarono a risalire. All’inizio piuttosto lentamente.
Poi in modo vertiginoso. Mentre i grandi magazzini e le boutique
di tutto il mondo si riempivano di impermeabili a scacchi, i più
grandi designer del pianeta decisero che era arrivato il momento
di seguire quel filone.
I primi a fiutare la nuova aria furono i creativi del colosso americano Gap, che ebbero la felice idea di abbinare un impermeabile
dal taglio classico con un colore inusuale: il trench rosa shocking
di Gap registrò nell’arco di qualche settimana il tutto esaurito. E
diede un segnale forte: il modello del Nuovo Millennio, per catturare l’attenzione di un pubblico sempre più esigente, doveva
imparare a osare. Nei colori, nelle forme, negli abbinamenti.
Da allora sono passate diverse stagioni eppure l’impermeabile, coniugato in decine di versioni, tempestato di paillettes o rivestito di raso, corto o lungo, da lavoro o da gran
sera, di pelliccia o di nylon è sempre più richiesto.
E oggi un nuovo boom: non c’è designer, da Miuccia Prada a Louis Vuitton, da Giorgio Armani a Yves
Saint Laurent, da Michael Kors a Versace che non
ne produca almeno un modello. Qualche esempio per l’autunno-inverno 2005? C’è solo l’imbarazzo della scelta. Dai revival hippy de luxe
di Dior firmati da John Galliano, alle ironiche
reinterpretazioni in vernice nera di Chanel.
Dai modelli gioiello del giovane stilista
cult Matthew Williamson (appena ingaggiato per la maison Emilio Pucci), alla
versione dark di Gucci. Centinaia di
evoluzioni all’ultimo grido. Da indossare a qualsiasi ora del giorno o
della sera.
LUSSO SPORTIVO
ALTERNATIVA CHIC
CAPPUCCIO NASCOSTO
Un’idea lusso? Tweed
corsair e colllo in zibellino
porta la firma di Loro Piana
È un’alternativa al classico
cappotto da ufficio il trench
marrone di casa Ferragamo
Ha il cappuccio nascosto nel
collo e l’interno in microfibra
il modello di Stone Island
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53
I DETECTIVE
HUMPHREY BOGART
ROBERT MITCHUM
PETER FALCK
Prima con Casablanca
(1942) poi nei panni
dell’ispettore Marlowe
ne “Il grande sonno” (1946)
incarna nel cinema
hollywoodiano il mito
dell’uomo in trench
Negli anni Settanta tocca
a lui vestire i panni
del detective in trench,
interpretando i film
“Marlowe, il poliziotto
privato” (1975) e “Marlowe
indaga” (1978)
Il tenente Colombo,
inseparabile dal suo
impermeabile
perennemente sdrucito,
è ancora un classico
per gli amanti
del poliziesco in tv
TRASFORMISTA
PENSATO AL MASCHILE
EFFETTO SCAMOSCIAT0
Si chiama Meringue
il trench che, indossato,
“si gonfia”, di Moncler
Taglio maschile in gabardine
di cotone antracite
È la proposta di Bally
Per un’immagine sbarazzina:
doppiopetto in scamosciato
United colors of Benetton
Il capo fu inventato nel 1901 dall’inglese Burberry commerciante del Surrey
Dalle trincee della Grande Guerra
al fascino macho di Humphrey Bogart
CORRADO AUGIAS
Repubblica Nazionale 53 09/10/2005
A
stare all’etimologia si potrebbe sobbalzare. Trench
in inglese vuol dire trincea, ci si potrebbe chiedere
che diavolo c’entri la trincea con il simpatico capo
d’abbigliamento: dieci bottoni, doppio petto. Invece tutto
nasce dalle trincee. Nel 1901 un proprietario di negozi nel
Surrey, un certo Thomas Burberry, specializzato nel disegno e produzione di abiti per il tempo libero (quelli che oggi si definiscono causal), inventore del tessuto chiamato gabardine, presentò al ministero della Guerra britannico un
progetto di impermeabile per ufficiali. L’oggetto si presentava pratico, non privo di una sua sciatta eleganza, come
piace agli inglesi. Breve, il progetto venne approvato, il capo entrò in produzione e fece la sua prima vera prova pochi
anni più tardi durante la Grande Guerra che fu lungamente
combattuta appunto nelle trincee, donde trench coat, cappotto da trincea.
