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storia delle teorie del dolore
Review
STORIA DELLE TEORIE
DEL DOLORE
HISTORY OF PAIN THEORIES
Mirko Silvestrini, Claudio A. Caputi
SOD Medicina del Dolore
Azienda Ospedaliero-Universitaria,
Ospedali Riuniti di Ancona
RIASSUNTO
La storia del dolore è lunga quanto
quella dell’umanità. Sono state
formulate molte teorie sperimentali,
ma a oggi nessuna offre una spiegazione
esaustiva. Storicamente, la clinica
ha messo in pratica la visione che
le civiltà sviluppavano circa il dolore.
Questa review analizza la storia delle
teorie del dolore attraverso un’indagine
della letteratura pubblicata fino al
2013; le fonti principali sono stati
i più importanti motori di ricerca
(Google Scholar e PubMed) utilizzando
keywords come history of pain theories,
chronic pain, neuromatrix.
Le pubblicazioni più rilevanti
sono state scrutinate e citate.
Gli autori concludono che oggi
si rigetta la nozione di centro specifico
per il dolore, a favore di molteplici
reti neuronali integrate in una
neuromatrice, determinata da genetica
e vissuto. Essa genererebbe l’esperienza
del sé-corporeo, di cui dolore
e sofferenza fanno parte.
SUMMARY
The history of pain is as long
as that of the human race.
Several theories have been developed
but none of them are yet exhaustive.
Historically, the clinical approach
has reflected the vision that society
had about pain.
This review analyzes the history
of pain theories through searching
the literature up to the year 2013.
The main source were Google Scholar
and PubMed, using a number
of keywords, e.g. history of pain theories,
pain, chronic pain and neuromatrix.
Relevant issues were then reviewed
and quoted.
The authors conclude that today
the notion of specific central pain
region is rejected in favour of
multiple neuronal networks
integrated in a neuromatrix,
genetically and experientially
shaped. It generates the body-self
sense, which includes both pain
and suffering.
Parole chiave
Dolore, dolore cronico, teoria,
storia, neuromatrice
Key words
Pain, chronic pain, theory, history,
neuromatrix
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
27
INTRODUZIONE
Come osserva Illich “Ogni cultura
elabora miti, rituali, tabù e standard
etici al fine di far fronte alla fragilità della vita […] per spiegare il significato del dolore, la dignità nella
malattia, il ruolo del morente o la
morte”.1 Questo tentativo, tanto costante quanto necessario, di inscrivere
tali fenomeni entro aree semantiche
ben precise, rappresenta uno sforzo
ermeneutico-antropologico
ancor
prima che scientifico, e ha caratterizzato costantemente e universalmente
le espressioni culturali umane. Infatti,
per comprendere l’esperienza dolorosa in senso pieno dobbiamo contestualizzarla in una cultura, in quanto
essa fornisce una modalità di soffrire.
Concetti quali dolore e sofferenza
sono stati di volta in volta reinterpretati, anche il loro rapporto reciproco
ha vissuto dinamiche turbolente. Da
posizioni olistiche, in cui dolore e
sofferenza rappresentano due aspetti
integrati e riconosciuti, a posizioni
riduzionistiche medicalizzate, basate
sulla esclusiva visione “nocicettiva”
o psicologizzate, basate sull’esclusiva dinamica della “conversione”. La
storia del binomio dolore-sofferenza
andrebbe declinata nello spazio e
nel tempo dell’evoluzione culturale.
Eppure il dolore è un’esperienza così
connaturata all’essere umano che si
sarebbe dovuta sviluppare una visione
univoca della sua natura già da molto
tempo. Ironicamente, sembra che più
si tenti di definirne i confini eziologici
e clinici, più il dolore tenda a offrire aspetti oscuri e non codificabili. Il
significato soggettivo che la persona
dà al proprio dolore, assieme alla sua
28
capacità di soffrirlo, non può prescindere dai condizionamenti contestuali.
In termini evoluzionistici, il dolore rappresenta un sistema di allarme
sensoriale ed emozionale con lo scopo
di segnalare rapidamente un danno
tissutale o un processo degenerativo
in atto. Sulla scorta di questa segnalazione seguirebbe quindi un comportamento adattivo e un processo
biologico reattivo. In termini clinici, il dolore è attualmente concepito
come il quinto segno vitale accanto
alla frequenza respiratoria e cardiaca,
alla temperatura e alla pressione arteriosa2-5 per giunta con “l’obbligo di riportare la rilevazione del dolore all’interno della cartella clinica” come recita, per l’Italia, l’art. 7 della Legge n.
38 del 15 marzo 2010. La definizione
di dolore come “strumento difensivo”
è propria del dolore acuto, cioè di un
fenomeno secondario a qualcos’altro.
Quando invece tale condizione persiste al di là del processo di guarigione,
perdendo così la sua funzione difensiva, acquisirebbe lo status di patologia,
di condizione autoreferenziale.6,7
Questa differenziazione rappresenta
un netto spartiacque tra due paradigmi di dolore qualitativamente diversi:
il dolore come sintomo, ovvero il dolore acuto e il dolore come patologia,
ovvero il dolore cronico. Proprio perché fenomeno esistenziale, antropologico, e socio-economico oltre che biologico, storicamente il dolore è stato
definito, classificato, concepito e vissuto in modi eterogenei. L’attuale definizione dell’International Association for the Study of Pain (IASP) fotografa il dolore come: “un’esperienza
sensoriale ed emozionale spiacevole
associata a danno tissutale, in atto o
potenziale, o descritta in termini di
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
danno”. Oltre all’aspetto sensoriale
secondario a una lesione organica, la
definizione indica quindi l’esperienza
del dolore in termini più complessi,
cioè bio-psicologici.
STORIA DELLE TEORIE
DEL DOLORE FINO AL 1800
La storia del dolore è tanto lunga
quanto quella dell’essere umano stesso. Sono state formulate e proposte
molte teorie così come diversi modelli scientifico-sperimentali ma, a
oggi, per quanto ognuno di essi abbia
avuto una certa fortuna e una propria
utilità, nessuno è mai riuscito a dare
ragione della complessità propria di
questo fenomeno. Storicamente, la
clinica del dolore ha sempre riflettuto
l’interpretazione che di volta in volta
le civiltà sviluppavano a proposito del
fenomeno dolore.
