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Capitolo 10 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa

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Capitolo 10 La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa
Edizioni Simone - Vol. 33/4 Compendio di Storia contemporanea
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Capitolo 10 La prima guerra mondiale
Sommario1. L’Europa alla vigilia della guerra. - 2. Gli attori e le strategie. - 3. La
e la rivoluzione russa
posizione dell’Italia: dalla neutralità all’intervento. - 4. Le fasi del conflitto.
- 5. La conferenza di pace di Parigi. - 6. La rivoluzione russa.
1.L’Europa alla vigilia della guerra
L’evento che scatena la prima guerra mondiale è l’assassinio dell’arciduca Francesco
Ferdinando, erede al trono d’Austria, il 28 giugno 1914 a Sarajevo per mano di uno
studente serbo.
Allo scoppio del conflitto e alla sua successiva estensione su scala mondiale concorrono una serie di tensioni preesistenti, nonché errori tattici e di valutazione dei paesi
interessati. Innanzitutto, il giovane impero tedesco ha imboccato la strada di una rapida
industrializzazione, cosa che preoccupa molto l’Inghilterra, la quale teme una rottura
degli equilibri esistenti tra i paesi europei e la perdita della sua supremazia navale.
In secondo luogo, i francesi non hanno ancora digerito la sconfitta inflitta loro dalla
Germania nel 1870 (guerra franco-prussiana) e sono molti coloro che, alimentando il
revanscismo, chiedono la restituzione alla Francia dell’Alsazia e della Lorena. Infine,
i rapporti tra impero austro-ungarico e Russia sono molto tesi per i continui scontri dei
rispettivi interessi nei Balcani.
Questi i motivi principali, cui si aggiungono i sentimenti nazionalisti che animano gli
europei e che si acuiscono quando si tratta di popoli che aspirano all’indipendenza.
Le origini della prima guerra mondiale
L’individuazione del nesso che lega l’imperialismo al concreto scoppio della prima guerra
mondiale costituisce un problema particolarmente controverso e dibattuto dagli storici. Sia
che si voglia attribuire i due fenomeni alla “persistenza” del potere della vecchia aristocrazia
europea, secondo la già citata tesi di Arno Mayer (che si richiama a Schumpeter e al punto di
vista liberale), sia invece che li si consideri come espressione dello «stadio più avanzato del
capitalismo», come recita la celebre formula di Lenin, ciò che risulta comunque problematico
è stabilire un nesso meccanico e diretto tra imperialismo e grande guerra, sottraendosi così al
compito di tentare di comprendere «come mai quella specifica guerra scoppiò in quel particolare momento». Senza dubbio, le tradizionali spiegazioni della storiografia diplomatica che
si concentravano sull’esame della politica estera delle potenze considerandola come una sfera
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sostanzialmente autonoma dalla politica interna sono da considerare superate. Ma analogamente
le tesi opposte che, in base al presunto “primato” della politica interna, considerano la guerra
come la semplice “proiezione” delle tendenze politiche, economiche e sociali interne agli Stati
coinvolti, appaiono poco soddisfacenti.
Ad esempio, è vero che in Germania — come ha mostrato in modo convincente il già citato
studio di Eckart Kehr sulla costruzione della flotta — esistevano forti spinte ad una politica
espansionistica provenienti dai settori più moderni dell’industria. Inoltre, la “forma” stessa
assunta dalla politica estera tedesca era strettamente connessa alle modalità concrete in cui
la politica interna aveva definito una particolare combinazione tra settori moderni e arretrati
dell’economia, cosicché gli agrari «per ottenere i dazi sulle importazioni di grano, che significavano opposizione politico-economica alla Russia, furono pronti a sostenere la competizione
dell’industria con l’Inghilterra». Lo stesso Kehr (a differenza di molti dei suoi epigoni) era però
ben consapevole del fatto che la politica “incorpora” l’economia, ma non è tuttavia in alcun
modo riducibile ad essa e, in secondo luogo, che tra politica interna e sistema internazionale i
condizionamenti sono sempre reciproci.
Per queste ragioni, la nota tesi di Fritz Fischer, che spiega la guerra come il risultato di un
esplicito programma espansionistico elaborato dallo Stato maggiore tedesco in risposta alle
spinte provenienti dall’economia e dalla società di quel paese, pur cogliendo senza dubbio
importanti elementi di verità, appare tuttavia riduttiva della complessità del processo storico
che condusse al conflitto. Pur con i limiti dovuti ad una sottovalutazione del peso dei fattori
economici, risultano invece senz’altro più convincenti i tentativi compiuti da studiosi come
James Joll e Marc Trachtenberg di cogliere gli intricati nessi che legarono tra loro le tendenze
imperialistiche delle principali potenze e le complesse trasformazioni intervenute nel sistema
internazionale, rendendo ineluttabile un conflitto che nessuno aveva previsto sarebbe divenuto
uno degli eventi capitali della storia contemporanea.
Da questo punto di vista, appare sicuramente determinante il processo innescatosi una volta
venuta meno la capacità della Germania di conciliare l’alleanza con l’Austria e quella con la
Russia. La svolta imperialistica impressa alla politica tedesca da Guglielmo II, infatti, si accompagnò con una decisa scelta in favore dell’Impero asburgico, che ebbe come conseguenza
quella di avviare un inatteso dialogo franco-russo in cui le ragioni della strategia militare si
sposarono perfettamente con quelle dell’economia (essendo la Russia affamata di investimenti
industriali e la Francia ricca di capitali in cerca di destinazione). Il risultato fu la stipulazione,
tra il 1891 e il 1894, di un’inedita alleanza tra la laicissima Terza Repubblica e l’Impero “sacro”
degli Zar, che costrinse immediatamente lo Stato maggiore tedesco ad avviare l’elaborazione
di nuovi piani per una guerra su due fronti. Nacque così il celebre “piano Schlieffen”, secondo
cui la Germania, in caso di un serio rischio di guerra, avrebbe dovuto invadere fulmineamente
la Francia attraverso il Belgio e l’Olanda (che fu poi esclusa dalla nuova versione del piano)
mettendola fuori combattimento in breve tempo prima di dover affrontare l’attacco russo ad Est.
In questo modo, le nuove condizioni strategiche prodotte dall’accordo franco-russo avevano
determinato un automatismo tra lo stato di mobilitazione degli eserciti e l’attacco preventivo
tedesco: una vera e propria “trappola” che avrebbe considerevolmente ridotto i margini d’azione
della diplomazia e sarebbe inesorabilmente scattata nella crisi dell’estate 1914.
