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la SOSPEnSIOnE, InTERRuZIOnE ED ESTInZIOnE DEl PROCESSO

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la SOSPEnSIOnE, InTERRuZIOnE ED ESTInZIOnE DEl PROCESSO
Capitolo XVI
La sospensione, interruzione
ed estinzione del processo
Sommario: 1. La sospensione. – 2. L’interruzione. – 3. L’estinzione.
1. La sospensione
Il capo VII del libro II del codice disciplina tre fenomeni di quiescenza del
processo, vicende anomale consistenti in un arresto della procedura per un periodo durante il quale il processo pende, ma è impedito il compimento degli atti
che ordinariamente ne caratterizzerebbero il progredire.
L’art. 295 c.p.c. si occupa della cd. sospensione necessaria (cd. sospensione
propria). “Il giudice dispone che il processo sia sospeso in ogni caso in cui egli stesso o
altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della
causa” (art. 295 c.p.c.). L’arresto del processo si impone qui per la pendenza tra
le stesse parti di un’altra causa che si mostra pregiudiziale rispetto a quella da
sospendere.
Ad esempio, pregiudiziale è la causa relativa all’accertamento del rapporto di paternità rispetto
a quella sul diritto agli alimenti tra padre e figlio. Se pende una causa relativa all’accertamento
della paternità, la causa pendente davanti ad altro giudice sul diritto agli alimenti va sospesa in
attesa della definizione di quella sulla paternità.
Come si vede, il presupposto è lo stesso su cui si fonda la disciplina degli accertamenti incidentali dell’art. 34 c.p.c. (← cap. 3, § 5), con la differenza che quest’ultima disposizione
individua le ipotesi in cui sulla questione pregiudiziale lo stesso giudice sia chiamato a decidere con efficacia di giudicato; nell’art. 295 c.p.c., invece, la pendenza di un processo avente
ad oggetto la questione pregiudiziale impone al giudice della causa dipendente di sospendere
il giudizio.
Affinché operi l’art. 295 c.p.c., occorre che: a) le cause (pregiudiziale e dipendente) pendano davanti a giudici diversi (in caso contrario si applicherebbe l’art.
274 c.p.c. sulla riunione dei procedimenti relativi a cause connesse); b) non sia
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possibile applicare l’art. 40 comma 1 c.p.c. il quale consente la riunione davanti al
giudice preventivamente adito delle cause connesse (vd. ← cap. 4, § 3); c) la causa
pregiudiziale penda davanti ad altro giudice ordinario.
Nei rapporti tra processo penale e processo civile, la sospensione cd. per pregiudizialità
penale dell’azione civile avente ad oggetto la domanda restitutoria o risarcitoria per fatti
dipendenti da reato è consentita: a) per trasferimento in sede civile dell’originaria domanda
(restitutoria o risarcitoria) proposta come costituzione di parte civile in sede penale; b)quando
è proposta domanda in sede civile dopo la sentenza penale di primo grado (art. 75 c.p.p.).
Una ipotesi di sospensione ormai caduta in disuso è quella cd. concordata
dell’art. 296 c.p.c. (“il giudice istruttore, su istanza di tutte le parti, ove sussistano giustificati motivi, può disporre, per una sola volta, che il processo rimanga sospeso per un periodo
non superiore a tre mesi, fissando l’udienza per la prosecuzione del processo medesimo”);
tenuto conto che i rinvii da una udienza all’altra sono superiori a tre mesi, è evidente come chiedere una sospensione nei termini ivi indicati è ipotesi di fatto mai
praticata.
Il codice di rito o le leggi speciali contemplano poi altre ipotesi di sospensione
(cd. impropria), le quali si impongono in ragione di particolari eventi che aprono all’interno del processo delle parentesi tali da dirottarne il corso. Senza pretese
di competenza, si considerino: a) sospensione per pregiudizialità comunitaria; b)
sospensione per pregiudizialità costituzionale; c) sospensione in presenza di un
regolamento di competenza; d) sospensione in pendenza del giudizio sulla ricusazione del giudice; e) sospensione per regolamento di giurisdizione; f) sospensione
per la proposizione di querela di falso.
