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Page 10 - La Repubblica.it
Domenica
il fatto
Theodor Herzl, messia tragico
La
di
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
SANDRO VIOLA
l’immagine
Repubblica
L’Eur ovvero la fabbrica del potere
FILIPPO CECCARELLI e MASSIMILIANO FUKSAS
Vita
da
poliziotto
“Ma a noi nessuno chiede scusa”
Ecco chi sono e cosa pensano
FOTO AGF
i celerini nel mirino degli ultras
CARLO BONINI
D
ROMA
ice Antonio: «Ti hanno mai pisciato addosso? Voglio
dire, hai idea di che cosa significhi sentirti zuppo della
puzza di qualcuno che si tira fuori l’affare e si svuota
sulla tua testa, mentre hai l’ordine di startene immobile, con il tuo casco e la tua tuta, nel boccaporto di una curva, perché
altrimenti, il lunedì, dicono che sei stato un irresponsabile a seminare il panico tra chi sta guardando la partita? Eh? Ne hai un’idea? A me
è successo nello stadio di Perugia un paio di anni fa e sento ancora il
tanfo». Antonio, quarantotto anni, è una “guardia”. Come Filippo,
trentanove, e come Lorenzo, trentacinque (sono nomi di fantasia che
proteggono le loro reali identità, note a Repubblica). Un «servo dei servi dei servi», come gli cantano nelle piazze e negli stadi del nostro Paese. È un “celerino” della polizia di Stato, in servizio in un importante
reparto mobile. Filippo scherza: «Almeno il piscio è ignifugo e non ti
hanno “acceso” come Lorenzo». È successo a Genova, nel luglio di sei
anni fa. In piazza Tommaseo. I giorni del G8. Una molotov. Lorenzo
posa il boccale di birra che sta bevendo, si alza come un Cristo in croce: «Qui. Mi è arrivata qui, sul petto. Un paio di secondi e non vedi più
un cazzo, perché la retina è accecata dalla vampata. Senti solo le urla
dei colleghi che ti stanno intorno e, usando le mani e gettandoti per
terra, pensi a fare alla svelta quello che ti hanno insegnato per spegnerti da solo e non accendere chi ti sta intorno».
(segue nelle pagine successive)
GIANCARLO DE CATALDO
la memoria
T
Io, l’ultima dama di compagnia
irauna brutta aria di scontro generazionale. Ragazzi contro poliziotti. L’area “antagonista” è carica di risentimento per i fatti del G8: una brutta pagina, esplorata malvolentieri, raccontata peggio, fra reticenze, mezze ammissioni e bruschi ripensamenti. Fra quelli che due domeniche fa
hanno devastato mezza Italia non mancavano i simpatizzanti dell’estrema destra. In molti, troppi ragazzi, dominano diffidenza, rancore, astio, e, per usare una delle parole più amate delle curve “nere”,
rabbia. E, dopo i tragici fatti di Arezzo, ragazzi che non hanno mai
esercitato, in vita loro, nessuna forma di violenza, canticchiano sarcasticamente sparatece addosso sparatece a tutti. Nello stesso tempo,
chi lavora quotidianamente a stretto contatto con la polizia non può
che apprezzarne l’alta professionalità, e compiacersi per certi risultati eccellenti, come la cattura dei latitanti o la risoluzione (ad onta del
chiacchiericcio dei salotti mediatici) di complessi casi criminali.
Ma ci si può rassegnare a un’immagine così schizofrenica? Da una
parte la polizia buona, sana, efficiente e per giunta così democratica
che ti cattura il capobastone senza sparare un colpo né sporcarsi le
mani nemmeno con un amichevole buffetto. Dall’altra le asprezze
della strada, la repressione, il manganello, l’immancabile (e puntualmente ricorrente nella storia patria) pallottola vagante. La strada. Che ha le sue leggi, le sue regole non scritte e persino la sua lingua.
(segue nelle pagine successive)
NICOLA CARACCIOLO e HORTENSE SERRISTORI
cultura
Le mappe del Paradiso in Terra
ALBERTO MANGUEL e AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI
la lettura
L’erbario segreto di Emily Dickinson
EMILY DICKINSON e NADIA FUSINI
spettacoli
Il libro dei desideri dei grandi del jazz
CONCITA DE GREGORIO
Repubblica Nazionale
32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la copertina
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
“Dimenticate Pasolini, i suoi celerini non esistono più”
Parlano tre poliziotti del reparto mobile, quelli che ogni
domenica fronteggiano gli ultras nelle piazze e negli stadi
“Noi, servi dei servi dei servi”
CARLO BONINI
(segue dalla copertina)
e, come me quel giorno, hai il culo di indossare una tuta ignifuga e
non perdi la testa, resti
vivo e con la pelle con
cui ti ha messo al mondo tua madre. Se no, bene che ti vada, ti ritrovi scuoiato dal calore».
Antonio, Filippo e Lorenzo guadagnano
milletrecento euro netti al mese. Più o meno il soldo di un operaio specializzato. Dovrebbero lavorare sei giorni su sette, sei ore
al giorno, ruotando su quattro turni (0713; 13-19; 19-01; 01-07). Dovrebbero. Dicono non vada mai così. «Lavori fino a
quando c’è bisogno. Sai, forse, quando cominci. Non sai mai quando stacchi». Per
ogni ora di straordinario, sei euro. La domenica, dodici euro forfettari. «Che, in busta paga, vedi dopo quattro o cinque mesi». Nessuno li ha costretti a infilarsi in una
tuta da ordine pubblico. Né la fame, né l’analfabetismo, né il luogo di nascita. Dice
Antonio: «Se i ragazzi mi permettono, visto
che ho i capelli bianchi e ho cominciato nel
‘79 nel reparto mobile di Padova, ti dico: dimentica Pierpaolo Pasolini. I suoi celerini
non esistono più. Quando ero un ragazzino, nei mezzi che ti portavano in piazza e
in cui aspettavi non doveva volare una mosca e, se proprio trovavi qualcosa da leggere, era qualche giornaletto porno. Oggi, nei
nostri Ducato, i colleghi ciattano sui portatili, leggono quotidiani, ascoltano l’ipod. Non lo vuole capire nessuno. O forse
fanno finta di non capirlo, perché fa comodo per poterci dare allegramente dei
subumani. Sia quando si tratta di fare un
po’ di scaricabarile nelle nostre gerarchie,
sia quando la politica, tutta la politica, destra e sinistra, decide di coprire le provocazioni di chi ha deciso di fare bordello in
strada. Respiriamo la stessa aria, abbiamo
gli stessi desideri e viviamo immersi negli
«S
MANGANELLO
Non è il controverso “Tonfa”
in dotazione ai carabinieri
Di gomma flessibile, va usato
in parallelo al terreno
SCUDO
Di plastica trasparente,
in due formati, può essere
spezzato dal lancio di una
bottiglia piena d’acqua
stessi gran casini di quelli che ci troviamo
di fronte nelle piazze e negli stadi. Il problema dell’affitto. Quello della “terza settimana”. Quello di non far sembrare tuo figlio, a scuola, diverso dagli altri perché alterna sempre le stesse due paia di scarpe.
Quello di tua moglie che si è rotta di non vederti mai e un giorno la trovi con un altro».
Lorenzo annuisce. Valle Giulia la conosce anche lui. Ma non per Pasolini, che ne
scriveva quando ancora non era nato. Perché ha mollato la facoltà di architettura al
terzo anno, «con tutti trenta e lode». Conosce l’arabo. Ha studiato il Corano. È di destra. «Molto di destra». Come Filippo, laureato in scienze politiche, ex degli “Irriducibili”, gli ultras della Lazio. «Quando dissi
a mia madre che la facevo finita con la curva e che entravo in Polizia, credo sia stato il
giorno più bello della sua vita. Peccato non
sapesse ancora che quel giorno sarebbe
stato il presupposto di quello più brutto.
Successe la prima volta che le portai a casa
da lavare la mia tuta da ordine pubblico. La
tirò fuori dal sacchetto e vide che la schiena era imbrattata di scaracchi grandi come
pizzette. Si mise a piangere senza avere il
coraggio di chiedermi niente». Antonio
preferisce non dire per chi vota. La mette
così: «Sono stato per qualche anno nella
scorta di Enrico Berlinguer, ho protetto
Arafat in uno dei suoi viaggi a Roma, quando lo cercavano americani e israeliani e bisognava impedire che lo facessero sparire.
In quel periodo mi davano della “guardia
rossa”. Poi succede che, dopo il G8 di Genova, chiacchiero con un giornalista di un
quotidiano di sinistra. Gli racconto la mia
storia e quello che penso e lui si scusa. Mi
dice che non scriverà, perché ha bisogno di
un celerino fascista. Un poliziotto e basta
non serviva».
Eppure la politica c’entra. Eccome. Lorenzo: «Nei reparti trovi di tutto. Dal comunista, all’anarchico, a quello che vota
Ds o Forza Italia. E spesso ci si scazza. Una
volta mi capitò di trovarmi con due colleghi. Uno era ebreo. L’altro un vero e pro-
CASCO
In fibra di vetro, con celata
integrale. Va indossato
all’ultimo momento
utile prima delle cariche
PISTOLA
È la Beretta calibro nove
per ventuno di ordinanza,
custodita in una fondina
speciale anti-disarmo
prio nazista. Beh, dopo un servizio si attaccarono di brutto. E non ti sto a dire cosa
uscì dalle loro bocche. Dopo di allora, li ho
visti difendersi e proteggersi in piazza come fratelli. Forse perché la strada gli aveva
mostrato il volto ipocrita della politica e
con lei quello delle scelte di ordine pubblico». Racconta Antonio: «Accade che all’inizio di una settimana veniamo messi di
servizio a una manifestazione di antagonisti e ce ne stiamo a fare da spettatori mentre qualche decina di dementi fa la spesa
proletaria in un supermercato. Accade infatti che l’ordine è quello di assistere immobili. Di non provarci neanche a farli
smettere, perché la direttiva è non cedere
alle provocazioni. Io il furto lo chiamo reato e sarei anche un ufficiale di polizia giudiziaria, ma tant’è. Non sono nato ieri. Bene, passano un paio di giorni e ci ritroviamo in piazza Montecitorio, con gli operai
del Sulcis. Hai presente, no? Ragazzi e padri di famiglia che si fanno il culo duecento metri sotto terra, lasciandoci un pezzo
di vita ogni giorno, per portare a casa meno soldi del sottoscritto. Va tutto bene, finché uno di questi operai che chiedevano
inutilmente di essere ricevuti nel palazzo
della politica ha l’idea di scavalcare una
delle transenne che proteggono la zona di
rispetto della piazza. Non l’avesse mai fatto. Riceviamo immediatamente l’ordine
di caricare e facciamo a pezzi quei poveretti. Uno dei miei, alla fine, piangeva. Si è
avvicinato a uno degli operai più malconci e gli ha dato il suo sacchetto con la roba
da mangiare. Volevano metterlo sotto processo disciplinare. Dopo una settimana
così, pensi significhi qualcosa dire sono di
destra o di sinistra?». Filippo annuisce:
«Per non parlare di certi parlamentari. Arrivano alla testa dei cortei con il tesserino
in mano e capisci che sta per cominciare
una recita che umilia tutti. Ti racconto una
storia soltanto, l’ultima. Sgombero dei rumeni a Roma. Li raccogliamo nelle baraccopoli e ne concentriamo un po’ nell’ufficio per il decoro urbano della Ama, a Pon-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33
“Respiriamo la stessa aria, abbiamo gli stessi desideri
e viviamo immersi negli stessi casini di chi ci sta davanti:
il problema dell’affitto, quello della terza settimana...”
