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CAPITOLO III
LA SENTENZA DICHIARATIVA DI FALLIMENTO
ALLA LUCE DEL NOVELLATO ART. 1 L. FALL.
di ADELMO MANNA
SOMMARIO: 1. La sentenza dichiarativa di fallimento nella bancarotta post-fallimentare. 2. La sentenza
dichiarativa di fallimento nella bancarotta propria pre-fallimentare: la posizione della dottrina. 3. Segue:
La posizione della giurisprudenza. 4. Segue: La bancarotta propria ed, in parte, anche impropria come
reato di pericolo astratto ed il suo contrasto con il principio di uguaglianza-ragionevolezza a livello costituzionale. 5. Le residue ipotesi di bancarotta impropria societaria come reati causalmente orientati.
6. Le modifiche dell’art. 1 l. fall., riguardanti il soggetto attivo dei reati de quo e le modifiche «mediate»
della fattispecie penale: l’atteggiamento «ondivago» della giurisprudenza e la pronuncia definitiva delle
Sezioni Unite penali della Cassazione: rilievi critici. 7. Le prospettive di riforma in tema di reati di bancarotta: un modello unico, orientato al danno, oppure un modello «duplice», costituito, cioè, da una fattispecie di pericolo concreto – legata espressamente alla «zona di rischio penale» – e da una fattispecie di danno, caratterizzata dalla causazione del dissesto e, quindi, del fallimento?
1. La sentenza dichiarativa di fallimento nella bancarotta post-fallimentare
Come abbiamo già più volte in precedenza enunciato, la natura giuridica ed il
ruolo che giuoca la sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta costituisce da sempre uno dei nodi più problematici dell’intera materia dei reati
fallimentari, tanto è vero che vede su piani del tutto contrapposti la dottrina e
la giurisprudenza.
Su di un aspetto, tuttavia, l’accordo regna sovrano e, d’altro canto, cosı̀ non
poteva non essere, con riguardo alla c.d. bancarotta post-fallimentare.
In quest’ultimo caso, infatti, è del tutto evidente che, proprio a causa della
struttura del reato in oggetto, la sentenza dichiarativa di fallimento non può
non giuocare il ruolo di « presupposto » del reato, giacché le condotte criminose
sono commesse, per l’appunto, dopo l’avvenuta emissione, da parte del giudice
delegato, della sentenza dichiarativa medesima 1.
1
Cosı̀, ad esempio, in dottrina, per tutti, PEDRAZZI, Reati fallimentari, in PEDRAZZI-ALESSANDRI-FOFFANI-
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Il nodo gordiano, da sciogliere, riguarda invece, come specificato, la natura
giuridica della sentenza dichiarativa nella bancarotta pre-fallimentare.
2. La sentenza dichiarativa di fallimento nella bancarotta propria
pre-fallimentare: la posizione della dottrina
Iniziamo la disamina di questa questione con la posizione dottrinaria, perché,
come si potrà agevolmente constatare, risulta più lineare e, soprattutto, fondata
su di una condivisibile esegesi del dato normativo.
La maggior parte della dottrina più moderna ritiene, infatti, che la dichiarazione di fallimento nella bancarotta pre-fallimentare svolga il ruolo di condizione obiettiva di punibilità e, come già abbiamo potuto constatare, ci si divide solo
sul considerarla condizione di punibilità estrinseca od intrinseca.
Una posizione a sé stante è però quella del Giuliani-Balestrino 2, che invece la
qualifica come condizione di procedibilità, ma sulla base del generale assunto
per cui le condizioni di punibilità avrebbero natura e funzione processuali.
Tale assunto, tuttavia, non persuade, in particolare con riguardo ai reati di
bancarotta, in quanto, almeno a nostro avviso, impedisce di valutare sul piano
del diritto penale sostanziale la funzione dell’elemento in oggetto, e quindi, in
particolare, sulla struttura dei reati de quo.
Assodato, dunque, che la tesi preferibile è quella delle condizioni obiettive di
punibilità, cerchiamo di verificare attraverso quali argomenti di natura esegetica
sia possibile fornire un fondamento a detta impostazione.
Ciò avviene attraverso un’ipotesi di interpretazione sistematica, consistente
nel raffronto tra gli artt. 216 e 217 l. fall., da un lato, e 223 e 224 l. fall., dall’altro:
mentre, infatti, nella bancarotta fraudolenta e nella bancarotta semplice di natura propria il legislatore ha usato l’inciso « se è dichiarato fallito », con riferimento,
ben inteso, all’imprenditore, viceversa, nei fatti di bancarotta fraudolenta e nei
fatti di bancarotta semplice, ovverosia nella bancarotta impropria societaria, in
particolare nel 2o co., nn. 1 e 2 dell’art. 223, e nel n. 2 del 2o co. dell’art. 224, appare,
il ben diverso sintagma relativo al « cagionare, od aver concorso a cagionare », a
SEMINARA-SPAGNOLO, Manuale di diritto penale dell’impresa, II, Bologna, 1999, 1148, che afferma, per
l’appunto, «per comune consenso la dichiarazione di fallimento funziona come presupposto della bancarotta post fallimentare».
2 GIULIANI-BALESTRINO, La bancarotta e gli altri reati concorsuali, Milano, 1983, 3 ss.; per quanto
riguarda le tesi, ormai del tutto superate, sostenute dalla dottrina meno recente, cfr., ad esempio, CONTI,
Diritto penale commerciale, I reati fallimentari, II, Torino, 1991, 105 ss., cui comunque, per ulteriori
approfondimenti, anche si rinvia.
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seconda dei casi, o il dissesto della società, oppure, addirittura, il fallimento della medesima.
Orbene, non v’è chi non veda come nella bancarotta impropria societaria, ben
inteso limitatamente alle ipotesi qui in analisi, con l’utilizzazione del verbo « cagionare » il legislatore ha chiaramente fatto riferimento ad un rapporto di causalità, sia materiale, che psicologico, tra la condotta criminosa ed il fallimento, o, a
seconda dei casi, il dissesto della società, per cui a questo punto non può residuare alcun dubbio nel senso che il fallimento o il dissesto della società nella
bancarotta impropria societaria costituisce l’evento naturalistico del reato.
Nella bancarotta propria, al contrario, cioè nelle ipotesi di cui agli artt. 216 e
217 l. fall., l’inciso « se è dichiarato fallito » chiaramente non esprime la necessità
di un rapporto di causalità tra condotta criminosa e dichiarazione di fallimento,
ma, al contrario, considera chiaramente la sentenza in oggetto come il classico
« avvenimento futuro ed incerto », per voler utilizzare un termine di stampo civilistico, al verificarsi del quale scatta, pertanto, la punibilità dei reati in oggetto 3.
L’unica differenza che abbiamo già potuto constatare, è se detta condizione
obiettiva di punibilità abbai natura intrinseca od estrinseca ed in precedenza abbiamo chiaramente dimostrato di propendere per la prima delle suddette soluzioni, perché è quella che consente meglio di mettere in rapporto la condotta criminosa con l’offesa al bene giuridico e, quindi, è da preferire anche nell’ottica
di fondare i reati de quo, come reati di pericolo concreto, anziché come reati di
pericolo astratto.
Siamo ben consapevoli, peraltro, che recente ed autorevole dottrina sostenga
come le uniche condizioni di punibilità che posseggano la legittimità di definirsi
tali, siano quelle estrinseche, giacché quelle intrinseche si risolverebbero in realtà
in altrettanti eventi del reato 4.