Si tratta di fattispecie tra loro molto eterogenee, tanto che in alcuni casi la sospensione del
processo è automatica (ad es. quando è proposto regolamento di competenza: art. 48 c.p.c.),
in altri casi è rimessa alla valutazione discrezionale del giudice (ad es. in pendenza del regolamento di giurisdizione: art. 367 c.p.c.).
Quanto al procedimento, “se col provvedimento di sospensione non è stata fissata
l’udienza in cui il processo deve proseguire, le parti debbono chiederne la fissazione entro
il termine perentorio di tre mesi dalla cessazione della causa di sospensione di cui all’art. 3
c.p.p. o dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce la controversia civile o amministrativa di cui all’art. 295 c.p.c.” (art. 297 comma 1 c.p.c.).
Quanto agli effetti del provvedimento di sospensione, “durante la sospensione non possono essere compiuti gli atti del procedimento” (art. 298 comma 1
c.p.c.); tuttavia, “il giudice può autorizzare il compimento degli atti che ritiene urgenti”
(art. 48 ultimo comma c.p.c.). Inoltre, “la sospensione interrompe i termini in corso, i
quali ricominciano a decorrere dal giorno della nuova udienza fissata nel provvedimento
di sospensione o nel decreto di cui all’articolo precedente [art. 297]” (art. 298 comma
2 c.p.c.).
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Quanto ai rimedi, l’ordinanza che pronuncia sulla sospensione di regola non
è impugnabile. È tuttavia impugnabile con regolamento di competenza la sola
ordinanza che dispone la sospensione necessaria del processo (art. 42 c.p.c.).
Non è quindi impugnabile l’ordinanza che rigetta l’istanza di sospensione, nonché
quella che pronuncia sulla sospensione, ma al di fuori delle ipotesi dell’art. 295
c.p.c. (sospensione necessaria).
2. L’interruzione
L’interruzione è una forma di quiescenza del processo determinata da eventi
che rischiano di pregiudicare il contraddittorio. Ratio dell’interruzione è quindi
evitare il compimento di atti processuali per il tempo necessario per favorire una
nuova costituzione di soggetti a ciò abilitati. Gli eventi che danno luogo all’interruzione possono riguardare la parte o il suo procuratore.
a) Eventi interruttivi che riguardano la parte. Tali eventi sono da distinguere a seconda che si verifichino prima o dopo la costituzione in giudizio.
“Se prima della costituzione in cancelleria o all’udienza davanti al giudice istruttore,
sopravviene la morte oppure la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle
parti o del suo rappresentante legale o la cessazione di tale rappresentanza, il processo
è interrotto, salvo che coloro ai quali spetta di proseguirlo si costituiscano volontariamente, oppure l’altra parte provveda a citarli in riassunzione osservati i termini di
cui all’art. 163 bis” (art. 299 c.p.c.). Se gli stessi eventi si verificano dopo la
costituzione in giudizio e quest’ultima è avvenuta a mezzo di procuratore, “questi lo dichiara in udienza o lo notifica alle altre parti” (art. 300 comma
1 c.p.c.); qui l’interruzione non consegue automaticamente al verificarsi
dell’evento, bensì alla sua dichiarazione da parte del difensore della parte
colpita dall’evento (se il procuratore omette la dichiarazione, il processo
prosegue regolarmente).
Senza dichiarazione del procuratore, i vizi del contraddittorio che giustificherebbero l’interruzione non sussistono, potendo il procuratore proseguire la sua attività difensiva, seppure a favore
di una parte, deceduta, o che ha perso la capacità ecc.