Gli sbirri e gli stradaioli
disperazioni allo specchio
GIANCARLO DE CATALDO
(segue dalla copertina)
a strada, dove il poliziotto è coniglio o infame,
e chi si maschera per spaccare tutto, semplicemente, stradaiolo. Ora, alla gente comune
gli stradaioli fanno paura, e se ne chiede, puntualmente, la repressione. E i brillanti successi dell’Antimafia lasciano del tutto indifferenti gli stradaioli.
Non è che esistano due polizie. È la percezione della divisa che divide nettamente gli stradaioli dal resto del mondo. Non è più, come ai tempi della famosa lettera di Pasolini per i fatti di Valle Giulia, uno
scontro di classe. Quando si schierò dalla parte dei
ragazzi del Sud in divisa contro i figli dei borghesi
che giocavano alla rivoluzione, Pasolini osò infrangere, una volta per sempre, il tabù, caro alla sinistra
del tempo, di una sbirraglia braccio armato della repressione politica. Nell’immaginario pre-sessantottino, il poliziotto era “questurino”, “piedipiatti”:
figura che non autorizzava nessun trasporto, nessuna epica. Erano, quelle parole di Pasolini che tanto fecero discutere, uno schiaffone al conformismo
dei luoghi comuni e l’apertura di una linea di credito verso i volti, i corpi, i sentimenti di giovani che
non potevano, non dovevano essere mandati in
guerra contro altri giovani. Parole pesanti: perché
provenivano da un comunista e da un omosessuale, in quanto tale violentemente perseguitato.
Oggi, a quarant’anni di distanza, lo sbirro e il giovane stradaiolo sono un’altra volta l’uno di fronte
all’altro. Un’altra volta giù nella strada. Dove il
confronto è immediato e diretto e non ci sono mediazioni che tengano. Non è più il tempo di Valle
Giulia, ma i luoghi comuni esistono anche oggi. Si
chiamano “pochi estremisti”, “emergenza ultrà” e
via dicendo. Oggi la lettera nobile e ispirata del
poeta non farebbe nessun effetto. Nella violenza di
strada, oggi, c’è qualcosa di diverso, a un tempo più
L
atroce e amaro. Nella strada lo “sbirro” è la faccia
più visibile dello Stato. Nell’aggredire questa figura, simbolica e reale, gli stradaioli ci scagliano contro una violenza che non è più ideologica, non è più
politica, ma ha il sapore di una profonda disperazione esistenziale. È un sapore di vite precarie,
soffocate da un senso di esclusione che si fa ribellione, più simile al riot, alla sommossa spontanea,
che a intenti sorretti da chissà quale disegno strategico. Il tifo calcistico, la curva eletta a luogo di elaborazione di un pensiero mitico, strutturato intorno a poche parole d’ordine da difendere a ogni costo, la Bandiera, la Fede, l’Onore, tutto questo può
costituire persino un alibi, ma non spiega né esaurisce l’ampiezza e la trasversalità del fenomeno.
Il giovane poliziotto è, in questo momento, ora e
adesso, l’incarnazione di un “sistema” che alimenta promesse vane sapendo di non poterle mantenere. È il volto degli inafferrabili e lontani banchieri che decidono del nostro destino e, indifferenti alla nostra carne viva, ci considerano “numeri”
aziendali. È l’immigrato, un poverocristo che ha il
solo torto di venire da un altro mondo e che accusiamo di rubarci il lavoro. È l’arcigno guardiano
della soglia di una felicità riservata agli altri, ai predestinati, ai fortunati, agli integrati. Per questo si
colpisce lo “sbirro”. Ora, poiché le strade non possono diventare teatro di guerriglia, indagini e repressione devono fare il loro corso. Ma la repressione, da sola, non basta. Se non vogliamo continuare a consolarci con la storiella dei “pochi facinorosi” o, peggio, rassegnarci a perdere un corposo settore dei nostri giovani, li dobbiamo convincere, con i fatti, che lo Stato non è Moloch
divoratore di innocenti, che non si può essere disperati né a vent’anni e nemmeno a trenta. Che
dietro il volto del giovane poliziotto non si nasconde la maschera del Nemico.
E vuoi la prova? Domenica 11 novembre, il
giorno della morte di Sandri, ero allo stadio
Olimpico. Sai quanti dei nostri sono finiti
all’ospedale? Trentasette. A un certo punto ci sono venuti addosso con un’accetta.
E, come è noto, avevamo l’ordine di non
reagire. Lunedì mattina, tutti hanno chiesto scusa. Il capo dello Stato, il ministro
dell’interno, il capo della polizia. Tutti
hanno giustamente chiesto scusa alla famiglia di Sandri. Qualcuno ha chiesto scusa ai reparti celere che a Roma, Milano,
Bergamo, Parma hanno sopportato di tutto e di più? A quelli che sono finiti in ospedale, come un collega che ha quasi perso
un occhio per una bomba carta? Non ha
chiesto scusa nessuno. Chiedere scusa è
troppo? Diciamo allora, qualcuno ha ringraziato i “servi dei servi dei servi”? Nessuno. E allora perché dovremmo meritare rispetto? Perché un ragazzino di quattordici
anni dovrebbe capire che non sta bene
scrivere su un muro “uno, dieci, cento, mille Raciti”?».
Antonio, Filippo e Lorenzo sono sicuri
che i giorni della collera e dell’odio sono
solo all’inizio. E che la ferita di Genova e del
G8, mai rimarginata, può solo tornare ad
aprirsi, ad infettarsi della linfa velenosa
degli stadi. A Genova c’erano anche loro.
Su Genova, Filippo sta scrivendo un romanzo: «È cominciato tutto lì. Anche se
non so se troverò mai qualcuno che lo pubblicherà. In fondo, a chi può interessare il
racconto di quei giorni attraverso gli occhi
di un celerino? Non è importato a nessuno
per sei anni. Perché dovrebbe importare
oggi? Ma non me ne frega nulla se resterà
solo un manoscritto. Fa bene a me ricordare quei tre giorni in cui è stata sospesa la
legalità. E perché è accaduto. E come».
Ora salutano. Lorenzo infila la mano nel
cassetto della sua auto. Ne estrae due cd.
«Tieni, te li regalo. Così sai cosa ascolto
quando mi infilo la tuta da ordine pubblico e quando me la tolgo tornando a casa da
mio figlio». Johann Sebastian Bach: Variazioni Goldberg, Gloria in excelsis Deo.
FOTO FABIO FIORANI/AG.SINTESI
te Marconi, dietro il cinodromo, in attesa
di trasferirli verso la frontiera. Arriva l’onorevole di Rifondazione Francesco Caruso
alla testa di un centinaio di ragazzi. Da
quello che si capisce, vogliono impedire
pacificamente il trasferimento dei rumeni, bloccando l’uscita dei pullman. E la cosa, politicamente, ci sta. Bene, sai che accade? Dopo un po’ si avvicina a noi del reparto e dice: “Ma che ve lo devo insegnare
io come si fa? Caricate i rumeni sui vostri
mezzi di ordine pubblico e fateli uscire da
un altro ingresso. A quel punto noi ce ne
andiamo e siamo tutti contenti”. Siamo
tutti contenti? Chi è contento di partecipare a una farsa? I rumeni? Noi celerini? I ragazzi che sono venuti lì per impedire lo
sgombero?».
Antonio, Filippo, Lorenzo continuano a
raccontare, scendendo ogni volta un gradino in più nel loro microcosmo. Filippo
spiega che, una volta abbassata la visiera,
l’elmo che indossano amplifica i rumori
della piazza o dello stadio, lasciandoti per
ore un senso di ottundimento. Che quell’insopportabile e indistinto rumore di
fondo, alla fine, ti fa concentrare soltanto
sul tuo respiro, trasformandolo in un’ossessione acustica. Lorenzo dice che quando sei in strada «devi dimenticare chi sei,
come ti hanno educato tuo padre e tua madre, altrimenti diventi pazzo e reagiresti
come non devi». Ma in fondo stanno girando intorno a una verità che fanno fatica
a esprimere, finché Filippo non la rovescia
sul tavolo delle birre che hanno continuato ad ammucchiarsi per tutta la sera, come
fosse un rigurgito. «Sai che penso davvero?
Che l’uomo sano è nella tuta da ordine
pubblico. Che ti devo dire, forse penso
questo perché è la mia unica via di uscita
psicologica. Forse perché l’unico momento in cui non mi sento solo in questo Paese
è quando divido la piazza e gli stadi con i
miei colleghi». «È vero», dice ora Lorenzo.
«Perché non può che essere solo chi è servo dei servi dei servi. Ma servo della possibilità che questo Paese resti democratico.
Repubblica Nazionale
34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il fatto
Padri della patria
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
Ai primi di dicembre le spoglie dell’unico nipote
del fondatore del sionismo verranno esumate a Washington
e ritumulate a Gerusalemme, vicino a quelle del nonno
Dietro questa pietosa cerimonia c’è la storia tormentata
di una famiglia perseguitata dalla follia e dalla morte
FOTO FRATELLI ALINARI
LLET
GER-VIO
FOTO RO
e un lungo conflitto dottrinale in seno all’ebraismo
Herzl, messia dalla vita tragica
SANDRO VIOLA
Q
uando a Vienna Theodor Herzl entrava in un teatro, lungo le file della
platea si sentiva mormorare: «È arrivata sua maestà». La frase era in parte sarcastica. Essa alludeva infatti alle accoglienze trionfali che le comunità ebraiche in Europa centrorientale, ma anche
a Londra o a Istanbul, tributavano ad Herzl ogni
volta che egli andava ad esporre il progetto d’uno
Judenstaat, il nuovo Israele dove ricondurre gli
ebrei della diaspora. Ma in parte la frase rifletteva
anche l’impressione che proveniva dall’aspetto
fisico del personaggio. In quella metà degli anni
Novanta dell’Ottocento, ancora trentenne, Herzl
era infatti un uomo di lineamenti perfetti, grande eleganza, l’incedere e i gesti d’un primo attore. Non solo: era benestante, sposato ad una
donna molto ricca, con alle spalle un largo successo come giornalista e qualche buon esito anche come commediografo. Le donne, infatti, lo
rincorrevano.
Il primo a sapere quale effetto producessero
sugli astanti la sua figura e il suo carisma, era lui
stesso. Quando a Sofia un migliaio d’ebrei erano
andati ad accoglierlo alla stazione inneggiando a
«Herzl, re d’Israele», e lo stesso era avvenuto con
altre comunità della diaspora, quelle invocazioni non l’avevano lasciato indifferente. Si tende a
dimenticarlo, ma le prime idee di Herzl sullo Stato ebraico non prevedevano né una vera forma
repubblicana né un ordinamento democratico,
e neppure una benché minima interferenza della religione nella vita sociale.
Fervidi ammiratori dell’aristocrazia asburgica, sua madre e lui covavano una vera e propria
smania di nobiltà. La madre Jeannette pretendeva di discendere dai re di Giudea, lui avrebbe voluto essere prima d’ogni altra cosa un aristocratico. Sognava d’essere un conte ricevuto all’Hofburg da Francesco Giuseppe, si paragonava nei
suoi diari a Bismarck e a Napoleone, e più tardi
aveva immaginato che nello Judenstaat il potere
sarebbe stato tenuto da una specie di Doge, e trasmesso per via ereditaria.