Epoca preistorica e animismo
In un contesto di tribù animiste, del
passato ma anche della contemporaneità, al di là delle singole differenze,
si crede che il dolore e la sofferenza
siano direttamente ascrivibili a spiriti
maligni e a forze occulte penetrate nel
corpo.8
Queste culture, filosoficamente e religiosamente complesse, produssero nel
passato articolati dispositivi culturali,
riti e simbologie, al fine di allontanare
o di ingraziarsi i demoni responsabili
delle malattie, del dolore, dell’afflizione e della morte. La figura dello
stregone o dello sciamano era quella
che dava le interpretazioni e attuava
le procedure individuali e collettive
necessarie. Tutto ciò che risultava positivo e negativo a livello sensoriale,
doveva essere “letto” e “categorizzato”
tramite simbologie in complesse cosmogonie al fine di poter attuare azioni riparatrici o propedeutiche, i rituali
appunto, vere e proprie performance
socio-culturali. In Europa, possiamo
ritrovare tale visione durante l’età del
bronzo (fino al 1000 a.C.) in cui si
pensava che le offese al Dio avrebbero
causato malattie e dolore.
La medicina tradizionale cinese
La testimonianza più antica pervenuta a noi circa il tentativo di dare un
significato al dolore risale alla medicina cinese tradizionale dove il termine
“dolore” compare per la prima volta
nel trattato medico Huang Di Nei
Jing scritto più di 3000 anni fa. 9,10
Secondo i canoni di quella cultura,11
il dolore era il frutto di uno sbilanciamento tra Yin e Yang, una diade
di forze complementari e interrelate l’una nell’altra e dinamicamente
interconnesse. Un eccesso dello Yin
avrebbe dato luogo al “freddo” e danneggiato la forma della materia biologica. Viceversa, uno sbilanciamento a
favore dello Yang avrebbe causato “calore”, un danno agli equilibri energetici del corpo e quindi dolore. Si postulava, inoltre, il concetto di energia
corporea circolante lungo una serie di
canali e meridiani. La terapia mirava
al ripristino dell’equilibrio delle due
forze. L’agopuntura, oggi presente
anche in Occidente, veniva prescritta
per sbloccare i ristagni energetici lungo detti meridiani e canali.11
La visione “tragica”
del mondo classico
Nel mondo Occidentale, dall’antica
Grecia fino all’avvento del pensiero
scientifico contemporaneo, secondo
Natoli, si dipanano due distinte correnti di pensiero entro le quali il concetto di dolore è stato di volta in volta rimodellato: la visione tragica del
mondo classico e la visione ebraicocristiana.12
Dall’accettazione della reciproca necessità di vita e morte nasce la visione
tragica del mondo. Ciò che dona la
vita e la felicità dona ineluttabilmente
il dolore e la morte. In questo realismo, il dolore stesso, interrompendo
il trascorrere armonico dell’esistenza,
è anticipatore di morte ineluttabile,
quindi è tragedia. La morte, è però
condizione necessaria affinché vi sia
una nuova vita. Non è concepibile nel
pensiero classico una felicità disgiunta
dal dolore.13
Questa circolarità, che è accettata
come elemento della vita stessa, non
viene combattuta né rimossa. Il dolore e la sua esperienza sono interpretati
in questa cornice semantico-esistenziale sia individualmente sia collettivamente.
Proprio appellandosi alla natura umana, nei limiti del consentito, l’uomo
ha a disposizione l’opportunità e la
consapevolezza di poter coltivare arti
e virtù al fine di lenire il senso del tragico che gli è proprio e per dare una
forma, una “ragione” alla propria esistenza tutta terrena. Poiché per i greci
antichi la ragione è la più nobile delle
facoltà umane, essa deve essere esercitata per fini terreni, per dare significati e forme all’esistenza. Il dolore, se
letto con ragione, sarà un’opportunità
di crescita per le umane arti e virtù.
Affrontando il dolore e arginando la
sofferenza entro una “forma”, un’armonia, il greco della classicità tende
a diventare virtuoso. Il dolore nel
mondo classico tende a diventare in-
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
nocente, cioè non secondario a colpe
o peccati, bensì connaturato alla vita
stessa, e perciò accettato. La sofferenza è concepita nell’ambito del complesso rapporto tra dolore di natura
somatica e dolore di natura psichica.
In Occidente, la visione animista del
dolore come una punizione divina
causata dalle negligenze umane o da
una presenza intrusiva degli spiriti
maligni viene ridimensionata a partire dalla cultura greca.13 Nell’Occidente, la prima descrizione del dolore
appare per la prima volta nell’ottavo
secolo a.C., nei poemi epici del poeta
greco Omero, l’Iliade e l’Odissea.14
Con Ippocrate (460-377 a.C.), si
inaugura una nuova concezione organicista della medicina, nuove arti
sanitarie basate su tentativi di interpretazione razionale dei fenomeni naturali.13 Sarebbero le circostanze umane della persona e non gli interventi
divini a causare la malattia e il dolore.
La teoria umorale seguita da Ippocrate sostiene che il corpo è governato
da quattro diverse tipologie di umori,
bile gialla e nera, sangue e flegma.15
Le varie combinazioni e gli equilibri
tra questi fluidi condurrebbero a salute o a malattia. Tra i presocratici,
Democrito (460.360 a.C.) interpreta
i dolori come rimandi a una vita condotta in modo non retto. Il rimedio
era il perseguimento della saggezza e il
rifuggire dai beni materiali.16 Platone
(428-347 a.C.) concepisce il dolore
come proveniente da aspetti sensoriali ma anche dalle emozioni proprie dell’anima che alberga nel cuore.
Il dolore sarebbe lo scotto da pagare
per chi si è allontanato dalla verità assoluta.17 La rettitudine poteva essere
guadagnata lungo un percorso di sofferenza purificatrice. L’uomo, per gli
29
Stoici (300 a.C.), con l’autocontrollo
e il distacco dalle cose terrene, poteva sopportare e superare la sofferenza
fino a raggiungere l’integrità morale e
intellettuale.
