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Inpiù musica 24.04.2013 - EDIT Edizioni italiane
CON “STRANGE FRUIT”, UN MANIFESTO DI DURA, IMPIETOSA ACCUSA IN FORMA DI POESIA, DEL RAZZISMO IMPERANTE, LA CANTANTE OTTIENE LA RIBALTA INTERNAZIONALE la Voce del popolo musica www.edit.hr/lavoce Anno 9 • n. 69 mercoledì, 24 aprile 2013 BILLIE HOLIDAY LAREGINATRISTEDEL JAZZ IL PERSONAGGIO VITA NOSTRA VOCI STORICHE In ricordo di Sergio Sablich autentico gentiluomo della musica Il libro di bitinade di Vlado Benussi una testimonianza preziosa La rocambolesca vita del tenore Tito Schipa che affascinò le platee dell’epoca Musicologo e critico di origini fiumane e personaggio di primo piano della scena musicale italiana, è venuto a mancare nel 2005 suscitando il profondo cordoglio degli ambienti culturali L’eclettico musicista rovignese, grande cultore della tradizione popolare della sua città natale, ha raccolto in un volume un centinaio dei caratteristici canti di Rovigno, i quali rientrano nel patrimonio immateriale dell’umanità Il cantante ed attore leccese, uno dei maggiori tenori del ‘900, contrastò le vicende della vita e del palcoscenico con la spavalderia dell’eroe romantico affrontando pericoli e peripezie 4|5 6|7 8 2 musica mercoledì, 24 aprile 2013 la Voce del popolo LE LEGGENDE DEL JAZZ L’ECCEZIONALE PARABOLA ARTISTICA DI BILLIE HOLIDAY TRA TRASGRESSIONI, ECCESSI E UNA QUELLA E QUELLA CHE ARRI «S econdo te, chi è più brava, io o Sarah?» Billie Holiday è appena rientrata a casa dopo avere passato dieci mesi in stato di detenzione e disintossicazione obbligatoria all’Alderson Federal Prison Camp (West Virginia). Isolata dal mondo e dalla musica dal 27 maggio del 1947 al 16 marzo del 1948, una volta uscita ritrova gli amici e gli estimatori di sempre, ma anche tante novità. Quella che la tormenta di più è la fama raggiunta da Sarah Vaugham, che la critica reputa la migliore jazz-singer del momento, superiore, non solo a lei, ma anche a Ella Fitzgerald. La domanda è rivolta all’amico Tony Scott, clarinettista e pianista di peso. Il quale, per tutta risposta, le dice: “Quando Sarah canta ‘My man is gone’ è risaputo che il suo uomo è sceso a comperare le sigarette. Quando la canti tu, è chiaro che se n’è andato per sempre”. In questa battuta del musicista italoamericano (Anthony Joseph Sciacca, nato a Morristown, 17 giugno 1921 e morto a Roma, 28 marzo 2007, figlio di trapanesi emigrati negli States) c’è tutta Billie Holiday, ossia la cantante che – come hanno detto e scritto tanti jazzisti americani – ha dato voce all’anima, trasformando ogni brano musicale, compresi gli standard accompagnati da orchestre ad archi, in blues. Nata sotto cattiva stella L’insicurezza della Holiday non è, però, frutto dello stato di coercizione vissuto ad Alderson: è, bensì, il culmine, l’esplosione, di una sofferenza che solo l’incessante lavoro, le continue registrazioni, i concerti, i tour e, ovviamente, il costante stato di inebetimento da alcol e droghe, avevano impedito di far scatenare prima. Brutalmente parlando, Billie nasce “disgraziata”: i genitori sono poco più che ragazzi quando la mettono al mondo; fin da piccola, vive di stenti e con la madre va in giro per New York a lavare scale e ingressi di locali pubblici. A undici anni è violentata da un quarantenne: “Mi sono sempre chiesta cosa gli passasse per la testa, mentre si sfogava con una bambina”, si domanda Billie nell’autobiografia, scritta a quattro mani con William Dufty, “Lady Sings the Blues”, uscita nel 1957 (“La Signora canta il Blues”, ultima edizione italiana – Feltrinelli, collana Universale economica 2002). Una mattina si sveglia, come in un film horror, impossibilitata a liberarsi dall’abbraccio della nonna, morta durante la notte e accanto a cui amava addormentarsi. Insieme a sua madre, si prostituisce in un bordello clandestino. Viene rinchiusa in una sorta di collegio, dove compagne ed educatrici le fanno di tutto. Insomma, motivi per essere allegre, proprio non ne ha, nell’infanzia. “Esplode” il successo Le cose cambiano quando viene scoperto il suo straordinario talento canoro. Diciottenne, dopo essersi esibita quasi per caso in uno dei tanti club neviorkesi, musicisti di buon cuore e grande fiuto la raccomandano a colleghi più fortunati. I primi successi In breve tempo, Billie si vede accompagnata dai mostri sacri dello swing e del jazz: canta con l’orchestra di uno dei più famosi bandleader Bianchi: Benny Goodman, quindi con il pianista Teddy Wilson, con il complesso di Artie Show. Addirittura, con la Big Band di Count Basie, in cui milita lo shouter Jimmy Rushing. Alla fine degli anni Trenta – lei ne ha suppergiù venticinque - Eleonora Fegan, nata a Filadelfia il 7 aprile del 1915, è già “Billie Holiday”, anzi “Lady Day”, come la ribattezza il tenorsassofonista del “Conte”, Lester Young, da lei a sua volta ricambiato col soprannome “Prez”, che gli rimarrà addosso per tutta la vita. Ovviamente, è una notorietà interna al mondo del jazz e del blues: sia di quello Bianco che, soprattutto, di quello Nero. Il bello è, che in repertorio, almeno per ora, non ha “cavalli di battaglia”, pezzi che la contraddistinguano rispetto alle colleghe, presenti e passate. Il fatto è, che è lei ad essere un cavallo di battaglia! Gli strani frutti del razzismo Ma ecco che trova il pezzo, e con esso la fama al di fuori della cittadella del jazz, che ne sarà e farà il tratto distintivo. E’ un pezzo autenticamente unico – definirlo “canzone” sarebbe fuorviante - che Billie decide di incidere nemmeno due mesi dopo averlo cantato per la prima volta al Caffè Society, agli inizi del 1939: si intitola “Strange fruit”. Ne è autore un insegnante comunista, ebreo-russo, Abel Meeropol, che si firma Allen Lewis. Ma non è un testo qualsiasi, per quanto intrigante e ”diverso”: è un manifesto di dura, impietosa accusa in forma di poesia, del razzismo imperante. E’ una poesia musicata, una poesia su un linciaggio da poco avvenuto: il linciaggio di un Nero; pratica abbastanza normale negli Stati del sud: “Gli alberi del sud danno uno strano frutto, sangue sulle foglie, sangue sulle radici, un corpo