D’altronde, non fosse stato un sognatore,
Herzl non sarebbe forse riuscito nella sua impresa di raccogliere attorno al progetto sionista gli
ebrei di Serbia, Bulgaria, Romania, Polonia, Russia, stabilendo così le premesse della rinascita
d’Israele. È vero infatti che l’idea e le speranze
d’un ritorno a Sion circolavano in Europa già da
una ventina d’anni: ma fu Herzl a trasformare un
movimento sin allora amorfo, senza basi dottrinarie e organizzative, in un’efficiente macchina
politica e propagandistica (provvista d’una banca e d’un giornale) che impose il dibattito sul sionismo all’attenzione dei governi europei. E il tutto avvenne in appena un paio d’anni, dopo che
Fragilità psichica
e due suicidi nell’arco
di due generazioni
nel 1895 era tornato a Vienna da Parigi, dov’era
stato corrispondente del migliore giornale austriaco, la Neue Freie Presse. E lì aveva assistito
sgomento all’ondata antisemita scatenatasi col
caso Dreyfus.
Ma nonostante i primi successi nella mobilitazione sionista, il favore che incontravano i suoi articoli e gli sguardi ammirati che l’avvolgevano ad
ogni comparsa in pubblico, Theodor Herzl era un
uomo depresso, l’animo lacerato da un’infelice
vita familiare. Il rapporto con sua moglie Julie Naschauer, figlia d’un potente finanziere ebreo, era
stato tempestoso sin dal viaggio di nozze nel 1889.
Già in quei primi giorni la giovane donna aveva infatti rivelato una mancanza d’equilibrio, una labilità psichica che risalivano probabilmente ad
una storia d’isteria familiare. Era soggetta a continui sbalzi d’umore, a collere furibonde. Né questo era tutto, dato che anche i rapporti tra Julie e la
madre di Herzl — da questi fervidamente, anzi
morbosamente amata — s’erano subito inveleniti, producendo una continua e snervante turbolenza nelle giornate della famiglia.
Non è un caso che i biografi del fondatore del
nuovo Israele si soffermino a lungo sullo sfondo
viennese della sua vita. Primo, per la contiguità
con alcuni dei personaggi di quella che chiamiamo la Grande Vienna. Da giovanissimo, quando
i suoi genitori s’erano trasferiti da Budapest nella capitale austriaca, Herzl aveva infatti abitato a
lungo nella Praterstrasse, non lontano dallo studio di Sigmund Freud e a due passi dalle abitazioni di Arthur Schnitzler e Gustav Mahler. E in
secondo luogo, perché Herzl — l’ebreo colto, raffinato, che sogna di veder rappresentata una sua
commedia al Burgtheater, ma con alle spalle un
dramma familiare — sembra uscito da un romanzo degli scrittori viennesi dell’epoca, Schnitzler soprattutto, ma anche Zweig o Roth. Così
come avrebbe potuto essere il padre o marito d’una paziente afflitta da crisi isteriche, e finita in cura da un medico di cui in quegli anni stava crescendo la fama: il Dottor Freud.
Il dramma familiare di Herzl non restò circoscritto ai dissapori con la moglie, e col tempo si sarebbe trasformato in una tragedia. Tragedia cui
egli non assistette, perché morì nel 1904: dopo i
primi due congressi sionisti, quando ancora pensava d’accettare la proposta inglese d’uno Stato
degli ebrei in Uganda. Il precipizio s’aprì infatti
molto più tardi, e riguardò i suoi tre figli, Pauline,
Hans e Trude. Rimasti orfani (la madre era morta tre anni dopo Herzl) e affidati ai parenti Na-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35
LA DINASTIA
FOTO FOTOTECA GILARDI
Qui accanto a sinistra, quattro ritratti di Theodor Herzl:
su una cartolina postale; in una caricatura dell’epoca,
mentre piange sulle rovine di Gerusalemme; e su un paio
di francobolli israeliani. Nelle altre immagini, da sinistra:
due appunti di Herzl con l’abbozzo della bandiera
di un futuro Stato ebraico; Herzl nel 1898, al centro
di una delegazione sionista a bordo di una nave;
qui sotto, con i suoi tre figli Hans, Trude e Pauline,
in una foto che risale probabilmente al 1897
schauer, Pauline, Hans e Trude vissero infatti vite sciagurate, prendendo anche loro i tratti di certi cupi personaggi della narrativa finis Austriae.
Come la madre anche lei psichicamente fragile,
tossicomane e in un continuo va e vieni dalle case di cura, Pauline morì a Bordeaux nel 1930 per
una overdose di morfina. Hans, che a vent’anni
s’era convertito al cattolicesimo e per un certo periodo era stato paziente di Freud, andò al funerale della sorella e due giorni dopo si suicidò con un
colpo di pistola. Né andò meglio a Trude. Sposata Neumann, per anni ricoverata in cliniche per
malattie mentali e poi in un ospedale psichiatrico, nel 1942 Trude venne portata via dai nazisti
con tutti gli altri pazienti ebrei dell’ospedale e internata nel campo di concentramento di Theresienstadt. Alcuni mesi dopo morì, e il suo cadavere scomparve, forse cremato o forse in una fossa comune.
Ma Trude aveva avuto un figlio, Stephan Neumann, nato nel 1918, l’unico nipote di Theodor
Herzl. Ed è di costui che s’è molto parlato in queste settimane sulla stampa israeliana: i suoi resti
stanno infatti per essere traslati a Gerusalemme,
sul monte Herzl, dove sono sepolti il leader sionista, i suoi genitori, sua sorella e i figli Pauline e
Hans. I giornali parlano dell’evento perché in
Israele non c’è un pieno consenso, anzi c’è stato
un dibattito con toni a volte aspri, sull’arrivo dei
resti di Stephan Neumann. E il motivo della discussione è presto detto. Anche il figlio di Trude
Herzl-Neumann ebbe un destino fosco, e alla fine tragico, come quello di sua madre e dei suoi zii.
Una vita totalmente «contraria», come hanno sostenuto due o tre rabbini, «ai valori dell’ebraismo».
Quando i nazisti si preparavano all’Anschluss,
poche settimane prima dell’invasione, Stephan
venne infatti inviato in Inghilterra da un vecchio
amico di Herzl, David Wolfshon. Lì, più o meno
come il protagonista d’un grande romanzo dell’ultimo quindicennio, Austerlitz di George Sebald, il diciottenne Neumann frequentò una public schoole poi l’università. Quindi cambiò il nome divenendo Stephen Norman, si convertì al
cristianesimo e infine partecipò all’ultimo scorcio della guerra come ufficiale nell’esercito britannico. Fu davvero anche lui, a Londra, un paziente di Freud? Alcuni biografi di Herzl ne sono
certi, altri no. In ogni caso Norman morì suicida
nel ‘46. Stava a Washington con un modesto incarico all’ambasciata inglese, e una mattina si
gettò dal Massachussets Avenue Bridge.
Dopo essersi convertito
Stephen Norman
si tolse la vita a 28 anni
Sono stati necessari perciò molti sforzi da parte d’un paio d’organizzazioni sioniste americane, per far accettare in Israele (ai sionisti religiosi, agli ultra-ortodossi) la sepoltura di Stephen
Norman, convertito e suicida, vicino ai suoi parenti sul monte Herzl. La legge rabbinica proibisce infatti di seppellire i suicidi in un cimitero
ebraico, e questo sembrava aver bloccato il progetto della Jewish American Society for Historic
Preservation, che per prima aveva pensato alla
traslazione.
Del resto, già l’anno scorso era stato anche lungo e difficile convincere i rabbini ad autorizzare
la sepoltura a Gerusalemme dei due figli di Herzl,
Pauline e Hans, in due tombe vicine a quella del
padre. La tossicomania di Pauline, la conversione e il suicidio di Hans davano una solida base alle obiezioni degli ortodossi. Nel caso dei due figli
c’erano però le volontà testamentarie del padre,
che aveva scritto di voler essere seppellito nello
Stato degli ebrei (il giorno che ce ne fosse stato
uno) accanto ai genitori, alla sorella e ai figli. Volontà che alla fine hanno avuto la meglio sulle
proteste degli oppositori.
Resta che il leader del sionismo, assolutamente laico, non aveva fatto i conti con la pedanteria e
i cavilli dei rabbini. La traslazione dei suoi genitori e della sorella sul monte Herzl avvenne infatti all’inizio dei Cinquanta: ma per i figli s’è dovuto
aspettare il 2006, un altro mezzo secolo. Nessuna
meraviglia quindi che anche l’opposizione alla
sepoltura del nipote sia stata nei mesi scorsi molto dura, animosa. Del nipote di Herzl, gli ultraortodossi — che del resto non hanno mai accettato
il sionismo — non volevano neppure sentir parlare. Sinché uno degli esponenti della Jewish American Society, Jerry Klinger, non ha pensato di produrre uno strano documento. Un referto clinico
sostenuto da chi sa quali dati, secondo cui la famiglia di Theodor Herzl (lui stesso, i genitori e la
moglie) era affetta da turbe psichiche ereditarie:
le turbe all’origine del suicidio di Stephen Norman. E così, con l’attestazione d’una patologia
mentale del grande ispiratore del nuovo Israele,
la diatriba s’è finalmente conclusa.
Tra pochi giorni il figlio di Trude Herzl-Neumann avrà infatti una tomba vicina a quelle in
marmo chiaro con intorno arbusti d’alloro in cui
riposano i bisnonni e gli zii, non lontano da quella del famoso nonno. Del quale — perché fosse
possibile traslare a Gerusalemme i resti dello
sventurato nipote —, s’è dovuto insinuare che
non fosse proprio a posto con la testa.
Repubblica Nazionale
36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
l’immagine
Cantieri
Quando Bottai
convinse Mussolini
a celebrare
con un grande
progetto il ventennale
del fascismo, il Duce
entusiasta scelse
l’area delle Tre
Fontane. Lì sarebbe
sorto l’E42,
il quartiere simbolo
della “Terza Roma”
Il regime cadde,
quei palazzi rimasero
Dai loro scantinati
sono saltate fuori
migliaia di foto
che documentano
una storia italiana
FILIPPO CECCARELLI
utentiche meraviglie riposano di solito nelle cantine. E tanto più a Roma, la
Città Eterna, dove la memoria ammuffita dell’ipogeo nasconde tesori di
sorprendente e inusitato valore, come se
il buio e l’oblio, il disordine della storia e
la damnatio della memoria si fossero
preoccupati di conservare certe testimonianze con l’occulto scopo di riportarle
alla luce nel momento opportuno...
In breve e con la ragionevole promessa, dato anche l’argomento, di misurare
d’ora in poi il tasso di retorica: negli scantinati del Palazzo della civiltà italiana, il
cosiddetto “Colosseo quadrato”, e in
quelli del Palazzo degli uffici, dove ha sede Eur Spa, sono stati ritrovati diversi rimarchevoli materiali tra cui delle foto
stupende. O meglio: per iniziativa del
professor Mauro Miccio, che nella sua
pur varia carriera di teorico e manager
della comunicazione mai avrebbe sospettato di trasformarsi in una specie di
archeologo della sua azienda oltre che
della zona in cui lavora, sono state restaurate delle lastre fotografiche, invero
piuttosto malridotte, che adesso offrono
allo sguardo visioni degne di un CartierBresson. Mentre invece sono istantanee
anonime, trovatelle, probabilmente
prodotte nel corso di sopralluoghi per
esigenze di lavoro.