Dal momento della dichiarazione o notificazione da parte del procuratore, il
processo è interrotto, salvo che avvenga la costituzione volontaria o la riassunzione del processo ad opera dell’altra parte secondo le modalità descritte dall’art.
299 c.p.c. (art. 300 comma 2 c.p.c.). Se la parte è costituita personalmente, il
processo è interrotto dal momento dell’evento (art. 300 comma 2 c.p.c.). Se invece l’evento interruttivo riguarda una parte dichiarata contumace, “il processo è
interrotto dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dall’altra parte, o è notificato, ovvero è certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei
provvedimenti di cui all’art. 292” (art. 300 comma 2 c.p.c.).
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Tra gli eventi interruttivi dovuti alla perdita di capacità della parte vi è anche il fallimento
della parte stessa, o il suo assoggettamento ad altra procedura concorsuale. Osserva però in
proposito la giurisprudenza che “poiché le norme sull’interruzione del processo sono volte a tutelare
la parte nei confronti della quale si sia verificato detto evento e che dallo stesso può essere pregiudicata,
questa è la sola legittimata a valersi della mancata interruzione. Tale conclusione è confermata, in particolare per quanto attiene alla ipotesi di fallimento della parte, dal rilievo che la perdita della capacità
processuale del fallito a seguito della dichiarazione di fallimento non è assoluta, ma relativa alla massa
dei creditori, alla quale soltanto – e per essa al curatore – è concesso eccepirla” (Cass. n. 19095/2011;
Cass. n. 5226/2011).
È causa di interruzione del processo anche l’estinzione della società a cui sia seguita la cancellazione della stessa dal registro delle imprese, qualora sia tuttora pendente il rapporto controverso
(Cass. SU 6070/2013). Di contro, “a seguito dell’entrata in vigore del novellato art. 2504 bis c.c., la
fusione di società, in pendenza di una causa della quale sia parte la società fusa od incorporata, non determina l’interruzione del processo, né quindi la necessità di riassumerlo nei confronti della società incorporante
o risultante dalla fusione” (Cass. n. 10653/2010).
Tenuto conto del fatto che l’interruzione ha lo scopo di consentire alle parti
processuali di compiere le loro difese, essa ha un senso fintanto che tali parti
hanno il potere-dovere di svolgere attività difensive. È questa la ragione per la
quale se gli eventi interruttivi si verificano dopo la chiusura della discussione
davanti al collegio essi non producono effetto se non nel caso di riapertura
dell’istruzione (art. 300 comma 4 c.p.c.). Questa è anche la ragione per la quale i
medesimi eventi non danno luogo ad interruzione nel giudizio di cassazione,
caratterizzato da una prosecuzione per via ufficiosa, senza impulso di parte (Cass.
11059/2011).
b) Eventi interruttivi che riguardano il procuratore. “Se la parte è costituita
a mezzo di procuratore, il processo è interrotto dal giorno della morte, radiazione o sospensione del procuratore stesso” (art. 301 c.p.c.). Si applica il meccanismo dell’art.
299 c.p.c. Gli effetti dell’interruzione sono i medesimi visti per la sospensione:
si applica l’art. 298 c.p.c. (art. 304 c.p.c.).
Una volta ricostituita l’integrità del contraddittorio, “il processo deve essere proseguito o riassunto entro il termine perentorio di tre mesi” (art. 305 c.p.c.).
Il testo originario stabiliva che il termine di tre mesi per la prosecuzione del processo decorresse dalla data dell’interruzione. La Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della
norma nella parte in cui dispone che il termine decorra dall’interruzione anziché dalla data in
cui le parti ne hanno avuto conoscenza (Corte cost. n. 139/67, n. 159/71).
Due le possibili alternative per la riattivazione del processo:
1) attraverso la prosecuzione dello stesso su iniziativa della parte colpita
dall’evento interruttivo, la quale avviene con costituzione della parte stessa
all’udienza o con deposito della comparsa in cancelleria. Se invece non è
fissata una udienza, la parte può chiedere con ricorso al giudice istruttore
o in mancanza al presidente del tribunale la fissazione dell’udienza (art. 302
c.p.c.).