Se si osserva con attenzione un trench di taglio classico
questa lontana origine è tuttora visibile poiché, ingentilite
dall’impiego civile, sono rimaste nel modello alcune peculiarità militari. La doppia copertura sulle spalle, le spalline
che servivano per infilarci i guanti o la bustina, i cinturini ai
polsi per proteggere le braccia per esempio durante una corsa in motocicletta, la cintura robusta con i gancetti a forma
di “D” adatti per appendervi granate, un binocolo, una custodia porta-mappe. Il trench da guerra era molto più lungo
dell’attuale arrivando non all’altezza del ginocchio ma fino
a metà polpaccio. Unito a un paio di stivali assicurava un’ottima protezione contro il fango che era una delle più penose caratteristiche delle trincee. La fodera estraibile assicurata all’interno da alcuni bottoni ne faceva un capo adatto ai mesi sia invernali sia estivi. Il trench piacque molto
anche gli americani. Durante l’ultimo conflitto (19391945) sarà adottato dalle forze armate Usa per l’esercito, l’aeronautica, i marines.
Più volte i capi militari sono passati nell’abbigliamento civile. Il generale B. L. Montgomery
dette fama a un ampio comodo giaccone a tre
quarti con alamari di corda che aveva disegnato ispirandosi alla giubba delle truppe
canadesi. Altri due ufficiali inglesi che
presero parte alla guerra di Crimea (1854) sarebbero passati alla storia più per il loro abbigliamento che per le imprese
militari. Lord Raglan dette nome alle celebri maniche senza
cucitura; Lord Cardigan, uomo di aristocratica bellezza comunemente giudicato uno stupido, passò alla storia per la
comoda giacca di lana che pare indossasse anche durante la
celebre carica dei 600, eroica e demenziale.
La mitologia del trench, deriva però più che dalla guerra
dalla letteratura. Il trench è stato a lungo, e in parte è rimasto,
il capo d’abbigliamento che ha caratterizzato gli investigatori privati, anzi i detective. L’immagine forte di questa mitologia, il canone che la consacra, è Humphrey Bogart in Casablanca; un misto di spavalda malinconia, di rassegnato eroismo, fa di lui (e del suo trench) l’icona di una seduttività mascolina ma al tempo stesso altamente civilizzata, l’immagine stereotipa di una guerra che pareva aver scacciato per
sempre il male dal mondo. Poi ci sono ovviamente tutti gli altri che al trench hanno dato lustro. Dick Tracy il poliziotto più
celebre della storia del fumetto, protagonista delle strisce di
Chester Gould; Sam Spade, creatura di Dashiell Hammett,
uno dei più grandi investigatori (di carta) mai creati; The
Phantom, altro eroe a fumetti creato da Lee Falk a metà degli
anni trenta. E poi Peter Sellers come ispettore Clouseau, ma
qui siamo già nel campo della più ilare parodia; o il tenente
Colombo dove l’eroico trench, fattosi misero impermeabile
stazzonato, imprime al personaggio la nota di fondo del suo
carattere: un uomo che parte come vinto per finire vincitore.
C’è nel trench anche un risvolto nero che risale all’unico
grande amore di Eva Braun. È il 1929 quando l’allora diciassettenne commessa di fotografo incontra «un uomo di una
certa età, con dei buffi baffetti, un soprabito chiaro di stile inglese». È Adolf Hitler naturalmente. Infine ci sono le varianti
criminali del trench che cominciano con i lunghi soprabiti di
pelle nera indossati dagli uomini della Gestapo e finisce con
il penoso equivoco dei Trenchcoat Mafia, un gruppo di studenti della Columbine High School in Colorado che indossavano trench come simbolo di appartenenza. Vennero a
torto accusati di aver preso parte al massacro avvenuto in
quella scuola nell’aprile del 1999. In realtà erano innocenti e
così il simbolico trench che era stato il loro distintivo.