nero dondola nella brezza del sud, strano frutto appeso agli alberi di pioppo”. Si rifà a una scena da lei vista, nel corso di una tournée, quando cantava per una band bianca ed era costretta a trascorrere il prima e il dopo delle proprie esibizioni, fuori dal locale, e mangiare da sola (unica colored in un’orchestra di wasp con qualche raro italo o ispano-mericano), essendole proibito trattenersi nel locale. E’ un atto d’accusa che il jazz fino a quel momento non aveva mai conosciuto. A ben guardare, nemmeno il blues. Ancora non siamo agli anni dell’impegno sociale e politico del jazz afroamericano (timidamente all’inizio, convintamente dopo un decennio, spalleggiato dai colleghi Bianchi), quelli in cui si sarà affermato il Be-bob, dalla metà dei Quaranta, grazie al coraggio civile, sul fronte cinematografico e teatrale di Paul Robeson, e su quello prettamente musicale e jazzistico di Billy Eckstine; ma anche del clarinettista Milton Mezz Mezzrow, un ebreo il quale esige che nei documenti stia scritto “negro”, e il cantante Herb Jeffries, Bianco, per parte di padre di origini sicule (“Trovatemi un siciliano nell’Ottocento, che non abbia radici moresche”, suole dire), il quale non solo si esibisce solo con orchestre “colored” (Earl Hines, Duke Ellington), ma sarà pure il primo cow-boy Nero nei “race movies” degli anni Trenta. L’uscita del disco è una bomba. Che il titolare della label con cui era sotto contratto – John H. Hammond e la Columbia Records - si era rifiutato di incidere, ma non volendo perdere quella miniera di soldi di nome Billie Holiday (a cui peraltro, dava una miseria; d’altronde, fu lui a scoprirla e a farle avere tutti gli ingaggi fino a quel momento), permette che venga registrata da una casa discografica più che semisconosciuta, la Commodore Records.In men che non si dica, Billie diventa un’icona. Va da sé che né ciò, né l’affetto e la stima di compagni di lavoro, estimatori di varia estrazione sociale ed etnica, musicisti in genere e intellettuali progressisti, non riescono nemmeno a scalfire la sua grande sofferenza interiore per tutto quanto ha passato. Anzi, proprio le accresciute possibilità finanziarie (ma, ripetiamo, niente in confronto a quello che le sarebbe spettato) le offrono la possibilità di acquistare droghe e alcolici di prima qualità, con cui stordirsi, e affetti umani tutt’altro che sinceri, a cui legarsi. In proposito, ricorderè una più che azzeccata battuta che Arsen Ostojić e Ksenija Prohaska, nel loro atto unico – “Billie Holiday” – allestito alcuni anni fa con il TNC di Spalato, mettono in bocca all’amico di Billie, Charly, il quale, segretamente innamorato della cantante di vent’anni più grande di lui, le dice in un momento di rabbia: “E’ mai possibile che ti innamori o ti metti sempre e soltanto con persone sbagliate? E’ come se andassi a comperare arance in un negozio di ferramenta!?”. Ebbene, sì’. Tutte le scelte affettive di Billie sono un fallimento. Infallibile intuito artistico Non così, quelle artistiche. E’ vero che in questo campo c’e’ chi la sa guidare, ma è altrettanto vero che non di rado gli artisti, più artisti sono e più si convincono di cose che in seguito si riveleranno deleterie. E invece, la Holiday non ne sbaglia una. Né’ quando si tratta di scegliere le orchestre, né quando decide di farsi accompagnare da combo, messi in piedi in occasione di una registrazione: sa alla perfezione da quali musicisti, solisti e strumentisti farsi circondare, come pure a quali arrangiamenti affidare. L’esperienza di Alderton interrompe per un breve periodo la spirale fatta di droghe e alcol. Ben presto ci ricasca. Dopo un po’ sembra riprendersi e avviarsi a un nuovo inizio, specialmente in seguito a due tournee’s europee, in cui scopre di essere famosissima e amata, e che il colore della sua pelle non comporta negli interlocutori nessun connotato negativo. Ma anche questo stato di grazia dura poco: le é sufficiente rituffarsi nella “sua” America, che torna ad essere, al di là di tutto, una musica la Voce del popolo mercoledì, 24 aprile 2013 3 di Sandro Damiani A STRAZIANTE SOLITUDINE VOCE A PASSIONE IVANO ALL’ ANIMA negra. Oltre tutto, vive accanto a un uomo dalle mani bucate, che sperpera anche quel non molto che le passano i discografici. Ne è consapevole, d’altronde, dice “sono stufa di passare le notti sola con i miei cani in albergo, dopo un concerto”. O peggio, farà capire, andare a letto ogni sera con un uomo diverso... Il suo sogno segreto Tuttavia, non ha del tutto perso le speranze di un domani migliore. In attesa dell’uscita dell’autobiografia – siamo nella seconda metà dei Cinquanta - e convintissima che le porterà un guadagno, confessa agli amici il suo più nascosto desiderio: “Quando diventerò ricca mi comprerò una grande casa in campagna, così potrò adottare tanti bambini, di tutti i colori; e preparerò loro da mangiare con le mie mani, li accompagnerò a scuola, li coccolerò; e mi circonderò di tantissimi cani”... Purtroppo, nel frattempo bisogna vivere, e lei non ha mai imparato quest’arte. Ripiomba nella droga. Riesce a malapena a incidere altri due dischi (l’ultimo, “The Last Recording” uscirà postumo); finisce in ospedale, piantonata dalla Narcotici, ulteriormente depressa dall’avvenuta morte del suo più caro amico, il succitato Lester Young, con cui aveva cantato l’ultima volta l’anno precedente (il brano “Fine and Mellow” è immortalato su Youtube: con il suo sguardo tragico e dolce puntato su “Prez”, mentre esegue un assolo al tenore). Il 17 luglio del 1959, Billie Holiday si spegne a causa di sopraggiunte complicazioni per un’epatite. I funerali saranno grandiosi. Vi partecipano jazzisti di tutta l’America. Testimoni oculari dicono che non c’era un solo presente che non piangesse.Per un paio di anni, i suoi dischi andranno a ruba, poi il silenzio. || Billie Holiday agli inizi della carriera Il revival con Diana Ross Finché nel 1970 la più grande star del pop afroamericano, Diana Ross, forte dei milioni e milioni di dischi venduti e di una straordinaria fama internazionale, non si cuce addosso il personaggio di Billie nella pellicola “Lady Sings the