Ebbene: queste immagini non solo
cantano, ma in qualche modo riscattano
le stesse ragioni che le avevano precipitate sotto terra, nell’abbandono e nella vergogna. Rappresentano infatti i lavori di
costruzione dell’E42, il vasto insediamento che l’architettura del regime mussoliniano aveva in programma per degnamente celebrare, con un’esposizione internazionale che poi mai si fece, i
vent’anni della marcia su Roma; e la gloria pregiudiziale del fascismo; e il genio
italico ritornato sui «colli fatali» dell’Urbe; e l’attitudine bellica di un popolo che
il Duce qualificava «di poeti di artisti di
eroi di santi di pensatori di scienziati di
navigatori di trasmigratori» come ancora si legge sul frontone di quel gigantesco
A
Eur, la fabbrica del potere
cubo razionalista che perfino nel numero dei piani (sei) e delle arcate (nove) sembra dovesse riflettere, conteggiandole, le
lettere di Benito e di Mussolini.
Ebbene, in cima a quel monumento
inconcluso, nel vuoto della campagna
assolata si staglia oggi la sagoma di un
operaio che ha la grazia raccolta di un
acrobata. In un’altra foto si vede una fila
di lavoratori che a forza di braccia tirano
un cavo con le stesse facce, gli stessi
sguardi e la stessa concentrazione di certe icone del New Deal. Potenza. Equilibrio. Geometria. Poesia. Operai a cavalcioni sull’arco che Adalberto Libera non
ha ancora appoggiato al vertice del Palazzo dei congressi: ma in bilico su una
struttura appoggiata a dei tubi Innocenti c’è anche l’ingegnere con il suo cappello Borsalino, ed è come se danzasse tra fili e carrucole, sotto un cielo bianchissimo, come una specie di figura di Chagall.
Sono figurazioni astratte e insieme
umanissime presenze che a settant’anni
di distanza finiscono per purificare quella pazza avventura architettonica che fu
l’E42. Il pasto dei manovali, il silenzio che
si coglie su quella scena, le scarpe impolverate in primo piano, il grappolo d’uva,
le pietre spezzate, tutto sembra anticipare le inquadrature del neorealismo. Due
ragazzini a bocconi sui mosaici di stile
kitsch imperiale, una scopa e un secchio
di calce riabilitano l’onore del lavoro e in
fondo della realtà di fronte alla dissennata superbia di quelle forme.
Memorie pesanti che recuperano di
colpo la loro leggerezza. Viene da pensare che forse è stato davvero un bene che
quelle lastre fotografiche, quei pezzi di
vetro alla gelatina ai sali d’argento siano
rimaste sepolte così a lungo, pure sfidando umidità, crinature, fratture, graffi, impronte, abrasioni; ma anche fastidio, vergogna, mancanza di senso.
Un umile scalpellino è alle prese con
un marmoreo bassorilievo, apoteosi del
lavoro e della santità, pare di capire, al
piano di sopra; mentre al piano terra, a
grandezza naturale, si santifica la potenza militare, legionari con casco e fucile a tracolla, bandiere, labari, insegne,
gagliardetti, donne supplicanti un condottiero a cavallo, anche se in piedi, e
pure con elmetto, un braccio proteso
nel saluto romano, l’altro con il pugno
appoggiato minacciosamente sui fianchi. E l’omino vero che nell’umile foto di
IL PROGETTO
Nel 2005 dai sotterranei del Palazzo
degli uffici, dove ha sede l’Eur Spa,
sono emersi sedicimila scatti fotografici
mai visti sulla storia dell’ E42. Il progetto
di restauro, voluto dall’Eur Spa
e dalla Sovrintendenza ai beni culturali
del Lazio, di oltre tremila negativi
su lastre di vetro sarà presentato
a Venezia durante il Salone dei beni
e delle attività culturali dal 29 novembre
al primo dicembre. Dal 12 al 20 gennaio
2008 all’Eur sarà realizzata una mostra
con una selezione di trecento immagini
dal titolo Istantanee di vita
lavoro se ne sta lì sotto, a rifinire quella
bizzarra creazione che presto verrà tragicamente contraddetta dagli eventi —
e ciò che resta di quel tempo è la sua camicia, il suo berretto, la pacifica sua fatica. Postuma, per giunta, eppure o forse
proprio per questo tale da ristabilire una
ragionevole gerarchia di ricordi, di valori e di segni, e proprio nel cuore del sogno mattoide dell’E42.
Fu il più illuminato dei gerarchi, Giuseppe Bottai, a spingere Mussolini su
quella strada già nel 1935, in vista del
ventennale del regime. Il Duce scelse
l’area delle Tre Fontane, e subito fu entusiasta del progetto, che interessò i migliori architetti su piazza. Ma già allora il
capo del fascismo aveva troppe cose a
cui pensare, né alcuno che temperasse
la sua conclamata, patologica megalomania. Ancora oggi si fatica a capire cosa veramente significasse quel progetto
per Mussolini, se non il tentativo, forse,
di regolare personalmente i suoi conti
con Roma, quale essa era e ancor più
quale lui la sentiva: scettica, pittoresca,
disordinata, opportunista, irridente.
Così si proclamò demiurgo della fantomatica “Terza Roma”, dopo quella dei
Cesari e dei Papi, convincendosi della
necessità di allestire una bianca scenografia per i riti totalitari.
Sul piano estetico puntò sull’imperium, sul grandioso e sul moderno, proponendo l’E42 come «l’ostentazione
consapevole e matura della civiltà italiana, romana e fascista in tutti i suoi aspetti», come ha sintetizzato Vittorio Vidotto
(Roma contemporanea, Laterza, 2006).
Non era previsto che qualcuno potesse
opporsi a quest’idea.
«La Terza Roma — venne inciso sull’edificio nei cui scantinati finirono le foto
— si dilaterà sopra altri colli lungo le rive
del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno». Ma in questa pur legittima indicazione urbanistica, almeno sulla carta, entrò di tutto: teatri, palazzi, musei, padiglioni (uno da dedicare al fratello defunto di Mussolini), archi di trionfo in metallo, elementi di classicismo onirico e cimiteriale, statue di uomini nudi che
tenevano a freno cavalli o si strusciavano
addosso a leoni con la lingua penzolante.
Ma soprattutto guerrieri, armi, eroismo.
Si è poi capito, purtroppo, dove buttava questa impostazione. Ora si comprende bene come quelle frenesie, quel-
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37
Quel set metafisico
nato troppo presto
MASSIMILIANO FUKSAS
UOMINI E PALAZZI
• Ultimi ritocchi
al bassorilievo
di Publio Morbiducci
Storia edilizia
di Roma
(1939)
• Operai al lavoro
su una struttura
in ferro del cantiere
del Palazzo
dei ricevimenti
e congressi
(1940)
• Un gruppo
di operai durante
la pausa pranzo
(1937-1941)
• Lavoratori sotto
sforzo nel trascinare
una macchina
da costruzione
(1937-1941)
• Un gruppo di bimbe
profughe giuliane fanno
un girotondo davanti
al “Colosseo quadrato”,
dove erano ospitate
(1958)
• Nella foto in basso
a sinistra, il progetto
originale dell’E42
(Tutte le foto pubblicate
in queste pagine sono
gentilmente concesse
dall’Eur Spa)
Eur è un’eccezione, una contraddizione irripetibile nella storia di Roma. È
un progetto monumentale che ricorda un passato pesante ma allo stesso tempo è
un luogo di forte dinamismo, trasformazione,
vitalità. Lo anima una tensione alla modernità
che non ha mai smesso di agire. Se arriva troppo tardi per l’Esposizione universale del 1942
per cui era stato pensato (scoppia la Seconda
guerra e tutto va all’aria), arriva troppo presto
rispetto alla sensibilità comune: la sua proiezione avveniristica scardina schemi urbanistici e consuetudini estetiche. I migliori architetti che vengono chiamati a lavorarci hanno
esperienze internazionali, una cultura formata nel mondo. Si trattava di ricostruire il Paese,
circolava entusiasmo e ottimismo, si era passati per l’esperienza del Futurismo e della sua
fiducia nel progresso, nelle tecnologie, nella
comunicazione. Nasceva il mito del piroscafo,
dell’aereo, dei viaggi.
Al di là della propaganda, delle tentazioni autocelebrative e monumentali, il capolavoro urbanistico di Marcello Piacentini porta in sé i
germi di un’accoglienza del nuovo, di uno sperimentalismo fino ad allora mai praticato. Lo
dimostra il fatto che quando la guerra interrompe il sogno dell’Esposizione (che è il tentativo dell’Italia di allinearsi all’Occidente più
avanzato) e molti edifici rimangono incompiuti e i cantieri aperti, l’Eur continua a produrre
idee e ricostruzioni. All’interno del quartiere
completato nel dopoguerra, sono nate alcune
delle architetture più significative di Roma,
opere che uniscono classico e moderno (barocco e international italian style) edifici di
straordinario valore simbolico, spesso riconducibili all’orizzonte metafisico di De Chirico:
il Palazzo della civiltà italiana di Guerrini, La
Padula e Romano; il Palazzo dei ricevimenti e
dei congressi di Adalberto Libera; il Palazzo degli uffici di Gaetano Minnucci; i musei e il teatro sulla piazza imperiale cui collaborarono Fariello, Muratori, Quaroni, Moretti e altri; l’edificio delle Poste di Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers; il Museo della civiltà romana di
Aschieri, Bernardini e Pascoletti.
Non è un caso che l’Eur anche per Fellini sia
stato l’unico set in grado di competere con Cinecittà. E il cinema, che tanto rappresentò per
il fascismo in termini di modernità e comunicazione oltre che di propaganda, è uno spirito
che si aggira ancora nel quartiere. Ne interpreta lo spirito e incarna quello che mai dovremmo dimenticare: che la città vive in un metabolismo continuo. Roma in particolare incarna
questa prospettiva, ha un passato sedimentato
che spinge sempre verso il dopo.
Tra gli edifici della ricostruzione, tra i più significativi ci sono i contenitori realizzati dall’Eni, dalla Società generale immobiliare e dall’Inps, il Grattacielo Italia, il ministero delle Finanze e il nuovo palazzo sede della Democrazia cristiana, di Saverio Muratori. Altri, portati
a termine per l’occasione delle Olimpiadi romane del 1960, come il “Fungo” di Colosimo,
Martinelli e Varisco, il Palazzo dello sport di
Pierluigi Nervi e Marcello Piacentini, e il bellissimo Velodromo olimpico di Ligini, Ortensi e
Ricci ma che è ormai scomparso. Non dimentichiamo l’“asse” piacentino rappresentato
dalla via Cristoforo Colombo per ricucire la
città al mare (e ristabilire nelle intenzioni originarie il legame storico e ideologico con l’antico
porto della Roma imperiale). La mia Nuvola si
inserisce in questa traiettoria: materiale aereo
“incorniciato” in un cubo, morbidezza nella
razionalità, comunicazione dentro la storia e la
memoria. Sta dentro un passato “pesante” ma
si alza leggera.
(Testo raccolto da Alessandra Retico)
L’
le forme, quei materiali, tutto insomma
era coerente con un potere che stava andando a rotta di collo verso la sua autodistruzione. La guerra prima rallentò i cantieri, poi tra mille vicissitudini abbandonò l’Eur al suo destino, che per la verità
ebbe poi a rivelarsi meno drammatico
del previsto, dal momento che il quartiere resuscitò dalla sua desolazione di sterpi e travertino divenendo ricca zona residenziale, sede di ministeri, impianti
sportivi, set cinematografici e luna park;
e al giorno d’oggi anche così lodevolmente interessata alla sua storia, l’ex Ente Eur ora Eur Spa, da affrontare onerosi
lavori di restauro figurativo.
