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Quando l`Italia diventò Nazione

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Quando l`Italia diventò Nazione
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2005
LA REPUBBLICA 41
DIARIO
DI
DI
NOVANT’ANNI FA IL PAESE ENTRAVA IN GUERRA
Repubblica Nazionale 41 24/05/2005
N
Sei milioni furono
gli italiani
chiamati alle armi
Fu un evento per
l’intera collettività
24MAGGIO
Quandol’ItaliadiventòNazione
ANTONIO GIBELLI
comparsi ben presto nella più vasta campagna monumentale che
mai si fosse conosciuta, nome per
nome, comune per comune, meticolosi e inesorabili, erano e restano la prova che all’impresa e all’ecatombe tutti avevano preso
parte e pagato un prezzo.
Sul fronte interno, migliaia di
operai furono militarizzati per ragioni di ordine pubblico e per assicurare la produzione nei settori
vitali dell’economia di guerra.
Donne e ragazzi furono impiegati
nell’industria pesante per garantirne l’espansione, e nei lavori ausiliari come la fabbricazione di indumenti militari. Molte donne fu-
rono chiamate a coprire i vuoti lasciati dagli arruolamenti, in lavori tradizionalmente maschili come la conduzione di tram o la nettezza urbana. Persino i bambini
furono considerati essenziali alla
nazione in armi, e divennero perciò destinatari e strumenti di mobilitazione, usati per suscitare
sentimenti di protezione e di tenerezza, indicati come posta in
gioco dello sforzo comune. La
guerra a oltranza non poteva rinunciare a nessuna energia materiale, morale e immaginaria, e
aveva bisogno di tutti, senza distinzione di professione, di genere, di età.
ERNEST HEMINGWAY
24 MAGGIO
IL FRONTE occidentale non
pareva andasse altrettanto
bene. Pareva che la guerra
dovesse continuare un pezzo. Ora eravamo in guerra ma
pensavo che ci volesse un anno per preparare un esercito
numeroso e addestrarlo al combattimento. L’anno successivo sarebbe stata una cattiva annata, o forse una buona annata. Gli italiani stavano logorando una quantità incredibile di uomini. Non vedevo come potesse continuare.
Anche se prendevano la Bainsizza e il monte San Gabriele, c’erano moltissime montagne al di là di queste per gli austriaci. Le avevo viste. Tutte le montagne più alte erano dall’altra parte. Sul Carso stavano avanzando, ma dalla parte
del mare c’erano paludi e acquitrini. Napoleone avrebbe
combattuto gli austriaci sulle pianure. Non li avrebbe mai
combattuti sulle montagna. Li avrebbe lasciati scendere e
li avrebbe battuti intorno a Verona. Per il momento nessuno stava battendo qualcuno sul fronte occidentale.
Forse le guerre non si vincevano più. Forse continuavano sempre. Forse era un’altra guerra dei cento anni.
“
“
ella guerra cominciata il 24
maggio del 1915, gli italiani
chiamati alle armi furono
quasi sei milioni, quelli che vestirono effettivamente l’uniforme
circa cinque milioni, quelli che si
avvicendarono al fronte oltre
quattro milioni e duecentomila,
provenienti per circa il 48 per cento dal Nord, il 23 dal Centro, il 17
dal Sud, il 10 dalle isole. Le classi
mobilitate andavano dai nati nel
1874 ai nati nel 1900, ossia più o
meno dai quarantenni ai diciassettenni. Durante i tre anni e mezzo di guerra, i morti furono complessivamente seicentocinquantamila (di cui centomila in prigionia), i prigionieri seicentomila, i
feriti presuntivamente un milione, gli invalidi riconosciuti quasi
mezzo milione. Tra i soli giovanissimi (17 e 18 anni) si contarono
ben 7500 morti. Sul numero delle
vedove come su quello degli orfani non si hanno dati certi, ma le
prime dovettero aggirarsi intorno
alle duecentomila, i secondi intorno ai quattrocentomila.
Basterebbero queste cifre a misurare l’impatto dell’evento sulla
collettività nazionale. Mai nulla di
simile era accaduto nella storia
precedente dell’Italia unita. Mai
tanti abitanti del Regno provenienti da tutte le regioni del paese,
dalla città e dalla campagna (qualcuno anche dall’estero), erano
stati coinvolti tutti insieme, per
amore o per forza, in un compito
comune così drammatico, nel
quale era messa in gioco, secondo
la parola d’ordine ufficiale, la sopravvivenza nazionale, certo era
messa a rischio (con un’incidenza
percentuale intorno al 15 per cento di quelli che andarono al fronte) la sopravvivenza individuale.