Tale tesi, di cui non può non cogliersi il profondo afflato garantista, tuttavia
provoca problemi di assai ardua soluzione in particolare l’applicazione in relazione ai reati di bancarotta propria, non solo perché non è rintracciabile nel testo
della norma alcun riferimento ad un rapporto causale tra condotta e supposto
evento, a differenza di ciò che avviene negli artt. 223 e 224 l. fall., ma anche perché, laddove si preferisse l’unica tesi secondo questa teoria sostenibile, ovverosia
le condizioni obiettive di punibilità estrinseche, si rischierebbe, almeno a nostro
3 Cfr., per tutti, in tal senso, PEDRAZZI, Sub art. 216, in PEDRAZZI-SGUBBI , Reati commessi dal fallito –
Reati commessi da persone diverse dal fallito, in Commentario Scialoja-Branca, Legge fallimentare, a
cura di Galgano, artt. 216-227, Bologna-Roma, 1995, spec. 16 ss., con ivi ulteriori riferimenti bibliografici, cui pertanto, anche per ulteriori approfondimenti, si rinvia.
4 Cosı̀ MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Nozione, struttura e sistematica del reato, Milano, 1995, 296 ss.
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avviso, di non cogliere appieno il significato offensivo delle condotte criminose
proprio in rapporto alla dichiarazione di fallimento, che, in fondo, non rappresenta altro che la dichiarazione giudiziale dello stato di insolvenza e, cioè, del
massimo grado di offesa delle condotte in questione.
D’altro canto, è possibile recuperare, seppure in chiave di colpevolezza, un
certo margine « garantistico » anche con riferimento alle condizioni obiettive di
punibilità intrinseche, nel senso che, per rispettare anch’esse il principio di colpevolezza, cosı̀ come «scolpito » dalle ben note sentenze della Corte costituzionale, nn. 364 e 1085 entrambe del 1988, le stesse debbono essere imputate quanto
meno per colpa 5.
Tornando, quindi, ai reati di bancarotta proprio pre-fallimentare, l’aver individuato nella dichiarazione di fallimento una condizione di punibilità intrinseca
consente di introdurre un coefficiente di colpevolezza, nell’ottica di un’interpretazione « costituzionalmente orientata » delle norme in esame, nel senso che il
pubblico ministero dovrà dimostrare che il soggetto attivo del reato debba almeno essersi posto, al momento del fatto, il problema della prevedibilità e/o evitabilità della dichiarazione di fallimento medesima.
3. Segue: La posizione della giurisprudenza
Per quanto riguarda la posizione della giurisprudenza in ordine alla natura
giuridica della sentenza dichiarativa di fallimento nei reati di bancarotta propria
pre-fallimentare, dopo talune divergenze, la medesima giurisprudenza si è consolidata con la già menzionata sentenza delle Sezioni Unite penali del 15.1.1958, alla
quale si è conformata praticamente quasi tutta la giurisprudenza successiva 6.
Per quanto più in particolare riguarda la questione oggetto della presente
analisi, la Corte di Cassazione, come è noto, ha assunto una posizione nettamente diversa rispetto a quella sinora analizzata, della dottrina, in quanto ha ritenuto
che la sentenza in oggetto costituisca « un elemento al cui concorso è collegata
l’esistenza dei reati di bancarotta » e non, quindi, semplicemente una condizione
5
Cfr. in tal senso ANGIONI, Condizioni di punibilità e principio di colpevolezza, RIDPP, 1989, 733 ss.;
più di recente, sulle c.o.p., cfr. anche D’ASCOLA, Reato e pena nell’analisi delle condizioni obiettive di
punibilità, Napoli, 2004.
6 Cass., sez. I, 25.1.1958, ric. Mezzo ed altri, GP, 1958, II, 513 ss., con nota di SABATINI, Condizioni
di punibilità e reati ad evento condizionato. Per quanto riguarda la giurisprudenza successiva, cfr. in particolare, CONTI, op. cit., 118, nonché, ad esempio, MAZZACUVA, Introduzione, in Giurisprudenza sistematica di diritto penale, diretto da Bricola e Zagrebelsky, Diritto penale commerciale, 1, I reati nel fallimento e nelle altre procedure concorsuali (coordinato da Carletti), Torino, 1990, 6 ss.
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di punibilità. « Essa infatti attiene cosı̀ strettamente all’integrazione della fattispecie legale da qualificare come reati di bancarotta fatti penalmente irrilevanti
fuori del fallimento ».
In questo modo appare evidente, anche nel contesto della sentenza medesima
come la giurisprudenza in primo luogo rigetti la tesi, peraltro nemmeno sostenuta dalla gran parte della dottrina, per cui non deve richiedersi un nesso causale,
né da un punto di vista materiale, né psicologico, tra condotte criminose e dichiarazione di fallimento, ma mentre la dottrina con la tesi delle condizioni
obiettive di punibilità, in particolare se intrinseche, conduce ad una interpretazione dei reati in oggetto come di pericolo concreto, ben diverso è l’atteggiamento della giurisprudenza.
Quest’ultima, infatti, che, come abbiamo potuto in precedenza constatare, nega comunque alla dichiarazione di fallimento nei reati de quo la natura di evento
del reato, la qualifica però come elemento, in verità alquanto anomalo, a cui è
collegata « l’esistenza » dei reati di bancarotta, nel senso, in particolare, che la
sentenza dichiarativa serve a qualificare come reati di bancarotta fatti invece
ritenuti penalmente irrilevanti fuori del fallimento.
Ciò significa che, una volta verificatasi la dichiarazione di fallimento, è evidentemente consentito al giudice penale di effettuare un percorso a ritroso, addirittura sino a quando l’impresa era ancora in bonis, proprio perché la giurisprudenza medesima non accede alla tesi della c.d. « zona di rischio penale »,
per cui è giuoco-forza ritenere che in tal modo i reati di bancarotta assumono
la qualifica di reati di pericolo astratto e/o presunto.
In secondo luogo, la giurisprudenza utilizza la dichiarazione di fallimento, proprio come elemento del reato, anche al fine di assegnare ad essa un’ulteriore funzione, che peraltro era possibile far svolgere anche laddove la sentenza in oggetto
fosse stata qualificata come condizione obiettiva di punibilità, cioè a dire di collocarvi il momento consumativo del reato, e non invece, come altri ritengono, almeno allorquando si siano perfezionate le condotte criminose, cosı̀ da evitare che il
termine prescrizionale, già particolarmente lungo nei casi di bancarotta, ovviamente fraudolenta, venga anche posticipato rispetto alle condotte criminose, visto
che proprio la giurisprudenza qualifica i reati de quo come di pericolo astratto 7.
Il risultato che si ottiene è, però, almeno a nostro avviso, non condivisibile e ciò
per una pluralità di ragioni, che ora analizzeremo partitamente, seppure in sintesi.
Va in primo luogo osservato, che qualificare la dichiarazione di fallimento come elemento «di esistenza » del reato, appare una costruzione giuridica in effetti
alquanto anomala, perché non si riesce a comprendere quale ruolo, in effetti,
7
Cfr., in tal ultimo senso, CONTI, op. cit., 137.
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giuochi la sentenza dichiarativa di fallimento, proprio in quanto non è riscontrabile in alcun’altra fattispecie criminosa, né nella parte generale del diritto penale,
l’« elemento di esistenza del reato ».