Ma nel frattempo, e quindi nell’immediato dopoguerra, il Palazzo degli uffici,
da cui oggi il professor Miccio governa
agevolmente seduto su una preziosa
scrivania anni Trenta pure scovata in
cantina e risanata, si trovò a ospitare centinaia di esuli giuliano-dalmati. Per cui
sottoterra, chissà come, finirono anche
delle foto di quella stagione, e ce n’è una
di bimbe che giocano e saltano e ballano
con i loro grembiulini nei viali deserti. In
quella Roma, in quell’Italia così povera e
insieme così ricca di speranza.
Repubblica Nazionale
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
la memoria
Hortense Serristori, nobildonna fiorentina colta e curiosa, attraversa
gli anni Venti e Trenta del Novecento in intimità con la famiglia reale
italiana e con i grandi della politica, della letteratura, dell’arte
Sangue blu
E fissa gli incontri e i ricordi di quell’epoca in un diario
che ora viene pubblicato
HORTENSE DE LA GÁNDARA
SERRISTORI
MORE per Roma (22 dicembre 1927). Cara, ho
sempre amato molto Roma. Non posso nasconderti che quando era giovane tua nonna era frivola
e mondana, e dal punto di vista della
mondanità Roma è stata davvero una
città unica, al contempo capitale e metropoli religiosa, centro sportivo e ritrovo
artistico, e in più, un clima meraviglioso.
Roma attirava tutto ciò che c’era di desiderabile in Europa; tutto quello che contava passava per Roma.
La nobiltà romana regnava ancora nei
suoi palazzi, così belli che il Kaiser, congedandosi dalla principessa Doria la sera del
gran ballo che lei aveva dato per festeggiare le nozze d’argento del re Umberto e
della regina Margherita, ringraziando le
disse che, il giorno in cui la principessa si
recasse a Berlino, lui con sommo dispiacere non avrebbe potuto offrirle nulla di
paragonabile alla festa di quella sera.
(Ammetto che è più o meno la verità: ho
partecipato a un ballo di corte a Berlino,
ho avuto l’onore di pranzare al tavolo del
Kaiser: tutto molto bello, ma non paragonabile al «decoro» di palazzo Doria).
Quegli anni furono l’âge d’or del Grand
Hotel. La nobiltà di provincia vi regnava;
ci andavamo tutti, ma i più fedeli erano i
siciliani: i Trabia, i Florio, i Mazzarino. Lo
spettacolo che offriva il restaurant del
Grand Hotel, soprattutto le sere quando
c’era qualche gran festa in città, qualche
gala per sovrani stranieri e tutte le donne
scendevano in grandi toilette e diademi
— toilette che non avevano niente da
spartire con i ridicoli stracci di oggi —
era davvero unico e destava l’ammirazione di tutti.
La regina Elena (22 dicembre 1927).
Anche la regina allora era bellissima:
altissima, molto snella, la pelle scura, occhi neri, aveva l’aria di una Madonna bizantina. Il tipo poteva anche non piacere,
ma a Parigi la sua bellezza riscosse un
grande successo. Vi aveva accompagnato il re per una visita ufficiale a Monsieur
Loubet nell’ottobre del 1903 e, quando si
presentò seguita dalle dame — sia quelle
che l’accompagnavano da Roma sia altre
che si trovavano in quel momento in città
— Parigi si entusiasmò, andò in visibilio e
attraverso le mille voci della folla, dei giornalisti, degli chansonniers fu tutta un’ovazione per noi. Posso ben dire noi, perché in quel corteo dove brillavano gli astri
di prima grandezza come Franca Florio,
Vittoria Teano, Maria Trinità, Jeanne Vigiano, anche coloro che belle non erano,
lo sembravano. Questa impressione
durò anche dopo la partenza della regina.
Venivamo riconosciute nei negozi, a teatro, segnate col dito, per poco non ci applaudivano! Per una stagione fummo gli
idoli di Parigi, la città incantatrice! [...]
La regina ha due passioni: da un lato la
natura, la vita selvaggia e libera, la caccia,
la pesca; dall’altro la medicina, le operazioni, le infermiere ecc. [...]La regina ha
avuto un destino felice, brillante, «Ich
gönne es Ihr!», sebbene non le siano mancate le pene. Amava molto il suo Paese, e
la soppressione del Montenegro freddamente eseguita dagli Alleati l’ha profondamente afflitta, e ancor più ha sofferto
per il fatto che la sua famiglia l’ha ritenuta in qualche modo responsabile, accusandola di non aver saputo difendere la
sua Patria.
Quando, dopo la guerra, la vecchia regina del Montenegro, fuggiasca, esiliata,
passò per Roma, si rifiutò di scendere dal
vagone. Ed è lì che ricevette sua figlia.
Nessuno ha assistito a questo incontro,
da cui la nostra regina è uscita silenziosa
e con gli occhi rossi. La catastrofe russa è
stata un’altra pena per lei. Era russa nel
A
FOTO DEDICATE
Sopra, Maria
Josè col piccolo
Vittorio
Emanuele
Qui accanto,
Hortense
Serristori
A destra dall’alto:
Vittorio
Emanuele III
e Mussolini
La dama di compagnia
dell’ultima Regina
cuore come tutti gli slavi e alla Russia
guardava come a una seconda e più grande Patria. Le sorelle erano sposate in Russia, lei stessa era stata allevata a Smolny e
si riteneva destinata a sposare qualche
granduca. La regina Vittoria di Spagna un
giorno mi disse che aveva pensato a lei
per l’imperatore Nicola II. Comunque
sia, credo che abbia sofferto molto di queste due catastrofi.
Il Vaticano (5 dicembre 1929). Siamo lì
dalle 9 e 30 della mattina e solo verso mezzogiorno qualcosa si muove al soglio di
San Pietro, il re e la regina si congedano
dal cardinale Merry del Val, arciprete della basilica e scendono lentamente la scalinata — la regina e le sue dame, la duchessa Cito, tua zia Frankey Guicciardini
e Donna Nini Grazioni, tutte in bianco,
diadema e velo bianco, la regina con uno
strascico d’argento sorretto da Cito, suo
gentilhomme de service, le dame con il
loro di velluto blu; il re e il suo seguito in
uniforme e decorazioni, i dignitari pontifici nei loro meravigliosi costumi. Monsignor Caccia Dominioni è accanto al re,
Ruspoli alla regina. Al seguito c’è ancora
una dama in abito e velo nero, è la contessa di Val Cismon, la moglie dell’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, ma
questa macchia scura si perde nello
splendore del corteo e nell’abbagliante
luce del sole. Ancora qualche istante e le
sette auto attraversano lentamente la
bellissima piazza, mentre le truppe pontificie rientrano in Vaticano; il cordone di
piazza Rusticucci viene tolto e la folla invade la piazza. Vediamo passare ancora il
cardinale Gasparri, diretto al Quirinale a
rendere visita, poi lo spettacolo è finito
per noi stanchi ma ben ripagati della fatica perché il colpo d’occhio era magnifico!
Le dame di corte (7 dicembre 1929).
Alla corte d’Italia, le regine hanno dame
di due specie: ci sono le dame di corte che
IL LIBRO
Memorie di Hortense
(qui accanto ne riportiamo
alcuni brani) scritto
da Hortense de la Gándara
Serristori e a cura di Piero
Gelli, è pubblicato
da Baldini Castoldi Dalai,
ha 280 pagine
che comprendono un ricco
apparato fotografico, costa
17,50 euro, e sarà in libreria
dal 27 novembre. Si tratta
del diario che, sotto forma
di lunga lettera
a una nipote, la contessa
Serristori, una delle figure
più in vista della nobiltà
fiorentina e dama di corte
della regina Elena, scrisse
tra il 1927 e il 1943
prestano servizio a turno alla regina, abitano a palazzo e viaggiano con lei; ora
hanno molto da fare e una grande responsabilità perché non c’è una grandemaîtresse: la regina Margherita aveva la
sua, la marchesa di Villamarina, che chiamavano dama d’onore — ma l’attuale re
non l’ha voluta per la sua sposa temendo
l’influsso che una dama sempre a contatto tutto l’anno con la giovane principessa
potrebbe avere sul suo animo, o il grande
potere che potrebbe esercitare a corte. Di
fatto il ruolo di dama d’onore è sempre
vacante e sono le dame di corte che fanno
tutto.
Poi ci sono le dame di palazzo, nominate in ogni città, la cui funzione consiste
nell’accompagnare la regina alle cerimonie di palazzo, nelle udienze o nelle uscite. Quelle romane hanno ancora qualcosa da fare, ma quelle in provincia quasi
nulla. Da quando sono stata nominata
per Firenze, ho avuto in tutto quattro giorni di servizio. Ti racconto tutto questo,
piccola mia, perché chissà mai dove saranno combinazioni di diamanti e strascichi di velluto blu quando sarai grande?
Orneranno ancora le spalle di giovani
donne e frusceranno ancora dietro la scia
di Altezze future? Speriamo bene!
Umberto e Maria Josè (4-8 gennaio
1930). Roma, la Città Eterna, eternamente in festa sotto un cielo sfolgorante, si
prepara ad accogliere una futura regina!
Bandiere, archi di trionfo, luminarie, rovine illuminate a giorno, passaggio di
truppe, fanfare e così via. [...]
Sono le dieci e un quarto quando arrivano nel nostro salone — noi formiamo
un cerchio — la regina Elena in blu zaffiro appare per prima al braccio del re Al-
berto; dietro segue il nostro re al braccio
della regina Elisabetta. Costei è in mauve,
e così leggera e aggraziata nei movimenti che mi fa venire in mente ciò che mi disse un giorno Beaumont, della sua famigliarità con gli uccelli, e questo non mi
sorprende: la sua persona così minuta e
graziosa non va intimidita. Dietro vengono i fidanzati e tutti gli sguardi si fissano
su questa coppia così ben assortita e così
piacevole da guardare: sono snelli, eleganti, slanciati, splendenti di salute e freschezza, lui bruno e lei bionda, lui in
uniforme e lei in bianco; lui ci presenta a
lei per nome, una per una, senza mai sbagliare — oh memoria dei nomi e dei volti,
virtù essenziale dei re! — lei ci porge la
mano da baciare e sorride a tutti, gli occhi
blu raggianti di felicità. [...]
La regina Elena conduce suo figlio e re
Vittorio Emanuele la regina Elisabetta.
Sovrani e principi, stranieri e italiani, seguono a due a due. Le principesse hanno
gentiluomini a sorreggere gli strascichi,
alcuni dei quali talmente ricchi che senza
questo aiuto le poverette non potrebbero
muoversi — si ammira in modo particolare lo strascico di velluto rosso ricamato
in oro della casata degli Hesse che indossa la principessa Mafalda. I gioielli sono
fantastici — la principessa Ruprecht di
Baviera ha dei rubini incredibili — il diadema della duchessa di Bramante è composto di diamanti del Congo, ciascuna
provincia del Belgio ne ha donato uno…
Traduzione di Piero Gelli
e Angelica Chiara Gallo
© 2007 Baldini Castoldi Dalai Spa
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DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
Il teatro scintillante
della corte Savoia
NICOLA CARACCIOLO
lla vigilia della Prima guerra mondiale in Europa c’erano
due sole repubbliche: la Francia e la Svizzera. Tutti gli altri
stati erano monarchie. La regalità: un concetto che ha radici profonde nella storia europea. Un’idea di pompa, di gloria e di
potere che oggi ci è estranea ma che fino a poco tempo fa rappresentava politicamente la norma.