Nella loro etica del dovere, “sopporta
e astieniti”, venivano accolte le vicissitudini della vita senza per questo farsi
emotivamente coinvolgere.15
Alcmeone, Democrito e Anassagora
ipotizzarono che il cervello, e non il
cuore come Empedocle preconizzava,
fosse la sede della sensibilità e della
razionalità.8 Lo stesso Aristotele (384322 a.C.) postulava il cuore come la
sede delle sensazioni (vista, udito, tatto, olfatto e dolore), sostenendo che
proprio il tatto, a fronte di stimoli
eccessivi, fosse il responsabile del dolore. Formulò così il primo concetto
organicista del dolore.11
Il dolore era ormai associato a cause
organiche e sottratto a quel velo di
misticismo che ancora lo caratterizzava. Egli ipotizzava il dolore come
“emozione che irrompe nella coscienza”. Erofilo (335-280 a.C.) dimostrò
anatomicamente l’appartenenza del
cervello al sistema nervoso centrale e
postulò l’encefalo come la sede della
percezione come Pitagora (570-495
a.C.) e Anassagora (500-428 a.C.)
avevano sostenuto in precedenza.8
Galeno (130-201 d.C.) e Avicenna
(980-1039) in seguito avrebbero ripreso tale ipotesi.14
Galeno, inoltre, ipotizzava la presenza
dei meccanismi del dolore nel SNC,
descrivendo il processo acuto infiammatorio come caratterizzato da dolor,
calor, rubor, tumor (tetrade originaria
del romano Celsus, 25 a.C. - 50 d.C.)
e functio laesa.16 La cultura greca,
nonostante le proprie interpretazioni naturalistiche e razionalistiche del
30
dolore, non seppe scegliere tra algos,
pathos, odune e aisthesis.8
La tradizione giudaico-cristiana:
dalla Bibbia al Medioevo
Nel Vecchio Testamento, il dolore
consegue a una colpa ed è in relazione
a un peccato, inteso come scioglimento dell’alleanza con Dio conseguente
alla violazione del patto che ha come
fine la salvezza dell’uomo.12 Tale alleanza è promessa e legge allo stesso
tempo, quindi il peccato è possibile
solo nell’ambito di tale contesto. La
promessa divina circa la salvezza dalla schiavitù e dalla sofferenza è possibile solo se l’uomo, grazie alla fede
e al rispetto dei comandamenti, saprà
condurre una vita terrena ineccepibile. Ecco che tale conduzione separa
l’uomo dalla vita terrena in favore della contemplazione di una vita ultraterrena priva di dolore e sofferenza,
tutta da guadagnare. Nel frattempo
la vita terrena è luogo di sofferenza,
di dolore e di stenti proprio perché,
per sua natura, l’uomo è imperfetto
e tende a trasgredire le leggi divine.
Di qui il meritato castigo terreno, il
dolore appunto.13 Esso è sì punizione
ma è anche espiazione e unico viatico
verso la redenzione. “Paziente” è colui
che sa sopportare, sa stare nel dolore.
Nel Nuovo Testamento, il dolore
viene interpretato in modo diverso.
Cristo, poiché è il solo a essere puro e
retto, ha posto in essere un sacrificio
espiatorio, accentrando su di sé la sofferenza del dolore fisico e della morte
e, in generale, quella del male. Illich
sottolinea che in alcune lingue come
il francese e l’italiano, in contesti clinici, il dolore fisico è anche nominato
“male” (J’ai mal là/Mi fa male qui).18
Gesù, detto per ciò “il redentore”,
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
con la sua morte esemplare estingue
il peccato e il male per tutta l’umanità presente e futura. Da Gesù in poi
non si rendono più necessari ulteriori
sacrifici tra gli uomini. D’ora in poi
il dolore, proprio della vita terrena,
deve essere accompagnato con docilità e pazienza, come abbandono e
adesione alla sofferenza di Cristo, un
preciso mezzo che avvicina a Dio.
Sant’Agostino d’Ippona (354-430)
distinse il male fisico del corpo dal
male morale dell’anima legato al peccato, sorpassando così la convinzione che la malattia e il dolore fossero
punizioni divine provenienti dalle
cattive condotte umane. Nonostante ciò, attribuì una natura metafisica
al dolore, alla fame, alla malattia e al
peccato. 15
In contesti medioevali clericali, il dolore, a volte, era incluso nell’ambito
della “pedagogia della sofferenza”, in
cui veniva accettato e ricercato tramite pratiche auto-punitive per fini
espiatori, per redimersi e per crescere
spiritualmente.19 Tommaso d’Aquino
(1224-1274), frate domenicano, interpretò il dolore come una passione
dell’anima sostenendo che quando
soffre il corpo patisce anche l’anima.
Propose l’idea che la compassione altrui avesse la capacità di lenire il dolore del sofferente, condividendone
il fardello e alleggerendone la pena.20
Nel suo Summa Theologiae, Tommaso ricordava che il fine ultimo della
vita è il raggiungimento della felicità
terrena e quindi eterna, concezione
cristiana coincidente anche con la
spiritualità orientale.21 L’affrancamento dal dolore e il raggiungimento
della felicità erano possibili solo grazie
all’autodisciplina che, per il pensiero
ebraico-cristiano stava nell’osservare
i dieci comandamenti, nel pensiero
orientale nel praticare le regole dello
yama-niyama (astensione-disciplina).
Il concetto dell’autodisciplina è presente anche nelle ultime teorie cliniche del self-management del dolore e
la de-passivizzazione del paziente.22,23
Il dolore tra Medioevo e modernità
Nel Medioevo si sviluppò la medicina
conventuale dei monaci benedettini.
L’utilizzo di erbe medicinali personalmente coltivate, preparate in pozioni
e direttamente vendute nelle botteghe-farmacie dei monasteri faceva di
questi monaci gli antesignani della
futura industria farmaceutica.8 Molto
tempo prima, in Cina, il medico Hua
Tuo (145-208) aveva somministrato
preparati a base di cannabis e vino
per anestetizzare i pazienti da operare
chirurgicamente: un antesignano dei
concetti di anestesia e analgesia.11
Avicenna (980-1037) medico e filosofo musulmano, nel suo Canone
della Medicina del 1025, propose
per la prima volta il dolore come una
sensazione indipendente dal tatto
o dalla temperatura11 ed estese da 4
a 15 i tipi di dolore della precedente classificazione di Galeno24 usando
una terminologia molto simile agli
aggettivi-descrittori del McGill Pain
Questionnaire,25 uno dei questionari
più usati oggi per la valutazione del
dolore. Egli, inoltre, avanzò l’ipotesi
che la vera causa del dolore fosse il
cambiamento delle condizioni fisiche
dell’organo coinvolto, a prescindere
dalla presenza o meno di un danno.
Ciò fece di questo medico un degno
precursore dell’algologia moderna e il
primo a formularne una teoria specifica.26
Con la svolta dell’anno mille, l’Euro-
pa vide nascere la fase pre-universitaria della medicina. In questo contesto, principalmente per merito della
Scuola Salernitana, la medicina fu
coinvolta in un processo di laicizzazione che permise di tornare a concepire malattia e dolore come gli effetti
di cause naturali.27
Tra Rinascimento ed epoca moderna, epoca di fatto universitaria, Galilei (1564-1642) e Descartes (15961650) rappresentano i maggiori
fautori dell’evoluzione del pensiero
scientifico e del metodo sperimentale
applicato al dolore.8
Il primo gettò le basi per una visione
razionale del dolore permettendo così
l’abbandono di concezioni filosofiche
e metafisiche.