ELEGANZA TECNICA
LOOK DA SERA
MAI SOTTOTONO
Gabardine tecnico
con impunture a contrasto
e gilet staccabile, di Fay
Si rifà ai cappotti degli anni
Sessanta il modello da sera
proposto da Miuccia Prada
Tonalità grigio chiaro,
doppiopetto, design
minimal, di Alviero Martini
54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 9 OTTOBRE 2005
l’incontro
Fuori dal campo
Dalla provincia, non solo calcistica,
ha compiuto il passo più lungo:
una grande squadra, una grande
città, Roma. Ma lui affronta l’esame
con la cultura del lavoro: “Allenarsi
è l’unico modo che
abbiamo per crescere,
è il nostro mestiere
e lo dobbiamo fare
al meglio”. E poi
con il buon senso che gli
viene dalle sue origini:
“Mi sento contadino,
so andare con il trattore. Mio padre
era guardacaccia, poi magazziniere:
mi ha insegnato a rispettare tutti”
Luciano Spalletti
uciano Spalletti, da pochi
mesi allenatore della Roma, può collocarsi più tra
gli emersi che tra gli emergenti. Un passato, da calciatore e da
tecnico, ben lontano da Capello, o Ancelotti. Mai più su della serie C, in panchina tra alti (Empoli, Udinese) e bassi
(Samp, Venezia). Passo una sera con
lui cercando di parlare di calcio normalmente, e di varia umanità. Incontro in tre tempi. Due ore a Trigoria,
stanza che potrebbe sembrare l’anticamera del dentista, non fosse per le videocassette, la lavagna magnetica, i
quaderni pieni di appunti e schemi. Un
fascicolo è intitolato “Lavoro a secco”.
Che vorrà dire. Meglio non chiedere.
Un quarto d’ora a casa sua, a Casalpalocco. Tamara, la moglie, sta stirando
camicie. I figli Samuele e Federico (13
e 11 anni) guardano un film in tv. Spalletti vuole mostrarmi le etichette del
suo Chianti e del suo olio (non in commercio, solo ad uso di familiari e amici), ma non riesce a trovarle. Così me le
racconta. Per il vino, una foto di lui
bambino, sul cofano di un’auto bardata di lepri e fagiani. Per l’olio, una foto
di sua madre che aiuta suo fratello a salire su un cavallino. Tanto per ricordare le radici. «Il vino non lo faccio io, me
lo fa un vicino». Possiede circa un ettaro di vigna, fra Certaldo e Montespertoli, e qualche centinaio di ulivi. «Io mi
sento contadino, so lavorare col trattore. Mio padre Carlo era guardacaccia,
poi magazziniere alle vetrerie di Empoli. Mi ha insegnato a rispettare tutti».
Il padre, la madre («vive da sola, e
questo mi dà dei pensieri, ma è indipendente, ha la sua macchinina»), la
moglie e i figli tornano spesso nei discorsi di Spalletti. Tutto casa e campo.
calciatore ero uno dei tanti, ho giocato
18 anni, e quando ho avuto bisogno
d’una casa mia me la sono tirata su
mattone per mattone con le mie mani.
Quando criticano un giocatore perché
rende poco, io obietto: se mandiamo
via questo, ne arriva un altro che guadagna uguale, con due avvocati e due
procuratori». E allora che si fa? «Si cerca di migliorare, di lavorare molto e più
in profondità. Di curare i dettagli. Per
esempio, quando ci alleniamo pretendo che le cose che riguardano il lavoro,
tipo spostare una porta, le facciamo insieme, io e i giocatori. Non devono
pensare che i magazzinieri siano i loro
maggiordomi».