Le memorie della contessa Hortense Serristori hanno questo di
affascinante. Ci consentono di capire come si viveva all’ombra di
una grande dinastia europea, quella italiana. È un tema che ho toccato spesso nel mio lavoro di giornalista storico televisivo. L’ultimo lavoro per Rai Tre si intitolava appunto Casa Savoia: era la storia del regno di Vittorio Emanuele III e della fine della monarchia.
A più riprese negli ultimi anni ho avuto occasione di intervistare la
principessa Maria Gabriella di Savoia su questi temi. L’ho sentita
di nuovo molto recentemente e l’ho trovata sul piede di guerra.
S’era appena dissociata con una lettera a Repubblica da una richiesta di danni allo Stato italiano avanzata da suo fratello Vittorio Emanuele. Esasperazione motivata: a lei va il merito d’aver capito che è giunto il momento di rivedere storicamente i complicati rapporti tra monarchia e paese. Ha messo in piedi una fondazione con relativo archivio per custodire le memorie dell’ex casa
regnante. Manca cioè, ritengo, alla storiografia italiana un’opera
che riconsideri — un po’ sul modello di quello che ha fatto De Felice per il fascismo — quegli aspetti pur sempre essenziali del nostro passato. Il successo della rubrica alla quale collaboro su Rai
Tre, La grande storia in prima serata, dimostra che c’è un vero interesse per vedere le immagini e sentire il racconto della nostra tormentata storia recente, purché fatto in spirito di obiettività.
Le memorie di Hortense Serristori vanno in questa direzione.
Ci aiutano a capire quel mondo così diverso da quello della gente
comune di allora ma anche dalla mentalità contemporanea. La
Serristori era, ce lo conferma Maria Gabriella, molto legata alla regina Elena di cui era stata “dama di palazzo”. La figlia Maria
Bossi Pucci, era stata “dama di corte” della madre
di Maria Gabriella, la “regina di maggio” Maria José. Anzi qualcosa
di più: un’amica stretta soprannominata “chiffon”, straccetto cioè. Alla corte d’Italia si
parlava molto il francese. E il piemontese, occorre aggiungere.
“Dame di corte”, “dame di palazzo”: sfumature esoteriche quasi, il cui significato oggi ci sfugge
completamente ma che allora appariva importantissimo. La Serristori nata nel 1871, morirà nel 1960 a
ottantanove anni. Il suo diario —
scritto anche quello in francese — si
concluderà subito dopo la fine della
Seconda guerra mondiale. Ha preso la
forma, un po’ artificiale, d’una serie di
lettere a una nipote molto amata. Descrive grandi avvenimenti conosciuti: la
Prima guerra mondiale, la Marcia su Roma, la Conciliazione e via enumerando.
La Serristori ha frequentato grandi scrittori, D’Annunzio, Moravia, Berenson per
esempio. Tuttavia la parte che c’è sembrata più interessante del suo libro è quella che
riguarda la vita di corte. È l’argomento che
abbiamo preferito nella scelta dei brani che
riportiamo.
Risponde al desiderio di sapere come si viveva all’ombra di una
importante dinastia. Perché tale era casa Savoia. Imparentata con
tutte le famiglie regali d’Europa aveva un millennio di potere alle
spalle — dalla Savoia al Piemonte, all’Italia. Cosa ha significato essere re? C’è in questa tradizione anche qualcosa di strano e soprannaturale per la mentalità tradizionale. Un grande classico
della storiografia francese, I re taumaturghidi Marc Bloch, dimostra quando fosse diffusa nel Medioevo la credenza che i
re avessero il potere magico di guarire con l’imposizione delle mani certe malattie. L’ultimo re guaritore fu Carlo X, in
Francia, che perse il trono nel 1830. Nel secolo Ventesimo
nessuno più credeva né praticava questi riti ma l’idea che ci
potesse essere qualcosa di trascendente, di più che umano
nella regalità, è andata avanti molto a lungo. E traccia di questa atmosfera si ritrova nel libro della Serristori. Sono sufficientemente vecchio per avere avuto tra i testi sacri della
mia gioventù Il mondo magicodi De Martino e il Ramo d’oro di Fraser. Ecco con quale arcaica solennità la Serristori
descrive una cerimonia regale: «Il primo corteo è quello
della regina. Insieme alle principesse e ai loro seguiti. Sua
maestà occupa la tribuna centrale, proprio sopra il trono.
La regina è incantevole, elegantemente vestita di velluto,
ornata con magnifiche perle e un grande cappello “garni
d’esprits” che le incornicia il viso. Alla sua destra siede la
principessa di Piemonte, alla sua sinistra la duchessa Elena d’Aosta. Infine giunge il re che prende posto sul trono,
sotto le tribune; al suo fianco per ordine di diritto nella
successione, i principi del sangue. Gli aiutanti di campo
restano sempre in piedi. Le nuove uniformi scintillano».
A
AUTOGRAFI
Qui sopra, una poesia autografa
di Gabriele D’Annunzio e una serie
di dediche, l’ultima di Paul Valery,
tratte dal libro degli ospiti
DISEGNI
Sopra, Arthur Neville
Chamberlain
A destra un disegno
di Vernette Henraux
IN VOLO CON BALBO
Edizioni Dedalo
www.edizionidedalo.it
Sopra, Margherita
di Savoia nel 1922
Sotto, Hortense Serristori
nel 1939 dopo un volo
con Italo Balbo
A destra, dall’alto:
dediche di Puccini,
Trilussa, Serao
prefazione di Gianrico Carofiglio
GENGIS KHAN
E IL TESORO DEI MONGOLI
20 Ottobre 2007 | 4 Maggio 2008
Main Sponsor
Chinese Academy of International Culture
Comune di Treviso - Fondazione Italia Cina
Touring Club Italiano
Organizzazione: Sigillum
Guardando i disegni di Pillinini viene
in mente Totò... (Gianrico Carofiglio)
Info Tel. 0422 513150 - 0422 513185 - www.laviadellaseta.info
Prenotazioni turistiche Tel. +39 0422 422891 - www.marcatreviso.it
Repubblica Nazionale
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
Da millenni gli uomini
hanno pensato
un luogo dove i giusti
dopo la morte abbiano la loro ricompensa
Ma non hanno mai smesso di immaginarne
CULTURA*
un altro, più sensuale e concreto,
da dove i nostri progenitori furono cacciati
Ora un libro raccoglie le carte che nei secoli
hanno tracciato la possibile via del ritorno
Mappe
Eden
le
dell’
ALBERTO MANGUEL
gnidesiderio ha la propria cartografia, ogni mappa i propri
punti di partenza e di arrivo. Impegnati a trovare un senso
nell’incessante abbinamento di molecole che ci compongono e ci scompongono, da lungo tempo immaginiamo
che le nostre azioni rispondano a un significato e a una missione, e che quindi quel che realizziamo su questa terra
possieda un valore morale o etico, sottoposto al giudizio di un Amministratore Supremo che a tutto offre ricompensa o castigo. E così le nostre
anime, pensionate dopo la morte della carne, passeranno all’eternità in
una sorta di residenza per anziani, decente o spaventosa, a seconda dell’inclinazione della bilancia. Come testimoniano le tombe troglodite, tale speranza è ben antica. Per i greci, le anime dei morti viaggiavano tutte
assieme verso quel luogo comune denominato Ade, dove attendevano il
loro destino sui grigi prati di asfodelo. Chi aveva offeso gli dei era condannato al Tartaro, dove veniva poi torturato; chi godeva del favore divino era trasportato alle isole benedette o Eliseo: l’Ade si trova sotto terra o
al di là del mare; in alcuni casi eccezionali, può essere visitato da chi è ancora in vita. Odisseo, Orfeo ed Enea si annoverano tra i privilegiati.
Ho descritto una delle oltretombe: ce ne sono migliaia. Tutte le popolazioni del mondo hanno immaginato una versione dell’aldilà nella quale i buoni sono premiati e i cattivi puniti. C’è chi crede che tali promesse
corrompano. Ivo, vescovo di Chartres, durante una missione voluta da
O
ziosi della biblioteca universale, ce ne sono alcune in cui Giacomo Leopardi, dopo dieci lunghi anni di riflessione su tutte le cose, s’interroga sul
significato di questo Paradiso terreno. Secondo Leopardi, il Paradiso in cui
Adamo ed Eva sono stati creati fu uno dei piaceri materiali e carnali, un
“paradiso voluptatis” che doveva essere coltivato e protetto. A differenza
del Paradiso celeste che i giusti si aspettano dopo la morte del corpo, il Paradiso terrestre (seppur perduto) ha qualcosa di verosimile, di materiale
e persino di carnale, niente ingiustizie sul lavoro, imbrogli economici o
tormenti filosofici: una sorta di Club Mediterranée, potremmo dire, avant
la lettre. Dinanzi a tali incanti, l’ascetico Paradiso futuro diventa astratto
fino all’inverosimile. «E la felicità promessa dal Cristianesimo non può al
mortale parer mai desiderabile [...] Ed oso dire che la felicità promessa dal
paganesimo (e così da altre religioni), così misera e scarsa com’ella è pure, doveva parere molto più desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la speranza di essa doveva essere molto più atta a consolare e ad acquietare, perché felicità concepibile e materiale, e della natura di quella che necessariamente si desidera in terra».
L’altro, il Paradiso terrestre o Eden è, secondo la Genesi, un giardino nel
quale persino Dio ama passeggiare. Etimologicamente lo si è voluto associare alla parola ebraica miquedemche possiede un significato spaziale (“in oriente”) e temporale (“fine dell’inizio”). Il Dizionario Biblico editato da Paul J. Achtemeier lo fa derivare da edemche vuol dire “lusso, pia-
Alla ricerca del Paradiso perduto
San Luigi, re di Francia, raccontò al re che lungo la strada aveva incontrato una signora dall’aria malinconica, che aveva in una mano una torcia e
nell’altra un’anfora. Il vescovo, incuriosito, volle sapere di più sul suo conto e le chiese cosa avrebbe fatto con quel fuoco e quell’acqua. «L’acqua è
per spegnere l’Inferno», rispose la donna, «e il fuoco per incendiare il Paradiso. Voglio che gli uomini amino Dio per il solo amore di Dio». Per
quanto ammirevole possa apparirci una simile impresa, la nozione di Paradiso (così come quella di Inferno) perdura con i suoi celestiali incanti:
un luogo futuro, alla portata delle anime con la fedina penale pulita (è bene ricordare che l’unico a ricevere la promessa del Paradiso direttamente dalle labbra di Gesù, sia stato un ladro).
Esiste però un altro Paradiso, più solido, meglio immaginabile, forse
più accessibile, un luogo nel quale un tempo abbiamo goduto del diritto
di abitazione e dal quale siamo stati esiliati. Il primo Paradiso è intangibile, extraterrestre, spirituale, descritto con un linguaggio di metafore e
allegorie. Il secondo (ci piace credere) è concreto, sensuale, nascosto seppur in questo mondo, e per tanto, vanta un’autentica cartografia.
Spesso si confonde un Paradiso con l’altro, il Paradiso celeste presuntamente promesso ai giusti e l’Eden terrestre presuntamente perduto. La
confusione (e la distinzione) non è nuova. Tra le oltre 4.500 pagine che
compongono lo Zibaldone, uno dei libri più singolari, personali e ambi-
TORRI
E COLLINE
Il Paradiso
terrestre dal
Rudimentum
noviciorum
di Lucas
Brandis
(Lubecca
1475)
cere, delizia”; Achtemeier sottolinea tuttavia che i filologi moderni lo associano a una voce sumera, edin, che si traduce con “pianura” o “prato”.