Se è vero – come ha scritto uno storico – che l’identità nazionale può
consistere nella consapevolezza
di grandi cose fatte insieme o patite insieme, si può ben dire che
mai gli italiani avevano fatto e soprattutto patito insieme cose così
grandi. Gli elenchi dei caduti
La vastità del rimescolamento
rese gli italiani più simili tra loro e
più vicini agli altri europei. Contadini meridionali che non avevano
mai messo piede al Nord (anche
se potevano aver conosciuto l’America) si trovarono per la prima
volta tra le montagne del Trentino. Montanari e pastori fecero conoscenza delle tecnologie e dell’organizzazione industriale incarnate nelle artiglierie, nei lavori
del genio militare, nelle protesi
che surrogavano gli arti mutilati,
nelle applicazioni belliche dell’elettricità come i riflettori: i bagliori delle esplosioni e i fasci di luce
che fendevano il buio trasforma-
vano le notti in giorni, segnando il
primato dell’elemento artificiale
su quello naturale. I combattenti
familiarizzavano per la prima volta col grammofono e col cinematografo nelle Case del soldato. Già
immersi in contesti comunitari
nei quali dominava la comunicazione orale, dovevano fare i conti
con la scrittura per trasmettere a
distanza segnali di vita: le loro lettere costituiscono oggi la più copiosa, formidabile testimonianza
dell’esperienza collettiva allora
compiuta. Partiti per la guerra semiletterati, imparavano a leggere
giornali e comunicati dai quali
potevano dipendere informazio-
ni essenziali per la propria salvezza come quelle riguardanti licenze ed esoneri. Abituati per lo più a
esprimersi in dialetto, per intendersi dovettero elaborare una sorta di lingua comune che i linguisti
hanno chiamato “italiano popolare”. La popolazione nel suo insieme fu investita da un corso forzoso di italianizzazione destinato
a lasciare un’impronta durevole
anche per essere avvenuto in condizioni di eccezionale emergenza
emotiva e con pesanti esiti luttuosi.
Ampiezza dei processi di mobilitazione e profondità delle trasformazioni antropologiche e
culturali non sfociarono però in
un aumento della coesione nazionale né del sentimento di appartenenza. A differenza degli altri
maggiori paesi europei, l’Italia affrontò la guerra in preda a profonde divisioni politiche e sociali che
non si attenuarono, anzi crebbero
nel corso del conflitto. La decisione dell’intervento fu il frutto di
una forzatura, di una radicalizzazione senza ritorno della lotta politica e dell’imposizione di una
minoranza agguerrita sulla maggioranza della popolazione. Fu un
azzardo, non tanto in relazione alla consistenza dei mezzi economici e militari, che in definita ressero alla prova, quanto alla solidità delle istituzioni politiche e civili. Anche per questo la seduzione totalitaria presente nella guerra e i fenomeni di brutalizzazione
che essa aveva innescato non furono contenuti e rielaborati ma
sfociarono nel tracollo dello stato
liberale e nella sovversione fascista: e questo benché l’Italia fosse
uscita vincitrice dal conflitto, a
differenza della Germania, traumatizzata da una sconfitta che
agli occhi dei tedeschi appariva
inspiegabile e quindi inaccettabile, e dell’impero russo, dove il disastroso esito dello scontro portò
allo sfaldamento dell’antico regime prima che il conflitto avesse
termine.