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2) attraverso la riassunzione del processo su iniziativa della controparte rispetto a quella colpita dall’evento interruttivo. Se il processo non è proseguito
dalla parte colpita dall’evento, “l’altra parte può chiedere la fissazione dell’udienza,
notificando quindi il ricorso ed il decreto a coloro che debbono costituirsi per proseguirlo”
(art. 303 c.p.c.). Se l’interruzione è dovuta a morte della parte, “il ricorso deve
contenere gli estremi della domanda e la notificazione entro un anno dalla morte può
essere fatta collettivamente e impersonalmente agli eredi, nell’ultimo domicilio del defunto” (art. 303 comma 3 c.p.c.). Se la parte che ha ricevuto la notificazione in
riassunzione non si costituisce è dichiarata contumace (art. 303 ultimo comma
c.p.c.).
Si considerino le seguenti massime: “la mancata riassunzione del giudizio di primo grado, interrotto per morte di una delle parti, nei confronti di tutti gli eredi di essa, indipendentemente dalla loro
successione nel rapporto sostanziale controverso o dalla scindibilità di questo, non determina l’estinzione del processo, né la riduzione dell’oggetto di esso per la corrispondente quota, bensì la necessità, a
pena di nullità dell’intero giudizio, dell’integrazione del contraddittorio” (Cass. n. 18645/2011); “Il
giudizio di impugnazione deve essere instaurato da e contro i soggetti effettivamente legittimati. Deriva
da quanto precede, pertanto, che in caso di intervenuta morte della parte, non dichiarata né notificata
dal difensore della parte alla quale l’evento si riferisce, avvenuta nel corso del giudizio di primo grado,
il giudizio di appello deve essere proposto da e contro gli eredi di quella parte, atteso che la perpetuatio del mandato è circoscritta entro il grado nel cui corso l’evento interruttivo, non dichiarato né
notificato, si è effettivamente verificato” (Cass. n. 1565/2011). “Nel caso di litisconsorzio facoltativo
o di riunione di più cause connesse, qualora si verifichi un evento interruttivo che riguardi una delle
parti, l’interruzione opera solo in riferimento alla causa o alle cause di cui sia parte il soggetto colpito
dall’evento” (Cass. SU n. 15142/2007).
3. L’estinzione
L’estinzione rappresenta una forma anomala di chiusura del processo, a seguito della quale esso non si conclude con una pronuncia nel merito della causa, ma
con un provvedimento che si astiene dal pronunciare sulla domanda. L’estinzione
si può avere per rinuncia agli atti ovvero per inattività.
a) estinzione per rinuncia agli atti. “Il processo si estingue per rinuncia agli atti del
giudizio quando questa è accettata dalle parti costituite che potrebbero avere interesse alla
prosecuzione”, ma l’accettazione non è efficace se contiene riserve o condizioni (art. 306 comma 1 c.p.c.). La rinuncia agli atti può provenire dall’attore
che ha assunto l’iniziativa processuale, ma anche dalle altre parti costituite “che
potrebbero avere interesse alla prosecuzione”: tali sono le parti che si sono difese
in giudizio proponendo eccezioni nel merito ovvero nuove domande e che
perciò hanno interesse a veder accolte tali eccezioni o domande. Non hanno il
medesimo interesse le parti che hanno svolto difese in rito (l’estinzione del
giudizio produce conseguenze analoghe a quelle che derivano dall’accoglimento delle eccezioni processuali), nonché le parti che sono rimaste contumaci.