Il secondo considerò il dolore come
un preciso segnale sensoriale relativo
a determinate disfunzioni biologiche.
Con Descartes comparve il modello di trasmissione dell’informazione
sensoriale dolorosa dove uno stimolo esterno attivava i nervi periferici
i quali, tramite il midollo spinale e
i ventricoli cerebrali, portavano alla
ghiandola pineale l’informazione che,
in quella sede, sarebbe diventata percezione cosciente.11
La rigorosa logica dualistica cartesiana
esclude la possibilità dell’intervento di
fattori metafisici ma anche psicologici
nella percezione del dolore.28 Corpo e
anima erano per la prima volta nettamente separati sotto il punto di vista
della conoscenza.
Il corpo equiparato a una macchina e
il dolore a un segnale che permetteva
al corpo di reagire in segno di autodifesa. Successivamente, Willis (16211675), pioniere dell’anatomia dell’encefalo, fornì convincenti prove circa il
ruolo del cervello nella percezione del
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
dolore, includendo la corteccia cerebrale.14
Questa nuova concezione era nettamente in contrasto con quella proposta da Paracelso (1493-1541) qualche
decennio prima.
Egli basava la sua medicina su un approccio olistico dell’uomo, in cui il
dolore era interpretato in termini psicofisici e non scotomizzando la psiche
dal soma.8 Al centro della sua medicina c’era l’uomo vivo e la semeiotica. Il
suo approccio non era aggressivo bensì conservativo: “bisogna solo stimolare la natura ed essa provvederà da sé”.
Sul versante dell’anestesia utilizza per
primo l’etere solforico e il laudano.
Il laudano in forma liquida, un composto a base di oppio, zafferano, cannella, chiodi di garofano e vino per
scopi analgesici e antidolorifici venne
invece utilizzato da Sydenham (16241689).29 Sempre lungo il versante
psicofisico, Spinoza (1632-1677) nel
concetto di dolore inserì anche quello
di melanconia a tal punto che il dolore è visto come un’emozione, anticipando così il concetto di dolore come
emozione omeostatica.30 Utilizzando
il termine “tristizia” intendeva appunto indicare contemporaneamente sia
il dolore fisico sia quello di origine
psichica, anticipando in questo caso
l’attuale concetto di total pain.8 Alla
fine, questo periodo sarà caratterizzato da una concezione scientifica della
natura, in cui prevaleva un forte razionalismo che avrebbe caratterizzato
il metodo sperimentale della moderna medicina meccanicistica. Qui il
focus era tutto proiettato sugli aspetti
organicistici della malattia. Il dolore
era sempre più concepito in termini
causali-lineari, sintomo esclusivo di
una causa fisica, tangibile, prossima.
31
Se il dolore era diventato “utile”, perché funzionalmente adattivo, gettando così le basi del concetto di dolore
acuto, si allontanava, d’altro canto,
la partecipazione attiva della psiche
al percetto del dolore. Le proposte
di Paracelso e di Spinoza, inerenti a
una visione psicofisica del dolore, non
avrebbero trovato seguito, in quanto
la concezione newtoniana del razionalismo scientifico avrebbe preso il
sopravvento, disarticolando nuovamente il rapporto tra dolore e sofferenza. Rimaneva comunque il punto
fermo che il cervello rappresentava il
vertice più alto dalla sensibilità, mentre il dolore diventava un input afferenziale.
Dal finire del Diciottesimo secolo
fino ai giorni nostri, un caso particolare nel rapporto tra mente e sensazione, razionalità e suggestione fu
rappresentato dall’ipnosi. L’ipnosi è
definibile come un’induzione seguita
da una o più suggestioni.31
L’esperienza della suggestione è un
fenomeno capace di elicitare cambiamenti e alterazioni nella percezione soggettiva, nella sensazione, nelle
emozioni, nei pensieri o nel comportamento.32
Una serie di nomi sono legati alle fortune alterne di tale tecnica: Mesmer
e il magnetismo animale, Elliotson e
l’analgesia da ipnosi durante la chirurgia, Charcot e l’induzione tramite
ipnosi delle nevrosi, Bernheim e la
cura dell’isteria, Janet e la dissociazione ipnotica, Breuer e il trattamento
dei sintomi della paralisi, Freud e le
reazioni isteriche, Hull e la possibilità di alterare la percezione del dolore,
Erickson e Hilgard che fece ricerche
sugli effetti dell’ipnosi e sull’analgesia
da ipnosi.
32
STORIA DELLE TEORIE
DEL DOLORE DAL 1800
AL PRESENTE
A questo punto, il concetto di dolore si disgiunse da quello di sofferenza specializzandosi in modelli sempre
più sofisticati in termini neuroanatomici e neurofisiologici. Nemmeno la
psicologia scientifica se ne interessò
particolarmente, in quanto figlia di
un approccio positivistico. Dal 1850
in poi, con la nascita della fisiologia
sperimentale, ebbe inizio una nuova
stagione di ricerca basata sullo studio
della sensibilità. Il dolore, sulla scia del
pensiero cartesiano, sarà inizialmente
interpretato in chiave riduzionista,
esclusivamente come input afferenziale, fino a essere concepito nuovamente
come percetto frutto di una commistione di variabili sensoriali-discriminative, emotivo-motivazionali e cognitivo-valutative sullo sfondo di un
paradigma bio-psico-sociale. In ambito sperimentale, si è molto discusso se
il dolore fosse mediato da specifiche
strutture neuroanatomiche o se queste
fossero in condivisione con altre funzioni sensoriali, per esempio il tatto, le
funzioni termiche o gli assi neuroendocrini. Fino a oggi, condizionati da
tale dicotomia, si sono maggiormente
evidenziati otto modelli: la teoria della
specificità, dell’intensità, del pattern,
del cancello, della modulazione discendente, della neuromatrice, della
matrice del dolore e dei disturbi del
dolore idiopatico.