Ciò, però, non significa non comprendere il senso recondito manifestato dalla
giurisprudenza, soprattutto laddove ritiene che prima della sentenza dichiarativa, i fatti di bancarotta devono ritenersi penalmente irrilevanti.
Ciò, almeno a nostro avviso, è influenzato dall’origine storica dei reati di bancarotta, ove in effetti, in passato, si tendeva a porre un rapporto di equivalenza
tra bancarotta e fallimento, nel senso cioè, come avveniva in epoca medioevale,
per cui al commerciante che risultava fallito veniva concretamente rotto il banco
su cui vendeva la merce, da cui, per l’appunto, il nomen iuris di bancarotta 8.
L’equivalenza tra fallimento e bancarotta è tuttavia da tempo rigettata, almeno nella misura in cui il fallimento non necessariamente può dar luogo a fattispecie criminose, tant’è che, ad esempio, nel diritto spagnolo, si usa distinguere
tra fallimento cagionato con dolo, con colpa, oppure determinato da caso fortuito, per cui soltanto i primi due, e non certo il terzo, possono dar luogo a fatti
penalmente rilevanti 9.
Il secondo rilievo critico che si può muovere all’atteggiamento della giurisprudenza è quello per cui, siccome ciò che in definitiva conta per dichiarare penalmente rilevanti, ex artt. 216 ss. l. fall., è la dichiarazione di fallimento, ciò
comporta inevitabilmente che il giudice penale possa andare veramente a ritroso, proprio perché in tal modo basta che egli intravveda nei fatti in concreto verificatisi le fattispecie astratte indicate nella legge fallimentare, perché egli possa
ritenerle sussistenti, indipendentemente dall’epoca in cui i relativi fatti in concreto
si siano verificati.
Ciò costituisce, per l’appunto, un ulteriore limite alla tesi in oggetto, perché,
andando a ritroso, si rischia anche di qualificare come reati fallimentari quei fatti
che sono stati commessi molto tempo prima rispetto alla dichiarazione di fallimento, quando, quindi, l’impresa era in bonis, per cui in tal modo si verifica il
fondato rischio che il giudice penale si sostituisca all’imprenditore nell’esercizio
della discrezionalità imprenditoriale.
Quanto sopra, si badi, emerge non solo e non tanto con riferimento alla bancarotta fraudolenta, quanto e, forse, soprattutto in rapporto alla bancarotta semplice, giacché in tale ultima ipotesi le « imprudenze » poste in essere dall’impren-
8 Per le notizie storiche sulla criminalizzazione del fallimento cfr., di recente, BARTOLO, Bancarotta e
infedeltà patrimoniale infragruppo – La distrazione seguita dal fallimento, Roma, 2009, 265 ss.
9 Per quanto riguarda il codice penale spagnolo ed i relativi reati di bancarotta cfr. BARTOLO, op. cit.,
312 ss.
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ditore e che qualificano nella sostanza il reato de quo, laddove siano state poste in
essere quando l’impresa era in bonis, addirittura ben difficilmente potranno di
per sé integrare fattispecie criminose, perché tutt’al più potranno costituire un
addebito di scarsa perizia a livello imprenditoriale, che tuttavia non può, da solo, certo costituire reato, né, per le ragioni sinora esposte, può legittimamente diventarlo laddove, magari a distanza di un notevole lasso di tempo, l’impresa è,
magari per tutt’altre ragioni, stata dichiarata fallita.
Queste, dunque, sono le ragioni di ordine ancora strettamente esegetico che
provocano il rigetto della tesi giurisprudenziale per cui i reati de quo sono di pericolo astratto e che fanno invece preferire l’opposta tesi dottrinaria.
4. Segue: La bancarotta propria ed, in parte, anche impropria come
reato di pericolo astratto ed il suo contrasto con il principio di uguaglianza-ragionevolezza a livello costituzionale
Oltre alle questioni di carattere strettamente esegetico relative alla opinio giurisprudenziale sinora esposte, residua, almeno a nostro avviso, anche un’importante
questione di legittimità costituzionale dei reati di bancarotta propria pre-fallimentare, laddove vengano intesi come reati di pericolo astratto e/o presunto.
Per affrontare adeguatamente la questione, crediamo che sia utile partire dalla opinione espressa dalla Corte costituzionale in una importante sentenza, seppur non recentissima, in tema di legittimità costituzionale, sotto il profilo del
reato di pericolo presunto, della legge sugli stupefacenti ed, in particolare, della
detenzione di un quantitativo di stupefacenti di tale rilievo da, per l’appunto, far
« presumere » che la detenzione medesima fosse funzionale non già all’uso proprio, bensı̀ a quello di terzi e, quindi, penalmente rilevante 10.
Orbene, la Corte costituzionale, come è noto, « sposa » una concezione « debole » del principio di offensività 11, nel senso che non arriva a dichiarare illegittimi
tout court i reati di pericolo astratto e/o presunto, ma sostanzialmente « riduce »
l’offensività al principio di uguaglianza-ragionevolezza 12, nel senso che, laddove
10 C. cost., n. 333/1991, GiC, 1991, 2646; su cui vedi, da ultimo, CADOPPI-CANESTRARI-VENEZIANI,
Codice penale – Commentato con dottrina e giurisprudenza, Piacenza, 2011, 340; in argomento, anche
FIANDACA, La nuova legge anti-droga tra sospetti di incostituzionalità e discrezionalità legislativa, FI,
1991, I, 2630 ss.
11 Su tale principio cfr., di recente, MANES, Il principio di offensività nel diritto penale, Torino, 2005;
nonché CATERINI, Reato impossibile e offensività. Un’indagine critica, Napoli, 2004.
12 Cfr., in argomento, in particolare, DI GIOVINE, Sul c.d. controllo di ragionevolezza nella giurisprudenza costituzionale in materia penale. A proposito del rifiuto totale di prestare il servizio militare,
RIDPP, 1995, 159 ss.
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sia possibile rintracciare una precisa ratio legis circa la scelta operata dal legislatore in favore del reato di pericolo astratto e/o presunto, quest’ultimo non può
dirsi costituzionalmente illegittimo, mentre deve concludersi in senso opposto,
laddove non sia, ovviamente, possibile rintracciare tale ratio legis.
Per illustrare meglio l’assunto in oggetto, crediamo sia necessario far riferimento a due esempi, l’uno attinente ad un diverso campo di materia e l’altro,
viceversa, riguardante proprio il settore dei reati fallimentari, ove potremo constatare, da un lato, sempre secondo i dettami della Corte costituzionale, la legittimità di pericolo astratto e/o presunto, mentre, dall’altro, si potrà constatare il
contrario.
Se infatti noi facciamo l’esempio dei reati ambientali, possiamo chiaramente
renderci conto in primo luogo come il reato di danno sia impraticabile in detto
settore, giacché la lesione del bene ambiente è per lo più il frutto di condotte cosı̀
dette « seriali », per cui diventa una vera e propria probatio diabolica stabilire un
nesso di causalità materiale tra la singola condotta inosservante e l’evento di
danno 13.
Ciò spiega, pertanto, perché i reati ambientali de iure condito siano per lo più
affidati al modello contravvenzionale ed alla struttura del reato di pericolo
astratto e/o presunto, mentre solo in chiave di riforma si prospetta l’utilizzazione
del modello delittuoso, con riguardo, però, al pericolo concreto e, solo a livello di
circostanza aggravante, con riguardo al danno 14.