Contemporaneamente a questi sviluppi, la consapevolezza della crescente importanza dei
propri interessi imperiali, oltre che le sempre maggiori difficoltà a svolgere il ruolo di garante
dell’equilibrio europeo (o, se si vuole, di garantire un equilibrio vantaggioso per i propri interessi), indussero la Gran Bretagna ad abbandonare il tradizionale ruolo di arbitro super partes
del sistema delle relazioni internazionali. Nel 1904 gli inglesi stipularono così un’intesa con
il governo di Parigi (la cosiddetta Entente Cordiale) che, pur limitata a risolvere una serie di
pendenze coloniali tra i due paesi, in un contesto segnato dal contrasto tra Francia e Germania
sul Marocco e dal disappunto inglese per la nuova flotta del Kaiser assumeva un’oggettiva
valenza antitedesca (una valenza che fu poi decisamente rafforzata dall’accordo navale con
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cui nel 1912 i due paesi stabilirono una vera e propria divisione dei compiti tra le rispettive
flotte da guerra). All’accordo con la Francia ne fece seguito, nel 1907, uno analogo con la
Russia, che costituiva «una completa revisione della politica della Gran Bretagna nel Medio
Oriente e in India», in quanto presupponeva una valutazione della situazione mondiale del
tutto inedita dal punto di vista inglese: e cioè che oramai «la Germania rappresentasse un
pericolo maggiore della Russia». Ma l’intesa anglo-russa non costituiva una svolta solo per
la politica britannica. Quell’accordo forniva infatti all’Impero zarista un’importante garanzia
che consentì ai russi di svolgere una politica più aggressiva nei Balcani, il che a sua volta
ebbe una duplice conseguenza: aumentare le tensioni interne all’Impero austro-ungarico (che
proprio nei Balcani aveva le sue inquiete propaggini) e costringere la Germania a rafforzare la
Triplice Alleanza e in particolare i legami con l’Austria, una cui eventuale crisi era considerata
a Berlino potenzialmente assai pericolosa.
Le crescenti tensioni nei Balcani, determinate dall’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina
da parte dell’Austria-Ungheria del 1908, dalla guerra italo-turca e dalla seconda crisi marocchina del 1911 e poi dalle due guerre balcaniche del 1912 e 1913, si inserivano così in una
situazione pesantemente segnata da una serie di rivalità e di reciproci condizionamenti di natura
economica, politica e militare. A sua volta, come ha sottolineato David Stevenson in uno degli
studi più recenti ed accurati attualmente disponibili sulle origini della prima guerra mondiale,
questa rapida successione di crisi politico-militari diede luogo ad una nuova corsa al riarmo
(dopo quella, prevalentemente navale, dei primi anni del secolo). Tra il 1912 e il 1914, infatti,
i principali paesi europei realizzarono un forte incremento quantitativo dei propri eserciti di
terra, innescando un vero e proprio «circolo vizioso tra l’intensificarsi dei preparativi militari
e l’acutizzarsi dei conflitti politici». Quando nell’estate del 1914 l’uccisione a Sarajevo dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando da parte di un nazionalista serbo indusse l’Austria a
rivolgere alla Serbia un pesante ultimatum, quelle rivalità e quei condizionamenti, insieme al
momentaneo equilibrio tra la crescente potenza franco-russa e quella, relativamente calante,
austro-tedesca, determinarono la nota catena causale che trasformò ciò che a tutti sembrava un
ennesimo conflitto locale nell’abisso della prima guerra mondiale. La Russia mobilitò l’esercito
in appoggio alla Serbia prima ancora che scadesse l’ultimatum, la Serbia respinse l’ultimatum
austriaco, l’Austria dichiarò guerra alla Serbia, la Russia respinse l’invito tedesco a sospendere
la mobilitazione, la Germania dichiarò guerra alla Russia e, in ottemperanza al piano Schlieffen,
attaccò la Francia (che aveva già mobilitato) attraverso il Belgio; infine l’Inghilterra, in ciò
facilitata dalla violazione della neutralità del Belgio, dichiarò guerra alla Germania.
Quello stesso sistema internazionale che aveva sempre garantito la pace si trasformava dunque
in un diabolico meccanismo che, implacabilmente, rese il conflitto inevitabile. D’altronde, le
scene di tripudio che si verificarono nelle piazze delle capitali europee coinvolte nel conflitto
dimostrarono, se ce n’era bisogno, che la predisposizione alla guerra costituiva un prodotto
non secondario di quella nazionalizzazione delle masse che aveva contraddistinto l’età dell’imperialismo. Quella che iniziava si sarebbe però rivelata una guerra profondamente diversa da
ciò che gli europei si immaginavano. E imprimendo una brusca accelerazione alle tendenze
che avevano caratterizzato il periodo a cavallo tra i due secoli, essa avrebbe reso evidente che
quel delicato equilibrio interno e internazionale che aveva sorretto lo Stato-nazione europeo,
alimentandone la funzione di cellula fondamentale dell’organizzazione politica del vecchio
continente e di strumento dell’egemonia dell’Europa sul mondo, si era rotto per sempre.
(R.Gualtieri, Introduzione alla storia contemporanea.
L’Europa nel mondo del XX secolo, Carocci, 2005)
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2.Gli attori e le strategie
Dopo l’assassinio dell’erede al trono asburgico, l’Austria reagisce inviando un duro
ultimatum che la Serbia, forte del sostegno offertole dalla Russia, accetta solo in parte;
come conseguenza di tale atteggiamento, il 28 luglio 1914 l’Austria dichiara guerra
alla Serbia e immediatamente il governo russo ordina la mobilitazione generale delle
forze armate.
La Germania interpreta l’intervento russo come una minaccia e, in nome della Triplice
Alleanza stipulata nel 1882 con Austria e Italia, il 31 luglio invia alla Russia un ultimatum che viene seguito, il 1° agosto, dalla dichiarazione di guerra.
Nello stesso giorno, la Francia, legata alla Russia e all’Inghilterra nella cosiddetta
Triplice Intesa, mobilita le sue forze armate; subito dopo viene inviato un ulteriore
ultimatum da parte della Germania seguito dalla successiva dichiarazione di guerra (3
agosto). La tattica tedesca — «piano Schlieffen» — prevede di invadere la Francia
passando attraverso il Belgio, nonostante la sua neutralità sia sancita da un trattato
firmato anche dalla Germania, per poi dirigere il grosso delle truppe contro la Russia.
Il 5 agosto, dopo che la Germania ha invaso il Belgio, la Gran Bretagna scende in
campo contro gli imperi centrali.
Gli eserciti scesi in campo nella «grande guerra» non hanno precedenti per dimensioni, ma le strategie sono ancora legate alle esperienze del secolo passato e puntano, in particolare, all’ipotesi della guerra di movimento.
Guerra di posizione
La guerra di movimento prevede una manovra offensiva basata sullo spostamento rapido di un
gran numero di uomini in preparazione a pochi scontri campali che si rivelano risolutivi.
La guerra di posizione, invece, vede due schieramenti nemici fissi sulle loro posizioni. Protagonista
di questo tipo di combattimento è la trincea, la più semplice delle fortificazioni difensive: un fossato
scavato nel terreno. Più trincee sono collegate tra loro da «camminamenti».