Blues”, regista Sidney J.Furie. (Vi lavora pure Richard Pryor). Il film è orribile, la Ross – che si arroga il diritto di cantare, lei, i pezzi di Billie - è inudibile: è come se Celentano facesse un film sulla vita di Luciano Pavarotti e ne cantasse le arie... La comunità afroamericana, la pensa diversamente, ma non la cittadella del jazz... D’altronde, i Neri d’America sono da poco usciti (e nemmeno tutti e neppure ovunque) da uno stato di semiclandestinità e di segregazione. L’America bianca, a sua volta, ben sa di cosa e quanto ha da farsi perdonare; e Hollywood, meglio di altri. Sicché, nel || Lester Young, il migliore amico di Billie Holiday 1972 Diana Ross è Candidata all’Oscar, quale migliore attrice protagonista (idem dicasi per i BAFTA Awards britannici del 1974) e nel 1973 riceve il Golden Globe come “Nuova migliore protagonista”; non mancano altre Nomination... Una leggenda che non smette di affascinare Ma ciò che più importa, è che il film porta a conoscenza dei giovani – di quei giovani che non erano neppure nati quando lei “imperversava”, o avevano pochi anni - la vita e le canzoni di Billie Holiday. Da allora, Lady Day non ha smesso di incantare, affascinare, commuovere. E tanta critica ha anche rivisto le proprie posizioni rispetto alla Holiday degli anni Cinquanta, quella che uscì da Aldrerson, con una vocalità straziata e straziante, assai meno mobile, ma con una punta di tragicità sconosciuta nell’ambito canoro, non solo jazzistico. Da allora ad oggi, la “stella” di Billie Holiday non ha smesso di brillare. Talune sue interpretazioni sono state addirittura utilizzate per uso commerciale, come sottofondo musicale a prodotti di bellezza di alta classe, Non c’è paese in || La copertina di “Strange Fruit”, il primo grande successo di Billie cui la sua autobiografia (in verità, se paragonata alle tante testimoniante di chi l’ha conosciuta e amata, parecchio spurgata, abbellita) non sia stata ripubblicata varie volte. Comunque, non c’è bisogno di conoscere la storia della sua esistenza per commuoversi. Basterà ascoltare alcuni brani, e non solo degli ultimissimi anni – “I am Full to Want you”, “You’ve Change”, “You don’t Know what Love is” – ma anche i precedenti “Solitude”, “God Bless the Child”, “Don’t Explain”, “Fine and Mellow”...: altro che groppi in gola... 4 lalaVoce Voce del popolo del popolo mercoledì, 24 aprile 2013 La personalità appassionata di un gentiluomo della musica Sergio Sablich è nato a Bolzano il 7 luglio 1951. I genitori, nati entrambi a Fiume, avevano lasciato la città natale nel 1945, dopo aver optato per la cittadinanza italiana quando Fiume fu ceduta alla Jugoslavia. Nel 1952, la Famiglia si trasferisce a Firenze, ma Bolzano resterà sempre un punto di riferimento importante nella vita di Sablich, che in età adolescenziale trascorre a casa degli zii a Bolzano buona parte delle vacanze estive e natalizie. Approfondita formazione musicale Dopo la maturità classica si iscrive alla Facoltà di Lettere & Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze, dove nel 1976 consegue la laurea, presentando una tesi in Storia della musica dal titolo Il “Doktor Faust “ nella problematica teatrale e musicale di Ferruccio Busoni. Contemporaneamente, si diploma in composizione, musica corale e direzione di coro presso il Conservatorio “Cherubini” di Firenze. Infine, all’Università di Monaco di Baviera si perfeziona in Musicologia. Dal 1976 è docente di ruolo di Conservatorio per l’insegnamento di Storia della musica ed Estetica musicale e sceglie Bolzano, con abilitazione all’insegnamento in lingua tedesca, quale sede della sua prima attività di docente, seguita da Ferrara e dal 1989 da Firenze, dove risiedeva. Importanti incarichi direzionali È stato per dieci anni (1976-1985) direttore del Centro Studi Musicali “Ferruccio Busoni” di Empoli; dal 1986 al 1990, durante la Sovrintendenza di Giorgio Vidusso, assistente alla direzione artistica e responsabile delle manifestazioni promozionali e collaterali del Teatro Comunale di Firenze e del Maggio Musicale Fiorentino. OMAGGIO A SERGIO SABLICH, SIGNIFICATIVO MUSICOLOGO, SAGGISTA, CRITICO E ORGANIZZATORE DELLA VITA MUSICALE DI ORIGINI FIUMANE, VENUTO A MANCARE NEL 2005. PROPONIAMO DUE SUE RIFLESSIONI, RISPETTIVAMENTE SU DALLAPICCOLA E SUL RAPPORTO GLOBALIZZAZIONE-MUSICA Dal 1991 al 1998 ricopre l’incarico di direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica di Torino della RAI e dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della RAI, dopo essere stato tra gli artefici della riunificazione delle quattro orchestre preesistenti in un’unica orchestra, ma nel 1998 lascia questo ruolo, pur con molti dubbi, per seguire a Roma il Maestro Giuseppe Sinopoli che lo invita a ricoprire la carica di Sovrintendente della Fondazione Teatro dell’Opera di Roma, incarico da cui si è dimesso nel 1999, dopo molte amarezze e delusioni. A cavallo tra il 2000 e il 2001 crea e organizza il festival internazionale di musica sacra “Anima Mundi” a Pisa, su progetto ideato insieme a Sinopoli ed a lui dedicato dopo la prematura scomparsa del Maestro. Sablich sarà poi Consulente per la musica della Regione Toscana, e dal maggio 2002 direttore artistico dell’Orchestra della Toscana (ORT) incarico che sarebbe terminato nel mese di aprile del 2005, e bruscamente interrotto il 27 gennaio, giorno in cui è stato colpito da ictus cerebrale. Nel febbraio 2003 era stato chiamato al Teatro La Scala di Milano come consulente artistico, esperienza rivelatasi poi nefasta per la non chiarezza e indifferenza degli interlocutori coinvolti. Sablich ne soffrirà molto, fino a parlare chiaramente, nei mesi immediatamente precedenti la sua malattia, di danni biologici legati al malessere della vicenda Scala. Critico, docente, autore di monografie Sablich ha pubblicato, oltre a numerosi saggi e articoli, studi e monografie su Ferruccio Busoni (EDT, 1982), Wolfgang Sawallisch (Passigli Editori, 1989), Richard Strauss (EDT, 1991), Richard Wagner (Il libro bruno, Passigli Editori, 1992), Goffredo Petrassi (Suvini Zerboni, 1994), Franz Schubert (il volume L’altro Schubert, EDT, 2002), Luigi