Discorso diverso invece era stato effettuato in rapporto alla precedente formulazione dell’art. 223, 2o co., n. 1, l. fall., prima, cioè, della riforma del 2002,
ove la commissione di una serie di reati societari, che spesso non avevano nulla
a che vedere con la successiva dichiarazione di fallimento, subiva un notevole
aumento di pena per effetto, appunto, di quest’ultima, tanto è vero che la si definiva una sorta di « bancarotta presunta » e, soprattutto, se ne rilevavano i profili
di illegittimità costituzionale, in particolare per contrasto con i principi di personalità della responsabilità penale e di proporzione 15.
13 In argomento sia consentito il rinvio a MANNA, Le tecniche penalistiche di tutela dell’ambiente,
RTDPE, 1997, 665 ss.; più ampiamente in argomento, cfr. anche CATENACCI, La tutela penale dell’ambiente. Contributo all’analisi delle norme penali a struttura sanzionatoria, Padova, 1996; e, più di recente, anche PLANTAMURA, Diritto penale e tutela dell’ambiente, Bari, 2007; nonché SIRACUSA, Tutela ambientale: Unione Europea e diritto penale fra decisioni quadro e direttive, DPP, 2006, 773 ss.; nonché,
da ultimo, anche RUGA RIVA, Diritto penale dell’ambiente, Torino, 2011, spec. 13 ss.
14 Sia consentito di nuovo il rinvio a MANNA, Realtà e prospettive della tutela penale dell’ambiente in
Italia, RTDPE, 1998, 851 ss.
15 Per una sintesi dei rilievi critici sollevati in dottrina, cfr. CADOPPI, Riformulazione delle norme sui
reati fallimentari, in LANZI-CADOPPI (a cura di), I nuovi reati societari (commentario al Decreto Legislativo
11 aprile 2002, n. 61), Padova, 2002, 257 ss.
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Orbene, a nostro avviso, una questione di legittimità costituzionale in un
certo senso simile a quest’ultima può anche sollevarsi in rapporto alla interpretazione giurisprudenziale dei reati di bancarotta propria prefallimentare – ed
anche con riferimento a talune ipotesi di bancarotta impropria societaria prefallimentare, cioè quelle che rinviano sic simpliciter agli artt. 216 e 217 l. fall. – soprattutto laddove la giurisprudenza afferma che prima della dichiarazione di
fallimento i correlativi fatti di bancarotta non avrebbero penale rilevanza.
Ciò, in primo luogo, non appare fondato, giacché anche laddove l’impresa
risulti in bonis e l’imprenditore, ad esempio, distragga sistematicamente i beni
destinati ai creditori, non per questo il fatto è penalmente irrilevante, perché
in primo luogo soccorrono i tradizionali reati contro il patrimonio.
In secondo luogo, laddove l’impresa sia costituita in forma societaria, attualmente soccorre anche il reato di infedeltà patrimoniale – pur se di difficile applicazione pratica, perché, come è risaputo, è previsto a querela di parte e non, come sarebbe stato più corretto, di ufficio – e che ha proprio riguardo agli atti di
diposizione patrimoniale degli amministratori in conflitto di interesse con la
società, che abbiano cagionato un danno patrimoniale alla società medesima 16.
Ciò che, però, più rileva, a livello di legittimità costituzionale dell’interpretazione giurisprudenziale che qualifica i reati di bancarotta de quo agitur come reati
di pericolo presunto è che in tal modo si verifica un irragionevole aumento della
pena, rispetto alle ipotesi di reato astrattamente configurabili quando l’impresa è
in bonis, solo perché, magari a distanza notevole a livello temporale, si è verificata la dichiarazione di fallimento.
Tutto questo non può, evidentemente, non contrastare non solo con il principio
di eguaglianza-ragionevolezza, nel senso che si equiparano in modo del tutto irragionevole fattispecie fra loro profondamente diverse, sotto il comune usbergo
della dichiarazione di fallimento, ma anche e, conseguentemente, anche con il
già richiamato principio di proporzione tra pena e reato, che, come è noto, costituisce il residuo garantista dell’ormai superato concetto retributivo della pena.
Per queste ragioni, dunque, l’interpretazione assolutamente prevalente nella
giurisprudenza penale, non può essere accolta, anche se va rilevato, in primo
luogo, come, in alcune, se pur isolate, pronunce di merito, il tema della contestualità tra episodi distrattivi ed insolvenza è declinato espressamente alla luce
del criterio della cosı̀ detta « zona di rischio penale ».
Si richiede, infatti, « che la distrazione dei beni (nella specie, trasferimento
di beni di società, senza adeguato corrispettivo) avvenga mentre il debitore
16 Sia consentito, in argomento, il rinvio a MANNA, Abuso di ufficio e conflitto di interessi nel sistema
penale, Torino, 2004.
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I reati nelle procedure concorsuali
era insolvente o che tale distrazione abbia contribuito a provocare tale insolvenza » 17.
Accanto all’orientamento della giurisprudenza di legittimità assolutamente
prevalente si colloca, però, un altro gruppo, seppur minoritario, di pronunce
della Suprema Corte che invece riconoscono l’esigenza di delimitare la rilevanza
di fatti distrattivi all’interno di una situazione di rischio, che fa da humus offensivo alle condotte tipiche 18.
Da ultimo, va ricordata la questione relativa alla c.d. « bancarotta riparata »,
oggetto di una importante sentenza della Suprema Corte che ha cosı̀ statuito:
« Quando la condotta ha annullato ogni valenza pregiudizievole per l’interesse tutelato
prima della soglia cronologica costituita dall’apertura della procedura, attraverso la restituzione – al momento della apertura del concorso dei creditori – del patrimonio aziendale
nella sua integrità, viene meno la stessa oggettività giuridica della fattispecie, risultando
del tutto indifferente la pregressa condotta di gestione, poiché essa non riversa i suoi effetti dannosi in seno alla successiva vicenda concorsuale, non potendosi intravedere potenzialità di danno per i creditori, nemmeno in una prospettiva meramente astratta » 19.
Come si può, dunque, constatare, possono annoverarsi importanti aperture
giurisprudenziali, sia a livello di legittimità, che di merito, che dimostrano
non solo come l’interpretazione giurisprudenziale maggioritaria in chiave di pericolo astratto e/o presunto non sia poi cosı̀ « monolitica», ma anche che vi è,
quindi, spazio per una possibilità che l’indicata questione di legittimità costituzionale dell’interpretazione che qui si critica possa essere dichiarata non manifestamente infondata a livello di una parte almeno della giurisprudenza, oltre
che, beninteso, rilevante per i processi in corso.
Solo in tal modo, infatti, riteniamo possibile superare l’attuale iato tra dottrina
e giurisprudenza circa la struttura dei reati de quo, nell’attesa di una, allo stato
almeno non facilmente prevedibile, riforma dei reati fallimentari.
5. Le residue ipotesi di bancarotta impropria societaria come reati
causalmente orientati
Residuano le ipotesi di bancarotta impropria societaria, per ultimare l’esame
dei reati di bancarotta, previsti dagli artt. 223 e 224 l. fall.
17
Trib. Rimini, 2.11.1979, DF, 1980, 101 ss.
Cosı̀, ad esempio, Cass. 24.5.2006, Bevilacqua, CED, rv. 234606; cfr. in dottrina, in argomento,
ampiamente, PISANI, Attualità dell’offesa e ‘‘zona di rischio penale’’ nei reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale, in ID. (a cura di), Diritto penale fallimentare – Problemi attuali, Torino, 2010, 3 ss. e, quivi, 19 ss.