Agli inizi dello scontro bellico, i tedeschi pensano di poter conquistare facilmente il
territorio francese, ma, una volta giunti lungo il corso della Marna, vengono bloccati
dalle truppe transalpine; diventa sempre più evidente che non si tratta di una guerra
breve, bensì di una guerra di logoramento: comincia la cosiddetta guerra di posizione.
A quel punto, la vera protagonista del conflitto diviene la trincea: la vita monotona ma
dura che vi si svolge è interrotta solo saltuariamente da grandi e sanguinose offensive,
prive di reali risultati. La guerra di trincea stanca i soldati, il cui stato d’animo di apatia e rassegnazione sfocia spesso in forme di insubordinazione e autolesionismo. Ad
esempio, molti giovani si procurano volontariamente ferite e mutilazioni per essere
dispensati dal servizio al fronte.
Sta di fatto che, in soli quattro mesi di combattimenti, la guerra di
logoramento provoca ben 4.000 morti, anche in virtù della migliore
efficienza dell’armamentario bellico rispetto al passato. Infatti, il primo conflitto mondiale si caratterizza pure per l’uso sistematico di nuovi ritrovati tecnologici: artiglieria
Nuove tecnologie
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pesante, fucili a ripetizione, mitragliatrici. Vengono utilizzate anche armi chimiche
(gas) lanciate nelle trincee, dove provocano orribili stragi. Inoltre, si sviluppano settori
innovativi come l’industria automobilistica, la radiofonia e l’aeronautica; quest’ultima,
però, non è sufficientemente avanzata, sicché il suo apporto ai combattimenti è minimo. Poco rilevante è anche il ricorso al carro armato, che, privo di cingoli, costituisce
ancora un mezzo rudimentale; al contrario, si rivela importantissimo il sottomarino,
impiegato soprattutto dai tedeschi.
3.La posizione dell’Italia: dalla neutralità all’intervento
Allo scoppio del conflitto l’Italia si dichiara neutrale, decisione presa dal presidente
del Consiglio Antonio Salandra e giustificata dal carattere difensivo della Triplice
Alleanza. Successivamente, le forze politiche e l’opinione pubblica si spaccano sulla
questione dell’intervento: gli interventisti auspicano l’entrata in guerra, i neutralisti
non vogliono che l’Italia partecipi al conflitto.
Nella schiera degli interventisti confluisce un gruppo di politici minoritari nel paese, ma
molto attivi sul piano della propaganda. Mossi da ideologie e obiettivi differenti, essi si
trovano uniti nel reclamare sulle piazze la partecipazione dell’Italia al conflitto e sono
appoggiati sia dalla monarchia, interessata ad affermare il proprio prestigio militare, sia
dagli industriali, che intendono sfruttare le possibilità affaristiche offerte dalla guerra.
Sono interventisti:
— gli irredentisti (Cesare Battisti, Nazario Sauro), i social-riformisti (Leonida Bissolati) e i radicali (Gaetano Salvemini). Tutti costoro, pur nelle differenti sfumature di sensibilità, si ispirano
a ideali democratici e concepiscono la guerra come l’ultima campagna risorgimentale contro
l’Austria per la liberazione di Trento e Trieste;
— i nazionalisti. Esaltano gli ideali imperialistici di «sacro egoismo» e di potenza, considerano
la guerra un bene in se stessa e ritengono che, partecipando al conflitto a fianco dell’Intesa,
l’Italia potrebbe diventare una grande nazione;
— Benito Mussolini, ovvero la più giovane e rumorosa recluta dell’interventismo. Dopo aver
condotto dalle colonne del giornale socialista «Avanti!», di cui è direttore, una rigorosa campagna per la neutralità assoluta, viene espulso dal PSI e fonda un nuovo quotidiano, «Il Popolo
d’Italia», attraverso cui predica le virtù generatrici e rivoluzionarie della guerra.
I neutralisti, a loro volta, rappresentano la maggioranza del paese. Sono formati soprattutto da contadini e operai, ben lieti di non rimanere vittime dei terribili massacri
di cui giunge notizia e per nulla interessati al riscatto di terre irredente di cui ignorano
finanche l’esistenza.
Sono neutralisti:
— i socialisti. Fedeli alla tradizione pacifista e antimilitarista del partito, dichiarano la loro ostilità
alla guerra, considerata un affare esclusivamente borghese e capitalistico;
— i cattolici. Non ancora organizzati in partito, si adeguano alle direttive del pontefice Benedetto
XV, che assume un atteggiamento decisamente pacifista;
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Capitolo 10
— Giolitti, infine, teme che la guerra possa avere effetti negativi sulla vita politica democratica
del paese ed è convinto che i territori occupati dall’Austria possano essere recuperati mediante
trattative diplomatiche.
Il movimento neutralista non riesce tuttavia ad imporsi come fronte unitario. Infatti, il
PSI risente della profonda crisi dell’internazionalismo socialista (acuita dal fatto che in
Germania, Inghilterra, Francia e Austria le istanze nazionalistiche si erano fatte largo
anche negli ambienti proletari), mentre il movimento cattolico italiano, a sua volta, non
avendo un preciso veicolo di rappresentanza politica, si richiama ai dettami del pontefice
e asseconda il pacifismo delle masse cattoliche, così da scivolare inevitabilmente verso
una forma di neutralismo sempre più possibilista.
Al contrario, il fronte interventista si mobilita per un’intensa propaganda popolare,
appoggiando apertamente l’Intesa e tentando di stabilire relazioni e seguire trattative
diplomatiche anche con l’Austria. In tal senso giocano un ruolo determinante sia i gruppi
nazionalisti, sia i maggiori esponenti del sindacalismo rivoluzionario e del socialismo
operaio estremista, e sebbene l’ala più consistente dello schieramento liberale sia orientata
verso una politica neutralista, i democratico-liberali antigiolittiani e conservatori, guidati
dal Presidente del Consiglio Salandra, sottolineano come una mancata partecipazione
dell’Italia al conflitto avrebbe potuto compromettere la posizione internazionale del
paese. In definitiva, è il connubio tra liberali antigiolittiani e nazionalisti a dare forza e
consistenza al movimento interventista, che gode, fin dal principio, dell’appoggio del re.
Alla fine, due eventi determinano l’entrata in guerra dell’Italia: le manifestazioni di
piazza del maggio 1915 (le «radiose giornate») e la volontà del re e del capo del Governo, che già da tempo hanno preso contatti con i paesi dell’Intesa. Il 26 aprile, con il
solo avallo del re e senza interpellare il parlamento, Salandra e il ministro degli esteri
Sonnino sottoscrivono, insieme con Francia, Inghilterra e Russia, il Patto di Londra,
nel quale si prevede che, in caso di vittoria, l’Italia ottenga il Trentino, il Sud Tirolo,
la Venezia-Giulia, la penisola istriana (esclusa la città di Fiume), parte della Dalmazia
e le isole adriatiche. La Camera, a maggioranza neutralista, si oppone, costringendo
Salandra alle dimissioni, ma il re le respinge, obbligando i parlamentari a concedere
pieni poteri al governo per evitare una crisi istituzionale.