Il conflitto
sarebbe durato
tre anni e mezzo e
costato circa
650 mila vittime
DIARIO
42 LA REPUBBLICA
LE TAPPE
DELLA
GUERRA
L’ATTENTATO, 28 GIUGNO 1914
Lo studente bosniaco Gavrilo Princip
uccide a Sarajevo l’arciduca Francesco
Ferdinando. Il 28 luglio l’Austria dichiara
guerra alla Serbia. L’Europa è trascinata
nel conflitto. L’Italia sceglie la neutralità
L’ITALIA, 24 MAGGIO 1915
Il 24 maggio l’Italia entra in guerra contro
l’Austria. Il 26 aprile il governo Salandra
aveva accettato, col solo avallo del re, le
proposte dell’Intesa firmando il Patto di
Londra con Francia, Inghilterra e Russia
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2005
LA GUERRA DI TRINCEA, 1915
L’esercito italiano, comandato dal
generale Luigi Cadorna, si blocca in una
logorante guerra di posizione lungo
l’Isonzo e sul Carso. Alla fine dell’anno si
contano 250 mila tra morti e feriti
DELFINO BORRONI HA 106 ANNI, ERA UN BERSAGLIERE E OGGI RICORDA
QUEI MALEDETTI GIORNI
CHE VISSI A CAPORETTO
PAOLO RUMIZ
I LIBRI
MARIO
ISNENGHI
GIORGIO
ROCHAT
La Grande
Guerra 19141918
Sansoni 2004
JOHN
KEEGAN
La prima
guerra
mondiale
Carocci 2004
MARIO
ISNENGHI
Il mito della
Grande
Guerra
il Mulino 2002
ANTONIO
GIBELLI
L’officina
della guerra
Bollati
Boringhieri
1998
La grande
guerra degli
italiani
Sansoni 1998
D. LEONI,
C. ZADRA
La grande
guerra
il Mulino 1986
Repubblica Nazionale 42 24/05/2005
FABIO
CAFFARENA
Lettere della
Grande
Guerra.
Unicopli 2005
ANGELO
VENTRONE
La seduzione
totalitaria
Donzelli 2003
ERIC J.
LEED
Terra di
nessuno
il Mulino 2002
MARIO
SILVESTRI
Caporetto
Mondadori
1984
PIERO
MELOGRANI
Storia politica
della grande
guerra
Laterza 1969
ERIK
GOLDSTEIN
Gli accordi di
pace dopo la
Grande
Guerra
Il Mulino 2005
l ventinove luglio quando c’era il grano / è nata
una bambina con una
rosa in mano /... le ragazzette
l’amor non sanno fare / ma noi
ragazzi glielo farem sentire / la
sera dopo cena quando si va a
dormire». Canta Delfino Borroni, classe 1898 da Turago Bordone (Pavia), bersagliere più
vecchio d’Italia, uno dei trenta
reduci rimasti della Grande
Guerra. Canta a
voce alta, cieco
come Omero, sulla sedia a rotelle, la
canzone del lungo
treno che lo porta
al confine, un
giorno di fine
maggio del ‘17.
Fuori dalla casa di
riposo “San Giuseppe” di Càstano
Primo, tra Milano
e Varese, piovono
fiori di acacia, la
giornata è limpida, le Alpi lombarde sono lì piene di
neve, ma tu non
vedi nulla perché
il racconto del
vecchio ti ha già
portato via, lontano.
«Dio che baccano su quella tradotta! “Canta canta, che domani
non canti più”, ridevano quelli che
erano già stati al
fronte. Avevano
ragione, il giorno
dopo fu altra musica». Borroni, anni 106, non è solo uno che ricorda. Borroni “è” il ricordo. Lo sa
Alessandro Vanni, che raccoglie con passione le ultime storie dei Cavalieri di Vittorio Veneto e considera quest’uomo,
con un piede in tre secoli, «l’ultima, grande memoria vivente
della Prima Guerra Mondiale».
L’evento mitico lo abita, lo
riempie, diventa metrica, odissea. Una macchina del tempo
che ti rovescia addosso dettagli, nomi, date, odori, sapori,
canzoni, rumori, maledizioni,
pioggia, fango, fame, paura.
Non fai a tempo ad annotare
tutto, e lui è già oltre. Passa veloce dalla notte che pioveva sul
Pasubio ai gas di Caporetto.
«Sul Monte Maio la trincea
degli austriaci era così vicina
che sentivamo le voci. All’inizio, alcuni di loro uscivano di
notte, si arrampicavano sugli
alberi e ci sfottevano cantando
chicchirichì. Ma il Borroni, che
era un tipo fiero, non gliela lasciò correre, uscì con il Giagnola e altri due, ne acchiappò uno
per i piedi e gli diede un bel cazzotto, poi lo portò di peso dietro
le nostre linee. Si passavano le
notti in piedi, e quando pioveva
era dura, specie se ti mandavano di vedetta tra le due linee. Bisognava appiattirsi negli avvallamenti. Il sergente Mosconi
Luigi, di Como, mandava sempre fuori me, perché ero come
uno scoiattolo, diceva. Io protestavo: Mosconi, sempre a me
mi tocca! Ma poi ubbidivo sempre. Erano turni di due ore. Ed
era lunga, due ore».