Dallapiccola (L’Epos di Palermo, 2004). Ha collaborato inoltre alla “Storia della Letteratura Italiana” Einaudi con un saggio sui rapporti tra letteratura e musica nel Novecento. Su questo argomento ha tenuto dal 1996 al 1998 un corso biennale come professore a contratto presso l’Università IULM di Milano. Nell’anno accademico 20012002 ha insegnato Storia della musica del Novecento come professore a contratto presso l’Università di Pisa. Ha svolto inoltre attività di critico musicale, oltre che per “La Nazione” di Firenze, per “Il Giornale” di Milano e “La Voce” diretti da Indro Montanelli ed ha collaborato con le principali riviste musicali italiane. Muore a Firenze, dopo 40 giorni di coma, il 7 marzo 2005, all’età di 53 anni. IL PERSONAGGIO UNA SCELTA IN FAVORE DELLA MO FOSSE ANCHE TESTIMONIANZA DI I LUIGID UN MUSIC L uigi Dallapiccola (1904-1975) è stato, accanto al coetaneo Goffredo Petrassi, non soltanto uno dei maggiori compositori italiani del Novecento, ma anche una figura di spicco della musica europea. Porre l’accento sulla vocazione europea di Dallapiccola significa anzitutto riconoscere in lui un modello di apertura mentale e di determinazione artistica nei percorsi accidentati e nelle eclettiche vicende della nostra epoca, e in secondo luogo inquadrare la sua evoluzione nella progressiva conquista di prospettive che, partendo da solide radici culturali e umanistiche, ampliarono gli orizzonti della musica italiana e indicarono la via alle nuove generazioni, quelle, per esempio, di Berio e di Nono, di Bussotti e di Togni. Non bisogna dimenticare che quando Dallapiccola compositore si affacciò alla ribalta, nei primi anni Trenta del Novecento, l’Italia era ancora essenzialmente il “Paese del melodramma”. Alcuni compositori della generazione precedente, nati cioè intorno agli anni Ottanta dell’Ottocento, come Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti e soprattutto i più giovani Gian Francesco Malipiero e Alfredo Casella, verso i quali il giovane Dallapiccola mostrò subito interesse e ammirazione, avevano cercato di reagire isolatamente a questa situazione di fondo, elevando la musica italiana sul piano culturale, rinnovandola e aprendola alla civiltà europea. Comune a queste istanze di rinnovamento era l’atteggiamento critico nei confronti del melodramma ottocentesco - e più in generale dell’Ottocento in quanto secolo dominato in Italia dal gusto dell’opera -, estremizzato nel rifiuto, che sarà poi netto in Dallapiccola, se non del melodramma in quanto tale, delle correnti che facevano capo al Verismo e al Naturalismo della “Giovane Scuola”. Parallelamente, la riacquisizione e la rivalutazione del patrimonio musicale antico - cioè preottocentesco - avevano aperto la strada alla rivendicazione, anche in senso orgogliosamente nazionalistico, della grandezza della tradizione italiana nel campo della musica strumentale. In Dallapiccola, però, la convinzione che la nuova musica italiana dovesse basare la propria identità tanto sullo studio e sull’insegnamento degli antichi maestri quanto sull’assimilazione di condizioni linguistiche ed esigenze artistiche necessariamente mutate, saldava questo recupero del passato con l’esplorazione di insondati, originali terreni espressivi e formali, non limitati al filone dominante del “neoclassicismo”. La vocazione europea di Dallapiccola, superando con fermezza condizioni obiettivamente difficili, si realizzò in una scelta di campo in favore della modernità, nella quale l’opera del compositore fosse anche testimonianza di impegno civile e umano. Prima ancora di compiere il passo decisivo e definitivo dell’adozione della dodecafonia come base del comporre (espressione di una “nuova logica”, ma anche di uno “stato d’animo” interiore), Dallapiccola fu attratto in modo singolare dalle voci più disparate della musica europea. In Ferruccio Busoni, anch’egli figlio inquieto della civiltà mitteleuropea, individuò il modello ideale della ricerca illimitata e di un fondamentale, lieto ottimismo. Finalmente la conoscenza, nutrita di devozione, dei musicisti della Scuola di Vienna - Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern la Voce musica del popolo mercoledì, 24 aprile 2013 Il tramonto dell’Occidente segna la fine di un primato culturale ODERNITÀ, NELLA QUALE L’OPERA DEL COMPOSITORE IMPEGNO CIVILE E UMANO DALLA PICCOLA ICISTA EUROPEO - ebbe sviluppi concreti e personali nell’ambito della creazione, chiarificando presupposti e sollecitazioni provenienti da altri campi, soprattutto dalla letteratura, a dimostrazione, scriverà Dallapiccola, che “il problema attuale delle arti è uno solo”. E’ proprio nell’incontro con la letteratura che la produzione di Dallapiccola, elettivamente, quasi costituzionalmente vocale, sviluppa per intero i suoi caratteri artistici e musicali, favoriti da un talento tanto innato quanto coltivato con ferrea autodisciplina. Tutti questi elementi cementarono i tratti di una personalità profondamente intrisa di valori 5 umanistici e di tensioni spirituali, di un senso del dovere e della responsabilità (evidente retaggio schönberghiano: “l’arte non deriva dal potere, ma dal dovere”) di intransigenza quasi morale, di un impegno artistico approfondito nel dubbio e nella solitudine e indirizzato verso l’alto, che sottende, in una sorta di illuminante vertigine visionaria, la meta di un approdo trascendente. Ecco perché attorno a Dallapiccola, musicista di frontiera e del molteplice, è possibile ricostruire uno dei percorsi principali, luminosi, della musica del Novecento. Un suono global o no global? Globalizzazione, orrendo neologismo caro ai nostri tempi. Anche Riccardo Muti, durante una recente tournée in Sud America con la Filarmonica della Scala, l’ha usato per mettere in guardia da un pericolo: la globalizzazione sta invadendo anche la musica. Il termine, par di capire, è usato nel senso di appiattimento, standardizzazione, normalizzazione, equalizzazione. Attenzione, dice Muti (e naturalmente non è il solo a pensarlo), a favorire una tendenza nella quale l’immagine esteriore, l’efficienza spettacolare, prevalga decisamente sui contenuti