Il 23 maggio 1915 l’Italia dichiara guerra all’Austria e le operazioni cominciano il
giorno seguente. Il comando dell’esercito viene affidato al generale Luigi Cadorna,
che si appresta ad affrontare le truppe austriache lungo il corso dell’Isonzo e sulle alture
del Carso. Cadorna sferra quattro attacchi — le prime quattro battaglie dell’Isonzo —
senza alcun successo e registrando un numero elevatissimo di perdite.
Nel giugno 1916 l’esercito austriaco passa al contrattacco, tentando di penetrare nella
pianura veneta passando dal Trentino. L’offensiva, nota come Strafexpedition («spedizione punitiva»), coglie gli italiani di sorpresa: è un duro colpo psicologico, che
costringe il presidente del Consiglio a rassegnare le dimissioni. Salandra viene sostituito da un ministero di coalizione nazionale presieduto da Paolo Boselli. Nel corso
del 1916 vengono poi combattute altre cinque battaglie dell’Isonzo, tutte sanguinose
ma senza alcun risultato.
La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa
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Il 1917 è l’anno più difficile della guerra; le truppe di Cadorna sono stanche e anche
la popolazione civile dà segni di malcontento. Il comando tedesco decide di rafforzare
l’esercito e attacca le truppe italiane sull’alto Isonzo, nei pressi del villaggio di Caporetto. La manovra ha successo e i soldati italiani sono costretti alla resa, lasciando in
mano al nemico un’enorme porzione di territorio e 30.000 prigionieri. Cadorna addossa
le colpe della disfatta ai suoi uomini, ma l’errore è stato del comando, sicché è sostituito
da Armando Diaz, mentre a capo del governo viene posto Vittorio Emanuele Orlando.
La sconfitta di Caporetto trasforma la guerra nella difesa del territorio nazionale, il che
contribuisce a rendere le truppe italiane più combattive. Nel giugno 1918, gli austriaci
tentano il colpo decisivo lungo il Piave, ma vengono respinti. Il 24 ottobre gli italiani
lanciano la loro offensiva e, anche grazie alla defezione delle truppe di nazionalità
non tedesca presenti nell’esercito austriaco, sconfiggono i nemici nella battaglia di
Vittorio Veneto e li costringono a firmare l’Armistizio di Villa Giusti, che entra in
vigore il 4 novembre.
Lettere dal fronte
In tutti gli eserciti l’arrivo della posta, per i soldati al fronte e per i prigionieri di guerra, era
un momento importantissimo, non meno del rancio. L’attesa di notizie da casa e il desiderio di
rassicurare i loro cari tenevano i combattenti attaccati alle emozioni e ai sentimenti della loro
vita normale, alla quale speravano di far ritorno. Scrivere (e leggere) lettere era un modo per
reagire allo stress della guerra.
Chi non sapeva leggere e scrivere si rivolgeva al cappellano militare (una persona importantissima per il soldato), oppure al sergente o al tenente, che erano i sottufficiali e gli ufficiali più vicini
ai fanti, quelli che li guidavano in battaglia e condividevano con loro i pericoli della prima linea.
C’erano norme severe, per la corrispondenza dal fronte: non si potevano mandare notizie riservate sulle operazioni militari, né manifestare opinioni che potessero indebolire il morale della
gente a casa. Insomma, non era possibile scrivere tutta la verità: la censura militare controllava
ogni lettera, ogni pacco in arrivo e in partenza. Tuttavia le lettere dei soldati dal fronte manifestano stanchezza, desiderio di tornare a casa, paura; ma le preoccupazioni principali sono la
famiglia e — per i moltissimi contadini — il raccolto. In generale, la guerra è vista come una
disgrazia da accettare con fatalismo.
Sono state pubblicate molte raccolte di lettere dei soldati italiani al fronte. Sono spesso sgrammaticate, ma danno un’immagine della guerra più «vera» di quella che appare nei resoconti
delle operazioni militari. Riportiamo un esempio fra i tanti.
«Mamma carissima, pochi minuti prima di andare all’assalto ti invio il mio pensiero affettuosissimo. Un fuoco infernale di artiglieria e di bombarde sconvolge nel momento che ti scrivo
tutto il terreno intorno a noi… Non avevo mai visto tanta rovina. È terribile, sembra che tutto
debba essere inghiottito da un’immensa fornace. Eppure, col tuo aiuto, coll’aiuto di Dio, da te
fervidamente pregato, il mio animo è sereno. Farò il mio dovere fino all’ultimo» (lettera scritta
da un ufficiale che, nello stesso giorno, morì sull’altopiano del Carso).
Le donne e la guerra
In tutti i paesi europei la mobilitazione degli eserciti allontanò milioni di lavoratori dalle fabbriche e dai campi. Ma la produzione industriale (come quella agricola) non poteva fermarsi;
anzi, era necessario che aumentasse rapidamente. Mentre nel lavoro agricolo le donne avevano
sempre avuto una presenza importante, proprio negli anni della guerra esse cominciarono a
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lavorare in gran numero anche nelle fabbriche. Dapprima esse furono impiegate soprattutto nelle
fabbriche di munizioni. Un volantino inglese afferma: «L’operaia di una fabbrica di munizioni
è importante quanto il soldato al fronte, del quale ha in mano la vita».
Ben presto le donne furono occupate anche in mestieri che tradizionalmente erano ritenuti
maschili, come condurre gli autobus o riparare impianti elettrici. Anche in campo militare
ebbero un ruolo importante e crescente. Non furono mai impiegate in battaglia, però ogni
esercito aveva reparti femminili che si occupavano delle comunicazioni, dei rifornimenti e,
soprattutto, dell’assistenza sanitaria. Le crocerossine, che furono chiamate la «grande armata
bianca», furono presenti da protagoniste in tutte le tragedie del fronte.
In qualunque ruolo fossero impegnate, le donne acquistarono rapidamente coscienza della loro
importanza e del loro valore. Durante e dopo la guerra, sempre più numerose, si impegnarono
a rivendicare gli stessi diritti politici, economici e sociali degli uomini.
(S. Paolucci - G. Signorini, L’ora di storia, vol. III Dal XIX secolo ai giorni nostri; pagg. 200, 203)
4.Le fasi del conflitto
Nel corso del primo anno di guerra, le truppe tedesche comandate
dal generale Hindenburg attaccano i russi fermandoli sul confine
prussiano e sconfiggendoli nelle battaglie di Tannenberg e dei laghi Masuri. L’offensiva russa costringe però il comando tedesco a richiamare truppe dal fronte occidentale. Sono comunque i tedeschi a ottenere qualche successo: prima contro i russi,
che devono abbandonare la Polonia, poi contro la Serbia, che viene attaccata, invasa
e conquistata (1915).
Nel corso del 1916 i russi recuperano parte dei territori persi l’anno precedente, il che
induce i rumeni a intervenire nel conflitto a fianco dell’Intesa, ma la Romania subisce
la stessa sorte della Serbia.