Un altro dettaglio, suppongo, è aver
levato a Cassano la fascia da vicecapitano, non particolarmente indicata per
chi fa le corna agli arbitri e demolisce le
bandierine del corner. Non raccoglie:
«Alleno tutti, non solo Cassano. Ma nove domande su dieci riguardano Cassano. A me piacerebbe sentirne anche su
Tommasi, Chivu, Nonda». Eccone una
“Uno dei miei figli
ama la storia, nella
Capitale ci siamo
venuti da turisti quando
la panchina giallorossa
non era nemmeno
un’ipotesi. Ora stiamo
in casa, non amo
la mondanità”
FOTO ACTIONIMAGES
Repubblica Nazionale 54 09/10/2005
L
ROMA
Si vocifera di un giorno in cui ha tenuto per 37 minuti i giocatori a discutere
di un errore difensivo. È vero? «Non me
lo ricordo, non posso escluderlo. Sa
una cosa? Noi la domenica ci agitiamo,
ci sbracciamo dalla panchina, ma
quello che riusciamo a comunicare ai
giocatori è poco, quasi nulla. Ecco perché si parla molto della filosofia del lavoro, dell’allenamento. A me non piace usare la lavagna, tutte le situazioni
vanno provate sul campo, undici contro undici. I piloti s’allenano in pista,
mica in poltrona. E i calciatori facciano
altrettanto. Ci sono passato anch’io,
sia pure a livello minore. Allenarsi annoia, ma è solo così che si migliora».
In tv si nota di più: Spalletti cerca parole adeguate, non troppo basse per
non sembrare banale, non troppo alte
o calde, perché farebbero capire quello che davvero pensa. Mi sa che ogni
tanto il tappo salti. «Sì, ma solo quando
serve. E senza giornalisti nei dintorni».
Mentre guida verso un ristorante di
Ostia (terzo tempo) è più rilassato ma
non disattento. Sul macchinone, cd di
cantautori italiani (De Gregori, Ligabue, Venditti). «Ma il vero colpo di fulmine è stato Lucio Battisti». Lo rivedo
per lavoro dopo otto anni. Quando era
allenatore dell’Empoli, quasi tutti i
giorni andava a bere un caffè alla Casa
del Popolo di Sovigliana, dove abita la
madre. Sui muri di viale Palmiro Togliatti c’erano manifesti di questo tono: «Sacchi + Zeman = Spalletti». Non
male, per un esordiente in B, stabilire il
premio-salvezza e conquistare la promozione. «Mi vergogno a leggerli, li
strapperei di notte ma non posso, li
hanno messi i miei compaesani». Voi
allenatori, in generale, siete troppo
musoni. Si potrebbe anche sorridere,
ogni tanto. In fondo, sono solo partite
di calcio. «Non so gli altri, io non sono
d’accordo. Il calcio in Italia è giusto
prenderlo sul serio. Ed essere serio, a
costo di passare per sfigato o portasfiga, non ricordo più come mi aveva definito Zamparini. Per fortuna Zamparini è spesso in tv e la gente può valutare la profondità del suo pensiero e la finezza del suo parlare. Noi almeno, noi
che ci siamo dentro, il calcio dobbiamo
prenderlo sul serio per i risvolti economici che ha, ma anche per quelli sentimentali, sociali. Non è un mestiere facile, ci sono molte pressioni. Può diventare un mestiere pericoloso. Si parla sempre di quello che guadagna un
calciatore. Ma credo che un famoso
giornalista tv o un cantante guadagnino grandi cifre. Però se un cantante
stecca in concerto i suoi fan non lo
aspettano sotto casa per menarlo. Ecco una piccola differenza».
Sì, ma questo discorso dei soldi è ricorrente. Lo fanno sia i tifosi sia i non
tifosi. «È un discorso che salta fuori solo quando si perde. C’è questo sistema
in tutta Europa, non è una caratteristica nostra. Un calciatore ha sempre
guadagnato più di un operaio. Io da
su Tommasi: a che punto è? «Continua
a migliorare, e tornerà molto utile. Si
parla tanto dello spogliatoio. Bene,
buono o cattivo che sia lo fanno i giocatori. A Udine avevo ragazzi in gamba,
come De Sanctis, Bertotto, Sensini. Se
qualcuno dei compagni diceva o faceva
una bischerata, intervenivano loro.
L’allenatore non può essere dappertutto».
L’allenatore cosa fa, in sostanza?