La teoria della specificità:
un approccio qualitativo
Per la teoria della specificità, il dolore
rappresenterebbe una modalità speci-
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
fica di sensibilità, dotata di un proprio
apparato afferente distinto dalle altre
afferenze sensoriali. Sebbene sia stata
la prima a essere formulata in ambito
scientifico, tale teoria è, di fatto, una
delle più influenti. Per questo approccio il dolore, che non è spiegabile tramite una causalità lineare, non può
essere considerato reale e quindi sarà
di pertinenza psichiatrica.15 La prima
scoperta che offre basi scientifiche allo
studio del dolore è rappresentata dalla legge Bell-Magendine della prima
metà dell’Ottocento, la quale sostiene
che le radici nervose anteriori spinali
sono di natura motoria, mentre quelle
posteriori hanno una funzione sensoriale. Nel 1835, il fisiologo Muller
propone la legge della energia specifica dei nervi per cui la natura della
percezione è definita dalla via nervosa sulla quale transita l’informazione
sensoriale. Perciò le differenze nella
qualità della sensazione, udito, vista,
olfatto, tatto e dolore sono causate
dalle differenze delle strutture nervose elicitate da tali stimoli33 anche se
ancora non sapeva se tali differenze
fossero ascrivibili alle vie nervose periferiche o al sistema nervoso centrale.
Sul finire del Diciannovesimo secolo
il fisiologo Max von Frey evidenziò
che la cute umana era caratterizzata
da molti punti sensoriali, peculiari per
le diverse sensazioni. Le terminazioni
libere dei nervi nella cute furono classificate come recettori specifici del dolore. Da questa scoperta, in seguito, si
riuscì a identificare la cosiddetta “via
del dolore” nei tratti spinotalamici.34
All’inizio del Ventesimo secolo la formulazione del concetto di nocicezione
e di sinapsi avrebbe dato ulteriore sostegno a tale teoria. La psicologia, sul
finire dell’Ottocento, diede al dolore
un duplice significato, quello di sensazione e quello di sentimento. Medicina e psicologia non ebbero modo di
confrontarsi costruttivamente e l’avvento della medicalizzazione, dietro
la spinta dell’industrializzazione, non
fece che acuire il pensiero positivistico
e la visione meccanicistica del dolore.
Il sopravvento del sensismo e il relativo riduzionismo biologico del dolore
ebbe l’effetto di escludere la coscienza
e la sofferenza dalla clinica sanitaria.
Di conseguenza, in tale sede, l’obiettivo fu quello di inibire la sensorialità,
bloccare lo stimolo nocicettivo tramite le neurotomie periferiche, le cordotomie, le sinapticectomie, l’anestesia
locale per contatto, l’anestesia spinale,
l’alcolizzazione e la roentgenterapia.
John Bonica, anestesista italo-americano e padre della terapia del dolore,
fondò a New York il primo ambulatorio di terapia antalgica, evento storico
riguardo l’utilizzo del blocco nervoso
periferico, con modalità anestetiche o
ablative, come metodica terapeutica o
palliativa a fronte del dolore refrattario ad altre terapie o intrattabile.
La teoria dell’intensità:
un approccio quantitativo
Per i sostenitori di tale approccio, il
dolore sarebbe il risultato di qualsiasi
stimolo sensoriale che avesse raggiunto una particolare intensità. Durante
il termine del Diciannovesimo secolo,
il neurologo Erb fu il maggior sostenitore di tale teoria per cui la somministrazione di un debole stimolo
avrebbe elicitato una sensazione non
dolorosa, mentre uno stimolo più intenso avrebbe causato un’attivazione
nervosa più elevata al punto da divenire, oltre certi limiti, una sensazione
sgradevole e poi dolorosa. In seguito,
nel Ventesimo secolo, tale approccio
veniva ripreso dalla teoria dei codici
che, su tale base, sosteneva come il dolore fosse caratterizzato dalla frequenza e dalla ritmicità degli impulsi, comunicando così con i vertici del SNC.
La teoria dell’intensità trovò un successivo supporto a seguito della scoperta dei “neuroni ad ampio spettro
dinamico” nelle corna dorsali del midollo spinale.35 Questa popolazione di
neuroni risponde a diverse modalità
sensoriali (meccanica, termica, nocicettiva), così come a un ampio spettro
di intensità di afferenze. A fronte di un
incremento dell’intensità dello stimolo, hanno la proprietà di incrementare
costantemente il “firing neuronale”
fino ad assumere anche caratteristiche
nocicettive. Questi particolari neuroni sono coinvolti nel dolore viscerale e
permettono di spiegare anche il fenomeno del dolore riferito.
La teoria del pattern: la complessità
delle connessioni sensoriali spinali
L’utilizzo dell’oscilloscopio a raggi catodici e delle registrazioni elettrofisiologiche permisero di identificare, tra il
1930 e il 1965, differenti pattern di
attività nervosa nelle fibre afferenti in
risposta a stimoli meccanici, termici e
chimici.36 Ne seguì la classificazione
delle singole fibre sensoriali secondo
la grandezza e la velocità di conduzione. Anatomicamente, tali afferenze
furono classificate in fibre mieliniche
e fibre non mieliniche. In base alla velocità di conduzione le fibre A alfa e A
beta trasmettono l’informazione sensoriale più o meno velocemente; esse
sono ricoperte da uno strato spesso
di mielina. Mentre le A delta hanno
una conduzione lenta e sono coperte da un sottilissimo film di mielina.
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Infine, la fibre C sono le più lente e
non mielinizzate. Le vie sensoriali somatiche furono, all’inizio del Ventesimo secolo, ripartite in due classi:
l’epicritica, altamente discriminativa e
fine, comprendente la sensibilità tattile e pressoria, e la protopatica, più
grossolana e comprendente la sensibilità tattile diffusa e quella nocicettiva.
Ranson sosteneva che la sensazione
protopatica fosse condotta dalle fibre
non mielinizzate.11 Questi risultati
permisero allo psicologo americano
Nafe di formulare nel 1929 la teoria
del pattern, la quale sosteneva che gli
organi di senso somatici fossero dotati di un’ampia scala di responsività
e, a livello midollare, caratterizzati da
complesse configurazioni di eterogenee connessioni sensoriali.
Il dolore sarebbe il risultato di precisi pattern spazio-temporali di trasmissione e di scarica d’informazioni
provenienti da fibre specializzate. Con
questa teoria era possibile spiegare,
almeno in parte, fenomeni quali la
persistenza del dolore a seguito della
scomparsa della causa, o il fenomeno
dell’iperalgesia, dovuto all’effetto della sommazione spaziale e temporale
dei segnali nocicettivi a livello spinale.36 Su questa base s’iniziò a distinguere qualitativamente il dolore acuto
da quello cronico.