Nel 1917 la situazione cambia. La rivoluzione bolscevica in Russia porta alla disgregazione dell’esercito e spinge il governo rivoluzionario di Lenin a chiedere una pace
«senza annessioni e senza indennità». La Pace di Brest-Litovsk, stipulata il 3 marzo
1918, comporta per la Russia gravi perdite territoriali tra la Finlandia e l’Ucraina, ma
Lenin riesce a salvare il nuovo Stato socialista.
Il fronte orientale
Nell’estate del 1914 i tedeschi invadono la Francia passando
attraverso il Belgio e si attestano lungo il corso della Marna, a
pochi chilometri da Parigi. Le truppe francesi comandate dal generale Joffre riescono
però a respingerli e a farli arretrare lungo i fiumi Aisne e Somme.
Gli eserciti contrapposti restano pressoché immobili per tutto il corso del 1915. All’inizio
del 1916 i tedeschi cercano di attaccare la piazzaforte di Verdun; l’attacco dura quattro
mesi e si risolve in una carneficina che non giova a nessuno dei due schieramenti, i
quali, nei primi mesi del 1918, sono ancora in una situazione di equilibrio. A marzo
i tedeschi entrano a Saint Quentin e ad Arras e nel mese di giugno sono nuovamente
Il fronte occidentale
La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa
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sulla Marna. L’Inghilterra invia truppe in aiuto degli alleati francesi, che in agosto, ad
Amiens, infliggono ai tedeschi l’unica vera sconfitta da essi subìta sul fronte occidentale.
È allora che l’alto comando germanico capisce di aver perso la guerra.
Nel maggio del 1915 un sottomarino tedesco affonda il transatL’intervento americano
lantico inglese Lusitania con a bordo 1.000 passeggeri, tra cui
140 americani, inducendo gli USA a protestare tanto energicamente da convincere la
Germania a sospendere la guerra sottomarina indiscriminata. Nel 1917, però, quando i
sommergibili tedeschi riprendono i loro attacchi, gli USA decidono di entrare in guerra
e, pur non disponendo di un esercito pari a quello degli alleati, il loro apporto si rivela
comunque decisivo per le sorti del conflitto in virtù del grosso aiuto economico che
sono in grado di offrire.
Dopo la «rivoluzione di ottobre» in Russia, gli Stati dell’Intesa acuiscono il carattere
ideologico della guerra, la quale assume i toni di una difesa della libertà dei popoli
contro i disegni egemonici degli imperi centrali. Fautore di tale interpretazione è il
presidente statunitense Woodrow Wilson, il quale dichiara che «ristabilire la libertà,
difendere i diritti delle nazioni e instaurare un ordine internazionale basato sulla pace e
sull’accordo fra popoli liberi» è il solo obiettivo del suo paese. Nel 1918 Wilson precisa
la sua politica in un programma di pace redatto in 14 punti, in cui propone l’istituzione
di un organismo internazionale, con lo scopo di assicurare il nuovo assetto che auspica
per l’Europa: la Società delle Nazioni.
I 14 punti di Wilson
1) Abolizione della diplomazia segreta.
2) Libertà di navigazione.
3) Riduzione delle barriere doganali.
4) Riduzione degli armamenti.
5) Reintegrazioni coloniali rispettose dei popoli soggetti.
6) Evacuazione dei territori russi occupati.
7) Reintegrazione del Belgio.
8) Restituzione dell’Alsazia e della Lorena alla Francia.
9) Rettifica dei confini italiani.
10) Sviluppo autonomo per i popoli soggetti all’impero austro-ungarico.
11) Rettifica dei confini nei Balcani.­­
12) Sviluppo autonomo per i popoli soggetti all’impero turco.
13) Costituzione dello Stato polacco.
14) Creazione della Società delle Nazioni.
5.La conferenza di pace di Parigi
Nella tabella che segue compare il riepilogo di tutti i paesi che parteciparono alla prima
guerra mondiale, con relativa indicazione delle rispettive date di entrata in guerra.
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Capitolo 10
I due schieramenti
Imperi centrali e loro alleati
Austria-Ungheria
Germania
Turchia
Bulgaria
(luglio 1914)
(agosto 1914)
(novembre 1914)
(settembre 1915)
Potenze dell’Intesa e loro alleati
Serbia
Russia
Gran Bretagna e
impero coloniale
Francia
Belgio
Giappone
Italia
Portogallo
Romania
Grecia
USA
Cina
Brasile
(luglio 1914)
(luglio 1914)
(agosto 1914)
(agosto 1914)
(agosto 1914,
con successiva
resistenza agli
invasori tedeschi)
(agosto 1914)
(maggio 1915)
(marzo 1916)
(agosto 1916)
(giugno 1917)
(aprile 1917)
(aprile 1917)
(aprile 1917)
Alla conclusione del conflitto, Parigi è la città scelta dai vincitori per la messa a punto
dei trattati di pace, che sono cinque:
— Trattato di Versailles con la Germania (28 giugno 1919);
— Trattato di Saint-Germain-en-Laye con l’Austria (10 settembre 1919);
— Trattato di Neuilly con la Bulgaria (27 settembre 1919);
— Trattato di Trianon con l’Ungheria (4 giugno 1920);
— Trattato di Sèvres con la Turchia (10 agosto 1920).
Alla Germania, considerata unica responsabile del conflitto, viene imposta una pace
punitiva e con condizioni durissime. Innanzitutto, deve rinunciare a circa 1/8 dei suoi
territori e a tutte le colonie, subendo pesanti sanzioni sia economiche, per riparare ai
danni provocati, sia militari, abolendo il servizio di leva, rinunciando alla marina e
lasciando smilitarizzata la valle del Reno. Le condizioni imposte alla Germania, sebbene
umilianti, sono considerate l’unico modo per impedirle di riprendere la posizione di
grande potenza che tanto spaventa gli Stati vicini.
Dalla dissoluzione dell’impero asburgico nascono nuovi Stati, tra cui la Cecoslovacchia
e la Iugoslavia. I rapporti con la Russia rappresentano un problema delicato: il Trattato
di Brest-Litovsk viene annullato, ma le potenze occidentali si rifiutano di riconoscere
lo Stato socialista e riconoscono, invece, le nuove repubbliche nate nei territori perduti
dalla Russia: Finlandia, Estonia, Lettonia e Lituania formano, così, una corona di Staticuscinetto ostili all’URSS.
Per assicurare il rispetto dei trattati viene istituita, il 28 aprile 1919, la Società delle
Nazioni (con sede a Ginevra), che richiede ai suoi membri di rinunciare alla guerra
come mezzo per risolvere i contrasti, ma il nuovo organismo nasce minato da profonde
contraddizioni, prima fra tutte la mancata adesione degli USA.