Attraverso i secoli, l’Eden ha trasmesso le sue incantevoli caratteristiche
a un’immaginaria nostalgia: quella dell’Età dell’oro classica, nella quale
il mondo intero è un giardino, «quand’era cibo il latte», dice Guarini, «del
pargoletto mondo, e culla il bosco;/e i cari parti loro/godean le gregge intatte,/né temea il mondo ancor ferro né tosco!». È questa la caratteristica
principale dell’Eden: si coniuga nel tempo passato, desiderio di ciò che è
perduto, negato, di ciò che ora è proibito. È la terra come vorremmo che
fosse, come sogniamo che sia. Per questo crediamo, con più o meno fede, di poterla ritrovare.
La ricerca del Paradiso terrestre conta su una vasta biblioteca cartografica. Centinaia di documenti manoscritti e stampati, e una bibliografia di svariate pagine che non disdegnano né le fonti secondarie né i siti
web, hanno permesso ad Alessandro Scafi di dare corpo, un anno fa, a una
straordinaria mostra presso il British Museum di Londra, il cui catalogo
magistrale, Il paradiso in terra: Mappe del giardino dell’Eden, viene pubblicato da Bruno Mondadori in questi giorni. Le testimonianze sono numerose, e pochi tra gli autori studiati da Scafi hanno avuto, come Sir John
Mandeville nel Quattordicesimo secolo, la scrupolosità di dichiarare:
«Del Paradiso non posso dir nulla, non ci sono stato». Al contrario, senza
atto di presenza, viaggiatori, storici, geografi, mistici e visionari, hanno
dichiarato con imperturbabile convinzione che l’Eden si trovava (si trova) in Mesopotamia, in Inghilterra, a Gerusalemme, nel punto di coincidenza tra Asia, Europa e Africa, al nord dell’India, alla foce del Gange, nella Persia settentrionale, sui monti del Libano. Alcuni cronisti sono di una
precisione esemplare: secondo Jean Mansel, per esempio, nel suo Fleur
des histoires composto tra il 1460 e il 1470, l’acqua dei fiumi del Paradiso
cade da una tale altezza che il suo fragore ha reso sordi tutti gli abitanti
delle regioni limitrofe. Il libro di Scafi è istruttivo, rasserenante, erudito, e
(agli occhi di questo lettore profano) assolutamente completo.
Nel suo lungo percorso, dal primo Medioevo ai nostri giorni, Scafi raccoglie una serie di versioni moderne di mappe paradisiache, disegnate
da artisti così diversi come Hendrikje Kühne, Beat Klein, Ilya ed Emilia
Kabakos, i quali hanno tentato di riscattare l’idea di un Paradiso terrestre
per il nostro ormai inguaribile secolo Ventunesimo. Tuttavia, penso esista un’ulteriore versione di questa interminabile idea. Nel 1615, sei anni
dopo la firma del decreto di espulsione degli ultimi mori di Spagna (quegli arabi costretti a convertirsi al cristianesimo dopo la prima espulsione
del 1502) Cervantes pubblicò a Madrid la Seconda Parte del Don Chisciotte della Mancha. Nel capitolo 54, Sancho incontra un suo vecchio vicino, il moro Ricote, il quale esiliato dalla Spagna con i suoi consanguinei, è tornato nella sua terra natale travestito da pellegrino. «Fummo con
giusta ragione puniti con la pena dell’esilio, lieve e blanda, secondo alcuni, ma per noi la più tremenda che ci si potesse infliggere. Dovunque stiamo, abbiamo nostalgia per la Spagna; poiché, infine, vi siamo nati ed è la
nostra patria naturale; non c’è nessun paese dove ci si accolga come meriterebbe la nostra sventura; e in Berberia, e in tutte le parti dell’Africa dove speravamo d’esser ricevuti, accolti e trattati bene, proprio lì invece è
dove più ci si tratta male e ci si offende».
Esilio e asilo: visioni entrambe, una di terra abbandonata e l’altra di terra promessa, che si fondono in quella Spagna che rifiuta Ricote e in quella di cui lui ha nostalgia, confondendosi in una cartografia illusoria e circolare. Per Ricote, quella Spagna da cui è stato esiliato è (a voler essere letterali) il Paradiso perduto, il luogo al quale vuole arrivare e il luogo che vorrebbe non aver mai abbandonato. Per lui, come per i suoi eredi, espulsione, deportazione, allontanamento, si fondono in un solo gesto di esilio che trasforma la terra di ognuno in terra estranea. Un altro Paradiso
forse esisterà pure, al di là dei mari, ma Ricote e i suoi congeneri non lo
hanno trovato. Ciò nonostante, continuano a sognare le mappe intime
dei loro Eden perduti, che si chiamino al-Andalus, Palestina, Marocco,
Albania, l’America Latina delle dittature militari, Iraq, Kurdistan, Cecenia, Darfur, Etiopia... Purtroppo, come è noto, la geografia del Paradiso è
più vasta della Terra stessa.
Traduzione di Fiammetta Biancatelli
(© 2007, Guillermo Schavelzon & Asocc., Literary Agency)
Alberto Manguel, autore di un celebre
Dizionario dei luoghi immaginari, ha appena pubblicato
Iliade e Odissea, una biografia (Newton Compton Editori)
TERRE
E OCEANI
Il Paradiso
terrestre
secondo la
Mapa Mondi
Figura Mondi
di Giovanni
Leardo
(Venezia1442)
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
IL LIBRO
Si intitola
Il paradiso
in terra: mappe
del giardino
dell’Eden (448
pagine, 58 euro)
il libro
di Alessandro Scafi
che Bruno
Mondadori
manda in libreria
il 27 novembre
Attraverso
più di duecento
immagini
(alcune sono
riprodotte
in queste pagine),
il volume
ripercorre la storia
della cartografia
del Paradiso
in Occidente
Un giardino di delizie
cinto da mura di fuoco
AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI
a dove si trova il Paradiso terrestre? È una domanda antichissima e sempre attuale. Ancora recentemente, studiosi hanno tentato di scoprirlo
nelle regioni più svariate, in Mesopotamia, in Arabia, in Armenia e persino in un’isola delle Seychelles… La credenza del Paradiso terrestre ha affascinato il cristianesimo fin dai primi secoli, come ricorda Alessandro Scafi ne Il Paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden. La Genesi (2,8) raccontava che «il
Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva
plasmato», e questo passo biblico fu presto interpretato in senso letterale. L’autorità di sant’Agostino fu decisiva, anche per quanto riguarda i quattro celebri
fiumi che uscivano dall’Eden: Pison (sovente identificato con il Gange), Ghicon
(con il Nilo), Tigri e Eufrate. «Sono veri fiumi e non espressioni figurate». Agostino aggiungeva: Adamo aveva un corpo materiale, aveva dunque vissuto in un
Paradiso materiale.
Alla costruzione dell’immaginario paradisiaco contribuirono molto le antiche traduzioni dei testi biblici. Per definire il giardino, la versione ebraica usò le
parole gan-be-Eden («un giardino in Eden»). Nella Vulgata, Girolamo aggiunse
la qualifica «delizie». I traduttori della Settanta introdussero la parola Paradiso
che significa in greco “giardino recintato”.
La geografia del Paradiso si precisa intorno al Settimo secolo. Isidoro di Siviglia identifica l’oriente di cui parlava la Genesi con l’Asia: «Il Paradiso è un luogo
che si trova nella parte orientale dell’Asia». E sottolinea il fatto che l’Eden sia un
giardino delle «delizie»: vi abbondano «ogni genere di piante ed alberi da frutto,
tra cui anche l’albero della vita». L’Eden è inoltre un luogo in cui «non fa né freddo né caldo, vi è sempre un clima temperato», ma è un giardino reso inaccessibile «da una spada ardente», è luogo «sbarrato da un muro di fuoco, che arriva
quasi al cielo».
Situato in Asia da Isidoro, il Paradiso terrestre poteva ora figurare anche su una
carta, e molte sono infatti le carte medievali, qui studiate pregevolmente da Alessandro Scafi, che lo presentano nelle sue varie forme, anche come isola o come
castello accerchiato da mura. La sua inaccessibilità è rappresentata dall’altezza.
Il Paradiso viene immaginato nel punto più orientale dell’Asia, ma verso l’alto
«come situato in relazione al cielo» (Duns Scoto). Anche Dante pone il Paradiso
sulla cima di una montagna eccezionalmente alta, la montagna del Purgatorio.
Virgilio spiega a Dante che Gerusalemme e la montagna del Purgatorio sono esattamente agli antipodi. Nelle carte medievali, a partire dalla prima crociata (1096),
Gerusalemme, luogo del sepolcro di Cristo, viene posta al centro del mondo. Ed
ecco che il Paradiso terrestre situato in Asia diventa anticipazione dell’Incarnazione e del Paradiso celeste, tanto più che accanto al Paradiso terrestre figurano
sovente Enoch e Elia, i due profeti che aspettano la fine del mondo.
Nella cartografia medievale vi è un secondo luogo recintato e inaccessibile,
contrassegnato da una negatività che si contrappone all’Eden: è il luogo in cui
secondo la leggenda Alessandro Magno racchiuse Gog e Magog, le temute tribù
che a detta dell’Apocalisse verrebbero a distruggere il mondo il giorno del giudizio. Le carte medievali, sovrastate dal Paradiso terrestre, presentano dunque
una visione cristiana della storia del mondo. Ma l’Eden è anche un Eldorado, regione sempre temperata e rigogliosa di vegetazioni e di frutti abbondanti, e che
gode di un’aria sana e incontaminata.
All’uscita dal Medioevo quell’immaginario si sgretola. Fra Mauro, uno dei
massimi geografi del Rinascimento, nel suo mappamondo (1459) relega il Paradiso terrestre in un medaglione posto al di fuori del mondo abitato. Un secolo
dopo, un altro uomo di Chiesa, Agostino Seuco, prefetto della Biblioteca Vaticana, afferma che il Paradiso terrestre fu distrutto dal diluvio. Anche secondo Lutero scomparve per colpa del peccato. Per Calvino invece i quattro fiumi dell’Eden erano rimasti inalterati nonostante il diluvio per la benevolenza di Dio.
Questa nuova teoria religiosa tentava di risolvere l’equazione tra il dogma del
diluvio e la scoperta del Nuovo Mondo. Ponendosi contro la tradizione, fu però
dimenticata. Anzi proprio allora gli studiosi incominciarono a ricercare il luogo
dove era vissuta la prima coppia umana proponendo i posti più svariati: il Terzo
Cielo, Babilonia, l’Arabia, la Palestina, la Terra del Fuoco, e anche il Polo Artico.
Il Paradiso terrestre perse così la sua originaria funzione, di rappresentare insieme il passato (la nostalgia per una purezza perduta), il presente (la vita dell’uomo come peregrinazione) e il futuro (il cammino verso il Paradiso celeste),
oltre che una natura in perfetto equilibrio perché tutta orientata al volere di Dio.
Tentando di scoprire dove si trovava su basi “scientifiche”, la modernità situava il Paradiso terrestre soltanto nel passato, lasciando ai poeti (John Milton,
1667) il compito di piangere Il Paradiso perduto.