Cismòn, Pasubio, Campo
Mulòn, Valsugana. Il film scorre senza sbavature. Poi, un
giorno d’ottobre, il treno per un
«I
‘‘
,,
LA MOSTRA
POSIZIONI
Sul Monte Maio la trincea degli
austriaci era così vicina che
sentivamo le voci. Loro ci
sfottevano cantando chicchirichì
luogo che si chiama Caporetto,
da raggiungere in fretta, sull’Isonzo. Borroni ricorda tutto: il
torrente, la collinetta davanti al
paese, la Vallazza, la Val Polenta, il Monte Nero con la sua ombra immensa. Arrivano la notte
del 23 a tappe forzate, ciascuno
con quattro caricatori, due gallette e due scatole di carne «da
Le immagini di questo Diario sono
tratte dal catalogo della mostra Arte e
Memoria a 90 anni dalla Grande
Guerra, aperta alla Gate Termini Art
gallery della Stazione Termini di Roma fino al 31 luglio. Oggi, in occasione della ricorrenza del 24 maggio,
l’ingresso sarà gratuito
tenere bene in conto, perché
non è detto che i rifornimenti
arrivino». Piove, tira vento gelato, il battaglione occupa due
casette sulla collina. Sono piene di castagne, i soldati accendono un fuoco, le arrostiscono.
«Io ne mangiai troppe, dovetti
andare in mezzo alle frasche a
scaricarmi. E proprio in quel
EMILIO LUSSU
momento sentii gridare il comandante: dov’è il quarto plotone? C’è il nemico!!! Fatevi sotto che gliela facciamo vedere».
Invece, fino all’alba, fu il silenzio. Poi, nella bruma, «vedemmo un formicaio di truppe, una nuvola di uomini in grigio, i tedeschi che arrivano da
Caporetto. Lì a 150 metri. Mo-
LA GUERRA
A sinistra,
“Sulla strada
di Giavera
durante il
bombardamen
to” di Giulio
Aristide
Sartorio (1918)
ERICH MARIA REMARQUE
La guerra era, per me, una
dura necessità, terribile
certo, ma alla quale
ubbidivo. Pertanto facevo
la guerra e avevo il
comando di soldati
La prima granata ci ha
colpiti al cuore; esclusi
ormai dall’attività, dal
lavoro, dal progresso, non
crediamo più a nulla.
Crediamo alla guerra
“Un anno sull’Altipiano”
1938
“Niente di nuovo sul fronte
occidentale”, 1929
FEDERICO CHABOD
VITTORIO FOA
Quella guerra era la prima
grande prova armata, il
primo grande sforzo
militare dell’Italia.
L’Italia era allora
uno Stato giovanissimo
L’Italia entrò in guerra dopo
un duro conflitto politico
tra neutralisti e interventisti
tra chi voleva stare fuori
della guerra e chi voleva
invece che vi entrasse
“L’Italia contemporanea”
1961
“Questo Novecento”
1996
sconi capisce, loro non si sono
accorti di nulla, sibila: “a l’è da
metterli in tasca!”. Il capitano
ordina: fateli avanzare, poi
quando fischio scaricate la fucileria e li assalite dall’alto». Pochi attimi. Poi l’urlo: «Sottooo!». «Siamo partiti come
leoni... Non ha un’idea il baccano che si è fatto... Abbiamo preso ottanta prigionieri... eravamo a cento metri dalle case di
Caporetto. Abbiamo trovato
una trincea italiana del 1915, ci
siamo buttati dentro».
Verso mezzogiorno del 24 il
sergente di ferro manda nuovamente Borroni di vedetta. È una
missione pericolosissima, la
posizione è circondata. Delfino
protesta: «Mosconi, mandi a
morire proprio me? Almeno gli
altri hanno vissuto vent’anni di
più!», ma obbedisce. «Non mi
sono mai rifiutato». Esce, si acquatta tra due tedeschi morti,
intuisce ombre in movimento,
vede due tedeschi anziani, con
barba non fatta e il sottogola.