idiomatici, sulle identità nazionali, sulle particolarità culturali: si corre il rischio non soltanto di non apprezzare più le differenze, ma anche di non saperle più distinguere. E quindi di uniformarsi a un modello unico la cui sostanza è soprattutto brillante, vuota apparenza. Nella vita musicale corrente, teatrale e concertistica, è ormai un luogo comune sentir ripetere che le grandi orchestre si assomigliano sempre di più, i repertori sono ovunque gli stessi, gli artisti – direttori, cantanti, registi – passano disinvoltamente e rapidamente da un continente all’altro, offrendo qua e là le loro lussuose prestazioni come pacchi preconfezionati: una sorta di ditta Gondrand della musica abbinata al Concorde, impegnata a non perdere un solo ordine, spesso noncurante delle destinazioni e delle finalità del trasporto. Il famoso villaggio globale è una metafora che sembra adattarsi anche alla musica. Ciò che conta, in questo circuito impazzito, è da un lato sopravvivere (alla crisi economica, alla caduta vertiginosa del mercato discografico, alle riduzioni dei cachet), dall’altro mantenere le posizioni acquisite, che significano non solo privilegi ma anche danaro: danaro come status symbol oltre che come ricchezza reale. La forbice si allarga: un concerto di una grande orchestra europea o americana costa mediamente fra i tre e i quattrocento milioni, e tutti vogliono solo quello. Con la differenza che la nozione di grande orchestra si assottiglia sempre più: pochi nomi, sempre quelli, a rappresentare il banchetto ideale dell’eccellenza. Niente che non fosse stato previsto, da Adorno in giù, con la logica dell’osservazione e del ragionamento: solo che, una volta caduti i principi ideologici (Adorno descriveva una tendenza negativa credendo così di combatterla), l’ipotesi è divenuta realtà, quasi sottraendosi al controllo del suo significato. Ma il mondo globalizzato dell’industria musicale è anche il regno del paradosso, dove esiste tutto e il contrario di tutto. È insieme compresenza e annullamento delle diversità, omologazione e separazione, accettazione di facciata e rifiuto nella sostanza. Tutto è possibile; il sistema ingloba ogni espressione e la converte in impulsi: i piani si confondono e un valore economico sostituisce l’altro. Il disorientamento da un lato, la delega al demiurgo-divo osannato e richiesto dall’altro, sono la fatale conclusione del cammino. Proprio nel campo della musica cosiddetta classica si assiste al paradosso più stridente: la mancanza di un ricambio del repertorio che sia in grado di indirizzare questo cammino verso una crescita continua del nuovo. Le statistiche dicono che più dell’ottanta per cento del repertorio è costituito da musiche del passato: globalizzate anch’esse dal mito dell’interprete o dell’interpretazione. La colonizzazione verso l’esterno passa attraverso l’interprete, e, al suo interno, dall’interpretazione che trasforma il testo per attualizzarlo e rivenderlo a usura con propaganda adeguata. Un mostro che divora se stesso, sfruttando tecniche e tecnologie sempre più raffinate di autoconservazione. C’è poi l’altra parte della musica, aggressiva e creativa, nella quale culture e tradizioni diverse s’incontrano per inventare linguaggi scaturienti da un tentativo di comprensione reciproca: dove popolare implica un concetto inedito di universale, che parte dal basso. È quanto la musica colta occidentale ha recepito nel Novecento in regime di avanguardie, gettando la spugna col dissolversi di una tradizione eminentemente europea. Il tramonto dell’Occidente segna la fine di un primato culturale: forse ciò che chiamiamo globalizzazione non è che il tentativo di differire la fine pretendendo di riscuotere gli interessi materiali. 6 mercoledì, 24 aprile 2013 musica la Voce del popolo VITA NOSTRA SALVAREDALL’OBLIO || Benussi con il pittore Bruno Mascarelli UNGRANDEPATRIMONIO DICANTOPOPOLARE D ai “cantaduri” alla pagina scritta. Eseguita, ascoltata e condivisa da generazioni di rovignesi, la particolare forma univoca di canto polivocale che vede un cantante solista accompagnato da altri “cantùri” che imitano con la propria voce diversi strumenti musicali, si presenta ora ai lettori ed estimatori con il libro “∫i bitinàde d’uca∫ion…”, scritto dal maestro Vlado Benussi, uno dei più grandi cultori della tradizione folcloristica e canora rovignese. Insegnante fin dal 1972 di fisica ed educazione musicale presso la scuola elementare italiana “Bernardo Benussi” dove cura pure il coro scolastico ed il gruppo del dialetto rovignese nonché il coro del Giardino d’infanzia italiano “Naridola”, è non meno attivo alla CI. Prima corista e poi dirigente per una ventina d’anni del coro della SAC Marco Garbin, oggi dirige i piccoli cantanti della Comunità con il gruppo dei “Minicantanti” che fanno parte del coro “Batanola”. Di livello non minore è la sua carriera di musicista e autore musicale, a partire dalla prima canzone scritta ancora nel 1963 quando faceva parte del complesso “Le perle” divenuto poi “I cannibali”. Nella sua carriera musicale ha creato pure il gruppo vocale le “Quattro colonne” e il trio “Biba, Vlado & Ricky” mentre ora fa parte del nuovo quartetto vocale “Monte” e, assieme all’inseparabile moglie Biba e ad Eligio Bosazzi ha ricreato un nuovo trio. Prestigiosa pure la sua produzione di canzoni per l’infanzia, testimoniata da più di un centinaio di opere che hanno vinto diverse edizioni del festival “Voci nostre” organizzato dall’Unione Italiana, mentre la “Barchetta di carta” ha vinto il secondo posto all’edizione del 1993 dello “Zecchino d’oro”. Un discorso specifico riguarda la sua produzione in dialetto rovignese, che vanta ben nove raccolte di poesie, numerose canzoni, alcune commedie musicali e persino una raccolta a fumetti dal titolo “Stuòrie”. Nel 2007 ha pubblicato il suo primo libro intitolato “Viecia Batana”, dedicato alla canzone simbolo e inno della Città di Rovigno scritta da Giorgio Devescovi su musica di Amedeo Zecchi nel lontano 1907. Ora è stata la volta di “∫i bitinàde d’uca∫ion…” che rimarrà una pietra miliare dell’opera di recupero della tradizione canora rovignese. Come