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Qualche esempio. Il convenuto che si è difeso eccependo che il credito domandato dall’attore si
è prescritto o che il contratto su cui esso si fonda è nullo, o ancora che abbia in riconvenzionale
domandato il pagamento di un controcredito ha interesse alla prosecuzione del giudizio per
sentir accertare che il credito non è dovuto o per sentir condannare l’attore al pagamento del
controcredito. Al contrario, il convenuto che abbia solo eccepito l’incompetenza o il difetto di
giurisdizione, o la carenza di legittimazione ad agire dell’attore non ha interesse alla prosecuzione del giudizio perché il tipo di sentenza che lui chiede (sentenza che chiude il processo in
rito) produce lo stesso effetto dell’estinzione.
La dichiarazione di rinuncia o accettazione va fatta dalle parti o dai loro procuratori speciali, verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle
altre parti (art. 306 comma 2 c.p.c.). Quanto alle spese, il rinunciante è tenuto al
rimborso alle altre parti, salvo diverso accordo. La liquidazione è fatta dal giudice
con ordinanza non impugnabile (art. 306 ultimo comma c.p.c.).
b) Estinzione per inattività delle parti. Vi sono diverse ipotesi di inattività.
Nel primo gruppo rientrano quelle in cui, a seguito del mancato compimento di certi atti, il processo entra in uno stato di quiescenza; se non è riassunto entro il termine perentorio di tre mesi (decorrente dalla scadenza
del termine di costituzione del convenuto o dalla data del provvedimento
di cancellazione), il processo si estingue. Ciò avviene quando dopo la notificazione della citazione nessuna delle parti si è costituita tempestivamente,
ovvero quando dopo la costituzione tempestiva di una delle parti, il giudice,
nei casi previsti dalla legge ha ordinato la cancellazione della causa dal ruolo
(art. 307 comma 1 c.p.c.).
In tutti questi casi, “il processo, una volta riassunto […], si estingue se nessuna delle
parti siasi costituita, ovvero se nei casi previsti dalla legge il giudice ordini la cancellazione
della causa dal ruolo” (art. 307 comma 2 c.p.c.). In altre parole, ove vi sia stato già
un periodo di quiescenza ed il processo sia stato riassunto una prima volta, una
nuova cancellazione della causa dal ruolo comporta estinzione immediata anche
se conseguente ad ipotesi che avrebbero potuto generare un ulteriore periodo di
quiescenza.
Nel secondo gruppo rientrano i casi in cui all’inerzia delle parti consegue
l’estinzione immediata del processo (senza periodo di quiescenza): “Oltre che nei
casi previsti dai commi precedenti, e salvo diverse disposizioni di legge, il processo si estingue
altresì qualora le parti alle quali spetta di rinnovare la citazione, o di proseguire, riassumere
o integrare il giudizio, non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla
legge, o dal giudice che dalla legge sia autorizzato a fissarlo. Quando la legge autorizza il
giudice a fissare il termine, questo non può essere inferiore ad un mese né superiore a tre”
(art. 307 comma 3 c.p.c.).
Ipotesi particolare di estinzione per inattività è quella – già esaminata ← cap. 14, § 1 – della cd.
diserzione bilaterale. Se nel corso del processo nessuna delle parti si presenta all’udienza, il giudice dispone un primo rinvio dell’udienza; se nessuna delle parti compare alla successiva udienza, il
giudice ordina la cancellazione della causa dal ruolo e dichiara l’estinzione (art. 309 c.p.c.).
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L’estinzione opera di diritto ed è dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza
del giudice istruttore ovvero con sentenza del collegio (art. 307 ultimo comma
c.p.c.). Che l’estinzione operi “di diritto” significa che essa produce effetti a partire dal momento in cui si realizza la fattispecie estintiva e che il provvedimento
del giudice ha valore ricognitivo (l’effetto del provvedimento retroagisce fino al
momento in cui la fattispecie estintiva si è perfezionata).