«Mormoro ai miei: stanno arrivando! Ma dalla trincea mi rispondono: comeee? Glielo ripeto, stavolta senza risposta. In
silenzio vedo i tedeschi che
passano strisciando uno sull’altro. Fu lì che arrivò l’urlo del
nostro comandante: si salvi chi
può! Cominciò la fuga, sotto le
mitragliatrici».
Ormai la storia non è più film,
è vita, tempo presente, ti scatena un jet lag, il mondo di ieri è lì
di fronte. Continua Borroni:
«Scappo sotto il fuoco incrociato, un proiettile mi becca al tallone destro, cado, e la caduta mi
salva dalla scarica successiva,
lo capirò solo dopo. Mi rialzo,
corro zoppo tra due fuochi, mi
DIARIO
MARTEDÌ 24 MAGGIO 2005
CAPORETTO, 1917
Papa Benedetto XV si appella ai
governi contro la “inutile strage”. Il 24
ottobre un’armata austro-tedesca
sfonda le linee italiane nei pressi di
Caporetto: 300 mila prigionieri
LA REPUBBLICA 43
IL PIAVE, SETTEMBRE 1918
Gli italiani lanciano un’offensiva sul
fronte del Piave. Gli austriaci sono
sconfitti a Vittorio Veneto, gli italiani
entrano a Trento e il 3 novembre a Villa
Giusti l’Austria firma l’armistizio
LA FINE DELLA GUERRA, 1918
La guerra termina con la vittoria
dell’Intesa, favorita dalla dissoluzione
dell’Austria-Ungheria e dalla
rivoluzione in Germania. Conferenza di
pace il 18 gennaio a Versailles
PARLA GIAN ENRICO RUSCONI: “ERAVAMO IMPREPARATI”
ALTRO CHE PIAVE
FU UN AZZARDO
SIMONETTA FIORI
o l’impressione che ci
sia molta distrazione
intorno a questo anniversario», dice Gian Enrico Rusconi, professore di Scienza politica all’Università di Torino e autore di saggi su “nazione”, “resistenza e postfascismo”, “patria e
repubblica” che hanno avuto il
merito di anticipare alcuni temi
incandescenti del dibattito pubblico. Neo direttore dell’Istituto
storico italo-germanico di Trento, sta organizzando per il 30 maggio un convegno sulla Grande
Guerra, «uno dei pochi dedicati
all’evento», rimarca polemicamente. Anche l’ultimo suo lavoro, appena uscito dal Mulino, si
misura con le ragioni del conflitto, non rinunciando fin dal titolo a una lettura provocatoria:
L’azzardo del 1915 (sottotitolo,
Come l’Italia decide la sua guerra, pagg. 200, euro 12). «Apparentemente la prima guerra
mondiale rappresenta una pagina conciliata, nel senso che
in Italia nessuno riapre il dibattito sulle reali colpe o sulla
spericolatezza diplomatica
che diede avvio al nostro intervento. E questo accade
perché negli ultimi trent’anni la dimensione politica —
che è poi quella che divide —
è stata messa in ombra dall’immagine condivisa della
gigantesca catastrofe in cui
fu versato il sangue di tutti
gli italiani: mito fondativo
della nostra identità.
Troppo spesso si dimentica che al principio ci fu un
azzardo: politico, diplomatico e militare».
Azzardo, lei dice. Non
le pare un’espressione
un po’ forte?
«No, non mi viene
nessun’altra parola. Per
un precedente saggio,
sull’origine della Grande Guerra, scelsi il titolo
Rischio 1914. Ma l’intervento italiano va oltre un rischio calcolato: è una scelta azzardata da tutti i punti di vista. Il nostro governo manda all’aria un trentennale accordo con
Austria e Germania, la Triplice Alleanza, per lanciarsi in una sfida
militare alla quale non è assolutamente preparato: tutto questo
dopo una finta trattativa per una
neutralità compensata da ampi
risarcimenti territoriali».
E le ragioni ideali dell’irredentismo? Si combatté contro l’Austria per Trento e Trieste.
«Così ce la siamo raccontata
per troppi anni, riprendendo gli
argomenti dell’interventismo democratico. È vero che novant’anni fa “il Piave mormorò”, ma è altrettanto innegabile che il gesto
iniziale prese di contropiede tutti.