19 Cass., sez. V, 26.1.2006, RTDPE, 2006, 745 ss., con nota di ZAMPANO, Bancarotta ‘‘riparata’’ e
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La sentenza dichiarativa di fallimento alla luce del novellato art. 1 l. fall.
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In argomento va in primo luogo ricordato come la riforma dei reati societari
abbia già modificato, come si è accennato in precedenza, l’ipotesi di cui all’art. 223,
2o co., n. 1, l. fall., nel senso di trasformarla da ipotesi di reato di pericolo presunto in una ben differente ipotesi di reato di danno, cosı̀ equiparando, sotto
il profilo della struttura del reato, l’ipotesi in oggetto con quella successiva, anch’essa infatti orientata al danno, perché riguarda « l’aver cagionato con dolo o
per effetto di operazioni dolose il fallimento della società».
Sulla stessa falsa-riga si muove anche l’art. 224, 2o co., n. 2, in quanto trattasi
anche in questo caso di un reato di danno.
Il problema, tuttavia, che, almeno a nostro giudizio, suscita analoghi dubbi di legittimità costituzionale, sta nel fatto che sia nell’art. 223, al 1o co., che nell’art. 224,
2o co., n. 1, si continua a punire con la stessa di cornice edittale di pena, prevista per le differenti ipotesi di danno, le ipotesi interpretate dalla giurisprudenza
come di pericolo astratto o presunto, proprio perché sia l’art. 223 che il 224 l. fall.,
richiamano espressamente anche a livello di pena i precedenti artt. 216 e 217 l. fall.,
cosı̀ però provocando un’altrettanto irragionevole parificazione, quoad poenam,
di ipotesi criminose strutturalmente molto diverse tra loro, cioè a dire ipotesi di
pericolo astratto e/o presunto, oppure, secondo l’interpretazione più garantista,
di pericolo concreto, con ipotesi, viceversa, legate al danno.
Anche in quest’ultimo caso, pertanto, il contrasto con il principio di eguaglianza-ragionevolezza risulta manifesto, perché si verifica un trattamento giuridico uguale di situazioni diverse tra loro e ciò non può non comportare una
palese violazione del principio di uguaglianza formale, di cui all’art. 3, 1o co.,
Cost., almeno in base ad una giurisprudenza ormai consolidata della Corte costituzionale, che già a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, ha giustamente
ritenuto di sindacare anche sotto questo specifico profilo la discrezionalità del
legislatore nella posizione delle cornici edittali di pena 20.
principio di offensività; per analoghi approcci della giurisprudenza più garantista anche in tema di
art. 217 l. fall., nel senso della necessità di una interpretazione in chiavi di pericolo concreto, cfr. PERDONÒ, I reati fallimentari, in MANNA (a cura di), Corso di diritto penale dell’impresa, Padova, 2010, 342.
20 Sia consentito, sul punto, il rinvio a MANNA, Sull’illegittimità delle pene accessorie fisse. L’art.
2641 del codice civile, GiC, 1980, I, 910 ss., ed ivi gli Autori citati, cui si rinvia anche per eventuali approfondimenti sul tema; da ultimo, in giurisprudenza, sulle differenze tra la bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale e la bancarotta impropria, per cui è da escludere il concorso formale, mentre è
ben possibile il concorso materiale di reati, cfr. Cass., sez. V penale, ud., 17.2.2010 (dep. 11.5.2010),
n. 17978, Pagnotta, CP, 2011, 697 ss., con Osservazioni di LIVERANI, ibidem, 699 ss.
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I reati nelle procedure concorsuali
6. Le modifiche dell’art. 1 l. fall., riguardanti il soggetto attivo dei
reati de quo e le modifiche ßmediate della fattispecie penale: l’atteggiamento ßondivago della giurisprudenza e la pronuncia definitiva
delle Sezioni Unite penali della Cassazione: rilievi critici
La dichiarazione di fallimento ha anche subı̀to una pluralità di modifiche legislative, non con riferimento alla dichiarazione in sé, bensı̀ con riguardo alla
qualifica di « piccolo imprenditore ».
Quest’ultimo, infatti, ai sensi dell’originaria formulazione dell’art. 1 l. fall.,
non era assoggettato alle disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo
e sull’amministrazione controllata. Ai sensi di detta norma venivano infatti considerati piccoli imprenditori: « gli esercenti un’attività commerciale, i quali sono stati
riconosciuti, in sede di accertamento, ai fini dell’imposta di ricchezza mobile, titolari di
un reddito inferiore al minimo imponibile » oppure, in mancanza di detto requisito
« sono considerati piccoli imprenditori gli imprenditori esercenti un’attività commerciale
nella cui azienda risulta essere stato investito un capitale non superiore a £. 30.000 » 21.
La disposizione dell’art. 1 l. fall., differiva, però, palesemente dalla nozione di
piccolo imprenditore fornita dall’art. 2083 c.c., in base alla quale sono piccoli imprenditori: « i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro
che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio
e dei componenti della famiglia».
A causa di questa annosa querelle, il legislatore è stato costretto ad intervenire operando una poderosa riforma del diritto fallimentare, che ha avuto inizio
con il d.l. 35/2005 (c.d. decreto sulla competitività), convertito nella l. 80/2005 e
confluita nel d.lg. 5/2006, a sua volta modificato dal d.lg. 65/2007. In base al d.lg.
5/2006, si stabiliva: « Imprese soggette al fallimento ed al concordato preventivo:
sono soggetti alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo gli imprenditori
che esercitano un’attività commerciale esclusi gli enti pubblici ed i piccoli imprenditori.
Ai fini del primo comma, non sono piccoli imprenditori gli esercenti un’attività commerciale in forma individuale o collettiva che, anche alternativamente: a) hanno effettuato
investimenti nell’azienda per un capitale di valore superiore ad euro trecentomila; b) hanno realizzato, in qualunque modo risulti, ricavi lordi calcolati sulla media degli ultimi tre
anni o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore, per un ammontare complessivo annuo superiore ad euro duecentomila.
21 Aumentato con la l. 1375/1952 a 900.000 lire; per l’evoluzione storico-legislativa in detta materia, cfr., per tutti, MAZZACUVA-AMATI, Diritto penale dell’economia – Problemi e casi, Padova, 2010, 266
ss.; e, nella letteratura più specificamente fallimentaristica, ad esempio, FIALE, Diritto fallimentare, XVI,
Napoli, 2008, 25 ss.
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La sentenza dichiarativa di fallimento alla luce del novellato art. 1 l. fall.
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I limiti di cui alle lettere a) e b) del secondo comma possono essere aggiornati ogni tre
anni con il decreto del Ministro della Giustizia sulla base della media delle variazioni degli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai ed impiegati intervenute
nel periodo di riferimento ».
La norma in oggetto suscitava, tuttavia, non poche perplessità, perché non era
chiaro se, per aversi la figura del piccolo imprenditore, fosse necessario non superare alcuna delle due soglie, oppure fosse necessaria un’ulteriore valutazione
in positivo, atta a verificare l’effettiva sussistenza della figura su richiamata.
La giurisprudenza, infatti, si allineò su questa seconda interpretazione 22.
Proprio a causa di queste divergenze interpretative è intervenuto il d.lg.
65/2007 (c.d. decreto correttivo), che ha cosı̀ riformulato l’art. 1 l. fall.