si arriva a una pubblicazione di questo genere? Questo libro nasce dal mio desiderio di catalogare tutte le canzoni che sono state cantate in bitinade almeno nell’arco del tempo che coincide con la mia permanenza musicale tra le fila del coro della Marco Garbin iniziata nel 1963 quando frequentavo ancora l’ottava classe delle elementari. A farmi conoscere questo mondo è stato mio zio Francesco Benussi detto Chico. Ricordo che assieme a mio fratello Libero già da piccoli abbiamo imparato a cantare in famiglia a tre voci. Sono sempre rimasto legato al coro anche quando suonavo in Italia nel complesso “I cannibali” e ogni volta che ritornavo nella mia Rovigno, circa ogni 15 giorni, non perdevo mai l’occasione di partecipare alle prove. Il mio amore per il canto tradizionale rovignese non poteva essere sostituito da nessun’altra forma musicale, tanto era forte il legame che avevo nei confronti della mia città e della sua tradizione. Cos’è una bitinada considerata dal punto di vista musicale? Si tratta di una forma di canto tipicamente rovignese che prevede un solista o un duetto che viene accompagnato da un gruppo di “bitinadùri”, di solito formato da una quindicina di persone che con la proprie voci imitano gli strumenti musicali di un’orchestrina. Questa forma di canto è particolare perché i “bitinadùri” non vengono suddivisi per voci come nelle altre forme di canto corale, ma in modo più spontaneo. Solo la sezione dei bassi è obbligata e propone una struttura di basso continuo che segue la melodia cantata dai solisti, mentre un gruppo aggiunge un sostegno armonico–ritmico imitando i suoni della chitarra. La più grande particolarità è data da quelli che mi piace definire i tiratori liberi della bitinada che devono eseguire i “tin – teîni” cioè quei suoni che rimandano a strumenti come il mandolino, la chitarra hawaiana, l’oboe, il clarinetto e in passato anche la tromba e la cornetta. Propri con i “tin – teîni”, i “bitinadùri” danno il meglio di sé perché ogni esecuzione è spesso irripetibile ed è VLADO BENUSSI PRESENTA IL LIBRO DEDICATO ALLE BITINADE “∫I BITINÀDE D’UCA∫ION…” basata sull’improvvisazione dei cantori che si completano a vicenda utilizzando la propria bravura con una serie di canti e controcanti unici nel loro genere. In questo libro sono raccolte un centinaio di canzone cantate in bitinada. Infatti, oltre a quelle tradizionali ci sono anche evergreen italiani e delle canzoni che lei ha composto espressamente per questo tipo di canto. Che particolarità deve avere una canzone per essere cantata in bitinada e quali sono le più famose? Le più usate per il canto in bitinada sono delle marcette o dei valzer più o meno veloci. La maggior parte della bitinade è scritta da autori anonimi e la più cantata è sicuramente “Vien Fiamita” scritta da Carlo Fabretto nel 1908 che, come altre bitinade ha subito numerose inflessioni sia nel testo che nella melodia. Di questa canzone esiste anche una registrazione che risale al 1942 quando venne usata dall’Istituto Luce come sottofondo musicale per il documentario “Boschi sul mar”. Tra i classici italiani cantati in questo modo c’è “Sotto le lenzuola” di Adriano Celentano che è stata eseguita dal solista Guerrino Poropat e il motivo napoletano “Santa Lucia” di Teodoro Cottrau che è stato interpretato in modo magistrale dal solista Antonio Bartoli e dal soprano Oriana Vozilla. Da parte mia sono una decina le bitinade che ho scritto nella mia carriera. Fra le più famose è “A Figarola” dedicata ad una delle isole dell’arcipelago di Rovigno e “∫i bitinàde” che è una canzone autoreferenziale dedicata alla bitinada che dà il titolo al volume e che ho scritto, come le altre, in dialetto rovignese. la Voce del popolo musica di Sandro Petruz || In trio con Biba ed Eligio Bosazzi || Con il coro “Batanola” Questo volume non è un semplice catalogo, ma offre altre interessanti possibilità. Ci può spiegare quali? Nel libro stati anche inseriti gli accordi cifrati di ogni canzone cantata in bitinada il che permette così di fatto una maggiore divulgazione di questa forma di canto. Inoltre, ogni coppia include due compact disc in allegato. Il primo contiene le 29 bitinade più famose e rappresentative registrate in alta qualità il secondo ben 75 registrate nel formato mp3. Il volume ha anche una sezione dedicata ai più grandi solisti che hanno intonato le bitinade. Di ciscun interprete, oltre al nome e alla data di nascita, viene riportato il soprannome della famiglia nel dialetto istroromanzo locale. Tra i più grandi cantanti del passato ci sono le voci di Antonio Bartoli detto Cadìto, Liliana Budicin Manestar (Streîsa), Tea Salvi (Iàie), Guerrino Poropat (Salàta) e tanti altri. Le potenzialità di questo libro sono già state dimostrate lo scorso febbraio, quando l’ho presentato alle consultazioni degli insegnanti di educazione musicale delle scuole elementari presenti in Istria. Grazie alle indicazioni del volume siamo riusciti a riproporre le bitinade, nonostante per la maggior parte dei presenti si trattasse della prima esibizione da “bitinadùr”. La ricca tradizione canora rovignese non è formata solo da bitinade. Quali sono le altre forme di canto tipiche della città di Santa Eufemia? I cantori rovignesi hanno una grandissima dote che è l’armonizzazione spontanea. Si dice che bastino tre rovignesi per avere un coro. Infatti, la grande tradizione corale del posto ha forgiato i “cantùri” che poi hanno potuto attingere dalle particolari forme di canto locale. La tradizione è stata tramandata in forma quasi esclusivamente orale da moltissimi secoli e le altre due forme tipiche di canto rovignesi sono le ‘arie da nuoto’ e le ‘arie da cuntrada’. Le arie da nuoto rispetto alle bitinade sono una forma di canto corale dai contorni più classici, anche se differiscono dei canti corali alpini o dalmati per il tipico modo di cantare “in tiersa” in modo da armonizzare con solo tre voci. Sulle arie da nuoto mio fratello Libero Benussi ha già scritto numerosi interventi nelle pubblicazioni del Centro di ricerche storiche di Rovigno che probabilmente presto verranno raccolte in un volume a parte. Le arie da