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Il padre è la memoria della propria origine. Perderlo significa anche

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Il padre è la memoria della propria origine. Perderlo significa anche
Il padre è la memoria della propria origine. Perderlo significa anche bloccare il cammino e il
senso del proprio destino.
di Angelo Scola, Arcivescovo di Milano
Quando io andavo a scuola, l’ora di lezione più attesa era quella di letteratura epica. La prof leggeva
Omero o Virgilio e i nostri occhi si riempivano di storie avvincenti, di battaglie furibonde,
combattute in spazi sconfinati di terra e di mare, di eroi forti e generosi, di amici leali e indivisibili,
di fanciulle bellissime per la cui conquista valeva la pena combattere e perfino morire.
Dopo più di cinquant’anni è ancora vivissima nella mia mente la scena struggente di Enea che si
allontana da Troia. La sua figura si staglia vigorosa sullo sfondo corrusco della città in fiamme: si è
caricato sulle spalle il vecchio padre Anchise e tiene per mano il figlioletto Julo. Lasciandosi dietro
le rovine di un mondo ormai finito egli può partire pieno di speranza verso il nuovo mondo, perché
ha con sé il tesoro più prezioso che gli permetterà di ricostruire là la sua patria (terra dei padri): i tre
anelli fondamentali della «catena delle generazioni».
Conoscere e apprezzare i valori trasmessi di generazione in generazione è la prima condizione per
farli fruttare. E qui utilizzo ben volentieri un chiaro rimando alla parabola evangelica dei talenti (i
«doni» ricevuti da Dio, che gli esseri umani sono chiamati a far fruttare per il bene personale e
comunitario) per descrivere il «lavoro» implicato in ogni relazione educativa, espressione di amore
autentico.
Oggi, però, in particolare nelle nostre società occidentali un po’ «impagliate», qualcosa si è
inceppato. La catena delle generazioni, che per secoli ha permesso la trasmissione (tradizione) di
uno stile di vita buona di padre in figlio, sembra essersi spezzata.
Certo, il ritmo ultrarapido con cui si trasforma il mondo in cui viviamo ci spiazza. Spesso è la stessa
figura del padre a essere in crisi. E, nell’attuale modello più «affettivo» che «normativo» di
famiglia, la figura vincente sembra essere quella della madre, che lavora e governa la casa.
Ma è possibile essere madri ed essere figli, se il padre è latitante o ha smarrito l’identità? In altri
termini: che cosa si perde, perdendo il padre? Perdere la memoria della propria origine significa
anche bloccare il cammino e il senso del proprio destino. Le tre parole evidenziate rimandano ai tre
elementi costitutivi del dinamismo dell’umana libertà: spiegarlo ci porterebbe però troppo lontano.
Troppo spesso, là dove dovrebbe esserci il quotidiano scambio di amore in cui il padre consegna al
figlio una visione della vita che il figlio sarà chiamato a verificare, facendola sua o rifiutandola,
troviamo invece l’incertezza e l’assenza.
Così il destino, la realizzazione compiuta di sé diventano irraggiungibili. Ecco perché oggi la
malattia della libertà e l’assenza della paternità vanno di pari passo. Se l’uomo non si concepisce
come un essere «ricevuto da» e «orientato verso», la sua libertà si smarrisce.
I ragazzi e i giovani ai quali, quando il loro disagio esplode in forme irrazionali e violente, i massmedia dedicano fiumi di parole tanto scandalizzate quanto impotenti, hanno bisogno di vivere
relazioni buone di paternità. In famiglia come a scuola, o negli spazi della convivenza sociale,
devono poter contare su adulti impegnati in prima persona con il vero, il bello e il bene, che
propongono.
«Maestro non è chi dice “fai così”, ma chi dice “fai con me così”»: a scriverlo non è solo don
Bosco, ma un ateo, Gilles Deleuze, uno dei più famosi pensatori del XX secolo. Ancora una volta la
luce è puntata sugli adulti: genitori ed educatori che, nel loro modo concreto di amare e di lavorare,
testimoniano ai figli la verità della vita. Un compito tanto affascinante quanto arduo.
(Da Il Messaggero di Sant’Antonio - Ottobre 2011)
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