La nuova formulazione prevede infatti che: « non sono soggetti alle disposizioni
sul fallimento e sul concordato preventivo » gli imprenditori che pur se in possesso
dei restanti requisiti richiesti ai fini dell’esercizio di un’attività commerciale, « dimostrino il possesso congiunto dei seguenti requisiti: a) avere avuto, nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata
inferiore, un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro
trecentomila; b) aver realizzato, in qualunque modo risulti, nei tre esercizi antecedenti la
data di deposito dell’istanza di fallimento o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore,
ricavi lordi per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila;
c) avere un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila ».
Le modifiche normative su richiamate hanno dato luogo a due importanti
questioni, l’una di carattere costituzionale e l’altra di carattere esegetico.
La prima riguarda due ordinanze di rimessione, praticamente analoghe,
emesse dalla sezione fallimentare del Tribunale di Napoli, in base alle quali
« non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 l.f. e successive modificazioni, nella parte in cui addossa al debitore
l’onere di provare di non essere assoggettabile al fallimento per contrasto con
gli articoli 3 e 76 della Costituzione 23 ».
Il principio di uguaglianza era visto nella particolare prospettiva della ragionevolezza in quanto si riteneva come non fosse affatto ragionevole che gravasse
sul debitore l’onere di provare la sua non assoggettabilità al fallimento.
Il richiamo all’art. 76, 1o co., Cost., era poi effettuato in quanto si riteneva la
disciplina in oggetto potenzialmente idonea a contraddire, nella sua concreta
22 Cfr. Trib. Firenze, 31.1.2007, secondo la quale: « la mancata sussistenza dei parametri quantitativi indicati nella nuova formulazione dell’art. 1 della l.f. non comporta automaticamente l’attribuzione
della qualifica di piccolo imprenditore. Tale nozione, invece, va determinata in base all’art. 2083 c.c. ».
23 Cfr. in particolare Trib. Napoli, sez. VII, 23.4.2008, n. 125, GM, 2009, 169 ss. con nota di P. FILIPPI, La prova del possesso dei requisiti per la definizione di imprenditore commerciale.
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I reati nelle procedure concorsuali
applicazione, la direttiva della l. delega concernente l’estensione del novero dei
soggetti esclusi dal fallimento.
La Corte costituzionale respinse, tuttavia, dette questioni, dichiarando inammissibile quella ex art. 3 Cost. ed infondata quella con riferimento all’art. 76
Cost. 24.
La questione, tuttavia, almeno a nostro avviso, era mal posta dal giudice remittente, perché, evidentemente, essendo giudice fallimentare e non penale,
ha inquadrato la questione in un’ottica diversa, non tenendo cioè nel dovuto
conto che la modifica dell’art. 1 l. fall. comportava importanti conseguenze in ordine al soggetto attivo dei reati di bancarotta e, quindi, soprattutto al correlativo
onere della prova.
Si tratta, infatti, almeno a nostro avviso, di porsi il problema se spetti alla pubblica accusa dimostrare la sussistenza dei requisiti di cui al novellato art. 1 l. fall.,
oppure, viceversa, spetti all’imputato dimostrare, ai sensi delle modifiche intervenute all’art. 1 l. fall. la sua non assoggettabilità al fallimento e, quindi, la sua
impossibilità a rivestire la qualifica di soggetto attivo dei reati di bancarotta.
La questione, quindi, da un punto di vista strettamente penalistico, non riguarda tanto le norme costituzionali richiamate, quanto, in particolare, un possibile vulnus all’art. 27, 2o co., Cost., in quanto, laddove si ritenga che spetti all’imputato provare la sua non assoggettabilità al fallimento, ciò integra un’inammissibile inversione dell’onus probandi e non già un semplice « onere di allegazione », giacché trattasi di un requisito attinente al soggetto attivo del reato che, come
tutti gli altri elementi del reato medesimo, spetta al p.m. di provare e non già all’imputato, non trattandosi nemmeno di una causa di giustificazione o, comunque,
di un’esimente bensı̀, lo si ribadisce, di un requisito del soggetto attivo del reato.
La questione, tuttavia, che più ha suscitato clamore in dottrina ed in giurisprudenza, riguarda la questione relativa alle c.d. « modifiche mediate » della
fattispecie penale, in quanto la modifica dell’art. 1 l. fall., riguardando, lo si ribadisce, i requisiti del soggetto attivo del reato di bancarotta, può legittimamente porsi a livello, per l’appunto, delle c.d. modifiche mediate della norma penale,
in relazione alle quali va verificato se possa o no, tutto ciò, integrare un’ipotesi di
abolitio criminis.
La giurisprudenza, segnatamente della sezione V penale, si era sostanzialmente divisa in due in quanto, con una prima sentenza, aveva valorizzato la di-
24 C. cost., sent. 1.7.2009, n. 198, FI, 2009, I, 2576 ss., con nota di M. FABIANI, Onere della prova e
struttura del processo per fallimento, ibidem, 2578 ss.; ed in GiC, 2009, I, 2295 ss.; in argomento, più
in generale, in dottrina, in relazione alle modifiche normative dell’art. 1 l. fall., cfr. anche CASCAVILLA,
All’imprenditore la prove dei tre presupposti, GDir, 2007, Dossier/9, 59 ss.
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La sentenza dichiarativa di fallimento alla luce del novellato art. 1 l. fall.
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sciplina transitoria di cui all’art. 250, d.lg. 5/2006, per cui aveva escluso che la
modifica innovativa apportata dal d.lg. in oggetto, fosse suscettibile di meccanica trasposizione nelle dinamiche delle leggi penali 25.
In senso contrario si era, invece, espressa una sentenza di poco successiva della stessa Sezione della Corte Suprema di Cassazione che, al contrario, pur ammettendo che il legislatore possa derogare alla disciplina prevista dall’art. 2 c.p.,
precisa che tale deroga deve essere espressa in maniera inequivoca, per cui,
non ricorrendo tale situazione in riferimento alla normativa transitoria introdotta
dal legislatore del 2006, conclude a favore dell’intervenuta abolitio criminis 26.
In questa situazione di conflitto, addirittura all’interno della medesima sezione della Corte Suprema di Cassazione è, come noto, obbligo del Primo Presidente della Corte Suprema, inviare la questione alle Sezioni Unite, ciò che, infatti,
puntualmente è avvenuto anche nel caso che qui ci occupa.
Le Sezioni Unite penali della Cassazione, con una ormai famosa sentenza, c.d.
Niccoli, dal nome del ricorrente, ha affermato il seguente principio di diritto: « il
giudice penale investito del giudizio relativo a reati di bancarotta ex artt. 216 ss. della l.f.
non può sindacare la sentenza dichiarativa di fallimento non solo quanto al presupposto
oggettivo dello stato di insolvenza dell’impresa ma anche quanto ai presupposti soggettivi
inerenti alle condizioni previste dall’art. 1 l. fall. Per la fallibilità dell’imprenditore, sicché
le modifiche apportate all’art. 1 l. fall., ad opera del decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5
e poi del decreto legislativo 12 settembre 2007 n. 169 non esercitano influenza ai sensi
dell’art. 2 c.p. sui procedimenti penali in corso » 27.