Sono sicuro che, anche nelle attuali celebrazioni, le alte cariche
non rinunceranno al politicamente corretto del patriottismo
italiano. In realtà le motivazioni
irredentiste ebbero un ruolo secondario rispetto a quello che era
il progetto principale».
Quale?
«Volevamo diventare una grande potenza, specie nell’area
adriatico-balcanica, e per raggiungere l’obiettivo approfittammo del conflitto esploso nell’agosto del 1914. Ciò che nella primavera del 1915 spinse alla guerra il
governo nazional-liberale di Salandra e Sonnino non fu solo il desiderio di liberare le terre irreden-
«H
butto nel torrente, vedo il caporal maggiore Giagnola che mi fa
gesti da un’altura, non ha ancora capito quanto vicini sono i
nemici, io corro in salita sul colle, mi butto tra i miei. Mosconi
non crede ai suoi occhi, dice:
solo tu potevi salvarti in quell’inferno, ho ragione quando
dico che sei tutto sale e pepe!».
GLI AUTORI
Il Sillabario di Ernest Hemingway
è tratto da Addio
alle armi (Mondadori, 1965). Antonio Gibelli insegna Storia contemporanea all’Università di
Genova. Gian Enrico Rusconiè docente di Scienza
politica a Torino.
I DIARI ONLINE
Tutti i numeri
del “Diario” di
Repubblica sono consultabili
in Rete sul sito
www.repubblica.it nella sezione “Spettacoli e
cultura”. I lettori troveranno le
pagine comprensive di tutte
le illustrazioni.
«La sera del ‘25 arriva il maggiore a cavallo, piove ancora, ci
ordina di tenere l’ultimo crocevia prima di Cividale, ormai i tedeschi dilagano, c’è una tremenda sparatoria, i tedeschi
non usano fucili né granata, ma
solo mitragliatrici. È lì che il nostro capitano ci lascia la pelle,
Rosana signor Umberto si chiamava, di Roma era. Un sardo,
Cicolella, che mi aveva fatto
una sgarberia e con cui non
parlavo da settimane, viene ferito alle gambe. Mi tende una
mano, mi dice perdonami, io lo
carico in spalle, ma i tedeschi
sono dappertutto, mi fatto prigioniero. Sono disarmato, uno
urla, non sa se spararmi o infilzarmi, ma un altro, più calmo,
lo calma e mi accompagna tra i
platani, con altri italiani».
Da allora, la fame. Non c’è da
mangiare dietro alle vittoriose
linee tedesche. «Cercavo sempre di scappare, era meglio morire di una fucilata e che di fame. Mi riprendevano e scappavo di nuovo. Finché trovai un
contadino che passava per i
campi con una carriola di letame, gli chiesi pane, lui disse
non posso. Ma poi uscì la moglie, gidò: puteo! E mi diede un
bel pezzo di polenta con un
mezzo un buco pieno di sugo
rosso con fagioli. Le dissi: con
questa ci campo quindici giorni! E lei: povareto, iera el manco
che se podeva. Ormai era l’ottobre del ‘18, il fronte era a pezzi,
la cavalleria italiana sbucava in
silenzio dappertutto. Urlai che
ero italiano, che non sparassero. Intorno, le ultime sacche di
resistenza sparavano poi alzavano bandiera bianca. Era finita. Sembrava impossibile».
‘‘
,,
FRATTURE
Il nostro governo mandò all’aria
un trentennale accordo con
Austria e Germania. I motivi
irredentisti furono secondari
‘‘
,,
OBIETTIVI
Volevamo diventare una grande
potenza e per questo
approfittammo del conflitto che
era esploso nell’agosto del 1914
te, completando l’opera risorgimentale, ma fu soprattutto la volontà di conquistare per l’Italia lo
status di grande potenza. Possiamo tornare a usarla questa parola?».
Avverto come un accenno polemico verso una storiografia che
ha espunto questo termine.
«No, nessuna polemica. Dico
solo: ormai siamo adulti, possiamo riproporre una categoria —
quella di potenza — che era stata
sfigurata dal nazionalismo fascista. E, soprattutto, torniamo alla
politica! Dopo un trentennio in
cui abbiamo scritto storie dell’umanità offesa, storia delle identità traumatizzate, storia delle
culture e delle memorie, vorrei
tornare a parlare dello scacchiere
diplomatico in cui si muovevano
grandi e tragiche figure quali Son-
PROPAGANDA
Qui sopra,
“Fate tutti il
vostro
dovere”,
manifesto del
1917 di Achille
Luciano
Mauzan; al
centro pagina,
Gerardo
Dottori,
“Bombardamento aereo”,
1927
nino, San Giuliano, Salandra, anche Albertini. La storia ritorna nel
Palazzo. E viene riconsegnata ai
suoi protagonisti. È vero che Giolitti non si muove nel vuoto, ma è
pur sempre Giolitti... «.