La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa
 145
Infine, va rimarcato che a Versailles le aspirazioni dell’Italia non sono certo soddisfatte,
anche perché Wilson si oppone alle rivendicazioni sulla Dalmazia e su Fiume. I delegati
italiani, per protesta, abbandonano la conferenza per alcuni giorni, mentre in patria
riprendono con forza le divergenze tra interventisti e neutralisti: i primi, nazionalisti,
fautori di ideologie imperialistiche, esigono tutti i territori promessi dal Patto di Londra
e sono sostenuti dalla stampa demagogica che parla di «vittoria mutilata»; i secondi,
moderati, richiedono l’unificazione dell’Italia entro i confini etnici nel rispetto dei diritti
di nazionalità dei popoli confinanti.
6.La rivoluzione russa
Le sconfitte e le gravissime perdite militari e civili subite dalla Russia
La «rivoluzione
nei primi anni della «grande guerra» comportano ben presto l’arruodi febbraio»
lamento di nuove reclute, così da sottrarre uomini e mezzi alle attività
produttive, fino a causare un ulteriore e generalizzato peggioramento del tenore di
vita della popolazione. Pertanto, iniziano a moltiplicarsi le manifestazioni di protesta,
fino ad arrivare allo sciopero generale di Pietrogrado del 10 marzo 191 7 (25 febbraio
secondo il calendario giuliano ancora in uso in Russia), quando la rivolta degli operai
e dei soldati provoca la caduta dello zar e la formazione di un governo provvisorio,
presieduto dal principe L’vov, con a capo i liberal-moderati.
Nel maggio successivo (aprile per il calendario russo), quasi in concomitanza con la
formazione di un secondo governo provvisorio presieduto dal socialista rivoluzionario
Kerenskij e comprendente tutti gli schieramenti partitici (cadetti, menscevichi e socialrivoluzionari) tranne i bolscevichi, fa il suo ritorno in patria, dopo un lungo esilio
in Svizzera, anche Lenin, al secolo Vladimir Il’ič Ul’janov.
La distinzione tra menscevichi e bolscevichi risale al secondo congresso del Partito socialdemocratico russo, tenutosi all’estero nel 1903.
I menscevichi ne costituiscono la corrente moderata e di «minoranza», sostengono un programma politico orientato a tentare la strada delle riforme politiche e sociali mediante l’alleanza con la
borghesia, per permettere al partito di essere riconosciuto legalmente.
I bolscevichi rappresentano la corrente estremista e di «maggioranza» del Partito socialdemocratico russo secondo la quale il programma riformista dei menscevichi non si può attuare in un paese
arretrato come la Russia, quasi del tutto privo di una borghesia liberale, sicché ritiene necessaria
una rivoluzione violenta capace di realizzare la dittatura del proletariato.
Figura affascinante e complessa della storia della rivoluzione russa, oltre che vero
Lenin
promotore e massimo leader della corrente bolscevica, Lenin persegue, per tutta
la sua vita, un unico scopo: abbattere l’antico regime zarista, «liquidare» la borghesia e
imporre la dittatura del proletariato. Dopo aver frequentato, da giovane, i populisti e i
circoli operai e socialisti di San Pietroburgo, dove viene a contatto con il pensiero marxista,
rompe con le posizioni dei populisti e resta legato alla dottrina marxista, adattandola alla
nuova epoca storica da lui definita «epoca dell’imperialismo e delle rivoluzioni proletarie».
146

Capitolo 10
È appunto su queste basi che, rientrato in Russia dopo l’esilio ginevrino, espone le
sue tesi sui Compiti del proletariato nella rivoluzione attuale, passate alla storia come
Tesi di aprile, nelle quali, contrariamente alle aspettative di tutti, comprese quelle della
maggioranza bolscevica, lancia le seguenti parole d’ordine: «no al governo provvisorio»,
«abbasso la guerra», «tutto il potere ai soviet».
In sintesi, si può dire che, per un paese che oramai aspira alla pace, Lenin chiede la cessazione
delle ostilità su tutti i fronti allo scopo di salvare la rivoluzione sostenendo che si debba premere
per il passaggio dalla fase rivoluzionaria democratico-borghese a quella in cui sia la produzione
che la distribuzione delle ricchezze arrivino ad essere controllate dai soviet, i quali, eletti direttamente dagli operai e dai soldati, si sono intanto affiancati al governo centrale, diffondendosi
in tutta la Russia.
Nel luglio 1917, dopo una fallita insurrezione contro il governo
provvisorio, il capo della corrente bolscevica è costretto a fuggire,
ma questo è l’ultimo successo del governo moderato di Kerenskij.
A settembre il comandante dell’esercito, Kornilov, lancia un ultimatum al governo
chiedendo il passaggio dei poteri, ma l’esecutivo reagisce chiedendo l’aiuto dei socialisti, i quali incitano le truppe di Kornilov alla rivolta. I bolscevichi si rafforzano
e conquistano la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e Mosca. Lenin organizza un
colpo di Stato che ha luogo il 7 novembre (25 ottobre secondo il calendario russo).
Kerenskij è costretto a fuggire, mentre i soviet assumono tutti i poteri e formano un
Consiglio dei commissari del popolo presieduto da Lenin: il primo atto del Consiglio
è la Pace di Brest-Litovsk, cui seguono la nazionalizzazione delle terre, il controllo
operaio delle fabbriche e la nazionalizzazione delle banche. Alle elezioni per l’assemblea costituente i bolscevichi subiscono una grave sconfitta e Lenin, che non vuole
perdere il potere da poco raggiunto, la scioglie definitivamente, instaurando di fatto
un regime dittatoriale.
La «rivoluzione
di ottobre»
Già alla fine del 1917 le forze antibolsceviche si sono organizzate in
«armate bianche» e preparano una controrivoluzione, appoggiate
dalle potenze dell’Intesa che considerano la Pace di Brest-Litovsk come un tradimento.
In alcune zone del paese i «bianchi» riportano diverse vittorie, il che spinge il soviet di
Ekaterinburg (luogo di prigionia dei reali) a ordinare l’uccisione dello zar e di tutta
la sua famiglia. Il governo rivoluzionario reagisce intensificando la repressione: nel
1918 i partiti di opposizione vengono messi fuori legge e si riorganizza l’esercito,
che prende il nome di Armata Rossa. Nel 1920 le armate bianche vengono sconfitte.
Per affrontare la guerra civile il governo bolscevico attua una politica economica energica e autoritaria, nel tentativo di esercitare un più stretto controllo sulle scarse risorse
a disposizione. Le misure intraprese, designate da Lenin con il termine «comunismo
di guerra», comportano la nazionalizzazione delle industrie, la soppressione del commercio privato (che viene sostituito dalla distribuzione pubblica di generi alimentari) e
l’invio di operai nelle campagne per la requisizione di viveri da destinare all’esercito.
La guerra civile
La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa
 147
Quest’ultima disposizione non è accettata dalla popolazione rurale, che risponde con
una serie di insurrezioni.
Sta di fatto che la Russia esce dalla sanguinosa guerra civile (che seguiva ai
La NEP
travagli della prima guerra mondiale) economicamente e socialmente estenuata.