Le critiche in genere manifestate da una parte della dottrina penalistica in
rapporto alla sentenza delle Sezioni Unite colgono, a nostro avviso, nel segno,
in quanto l’oggetto del giudizio del supremo consesso è decisamente improprio,
giacché il problema non riguarda la sentenza dichiarativa di fallimento in quan-
25
Cass., sez. V, 20.3.2007, n. 19297, Celotti, CED, rv. 277025.
Cass., sez. V, 18.10.2007, n. 43076, Rizzo, CED, rv. 237547.
27 Cass. pen., sez. I, 28.2.2008, n. 16601, ric. Niccoli, DPP, 2009, 482 ss., con il commento di
SCARCELLA; e CP, 2008, 3592, con nota di AMBROSETTI, I riflessi penalistici derivanti dalla modifica della
nozione di piccolo imprenditore nella legge fallimentare al vaglio delle Sezioni Unite, ibidem, 3602 ss.;
dello stresso vedi anche, in senso altrettanto critico alla sentenza in esame, ID., La successione di leggi
penali nell’ipotesi di modifiche mediate della fattispecie: la discutibile adozione da parte delle Sezioni
Unite del c.d. criterio strutturale, in VINCIGUERRA e DASSANO (a cura di), Scritti in memoria di Giuliano Marini, Napoli, 2010, 17 ss.; FALCINELLI, voce Reati fallimentari, Dig. pen., Aggiornamento, *****, Torino,
2010, 717 ss.; D’ALESSANDRO, Le disposizioni penali della legge fallimentare, in CAVALLINI (diretto da),
Commentario alla legge fallimentare, Disposizioni penali e saggi conclusivi, Milano, 2010, 68 ss. e,
spec., 71-72 ss.; SANDRELLI, Riflessi penalistici della riforma del diritto fallimentare, in PISANI (a cura
di), op. cit., 49 ss.; nonché, da ultimo, anche PERDONÒ, op. cit., 362 ss., con ivi ulteriori riferimenti bibliografici cui, pertanto, per ulteriori riferimenti, anche si rinvia; nello stesso senso delle Sezioni Unite
confronta anche, successivamente, Cass., sez. V, 12.6.2009, n. 32178.
26
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I reati nelle procedure concorsuali
to tale, bensı̀ una questione di tipo ben diverso e cioè a dire il novero e le condizioni di coloro che possono essere assoggettati alla sentenza dichiarativa di
fallimento e che, quindi, possono diventare soggetti attivi dei reati di bancarotta.
In questa distinta e, a nostro giudizio, più corretta prospettiva, non si può
quindi fondatamente sostenere che le modiche « mediate » della fattispecie penale, proprio perché riguardano il soggetto attivo del reato, non esercitino influenza ai sensi dell’art. 2 c.p., giacché, al contrario, non pare dubbio come si sia di
fronte ad un’ipotesi di abolitio criminis parziale che non può, conseguentemente,
non esercitare la sua influenza sui procedimenti penali in corso, in quanto sarebbe sommamente ingiusto che venissero ancora puniti per reati di bancarotta coloro i quali, secondo le nuove normative, non possono più essere soggetti alla
dichiarazione di fallimento.
Ci sembra, quindi, di poter chiaramente concludere nel senso che la decisione
delle Sezioni Unite della Cassazione è stata, evidentemente, influenzata soprattutto da problemi di politica giudiziaria, non esclusi, eventualmente, anche quelli di tipo organizzativo, che hanno decisamente prevalso, almeno a nostro sommesso avviso, su di una corretta applicazione dell’art. 2, 2o co., c.p., visto che appare assolutamente indubitabile come le modifiche intervenute all’art. 1 l. fall.,
costituiscono norme « integrative » del precetto penale, proprio perché si riferiscono al soggetto attivo del reato, per cui non possono non valere come norme
penali in senso stretto, giusta anche qui la ben nota tendenza propria della giurisprudenza di legittimità e di merito, per cui, anche sotto questo gradato profilo, appare legittima l’applicazione dell’art. 2, 2o co., c.p.
7. Le prospettive di riforma in tema di reati di bancarotta: un modello unico, orientato al danno, oppure un modello ßduplice, costituito,
cioe', da una fattispecie di pericolo concreto -- legata espressamente
alla ßzona di rischio penale -- e da una fattispecie di danno, caratterizzata dalla causazione del dissesto e, quindi, del fallimento?
Restano da affrontare le prospettive di riforma dei reati fallimentari, in relazione alle quali va in primo luogo evidenziata una chiara anomalia nel sistema,
perché alla riforma del diritto fallimentare non si è accompagnata una riforma
dei reati fallimentari, se si eccettua quella di cui all’art. 223, 2o co., n. 1, l. fall.,
dovuta però alla riforma dei reati societari, del 2002, di cui, comunque, abbiamo
già, seppure per incidens, trattato.
In questa situazione dobbiamo quindi allo stato affrontare solo « prospettive
di riforma », iniziando da una problematica di non poco momento, ovverosia
quella dell’eventuale eliminazione della c.d. pregiudiziale fallimentare, ovvero-
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sia dell’elemento della dichiarazione di fallimento dalla struttura dei reati concorsuali 28.
La tesi trae spunto da due ordini di considerazioni: il primo, di tipo politicocriminale, secondo il quale la previsione esplicita dell’effetto condizionante della
dichiarazione di fallimento avrebbe finito per introdurre forme di discriminazione tra imprese piccole e medie – da un lato – e imprese di maggiori dimensioni,
dall’altro; infatti il progressivo affermarsi del principio di conservazione dell’impresa e di socializzazione dell’insolvenza a fini di salvaguardia dei livelli occupazionali, ha determinato l’espansione degli interventi pubblici a sostegno delle
grandi imprese in crisi, lasciando residuare spazi di intervento repressivo solo
per le piccole e medie aziende; il secondo argomento, invece, di natura teorica,
sottolinea l’inattualità del dogma della pregiudizialità della pronuncia del giudice fallimentare rispetto al processo penale, tenendo evidentemente anche conto
della almeno « apparente », abolizione della pregiudiziale tributaria 29.
A queste due argomentazioni, sicuramente d’indubbio rilievo, si può, però,
fondatamente replicare come, almeno a nostro avviso, sia necessario che l’accertamento dello stato di insolvenza sia operato da un giudice all’uopo destinato,
come, per l’appunto, il giudice delegato nella legge fallimentare, in quanto riteniamo che un accertamento cosı̀ delicato, non solo accrescerebbe notevolmente il
carico di lavoro del pubblico ministero ma, soprattutto, che quest’ultimo organo
non sembra possegga quelle attitudini e quelle cognizioni tecniche, tipiche invece
del giudice delegato.
Da ultimo, non va sottovalutato un importante profilo legato alla certezza dei
rapporti giuridici, che solo la sentenza dichiarativa di fallimento può fornire, anziché l’accertamento, caso per caso dello stato di insolvenza da parte del pubblico ministero, senza un provvedimento di natura formale.
Acclarato, dunque, come sia preferibile mantenere la sentenza dichiarativa di
fallimento nell’ambito dei reati di bancarotta, resta da stabilire la struttura da
riservare a questi ultimi reati.
In argomento si contendono il campo due diverse impostazioni: l’una, che
28 In tale prospettiva soprattutto STELLA, La crisi dell’impresa e l’intervento del giudice, Atti del convegno Cis (6-8 ottobre 1978), Como, 125 ss.; analogamente, già GHIARA, Equità e legalità negli orientamenti della giurisprudenza, Milano, 1970, 151 ss., nonché, più di recente, BUSETTO, Giudice penale e
sentenza dichiarativa di fallimento, Milano, 2000; più in generale sui progetti riforma dei reati fallimentari, sia consentito il rinvio anche a MANNA, Dalla riforma dei reati societari alla progettata riforma dei
reati fallimentari, RTDPE, 2003, 677 ss. e, quivi, 699 ss.; nonché, più di recente, PERDONÒ, op. cit.,
430 ss., e gli Autori ivi citati cui, per maggiori approfondimenti, pure si rinvia.