“L’ordinanza che dichiara l’estinzione è comunicata a cura del cancelliere se è pronunciata fuori udienza. Contro di essa è ammesso reclamo nei modi di cui all’art. 178 commi terzo,
quarto e quinto” (art. 308 comma 1 c.p.c.). “Il collegio provvede in camera di consiglio con
sentenza, se respinge il reclamo, e con ordinanza non impugnabile, se l’accoglie” (art. 308
comma 2 c.p.c.).
Il procedimento per la dichiarazione di estinzione (laddove contempla la decisione con ordinanza reclamabile) è disegnato per l’ipotesi di competenza dell’organo collegiale (← cap. precedente). Analoga disciplina opera però nelle cause a decisione monocratica, con la differenza che
se il giudice monocratico dichiara l’estinzione nel corso della trattazione, la relativa pronuncia, non essendo reclamabile, assume la forma di sentenza impugnabile con i rimedi ordinari
(appello). Se invece rigetta l’estinzione, la pronuncia è resa con ordinanza, potendo sempre la
parte interessata alla dichiarazione di estinzione riproporre la relativa eccezione al momento di
precisazione delle conclusioni. Se invece la decisione sull’estinzione è resa in fase decisoria la
relativa pronuncia assume la forma della sentenza (sia che accolga, sia che rigetti l’eccezione di
estinzione), in quanto tale appellabile.
Veniamo ora agli effetti dell’estinzione. “L’estinzione del processo non estingue
l’azione” (art. 310 comma 1 c.p.c.): ciò vuol dire che il diritto dedotto in giudizio
resta liberamente riproponibile in un eventuale successivo processo che fosse instaurato tra le parti (il diritto resta azionabile). Di regola l’estinzione travolge
tutti gli atti compiuti nel processo (art. 310 comma 2 c.p.c.): così per le ordinanze
(a carattere interlocutorio) rese durante il giudizio, salvo che la legge non disponga
altrimenti (sopravvivono ad esempio le cd. ordinanze anticipatorie di condanna degli artt. 186 bis, ter e quater c.p.c.: ← cap. 11, § 7). Sopravvivono invece
all’estinzione:
– le sentenze di merito pronunciate nel corso del processo (art. 310 comma 2
c.p.c.): tali sono le sentenze non definitive e parzialmente definitive che pronunciano sul merito della causa; non sopravvivono invece le sentenze che – pur
avendo la struttura “non definitiva” hanno un contenuto processuale.
– le pronunce che regolano la competenza (art. 310 comma 2 c.p.c.). Sono
questi i provvedimenti della Corte di cassazione che decidono sulla competenza, sia in sede di regolamento sia in sede di ricorso ordinario (– cap. 20),
essendo la Corte Suprema organo “regolatore” della giurisdizione e della competenza (sono invece travolte dall’estinzione le pronunce sulla competenza rese
dal giudice di merito).
– le prove raccolte nel processo estinto, ma con una “degradazione” della loro
efficacia probatoria, potendo nell’eventuale successivo giudizio valere come
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argomenti di prova, ex art. 116 comma 2 c.p.c.Tale limitazione dell’efficacia
probatoria dei mezzi di prova acquisiti nel processo estinto opera solo per le
prove liberamente apprezzabili; i mezzi di prova legale conservano la loro efficacia probatoria anche nel nuovo giudizio.
Si ritiene che “nel processo civile il giudice può trarre argomenti di prova, ai sensi dell’art. 116, comma
2, c.p.c., anche dalle risultanze istruttorie di un processo estinto, le quali, se si trovano raccolte nel relativo
fascicolo di ufficio, non abbisognano di particolari formalità di produzione od esibizione, per essere prese
in considerazione, risultando sufficiente l’istanza della parte interessata e la conseguente acquisizione del
suddetto fascicolo d’ufficio agli atti del giudizio” (Cass. n. 16372/2005).
“Le spese del processo estinto stanno a carico delle parti che le hanno anticipate” (art. 310 ultimo comma c.p.c.).
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