«Studia, e molto. Studia le caratteristiche degli avversari, e il modo di metterli in difficoltà. Valuta le caratteristiche e
la condizione dei suoi. Lavora per avere una squadra ordinata ed equilibrata,
questo è fondamentale. Una squadra
disordinata fa più fatica a segnare, e la
si buca con più facilità. Studia le situazioni a palla inattiva. Studia allenamenti non noiosi. A me non piaceva allenarmi e soffrivo se non giocavo. È per
questo che non mi hanno più voluto
nelle giovanili della Fiorentina. Allenava Sergio Cervato. Avevo sedici anni e
ho saltato qualche allenamento, diciamo che dal paese non andavo a Firenze
solo per allenarmi, insomma ero più
bellino, avevo anche tutti i capelli. Non
è che alla Fiorentina mi hanno cacciato, semplicemente a fine stagione mi
hanno detto che in futuro potevo anche
starmene a casa. Questo per dire che capisco perfettamente quello che prova
un ragazzo che escludo. All’inizio della
carriera mi sentivo una specie di fratello maggiore dei miei calciatori, alcuni
erano miei ex compagni, parlo di Baldini, Ficini, che il primo giorno di lavoro
si son nascosti dietro i teli, in spogliatoio, per non ridermi in faccia... Al posto loro avrei fatto la stessa cosa. Sembrava solo un’avventura, all’inizio».
Una pausa. «Ma ci fosse solo quello,
lo studio, la tensione, un lavorìo continuo. Quando parliamo di sistema, dobbiamo capire che ognuno di noi è una
rotellina del sistema. Quando mi chiedono un bilancio della mia carriera, io
dico che la promozione in A con l’Empoli è stata un miracolo, l’Udinese al
quarto posto con relativo ingresso in
Champions league un ottimo lavoro.
Ma una cosa che mi riempie di gioia, come allenatore, è che l’Udinese abbia
vinto la Coppa Disciplina, che i miei
giocatori siano stati i più positivi nel
comportamento con arbitri e avversari.
Perché il rispetto che m’insegnava mio
padre io lo insegno ai miei giocatori. E
ai miei figli».
E che altro? «Che studiare è importante. Che non si giudica dalle apparenze. Mi piace che si sentano liberi.
Tutto il tempo che non mi toglie il pallone, lo passo con loro. In campagna gli
ho insegnato a distinguere le bisce dalle vipere. Il più grande ha la passione
della storia, siamo venuti tutti a fare i turisti anni fa, quando la panchina della
Roma non era immaginabile. Fori Imperiali, Isola Tiberina, anche Piazza
San Pietro per vedere il Papa. Non ci siamo negati nulla. Ma adesso la situazio-
ne è cambiata, sono qui per lavorare e
dunque Roma è un meraviglioso fondale. Vivo ai margini. Non sono portato
alle apparizioni mondane. Sento anche
molta responsabilità nei confronti dei
miei figli. A Udine si erano fatti molti
amici, andavano bene a scuola. Qui è
tutto nuovo».
A Udine sono anche cadute, prime in
Italia, le barriere negli stadi. «Ci volevo
arrivare, è una cosa di cui sono felice come addetto ai lavori e come cittadino
italiano. A questo alludevo quando parlavo di sistema e di rotelline. Abbattere
le barriere allo stadio è stato possibile
grazie a un lavoro di gruppo. Un questore molto in gamba, intanto, e una società sensibile al problema, e tifosi a loro volta interessati a cambiare l’immagine degli stadi militarizzati. Serve più
cultura sportiva, lo dicono tutti. Già, e
chi la dà? Io ho dato il mio numero di
cellulare ai capi ultrà, sono andato a
parlare con loro o loro sono venuti da
me. Non mi sembra giusto criminalizzare tutti senza prima conoscere,
scambiarsi opinioni e vedere come si
può collaborare». Herrera e Rocco non
avevano di questi problemi. «Beati loro.
Coi calciatori avevano un rapporto più
umano e diretto. Oggi possono dirti sì
mister, va bene mister, e appena li lasci
in panchina cominciano le telefonate
dei procuratori».
Mi resta una curiosità: di che marca è
il trattore? «Un Fiat 455. Rosso, naturalmente. Che, non mi ci vede come contadino? Uso il trincia per tenere l’erba
rasa sotto gli ulivi, poto le piante da
frutto, tengo basse le acacie, tolgo i rami secchi agli alberi del bosco, tengo
puliti i ciglioni, la motosega per fare la
legna la so usare». Poi una domanda incauta del cameriere lo induce a tirar
fuori un foglio e disegnare uno schema
difensivo. I moscardini si raffreddano e
fuori piove.
‘‘
GIANNI MURA
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