Ciò induce Lenin ad abbandonare poi il «comunismo di guerra» per adottare, nel 1921,
una Nuova politica economica (NEP) che comporta la ricostituzione della proprietà
privata, nonché l’adozione del principio del rendimento commerciale nelle aziende
nazionalizzate. Grazie a questa nuova politica economica, il paese si avvia sulla strada
della ripresa e, dopo il Trattato di Rapallo del 1922 con la Germania, ottiene anche il
riconoscimento da parte di quasi tutte le potenze mondiali, che fino a quel momento
avevano stentato a vedere di buon occhio il nuovo Stato socialista.
La prima Costituzione sovietica, entrata in vigore nel luglio 1918,
La nascita dell’URSS
prevede la creazione di una Repubblica Sovietica Federativa
Socialista Russa (RSFSR), la cui estensione e la cui composizione non sono tuttavia
specificate a causa dell’occupazione straniera e del perdurare della guerra civile in
diverse aree dell’ex impero russo. In seguito, man mano che il potere sovietico si
estende dal centro alla periferia, vengono create sia nuove repubbliche sovietiche sia
regioni autonome per le principali nazionalità non russe, finché il 30 dicembre 1922 è
infine proclamata l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS), frutto
di un forte legame di tipo federale tra la RSFSR (comprendente la Russia etnica e la
Siberia) e le altre componenti nazionali.
La nuova Costituzione del 1924 comporta la dittatura del Partito comunista (ex Partito
bolscevico), riconosciuto come unico partito legale, oramai in grado di esercitare un
influsso predominante su tutti gli altri partiti comunisti europei.
Dopo essersi opposto allo scontro bellico e aver incitato il proletariato internazionale a
ribellarsi e a trasformare la guerra tra nazioni in guerra civile rivoluzionaria, era stato
Lenin a cambiare il nome del Partito bolscevico in Partito comunista nel 1918, il cui
obiettivo diventa l’estensione della rivoluzione nel resto del mondo. Nel 1919, infatti,
viene creata la Terza Internazionale (o Comintern), con sede a Mosca, che raggruppa tutti i partiti comunisti sotto la leadership di quello russo, il cui scopo è quello di
affrettare la rivoluzione mondiale.
Rivoluzione borghese e rivoluzione socialista
La disputa tra i bolscevichi e i menscevichi, benché sembrasse limitata a punti secondari della
dottrina marxista, sollevò quelli che risultarono i problemi fondamentali della rivoluzione russa.
I menscevichi, ancorati all’originario schema di Marx che prevedeva i due stadi della rivoluzione
democratico-borghese e di quella proletario-socialista, non accettarono mai veramente l’ipotesi
di Lenin, esposta fin dal 1898, di un legame indissolubile tra le due rivoluzioni. La rivoluzione
borghese doveva essere la prima; solo attraverso la rivoluzione borghese il capitalismo avrebbe
potuto raggiungere in Russia il suo massimo sviluppo e, fino a quando quello sviluppo non
avesse avuto luogo, il proletariato russo non avrebbe potuto diventare abbastanza forte per
iniziare e compiere la rivoluzione socialista. Questa distinzione formale tra le due rivoluzioni,
148

Capitolo 10
quantunque soddisfacente per il teorico, comportava delle conseguenze che sarebbero state
imbarazzanti per dei rivoluzionari più realisti dei menscevichi. Poiché restringevano al loro
orizzonte la rivoluzione borghese, i menscevichi non erano in grado di dare al loro programma
politico un’impronta socialista o proletaria. La rivoluzione borghese era necessariamente destinata a precedere la rivoluzione proletaria; essa perciò, in prospettiva, era di interesse vitale
per il proletariato. Ma il suo effetto immediato sarebbe stato quello di portare al potere coloro
che erano gli oppressori del proletariato e che, di nuovo in prospettiva, si sarebbero dimostrati
i suoi più acerrimi nemici. Da questo dilemma i menscevichi avrebbero potuto uscire soltanto
adottando una linea politica a breve termine consistente nell’appoggiare la borghesia per quanto
atteneva alla distribuzione dell’autocrazia e al complemento della rivoluzione borghese, e nel
premere sul governo rivoluzionario borghese che ne sarebbe scaturito per far accordare al
proletariato quei miglioramenti economici che costituivano il principale oggetto della politica
sociale nei paesi capitalisti sviluppati (riconoscimento dei sindacati, giornata lavorativa di otto
ore, assicurazioni sociali e così via).
Perciò, in sostanza, come Lenin fece notare più volte, le discussioni che i bolscevichi sostenevano con i menscevichi ricalcavano le controversie che in precedenza il partito, allora unito,
aveva sostenuto con i marxisti legali e con gli «economisti»; esse riecheggiavano inoltre la
controversia con i «revisionisti» che si era avuta nel Partito Socialdemocratico Tedesco. Abbarbicati alla tesi, gelosamente custodita, che la Russia era alla vigilia della rivoluzione borghese,
ma non di quella socialista, i menscevichi, come i marxisti legali, ponevano l’accento sulla
teoria rivoluzionaria e sulla necessità di rimandare l’azione rivoluzionaria a un futuro ancora
remoto; come gli «economisti», preferivano il concetto che l’unico traguardo concreto che per
il momento poteva essere posto ai lavoratori era quello del miglioramento delle loro condizioni
economiche; come i revisionisti tedeschi, auspicavano una pressione parlamentare sul governo
borghese per ottenere delle riforme favorevoli ai lavoratori piuttosto che un’azione rivoluzionaria
diretta a rovesciarlo. Il menscevismo non fu un fenomeno isolato od accidentale. I menscevichi
finirono con il rappresentare una serie di idee familiari nella pratica del socialismo dell’Europa
occidentale — l’opposizione legale, il progresso attraverso le riforme anziché tramite la rivoluzione, il compromesso e la cooperazione con gli altri partiti politici, l’agitazione economica per
mezzo dei sindacati. Il menscevismo era saldamente affondato nel pensiero e nella tradizione
occidentale (e, dopo tutto, Marx era un occidentale). I narodniki russi avevano sostenuto, al pari
degli slavofili, il carattere peculiare dello sviluppo della Russia; a differenza dell’Occidente, la
Russia era destinata ad evitare lo stadio capitalistico. Plechanov, in opposizione ai narodniki,
basò tutta la sua opera sull’assioma che la Russia doveva seguire esattamente la stessa linea
di sviluppo già seguita dall’Occidente. In questo senso, fu anch’egli un vero occidentale; e i
menscevichi furono discepoli di Plechanov. Essi trovarono sempre molto più facilmente dei
bolscevichi simpatia e comprensione nei capi socialdemocratici dell’Occidente. Radek disse
scherzosamente molti anni più tardi che «l’Europa occidentale comincia con i menscevichi».