contrada sono motivi tipici interpretati a due voci da donne in specie negli slarghi rovignesi mentre erano intente a svolgere i lavori casalinghi all’aperto. Un’altra caratteristica delle arie da nuoto e da cuntrada rispetto alle bitinade è che ci sono più testi scritti in lingua italiana rispetto a quelli dialettali. Alla realizzazione di questo volume hanno partecipato diversi professionisti che hanno voluto dare il proprio contributo per rendere quest’opera ancora più degna di nota. Ci può parlare di queste collaborazioni? Sono molto onorato delle partecipazioni, questo volume, dalla pagina di copertina che è stata impreziosita dall’affresco “Pescatori Rovignesi” di Bruno Mascarelli, pittore di fama internazionale che non solo ha dato l’assenso all’utilizzo di una delle sue opere, ma ha anche concesso una dedica autografata, riportata su ogni copia. Un grazie speciale all’amico collega Massimo Brajković per la bellissima prefazione e al vicesindaco Marino Budicin per aver redatto il volume e curato l’introduzione storica. Devo assolutamente ringraziare la Città di Rovigno, il ministero degli Affari esteri italiano e l’UI per aver sostenuto il progetto. Non posso dimenticare il contributo dello staff della Comunità degli Italiani di Rovigno ma soprattutto mi preme ringraziare la mia famiglia per il supporto e la pazienza avuta e che dovrà avere ancora perché sto già lavorando al progetto legato alla tradizione dei cori rovignesi. mercoledì, 24 aprile 2013 7 DONNE IN MUSICA || Elisabetta Capurso Dalla natia Mattuglie all’Olimpo della musica È nativa di Mattuglie Elisabetta Capurso, pianista, compositrice, musicologa, ed ha studiato pianoforte con Carlo Vidusso, quindi con Carlo Zecchi al Mozarteum di Salisburgo; composizione con Domenico Guaccero, quindi con Brian Ferneyhough a Darmstadt. Ha studiato inoltre Direzione d’orchestra con Daniele Paris e composizione elettronica con Giorgio Nottoli. Si è laureata con lode in lettere all’Università La Sapienza di Roma con una tesi su Laborintus II di Luciano Berio ed Edoardo Sanguineti. Rinomata concertista Concertista di livello internazionale, con un repertorio che si estende dalla musica di tradizione fino alle espressioni più avanzate della letteratura pianistica del Novecento, ha suonato in sale prestigiose invitata dalle maggiori associazioni italiane e straniere, tra le quali Teatro Colòn e Conservatorio Nacional di Buenos Aires, Barbara Hall al Victoria Memorial di Calcutta, Teatro Olimpico e San Leone Magno di Roma, Teatro Petruzzelli e Teatro Piccinni di Bari, RAI Radiotelevisione italiana, Auditorium Santa Cecilia di Roma. Ha effettuato numerose registrazioni di opere prime; per la RAI Radiotelevisione italiana ha registrato l’opera omnia pianistica di Anton Webern. All’estero ha tenuto corsi di interpretazione pianistica e stages per le importanti Istituzioni dei paesi toccati dalle tournées concertistiche: la Chulalonkorn University di Bangkok, l’Università della Musica di Rosario; in Italia ha tenuto corsi di alto perfezionamento per l’Accademia Musicale Pescarese, per l’Arts Academy di Roma. È stata invitata spesso a fare parte di Giurie di concorsi nazionali ed internazionali. Scrittura contrappuntistica e comunicativa Alterna l’attività di interprete con quella di compositrice; presente ai Ferienkurse di Darmstadt e nelle programmazioni ELISABETTA CAPURSO, ECCELSA PIANISTA, COMPOSITRICE E MUSICOLOGA di note istituzioni come la Fondazione Incontri Internazionali di Musica contemporanea possiede una scrittura compositiva caratterizzata da un sapiente contrappunto e da una notevole capacità comunicativa. Le sue composizioni sono state eseguite in Italia e all’estero: al terzo programma della RAI, Radio Vaticana, Festival Nuova Consonanza, Festival Antidogma Musica Torino, Nuovi spazi musicali, I corpi del suono di L’Aquila, Stagione concertistica Internazionale d’organo di Lecce, nei teatri delle principali città dell’Argentina Cordoba, Buenos Aires, nella Sala La Caturla del Teatro Amedeo Roldan de La Havana (Cuba). Le sue opere sono pubblicate da Edizioni Musicali Zanibon (Peters), Edipan, AFM Accord for Music. Ha registrato per Icons Antidogma Records e per Radio Vaticana. È presente nella Enciclopedia italiana dei compositori contemporanei Pagano. Docente a S. Cecilia Direttore artistico dei corsi di perfezionamento e del Festival Musicale di Offida, tiene spesso dei seminari in Università italiane e in alcune Istituzioni musicali quali La Sapienza di Roma, UCSA Roma; collabora, inoltre, con varie riviste di musiche contemporanee. Già docente al Conservatorio G. Rossini di Pesaro, è professore di pianoforte principale presso il Conservatorio S. Cecilia di Roma, dove tiene anche i corsi di Semiografia della musica contemporanea nel biennio specialistico. Ha ricevuto premi e riconoscimenti per gli alti meriti artistici. 8 musica mercoledì, 24 aprile 2013 VOCI STORICHE la Voce del popolo L’AVVENTURUOSA VICENDA ARTISTICA DI TITO SCHIPA UN WERTHER FINORA INSUPERATO R affaele Attilio Amedeo Schipa nasce a Lecce, quarto figlio di una famiglia modesta (il padre Luigi è guardia daziaria) nel quartiere popolare delle Scalze negli ultimi giorni del 1888, ma viene iscritto all’anagrafe il 2 gennaio 89 per questioni di leva militare. Il suo sovrannaturale talento vocale viene notato immediatamente dal maestro elementare Giovanni Albani poi da tutta Lecce, per cui fu sempre “propheta in patria”. Con l’arrivo da Napoli del vescovo napoletano Gennaro Trama (1902) vero talent scout dell’epoca, l’avvio all’arte del giovane talento, soprannominato ormai “Titu” (piccoletto), è garantito con la sua entrata in seminario, dove studierà anche da compositore. Il trionfo con Tosca Dopo un adolescenza piuttosto agitata nella sua città natale, dove dà prova, oltre che del suo talento artistico, anche della sua predisposizione all’avventura e alla seduzione, su consiglio del suo miglior maestro di canto, Alceste Gerunda, Tito “emigra” a Milano per completare gli studi con Emilio Piccoli e cercare l’occasione di debutto (naturalmente a pagamento) che avviene a Vercelli con una Traviata (4 