La teoria del cancello e la modulazione sovraspinale del dolore
I successivi sviluppi della teoria del
pattern portarono a formulare, soprattutto riguardo al dolore cronico,
la teoria del cancello,37 la quale diventò popolare a tal punto da condizionare la ricerca per tutto il Ventesimo
secolo. Questa nuova prospettiva teorica ipotizzava la presenza di “cancelli
33
neurali” a livello delle corna posteriori del midollo spinale, precisamente
nelle sinapsi tra le afferenze primarie
periferiche e gli interneuroni, di natura inibitoria, localizzati nella lamina
II (detta, assieme a una piccola parte
della lamina III, “sostanza gelatinosa”). I meccanismi proposti erano tre:
anzitutto, quando l’attività neuronale
in quel sito era maggiormente caratterizzata da segnali provenienti dalle
afferenze non-nocicettive, ciò inibiva
l’attività delle afferenze nocicettive
tramite l’attivazione degli interneuroni inibitori della lamina II, causando
così ipoalgesia o analgesia; secondo,
quando l’attività neuronale era maggiormente caratterizzata da segnali
provenienti dalle fibre nocicettive, si
aveva un’esacerbazione del dolore a
causa della de-attivazione degli interneuroni inibitori della lamina II; infine, tale gating sarebbe stato dinamicamente modulato sia in senso facilitatorio che inibitorio da un postulato
sistema sovraspinale discendente.
Nonostante le semplificazioni e le imprecisioni,38 tale teoria gettò le basi
per una concezione più articolata e
“unitaria” del dolore. Questo avrebbe
stimolato la ricerca sul cervello e dato
impulso alla nascente neuroscienza
cognitiva e alla neurofarmacologia,
orientata a nuovi antidepressivi e anticonvulsivanti. Nuove tecniche psicologiche sarebbero state applicate al
fine di procurare sollievo nel dolore
cronico. Tutto ciò avrebbe inaugurato una stagione di nuove prospettive
basate su network neurali cerebrali paralleli, in cui l’aspetto sensoriale, affettivo e cognitivo svolgevano un ruolo
attivo nella percezione e nell’esperienza del dolore. D’altronde, anche
l’esperienza clinica che stava matu-
34
rando, per esempio sul dolore da arto
fantasma, suggeriva che oltre a ricevere e ad analizzare gli input sensoriali, il
cervello generava l’esperienza percettiva del dolore anche in assenza di input
esterni.39
La teoria della modulazione
endogena discendente del dolore:
il sistema oppioide endogeno
Tra gli anni Sessanta e Ottanta, accanto alla scoperta dei nocicettori, delle
loro localizzazioni e di alcuni meccanismi molecolari coinvolti nella nocicezione, altre fondamentali scoperte
andarono a comporre il sistema della
modulazione endogena discendente
del dolore: gli oppioidi endogeni, i
rispettivi recettori nel SNC e il loro
coinvolgimento in alcune zone del
tronco encefalico, del sistema limbico
e dei lobi frontali. La scoperta che la
stimolazione della sostanza grigia periacqueduttale mesencefalica (PAG)
generava un potente effetto analgesico fu un passo decisivo.40,41 Sulla
base di ciò, si ipotizzò la presenza di
recettori per la morfina nel sistema
nervoso centrale umano e, infatti, tra
gli anni Settanta e Novanta, furono
isolati nell’uomo gli oppioidi endogeni (come dinorfina, endomorfine,
endorfina, encefaline) e i recettori oppioidi μ (Mu), k (Kappa) e δ (Delta),
da cui la teoria biochimica dei recettori oppioidi. 42 Un altro promettente
settore di studi riguardava l’analgesia
indotta dal cervello tramite l’effetto
placebo. L’effetto viene definito come
“un fenomeno psicobiologico che accade nell’encefalo del paziente a seguito della somministrazione di una
sostanza inerte o un finto trattamento
fisico come una procedura chirurgica
simulata assieme a una suggestione
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verbale (o ogni altro stimolo) di beneficio clinico”.43 Una serie di studi
sostiene che il sistema oppioide connette la corteccia cingolata anteriore
(ACC), l’amigdala del sistema limbico, la corteccia orbito-frontale e dorso-laterale della corteccia prefrontale
al PAG, nel tronco encefalico, il quale
modula l’attività della parte rostraleventro-mediale del midollo allungato
(RVM) che a sua volta è connessa alle
corna posteriori del midollo spinale.44-47 Questo sarebbe il sistema discendente ACC/PAG/RVM. Inoltre,
questi autori dimostrano il coinvolgimento del sistema discendente ACC/
PAG/RVM nell’analgesia da placebo;
l’effetto placebo, attivando il sistema
oppioide, produce condizionamenti
sul dolore, sull’apparato respiratorio
e cardiocircolatorio48,49 riducendo così
l’arousal psicofisica, l’attività del sistema nervoso simpatico e i relativi sintomi neurovegetativi, spesso presenti
nel dolore cronico, come nella fibromialgia, nel “low back pain” o nella
distrofia simpatica riflessa.50 Nel RVM
sono stati identificati due tipi di cellula: le cellule “on”, attivabili da stimoli
dolorosi e le cellule “off ”, de-attivabili
da stimoli dolorosi ma attivabili dalla morfina.51 Il bilancio tra gli stati
delle due popolazioni di cellule concorrerebbe a determinare l’effetto di
controllo sul dolore da parte degli oppioidi endogeni. In condizioni di dolore neuropatico o infiammatorio tale
modulazione discendente non lavorerebbe in senso antinocicettivo a causa
di uno sbilanciamento in senso nocicettivo delle cellule del RVM che esacerberebbero il dolore.52 Il campo del
placebo è oggi un settore attivo e produttivo nella ricerca e, a causa dei differenti meccanismi bio-psico-sociali
implicati è considerato il “melting
pot” dei concetti neuroscientifici.53
La teoria della neuromatrice:
il significato “centrale” del dolore
Tra la fine del Ventesimo e l’inizio del
Ventunesimo secolo, lo psicologo canadese Melzack, prendendo spunto
dalla propria teoria del cancello, propose un modello teorico più evoluto
e maggiormente complesso, la teoria
della neuromatrice,50,54-57 Questa teoria forniva una nuova cornice concettuale rispetto al dolore in generale e al
dolore cronico nello specifico. Quattro riflessioni fecero da necessaria
premessa: la percezione permanente
del dolore localizzato in una parte del
corpo che non c’è più, come nell’arto fantasma; l’assenza temporanea
di percezione del dolore di fronte a
obiettivi danni tissutali, come in certi
traumi durante una reazione del tipo
“flight or fight”; la presenza costante
di dolore percepito in tutto il corpo
accanto a sintomi neurovegetativi,
distress, alto arousal psicofisico e assenza di franche condizioni mediche
obiettivabili come accade nel dolore
idiopatico tipo la sindrome fibromialgica; la percezione del dolore cronico
localizzato propria delle neuropatie.