Se fosse stato Giolitti a condurre la negoziazione con Austria e
Germania — lei sostiene —
avremmo potuto ottenere il
Trentino e uno statuto particolare per Trieste: senza spargimento di sangue.
«Sì, sono persuaso che Giolitti
avrebbe avuto maggiori chances di successo. Il governo che gli succedette, l’asse Salandra-Sonnino, coltivava obiettivi ben
più ambiziosi e dunque finì per minare i
presupposti stessi
della trattativa. D’altro canto la negoziazione portata avanti
dall’Austria non era
immune da simulazione: trattavano con la riserva mentale di riprendersi indietro tutto».
A sostegno della sua
tesi — ossia che di azzardo si trattò — lei dimostra che la storia poteva andare diversamente. Addirittura recupera un’ipotesi solitamente liquidata dalla
storiografia, ossia la possibilità per l’Italia di marciare sul Reno a fianco di
Germania e Austria.
«Guardi che non fu
un’eccentricità di alcuni
frenetici nazionalisti. Anche un nazional-liberale come Sidney Sonnino — futuro ministro degli Esteri che
avrebbe portato l’Italia alla
guerra contro l’Austria — da
principio era del parere che
fosse meglio restare nella Triplice Alleanza. Perfino Cadorna, dopo il disastro di Caporetto, si sarebbe rammaricato di non aver combattuto
dalla parte giusta».
È uno scenario verosimile?
«Sì, un’ipotesi non più tanto
assurda. Ho trovato un nuovo
documento, un verbale riservatissimo dello Stato maggiore, datato 18 dicembre 1913, dal quale
risulta che il progetto di inviare le
truppe italiane in Germania era in
realtà molto più serio di quel che
comunemente si crede: da Alberto Pollio a Cadorna, erano tutti
convinti di marciare sul Reno».
Ma non le pare questa del 1915
una vicenda ormai definitivamente chiusa: il minuetto diplomatico, le logiche di potenza...
«Eppure l’azzardo della Grande Guerra rivela tratti della politica italiana che arrivano fino a noi:
non sappiamo mai bene come
collocarci. Non è questione di antropologia, ma è la nostra posizione geopolitica che produce una
sorta di incertezza nelle alleanze.
Vale ancora la battuta di un vecchio diplomatico: noi abbiamo
alleati, ma anche molti amici».
È rimasta nella memoria collettiva come “la nostra guerra”,
quella che più intimamente ha
toccato le coscienze. Eppure —
lei dice — nacque da un azzardo.
«Un tragico paradosso. Ed è
forse anche per questo che la memoria collettiva ha cancellato la
spericolatezza delle origini per
concentrarsi sulle trincee da cui
rinacque l’Italia».
I FILM
LA GRANDE
GUERRA
Due soldati
che cercano
di sottrarsi in
ogni modo
alla guerra e
al combattimento
finiscono
loro
malgrado per
morire da
eroi. Con
Vittorio
Gassman e
Alberto
Sordi, di
Mario
Monicelli, del
1959.
UOMINI
CONTRO
La guerra
sull’altipiano
di Asiago,
dove un
generale
manda a
morire con
una follia
testarda
centinaia di
soldati. Di
Francesco
Rosi, con
Gian Maria
Volonté,
tratto da “Un
anno sull’
altipiano” di
Emilio Lussu.
1970
ADDIO
ALLE ARMI
Sul fronte
italiano si
svolge la
drammatica
storia
d’amore tra
un soldato
americano e
un’infermiera
inglese. Due
versioni con
Gary Cooper
nel 1932,
regia di Frank
Borzage.
Con Rock
Hudson nel
1957, regia di
Charles
Vidor.
LA
LEGGENDA
DEL PIAVE
Una moglie
patriota
trasforma in
un eroe il
marito
profittatore
di guerra. Di
Riccardo
Freda, con
Gianna Maria
Canale. 1951
Fly UP