Febbraio 1909). Il successo non è immediato (le caratteristiche vocali del ragazzo sono del tutto inconsuete per il pubblico medio dell’epoca) ma la progressione è sicura e costante, fino a che, dopo una lunga routine di formazione nella compagnia operistica di Giuseppe Borboni, culminata a Roma per l’Esposizione Universale del 1911, il primo trionfo lo aspetta a Napoli nella stagione del 1914 diretta da Leopoldo Mugnone, dove con una Tosca leggendaria il nome d’arte “Tito Schipa” si impone definitivamente alle cronache artistiche e mondane. Affermazione internazionale Il successo lo porta subito in Spagna, e lo spagnolo è la lingua più esemplare della sua naturale predisposizione poliglotta (ne parlerà correntemente quattro e ne canterà undici compreso l’aborigeno australiano più, come ripeteva, il la Voce del popolo Anno 9 /n. 69 / mercoledì, 24 aprile 2013 IN PIÙ Supplementi è a cura di Errol Superina [email protected] Edizione Progetto editoriale Caporedattore responsabile Errol Superina Collaboratori Sandro Damiani, Sandro Petruz Foto Sandro Petruz e archivio MUSICA Silvio Forza Redattore esecutivo Patrizia Venucci Merdžo Impaginazione Annamaria Picco || Nella parte di Werther napoletano) il che lo aiuta a conquistare con facilità il cuore degli spagnoli, orfani del loro idolo, il tenore catanese Giuseppe Anselmi. Con una Manon del 14 Gennaio 1918 al Real di Madrid anche il primo trionfo all’estero è assicurato. Segue un periodo di viaggi tra la Spagna e il Sud America, dove si gettano le fondamenta di un lungo intenso rapporto con il pubblico, specialmente argentino. Ma la guerra, col pericolo dei sottomarini, vede il giovane Schipa intentare e vincere una causa con la sua agenzia artistica per farsi riconoscere il diritto a non navigare fino alla cessazione delle ostilità. Il 1919 è l’anno dell’approdo negli Stati Uniti, invitato dalla soprano Scozzese Mary Garden e dall’impresario Cleofonte Campanini, che insieme gestiscono la Civic Opera di Chicago. Qui sposa la soubrette francese Antoinette Michel d’Ogoy, conosciuta a Montecarlo in occasione della prima assoluta di La Rondine di Giacomo Puccini, da cui avrà due figlie, Elena e Liana. Successi e intrighi americani Questa volta è Rigoletto l’opera del debutto trionfale a Chicago (4 Dicembre). Inizia per Tito Schipa l’avventura statunitense, cominciata come probabile successore di Caruso ma in realtà definitasi come quella dell’AntiCaruso per eccellenza, che lo vede tenore stabile di Chicago per 15 anni, indi primo tenore al Metropolitan di New York, ormai tra i più famosi e i più pagati cantanti dell’epoca, specialmente nella categoria del “tenore leggero” o “di grazia” dove si assicura il titolo di massimo interprete d’ogni tempo. La permanenza e la quasi naturalizzazione americana comportano, per il carattere dinamico e curioso del soggetto, una serie di coinvolgimenti artistici, mondani e sociali di grande importanza e spesso di grande rischio: Progetta di scrivere un’opera-jazz (quindici anni prima di Gershwin), si avvicina al repertorio leggero spagnolo e napoletano con risultati insuperati nell’ambito tenorile (grazie anche alla amicizia e collaborazione con gli autori José Padilla e Richard Barthelemy), si apre all’esperienza del nuovo cinema sonoro diventando anche un più che discreto attore di musicals (Vivere! del 1937 capeggerà il box-office italiano sia con la pellicola stessa che con le due canzoni di Bixio incluse, Vivere e Torna piccina mia), si compromette con i gangster di Al Capone venendone classicamente prima ricattato poi blandito, colleziona onorificenze e riconoscimenti prestigiosi, tra cui la Legion d’Onore francese, passa da un’avventura sentimentale all’altra con risultati disastrosi per il suo matrimonio, e soprattutto guadagna cifre vertiginose che sperpera con abilità diabolica, rimbalzando continuamente dalla classifica degli uomini più ricchi del mondo a quella di bersaglio ideale per le stangate di ogni tipo. La seconda guerra mondiale e il suo nuovo legame sentimentale con l’attrice Caterina Boratto, che lo riavvicina all’Italia, lo portano a coinvolgimenti eccessivi con il regime fascista, soprattutto per l’antica amicizia personale con Achille Starace, suo conterraneo. L’America del pre-maccartismo lo dichiara indesiderato, e lo stesso fa l’Italia del Teatro alla Scala appena restaurato e riaperto. Un secondo inizio L’opera di autocritica e di rigenerazione è lunga e faticosa, ma a metà degli anni ‘40 il cinquantenne Tito Schipa è pronto a ripartire per un’altra lunga fetta di carriera che lo porta davanti ai pubblici di tutto il pianeta con la sola esclusione di Cina e Giappone. Nel 1944 conosce l’attrice Teresa Borgna, in arte Diana Prandi, che sposerà nel 1947 e da cui avrà Tito Jr. Nel 1956 un invito a dirigere una scuola di canto a Budapest lo porta per la prima volta oltre cortina, esperienza che culminerà con la presidenza della giuria del festival della gioventù a Mosca nel 1957. Le sue nuove simpatie per il pubblico sovietico gli fruttano i sospetti dei servizi segreti italiani, che gli dedicano un fascicolo del SIFAR e boicottano il suo progetto di aprire un’Accadenia di canto in Italia sotto gli auspici del Quirinale. Ritorno negli States Accusato stavolta di filocomunismo, vittima di gravi traversie economiche e coinvolto in manovre poco chiare di alcuni suoi manager e collaboratori, è costretto a tornare negli Stati Uniti, dove viene accolto, ancora una volta, con entusiasmo. La scuola di canto nasce a New York, ed è mentre insegna canto che il diabete contratto negli anni ‘40 lo porta a morte il 16 dicembre 1965, settantasettenne, dopo una carriera di 57 anni, del tutto straordinaria in un cantante lirico per lunghezza, varietà e glamour. Specializzatosi in un repertorio limitatissimo (segreto della sua strabiliante longevità vocale) Tito Schipa ha raggiunto i vertici della sua Arte nei tre ruoli di protagonista di Werther di Massenet, di L’Elisir d’Amore di Donizetti e di L’Arlesiana di Cilea, in cui resta a tutt’oggi insuperato e forse insuperabile, oltre che nel repertorio classico della canzone spagnola e napoletana.