L’autore descriveva il dolore come
un’esperienza multidimensionale prodotta da un pattern di impulsi nervosi soggettivi, la “neurosignature”
appunto, generati dalla matrice del
Sé corporeo, una complessa rete neurale cerebrale ampiamente distribuita
e ricorsivamente collegata. Gli input
in questa matrice erano rappresentati
da tre dimensioni: i fenomeni collegati all’aspetto sensoriale-discriminativo (la trasduzione e la trasmissione
nocicettiva); i fenomeni riguardanti
l’aspetto affettivo-motivazionale (le
variabili emotive accanto a quelle limbiche, neuro-ormonali e immunitarie); gli aspetti cognitivo-valutativi (le
variabili toniche come quelle culturali,
educazionali, personologiche, accanto
alle variabili fasiche, come l’attenzione, l’aspettativa, l’ansia, l’umore).
Altre tre dimensioni rappresentavano gli output della neuromatrice: la
percezione del dolore (un percetto
integrato delle tre dimensioni appena
elencate dell’input, ovvero cognitivovalutativa, motivazionale-affettiva e
sensoriale-discriminativa); i programmi di azione (il comportamento involontario e volontario, le strategie di
coping e la comunicazione sociale), i
programmi omeostatici di regolazione
dello stress (tutte le reazioni neuroormonali, immunitarie e del sistema
oppioide endogeno). L’architettura di
questa rete neurale, sebbene abbia una
determinazione genetica, può modificarsi in funzione delle esperienze sensoriali.50 L’aspetto sensoriale-discriminativo del dolore sarebbe rappresentato dalle aree S1 e S2 della corteccia
somatosensoriale, il cosiddetto “sistema laterale del dolore” o “nodo somatosensoriale”. L’aspetto affettivo sarebbe di natura limbica, il cosiddetto
“sistema mediale del dolore” o “nodo
affettivo”. Le varie parti anatomiche
della neuromatrice, il talamo, la corteccia prefrontale e somatosensoriale,
il sistema limbico, il sistema discendente ACC/PAG/RVM sono collegati tramite dei loop. Funzionalmente,
tali loop lavorano sia in parallelo, per
processare le informazioni di ingresso, sia in convergenza, per permettere
una sintesi. La ripetizione di processi
ciclici e di sintesi degli impulsi nervosi attraverso la neuromatrice pone in
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essere la neurosignature. Continuamente emergente dalla matrice del
Sé-corporeo, la neurosignature proietta, in “modalità biforcata”, il proprio
pattern di impulsi, sia verso alcune
aree cerebrali, dette centri neurali senzienti, in cui diviene un continuo e
mutevole flusso di consapevolezza, sia
verso la neuromatrice stessa al fine di
attivare i neuroni spinali per elicitare
il movimento muscolare, l’azione. La
neurosignature è la percezione delle
differenti qualità sensoriali provenienti dal corpo in un’unica e soggettiva
unità-percetto. L’origine, lo sviluppo
e la formazione di essa è la neuromatrice del Sé-corporeo, non gli input
sensoriali per sé, i quali non la producono ma la stimolano. Questa teoria
era in netto contrasto con gli approcci
della specificità in cui si sosteneva un
rapporto uno-a-uno tra input nocicettivo periferico ed esperienza dolorosa
sulla base di un modello epistemologico causale-lineare. Concependo la
neuromatrice come una rete che “interpreta” su basi genetiche modulate
dal vissuto soggettivo, interposta tra
l’ambiente e la consapevolezza, si possono meglio comprendere fenomeni
come l’allodinia, l’iperalgesia, la sensitizzazione centrale e le neuroplasticità
encefaliche e spinali associate.
La teoria della matrice del dolore
Attualmente, c’è una tendenza a interpretare la neuromatrice come sostrato neurale necessario ma esclusivo
per la percezione del dolore, approdando così al concetto di matrice
del dolore.58-65 La questione riguarda
l’esclusività o meno di tali strutture
per il dolore sebbene per Melzack la
percezione del dolore rappresentasse
una delle proprietà emergenti dalla
35
neuromatrice stessa. In una review
di recente pubblicazione Iannetti e
Mouraux argomentano che così come
sono concepite oggi, le strutture coinvolte nella matrice del dolore non
sarebbero specifiche per la nocicezione.66 Sembrerebbe non esserci nessuna
specificità circa il percetto del dolore
qui, la “pain neurosignature” sarebbe
un aspetto del “body-self ”. La matrice
del dolore apparirebbe una deviazione dal concetto originale, un riaffioramento, in chiave contemporanea,
della teoria delle specificità. Inoltre,
gli autori avanzano l’ipotesi che la salienza di una qualsiasi informazione
sensoriale, cioè la capacità che l’input ha di competere col background
di informazioni in cui è inserito e di
imporsi, sarebbe in ultima istanza la
qualità determinate affinché uno stimolo provochi il percetto dolore.67 Le
caratteristiche della salienza sono la
novità, la non conoscenza, la mancanza di pregressa esperienza rispetto a un
input sensoriale. Le risposte cerebrali a
stimoli nocicettivi non proverrebbero
da attività cerebrali specifiche per la
nocicezione bensì da attività cerebrali
equamente coinvolte nel processo della salienza dell’input sensoriale nocicettivo e non nocicettivo. Parti delle
strutture cerebrali, proprie di questa
matrice neurale, sarebbero dedicate
alla salienza dell’input, a prescindere
dal fatto che l’informazione provenga dalle vie nocicettive o sia soltanto
percepita come dolore. Riabilitando l’utilizzo in senso originario della
body-self neuromatrix di Melzack, si
rimetterebbe in gioco la dimensione
psicologica, del rapporto stress-dolore e dei processi omeostatici, quella
dell’adattabilità al contesto ambientale e del significato attribuito dal
36
soggetto allo stimolo e al contesto.Disturbi da dolore idiopatico e sindromi
da sensitività centrale: la sensitizzazione centrale. Negli ultimi vent’anni, sia
nelle ricerca, sia nella clinica, è stato
sottolineato che diverse sindromi
croniche con dolore e disturbi funzionali abbiano in comune una serie
di manifestazioni sintomatologiche e
cliniche fondamentalmente raggruppabili in due ampie dimensioni: anormalità sensoriali associabili a disturbi
dell’equilibrio vegetativo-autonomico, dell’attività motoria viscerale, delle
funzioni neuroendocrine e del sonno
e anormalità affettive associabili alle
alterazioni dell’umore, all’aumento
dell’ansia, della paura, dell’angoscia,
delle somatizzazioni e di una minore
resilienza all’impatto ambientale così
come una maggiore inclinazione allo