29 Sia consentito, per maggiori approfondimenti sul punto, di nuovo, il rinvio a MANNA, Prime osservazioni sulla nuova riforma del diritto penale tributario, RTDPE, 2000, 119 ss.
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I reati nelle procedure concorsuali
potremmo definire « monistica », in base alla quale i reati di bancarotta dovrebbe
essere costruiti tutti come reati di danno e l’altra, invece, che potremmo definire
di carattere « dualistico », ove si preferisce agire su due livelli, ovverosia prevedere sia una fattispecie causalmente orientata, sia, accanto a quest’ultima,
un’ipotesi di reato di pericolo concreto, legato però alla espressa previsione della
« zona di rischio penale », cioè a dire dello stato di insolvenza.
Le proposte del primo tipo risalgono in primo luogo al progetto di riforma del
codice penale, elaborato dalla Commissione presieduta dal Prof. Antonio Pagliaro
e pubblicato nel 1992, ove i reati fallimentari trovavano posto all’interno del codice penale, anche « al fine di assicurare la centralità del codice penale » medesimo 30.
In tale progetto assumeva una posizione senza dubbio centrale la bancarotta
fraudolenta patrimoniale, ex art. 117, 1o co., lett. a), descritta, per l’appunto, alla
stregua di un delitto di danno, imperniato sulla causazione o sull’aggravamento
del dissesto mentre la bancarotta semplice veniva, invece, trasformata in un’ipotesi contravvenzionale 31.
Sulla stessa falsa-riga si era anche posto il disegno di legge, di iniziativa governativa, a firma dell’allora Ministro di giustizia, On. Piero Fassino, presentato
in data 24.11.2000, n. 7458, recante « Delega al Governo per la riforma delle procedure
relative alle imprese in crisi » 32.
Anche in codesto disegno di legge governativo spiccava, infatti, la bancarotta
fraudolenta patrimoniale, consistente in condotte di ingiustificato depauperamento, reale o fittizio, del patrimonio, « che causino o aggravino lo stato di insolvenza »
[art. 3, 1o co., lett. a)].
La tesi monistica, sostenuta anche di recente in dottrina, persino a livello de
iure condito 33, provoca, tuttavia, almeno a nostro giudizio, non poche perplessità,
soprattutto a livello di tenuta general-preventiva del sistema, in quanto è ben noto che il rapporto di causalità materiale, soprattutto nei reati di azione, come
quello di cui trattasi, richiede una probabilità assai vicina alla certezza e viene,
soprattutto escluso dalla presenza di c.d. «fattori alternativi », che, in materia di
reati fallimentari non sono poi cosı̀ difficili da individuare 34.
Ecco dunque spiegata la ragione per cui appare preferibile utilizzare un mo-
30
Schema di delega legislativa per l’emanazione di un nuovo codice penale, con la Relazione,
DocG, 1992, n. 3, 305 ss.; nonché in IP, 1992, 579 ss.
31 In tale ultimo senso, in dottrina, anche CARMONA, La bancarotta semplice: prospettive di riforma,
in PISANI (a cura di), op. cit., 25 ss.
32 Cfr., per il relativo testo, JORIO (a cura di), Nuove regole per le crisi di impresa, Milano, 2001, 345 ss.
33 BARTOLO, op. cit., spec. 328 ss.
34 Nella manualistica, circa il rapporto di causalità nei reati di azione, sia consentito il rinvio a MANNA,
Corso di diritto penale, Parte generale, I, Padova, 2007, 179 ss. e gli Autori e la giurisprudenza ivi citata.
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dello dualistico, nel senso che, ad una fattispecie di bancarotta fraudolenta orientata al danno, e, ovviamente, punita con una pena più grave, si affiancherebbe
anche una fattispecie di pericolo concreto, ove, cioè, le condotte criminose vengano poste in essere laddove l’imprenditore versi in stato di insolvenza.
In tale secondo senso si era anche, infatti, orientata la proposta elaborata dalla
« Commissione Trevisanato », nonché la proposta di legge del 14.12.2000, n. 7497,
di iniziativa dei deputati Veltroni ed altri, contenente «Delega al Governo per la
riforma delle procedure della crisi d’impresa » 35 e, da un punto di vista comparatistico, era stata fatta propria sia nel Progetto « Eurodelitti », che anche, ad
esempio, per quanto riguarda i principali codici penali europei, nel codice penale tedesco, ai §§ 283-283 d ) 36.
Questo modello appare, infatti, decisamente da preferire, perché evita le cadute a livello general-preventivo del sistema, dovute all’utilizzazione esclusivamente di un reato di danno, che invece risultano adeguatamente controbilanciate
da una fattispecie di pericolo concreto, questa volta però espressamente collegata
alla «zona di rischio penale », in modo da evitare i « perenni » contrasti che sinora
si sono sviluppati tra dottrina e giurisprudenza.
Potrebbe, infine, risultare particolarmente utile in una riforma generale dei
reati fallimentari, sull’onda della già citata sentenza della Cassazione in materia
di « bancarotta riparata », introdurre una causa di estinzione del reato, laddove
l’imputato, prima del dibattimento in sede penale, risarcisca integralmente il danno procurato dal reato, perché in tal modo si fornirebbe un adeguato premio ad
un’attività c.d. di « controspinta », nel senso della reintegrazione del bene giuridico offeso 37, che consentirebbe anche di evitare, a quel punto, dibattimenti di
cui sarebbe quanto meno fortemente dubbia l’utilità.
35 Cfr. JORIO (a cura di), op. cit., 386 ss.; sulla proposta elaborata dalla « Commissione Trevisanato »,
cfr. diffusamente PERDONÒ, op. cit., 433 ss.
36 Per il codice penale tedesco cfr., ad esempio, BARTOLO, op. cit., 307 ss., che analizza anche il codice penale spagnolo e la disciplina francese, contenuta nel codice di commercio ed estesa, nel codice
penale francese, anche alla responsabilità penale degli enti, il che, francamente, lascia perplessi, almeno nella misura in cui, se la società è fallita, appare illogico irrogare ad essa sanzioni pecuniarie o, addirittura, interdittive, tanto è vero che da noi la responsabilità da reato degli enti non è infatti stata estesa
ai reati fallimentari; per gli «Eurodelitti» cfr., pure per gli opportuni riferimenti bibliografici, PERDONÒ, op.
cit., 442 ss.; da ultimo, sul disegno di legge delega, presentato al Consiglio dei Ministri, del 28.8.2008,
n. 5, che sostanzialmente ricalca gli esiti della Commissione Trevisanato, cfr. SCÒPESI, Il disegno di legge-delega di riforma delle disposizioni penali in materia di procedure concorsuali, in DF, 2009, I, 22 ss.
37 Sia consentito in argomento in generale il rinvio a MANNA, Beni della personalità e limiti della
protezione penale – Le alternative di tutela, Padova, 1989, spec. 651 ss., con ivi importanti riferimenti
anche alle esperienze straniere, in atto od anche soltanto in fieri, sul tema.
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