Una dimostrazione dell’esistenza di questo contrasto si ebbe quando l’ala bolscevica e quella
menscevica del partito si furono chiaramente differenziate anche in Russia (il che avvenne
più tardi ed in maniera molto meno netta che fra gli émigrés). I menscevichi raccolsero i loro
seguaci tra gli operai più qualificati ed organizzati, i tipografi, i ferrovieri e i lavoratori delle
acciaierie dei moderni centri industriali del Sud, mentre i bolscevichi ebbero la loro base nei
lavoratori relativamente poco qualificati delle grandi industrie — l’antiquata industria pesante
della regione di Pietroburgo e le fabbriche tessili di Pietroburgo e di Mosca. La maggior parte
dei sindacati era dominata dai menscevichi. Gli «economisti» avevano ritenuto che, mentre
agli istruiti lavoratori occidentali era possibile dare una cultura politica, sulla massa del «proletariato di fabbrica» russo avrebbero fatto presa soltanto le rivendicazioni economiche; e
Lenin stesso diede l’impressione di condividere l’idea che gli «economisti» si rivolgevano agli
«strati più bassi e più arretrati del proletariato». Questa diagnosi, comunque, fu contraddetta
sia dall’esperienza dell’Occidente (dove, dopo la fondazione della Prima Internazionale, fu la
La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa
 149
sezione più avanzata del movimento operaio, cioè i trade-unionisti inglesi, a sviluppare la lotta
economica a danno di quella politica) che dalla situazione russa dell’epoca. Gli operai russi
più qualificati, istruiti, organizzati e privilegiati, che erano i più vicini ai lavoratori organizzati
dell’Occidente, furono i meno sensibili ai richiami rivoluzionari e quelli più facilmente indotti a
ritenere possibile un miglioramento delle loro condizioni economiche nell’ambito della struttura
politica borghese. La massa degli operai russi che, trovandosi sotto ogni aspetto a un livello più
basso di quello dei più umili operai occidentali, non avevano «nulla da perdere se non le loro
catene», fu molto più aperta alla propaganda bolscevica, che vedeva nella rivoluzione politica
il solo mezzo per ottenere miglioramenti economici.
Il menscevismo finì nell’insuccesso — e fu un insuccesso insieme tragico e vano — perché
non tenne conto delle condizioni russe. La struttura sociale e politica russa non offriva nessuna
delle condizioni che sono necessarie perché un regime democratico-borghese possa prosperare.
La storia raramente si ripete; e un’interpretazione del marxismo secondo la quale i successivi
stadi della rivoluzione sarebbero stati esattamente uguali, in qualunque parte del mondo, al
modello offerto dall’Europa occidentale, era deterministica e perciò falsa. In Germania risultò
impossibile completare nella seconda metà del secolo XIX la rivoluzione democratico-borghese
nella sua forma classica; lo sviluppo sociale e politico della Germania fu complicato e snaturato
dal fallimento del 1848. In Russia, se i menscevichi avessero avuto successo, la bancarotta della
rivoluzione tedesca del 1848 sarebbe stata uguagliata dalla bancarotta del 1905. E non solo
perché la borghesia tedesca del 1848 e quella russa del 1905 erano troppo deboli e troppo poco
sviluppate per realizzare i loro progetti rivoluzionari. Che esse fossero deboli è innegabile. Ma
la causa determinante della loro esitazione era data dalla consapevolezza, che esse già avevano,
che la rivoluzione proletaria finale avrebbe costituito per loro una crescente minaccia. Uno dei
motivi per i quali la storia così raramente si ripete è che i personaggi che in essa agiscono, alla
seconda rappresentazione conoscono già il dénouement. Nello schema rivoluzionario marxista
il rovesciamento dell’ordine feudale da parte della borghesia costituiva il preludio necessario al
rovesciamento della borghesia da parte del proletariato. La debolezza dello schema consisteva
nel fatto che, una volta che esso era entrato nella coscienza della borghesia, la sua realizzazione
non poteva più essere ripetuta. Dal momento in cui la democrazia borghese cominciava ad
essere considerata un puro e semplice mezzo per il passaggio al socialismo, essa poteva essere
realizzata solo da coloro che credevano anche nel socialismo. Questa era la profonda verità
che Lenin esprimeva quando affermava che soltanto il proletariato avrebbe potuto guidare la
rivoluzione borghese. La difficoltà non consisteva nel fatto che le condizioni della Russia non
erano ancora mature per uno sviluppo rivoluzionario di tipo occidentale, bensì nel fatto che
quel tipo di sviluppo aveva già avuto luogo in Occidente, e non poteva più ripetersi altrove. I
menscevichi, i quali attendevano che le condizioni della Russia maturassero, erano condannati
alla sterilità e alla frustrazione.
(E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica 1917-1923, Einaudi, 1964, pp. 40-44)
Tavola cronologica
1914:
Assassinio di Francesco Ferdinando d’Austria a Sarajevo (28 giugno).
L’Austria dichiara guerra alla Serbia (28 luglio); inizia la prima guerra mondiale.
La Germania dichiara guerra alla Russia (1° agosto).
La Germania dichiara guerra alla Francia (3 agosto).
L’Inghilterra dichiara guerra alla Germania (5 agosto).
Dichiarazione di neutralità dell’Italia allo scoppio della guerra.
Battaglie di: Tannenberg, laghi Masuri, Marna.
150
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1915:
1916:
1917:
1918:
1919:
1920:
Capitolo 10
Inaugurazione del canale di Panamá.
Il Giappone si allea con l’Intesa.
Francia e Gran Bretagna attaccano le colonie tedesche.
Patto di Londra (26 aprile).
L’Italia dichiara guerra all’Austria (23 maggio).
Battaglie dell’Isonzo.
La Bulgaria si allea con Germania e Austria.
Affondamento del Lusitania e dure proteste degli USA contro la Germania.
Il Giappone amplia la propria sfera d’influenza in Cina.
Strafexpedition austriaca.
Governo Boselli.
Il Portogallo e la Romania si alleano con l’Intesa.
Battaglie di: Verdun, Somme.
I tedeschi perdono le proprie colonie in Africa.
Disfatta di Caporetto. Diaz sostituisce Cadorna al comando delle forze armate. Governo
Orlando.
Insurrezione di Pietrogrado e scoppio della rivoluzione in Russia (10 marzo).
La Grecia si allea con l’Intesa.
«Rivoluzione di ottobre» in Russia (7 novembre).
Gli USA dichiarano guerra alla Germania.
Dichiarazione di Balfour.
Battaglie del Piave e di Vittorio Veneto.
L’Italia firma l’armistizio con l’Austria.
Pace di Brest-Litovsk (3 marzo). In Russia divampa la guerra civile.
Bulgaria, Turchia e Germania chiedono l’armistizio.
In Inghilterra viene introdotto il suffragio universale maschile.
Il presidente americano Wilson precisa la sua politica pacifista in un programma di 14
punti.
Nascita della Società delle Nazioni (28 aprile).
Trattato di Versailles (28 giugno).
Trattato di Saint-Germain-en Laye (10 settembre).
Trattato di Neuilly (27 settembre).
Trattato di Trianon (4 giugno).
Trattato di Sèvres (10 agosto).
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