stress.68 Nomenclature come disturbo
da dolore idiopatico69 così come somatizzazione, dolore psicosomatico,
funzionale,70 sindrome somatico funzionale,71 sindromi medicalmente non
spiegabili,72,73 postulano un continuum di condizioni mediche complesse
dove il dolore rappresenta la maggiore
lamentela clinica, la quale, però, appare sproporzionata a una obiettività medica. Il concetto di disturbo
da dolore idiopatico69 comprende in
tale dimensione condizioni come la
sindrome fibromialgica, la sindrome
temporo-mandibolare, le cefalee croniche, il ‘low back pain’, il dolore pelvico cronico, la cistite interstiziale, la
vestibulite vulvare, il tinnitus cronico
e la sindrome da colpo di frusta. Tale
approccio permette una lettura capace
di collegare le molteplici manifestazioni cliniche e sintomatiche di tali
sindromi, altrimenti descritte come
sintomi associati o comorbidità.68
Volume 20 Pathos Nro 3, 2013
Questi fenotipi clinici sono associati
a fenomeni come l’amplificazione del
dolore e il distress psicologico, i quali
sarebbero mediati dalla variabilità genetica individuale e dall’esposizione,
sia passata che presente, agli eventi
ambientali.69 Secondo Yunus tali categorie non chiarirebbero abbastanza
i meccanismi fisiopatologici sottesi,
così come le similitudini cliniche delle sindromi in esame e, proseguendo
l’analisi critica, avanza il paradigma
di “sindromi da sensitività centrale”
(CSS) proponendo la “sensitizzazione
centrale” (CS) come uno dei suoi meccanismi caratterizzanti.70-72 La sensitizzazione centrale, come processo di
apprendimento non-associativo in cui
ripetute somministrazioni di uno stimolo causano una progressiva amplificazione della risposta del SNC, darebbe ragione di fenomeni tipici come
l’allodinia, l’iperalgesia, l’incremento
del campo ricettivo e l’abbassamento
delle soglie del dolore e il prolungato
firing neuronale e la sensazione di dolore che permangono per molto tempo dopo un stimolo-insulto.73 L’autore comprende nelle sindromi da sensitività centrale la sindrome fibromialgica, la sindrome da fatica cronica, la
sindrome dell’intestino irritabile, le
cefalee tensive, l’emicrania, i disturbi
temporomandibolari, la sindrome del
dolore miofasciale, la sindrome delle
gambe senza riposo, la sensibilità chimica multipla, la dismenorrea primaria, la cistite interstiziale, il disturbo
post-traumatico da stress, sarebbero,
a vario livello, caratterizzate dalla presenza della CS. Cause e concause della
CSS sarebbero la co-occorrenza di alcuni polimorfismi genetici, una iperreattività del sistema ortosimpatico o
una ipoattività del parasimpatico, una
disfunzione nell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene con ipocortisolemia associata, fattori psicologici, stress, infezioni, infiammazioni, traumi, disturbi
del sonno e fattori ambientali percepiti intrusivamente.70
CONCLUSIONI:
IL FUTURO DEGLI STUDI
SUL DOLORE
Dal punto di vista dell’evoluzione
delle teorie sul dolore oggi le cose
sono molto diverse rispetto ai primi
approcci scientifici. Il SNC non è
più considerato un recipiente passivo
delle afferenze nocicettive provenienti
dalla periferia bensì un complesso network neurale che processa e modula le
informazioni.
Come è stato argomentato, le informazioni nocicettive non sono più
viste come la condizione necessaria
e sufficiente affinché si esperisca dolore, soprattutto nel dolore cronico.
Infine, non sembrerebbe esistere un
centro per il dolore cerebrale, piuttosto molteplici reti neuronali integrate
in una neuromatrice che, sinergicamente, producono l’esperienza del
dolore. Melzack39 sostiene che all’inizio del Ventunesimo secolo figurano
diverse ragioni per essere ottimisti
riguardo il futuro della ricerca e della
terapia del dolore. Anzitutto, l’utilizzo
sempre più evoluto delle tecniche di
neuroimaging confermerebbe sempre
più la presenza di un network neurale complesso e aspecifico come generatore di dolore caratterizzato da una
moltitudine di input e output. Queste
scoperte stanno inoltre indirizzando
la ricerca verso l’integrazione dei fenomeni neuro-endocrino-immunitari,
in quanto finalizzati alla difesa della
omeostasi dopo il distress associato a
traumi e patologie. In secondo luogo,
lo studio dei meccanismi modulatori
sovraspinali e spinali potrebbe ulteriormente integrare le strategie modulatorie top-down con le conoscenze
provenienti dal campo dell’evoluzione
filogenetica e ontogenetica cerebrale.
Infine, la conoscenza della genetica
dello sviluppo dell’encefalo sta rapidamente aumentando accanto alla crescente moltitudine di componenti del
DNA identificati e associati al dolore.
L’inevitabile convergenza di questi approcci verso ulteriori conoscenze circa
le funzionalità encefaliche, secondo
l’autore, guiderà auspicabilmente al
sollievo del dolore e della sofferenza
delle persone. Ormai è palese la necessità di un approccio multidisciplinare
e critico per il futuro degli studi sul
dolore. Sappiamo ancora molto poco
sul dolore cronico, il quale non sarebbe più un campanello di allarme o un
sintomo diretto, bensì un fenomeno
autoreferenziale, che si è emancipato
dalle concause sottostanti, divenendo
esso stesso una patologia.
Il concetto di “sofferenza”, a questo
punto, rappresenterebbe un aspetto
imprescindibile sia per la ricerca sia
per la clinica. Ricongiungendo la dimensione psicologica a quella sensoriale-nocicettiva, gli attuali paradigmi
del dolore conferiscono piena dignità
alla sofferenza e al vissuto soggettivo.
Si rende perciò necessaria l’implementazione nell’odierno paradigma del
dolore di diversi costrutti psicologici
capaci di analizzare il vissuto relazionale e affettivo, le emozioni e gli stili
di coping del paziente con dolore cronico. A riprova di ciò, la clinica del
dolore insegna che “l’abolizione della
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sola componente nocicettiva potrebbe non essere sufficiente a far dire al
paziente che non ha più dolore. Egli
continuerà a lamentarsi, e alla domanda riduttiva del curante, focalizzata
sulla scomparsa del sintomo dolore,
risponderà di esserne ancora affetto,
essendo fusi, nella mente del malato,
il concetto di dolore sintomo e dolore
malattia (sofferenza). Il dolore diviene
in questo caso una modalità comunicativa di richiesta d’affetto”.8
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