M
BIBBIE E MAPPAMONDI
In alto a sinistra, il giardino dell’Eden
in una Bibbia stampata a Wittenberg nel 1536;
accanto, dettaglio da un mappamondo (Londra,
1265 circa) qui sopra, l’incipit del libro della Genesi
da una Bibbia conservata alla British Library
MONDO ABITATO
Carta del mondo anglosassone
detta anche Cottoniana (Canterbury, 1025-1050
circa), conservata alla British Library di Londra
La mappa, che raffigura tutto il mondo abitato,
contiene riferimenti indiretti al Paradiso terrestre
MONDI IMMAGINARI
In alto, pagina di un manoscritto del De civitate
Dei di Agostino, 1473-80 circa, Bibliothèque
Municipale di Macon. Qui sopra, carta del mondo
dal Polychronicon di Ranulf Higden, 1350 circa
(Londra, British Library)
ADAMO ED EVA
Dettaglio del Paradiso terrestre
da un mappamondo di Hanns Rüst
(Augusta, 1480 circa). Il paradiso terrestre
è raffigurato come un giardino circondato da mura
All’interno Adamo ed Eva colgono il frutto proibito
Repubblica Nazionale
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
la lettura
Scritto in verde
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
Quando la Dickinson incominciò a raccogliere foglie,
petali, steli aveva quattordici anni. Li incollava su grandi
fogli accompagnandoli con una didascalia
Un esercizio botanico e alchemico che gettò i semi
dei suoi versi e delle sue “geometrie dell’estasi”
Ora il suo “Herbarium” viene pubblicato in Italia
IL LIBRO
L’Herbarium, per lungo tempo conservato nella biblioteca
di Harvard, è rimasto finora sconosciuto al pubblico
italiano. Ora viene pubblicato da Elliot (250 pagine,
120 euro) in edizione facsimile, arricchito da alcuni saggi
introduttivi, dal catalogo e da un indice delle specie
botaniche presenti. Vi sono anche alcune poesie
(che riproponiamo, tratte da Emily Dickinson: Tutte
le poesie, I Meridiani, Mondadori). All’Herbarium, che sarà
in libreria il 27 novembre, è anche dedicata una mostra
al Museo civico di storia naturale “G. Doria” di Genova
Il segreto di Emily
le poesie nascono dai fiori
NADIA FUSINI
ocambolesche vicende
ereditarie portano un certo giorno le spoglie della
storia terrena di Emily
Dickinson alla Houghton
Library di Harvard. Arrivano enormi bauli con i libri di casa, i dagherrotipi, vari oggetti dell’infanzia, i ritratti dei Dickinson bambini, i manoscritti... E tra il bric-à-brac che accompagna l’esistenza, un Herbarium. Ovvero, un album dalla copertina rigida, di
colore verde, che conta sessantasei pagine, in cui una mano esperta ha con cu-
R
ra disposto in mostra 424 esemplari essiccati di fiori e piante da giardino, da
prato o da interno, appartenenti a specie autoctone o naturalizzate nelle vicinanze di Amherst, Massachusetts.
I grandi fogli vengono ripuliti dalla
polvere, e dagli insetti che vi si erano annidati, e si scopre così la bellezza del primo, anzi unico “libro” di Emily Dickinson. La disposizione dei fiori, le combinazioni di foglie e gambi e corolle, le etichette con i nomi propri, per lo più in latino, tutto è incantevole. E oggi perfettamente riprodotto in facsimile dalla
casa editrice Elliot. È un regalo meraviglioso per noi appassionati di Emily.
In tale occupazione
si apparenta
a Shakespeare,
che ha un vocabolario
vastissimo e distingue
la cicuta dal crescione
e dalla zizzania
Che ci avvicina ancora di più alla sua
poesia. E conferma quel che già sapevamo, e cioè che Emily Dickinson è una
scienziata della natura. Una naturalista
attenta e scrupolosa, che nell’Herbarium raccoglie non solo esemplari botanici, ma i semi della sua poesia.
I fiori essiccati sono ad arte accoppiati perché conversino insieme i più umili e i più sofisticati. Come in quelle sacre
conversazioni della pittura rinascimentale, un muto colloquio unisce il
gelsomino bianco e il crespino comune, sì che la grazia delicata del primo
suggerisce a contrasto la forza tenace
del secondo. Emily adora entrambe: sia
la forza che la fragilità. Dalla frequenza
con cui appaiono nelle sue pagine è
chiaro che ama i narcisi, ma anche i gerani, e le margherite. Si identifica con
una margherita. E in poesia — la numero 19 — interpreta senza difficoltà la
parte della rosa.
A volte sbaglia, confonde il toxicodendron radicans con il celastro, chiama la gentiana clausa con il nome di
cardo stellato. Sono errori non di incompetenza, ma di distrazione, secondo me. Li fa anche Henry Thoreau nel
suo erbario. Lo dico per avvertire che la
devozione allo studio di fiori e piante e
erbe era comune in quegli anni. Attività
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
Emily Dickinson
Dalla zolla, così,
d’oro e scarlatto
sorgerà più d’un bulbo
che scaltramente fu nascosto
ad occhi esperti
Dal bozzolo, così,
balzerà più d’un verme
con tanti lieti colori
I contadini come me,
i contadini come te
guardano perplessi
(Poesia 66, 1859 ca)
Un sepalo ed un petalo e una spina
in un comune mattino d’estate,
un fiasco di rugiada, un’ape o due,
una brezza,
un frullo in mezzo agli alberi —
ed io sono una rosa!
(Poesia 19, 1858 ca.)
La pallida colonna del soffione
sgomenta l’erba — ed ecco
che l’inverno d’un tratto si trasforma
in un coro di gemiti infinito —
Una sontuosa gemma dallo stelo
spicca seguita da un fiore sgargiante —
sono i soli che danno l’annuncio
delle esequie compiute
(Poesia 1519, 1881 ca.)
Fiorire - è il fine - chi passa un fiore
con uno sguardo distratto
stenterà a sospettare
le minime circostanze
coinvolte in quel luminoso
fenomeno
costruito in modo così intricato
poi offerto come una farfalla
al mezzogiorno —
Colmare il bocciolo — combattere il verme —
ottenere quanta rugiada gli spetta —
regolare il calore - eludere il vento —
sfuggire all’ape ladruncola
non deludere la natura grande
che l’attende proprio quel giorno —
essere un fiore, è profonda
responsabilità —
(Poesia 1058, 1865 ca.)
poetica, più che femminile per Emily.
La quale in tale occupazione si apparenta ai poeti, più che alle donne: a
Shakespeare, che ha un vocabolario botanico vastissimo e distingue la cicuta
dal crescione e dalla zizzania; e a Keats,
che quando poggia i piedi in vetta a un
colle riconosce il biancospino e il laburno e la siepe d’avellana e la rosa selvatica… Se i romantici hanno letto Rousseau, che è grande botanico, Emily ha
letto senz’altro il grande saggio di
Emerson sulla natura. E condivide l’emozione di Thoreau, quando in Walden, di fronte alla primavera, confessa
di sentirsi «nel laboratorio dell’artista
che creò il mondo». Nel vocabolario trascendentale scienza e teologia si abbracciano.
Né dobbiamo dimenticare che Emily
è una giovane donna istruita, che si avvantaggia delle migliori scuole. Appartiene non a caso a una famiglia coinvolta nella storia dell’istruzione in America. E nei sette anni trascorsi all’Amherst Academy, fondata dal nonno, dove
entrò all’età di nove anni, imparò non
solo a leggere, scrivere e far di conto, ma
si educò alla filosofia, al latino, alla botanica. Nella convinzione che, grazie alla scienza, l’amore dovuto alla Creazione, in quanto manifestazione dell’Altis-
Sapremo cogliere
il simbolo se saremo
capaci della piroetta
metafisica, che
stringe in vertiginosa
intimità micro
e macrocosmo
simo, si sarebbe rafforzato. E dal cuore
sarebbe sgorgata spontanea l’esclamazione di gratitudine a Dio padre, artefice di ogni bellezza.
Ma per riuscire a vedere che «il Soprannaturale non è altro che il Naturale rivelato» bisognava applicarsi: la «rivelazione» sarebbe mancata a chi non
avesse occhi «preparati». Ecco perché
Emily, studentessa non solo scrupolosa, ma intelligente, studia con passione
la storia naturale, zoologia e botanica, e
impara a distinguere il calice e il sepalo,
la corolla, lo stame, il pistillo, il ricettacolo, il pericarpo, il seme.
È precisa Emily. Ha una mente lucida,
ama il dettaglio. Non usa mai l’immagine del fiore in modo decorativo, evocativo — alla maniera di Wordsworth, per
fare un esempio. Semmai, lavora al modo opposto. Osservate la poesia 66: nei
primi quattro versi descrive nudamente il processo che porta dal bulbo al fiore, nei tre successivi associa alla metamorfosi del bruco in farfalla. E negli ultimi tre ci lascia perplessi. Sapremo cogliere il simbolo? Sì, se saremo capaci
della piroetta metafisica, che stringe in
vertiginosa intimità micro e macrocosmo.
Ma intanto, sotto i nostri occhi è fiorito un bulbo, è nata una farfalla.
Repubblica Nazionale
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
Nome da farfalla, Pannonica, cognome
da banchiere, Rothschild. Fu pianista, spia, pilota
d’aerei, ereditiera ripudiata. Ma la sua passione,
oltre ai centoventi gatti con cui viveva, erano i grandi geni del sound che l’America
stava scoprendo. Li portava a casa, li aiutava, li fotografava. Loro le confessavano
SPETTACOLI
sogni e aspirazioni. Che sono stati raccolti in Francia in un libro per immagini
Miles Davis
ESSERE BIANCO!
La fata che curava
i musicisti randagi
CONCITA DE GREGORIO
isogna immaginarsela una
che nasce con un nome da
farfalla e un cognome da
banchiere, Pannonica Rothschild. Il destino è scritto nei
nomi e il suo era questo: una
farfalla venuta al mondo in una gabbia d’oro, libera solo di provare a scappare e costretta invece a sbattere le ali contro militari e baroni, sedi diplomatiche e mariti appassionati di arti marziali, doveri, inchini,
buonasera eccellenza come va. Bisogna
immaginarsela dopo, quando finalmente
libera di vivere ripudiata dalla famiglia e
con centoventi gatti — una piccola rendita: piccola per lei gigantesca per i suoi amici, una somma capace di mantenere a vita
nella New York degli anni Sessanta decine
e decine di musicisti, Thelonius Monk e
Charlie Parker, Mingus e Miles Davis —
esce la sera, in macchina, e va a cercare fuori dalle bettole chi non ha niente salvo un
mostruoso talento: «Dai, sali sulla mia Bentley», andiamo che ti porto a casa, c’è un
piatto di minestra e un letto, puoi restare
finché vuoi. Era altissima, magra, pallida,
con un viso lungo non bello ma davvero aristocratico, quel naso, quegli occhi neri,
quei capelli sempre spettinati e gli abiti di
seta a fiori e a colori scombinati, pezzi di un
guardaroba miliardario indossati come
stracci senza valore, la sigaretta sempre accesa nel bocchino. Quando camminava
nel sud degli Stati Uniti accanto a Thelonius Monk, una montagna nera di due metri, la gente per strada sputava per terra e
cambiava marciapiede. Una bianca elegante con un negro, che schifo.
Pannonica De Koenigswarter (il cognome del marito, il barone Jules) è stata pianista e pittrice, militante antinazista e spia
in Africa, soldato e autista di camion, pilota di aereo, fotografa, madre di cinque figli
e musa del jazz, mecenate di quella irripetibile generazione di geni che l’America
della segregazione razziale trattava peggio
dei cani: Art Blakey, Bud Powell, Sonny
B
Clark, Charlie Parker, John Coltrane, Charlie Mingus, Miles Davis, Sonny Rollins.
Nella sua casa di New York sono morti due
di loro: Parker e Monk. La casa si chiamava
Cathouse: cat che sono i gatti, certo, ma poi
nello slang nero del tempo “cats” erano i
“tipi randagi”, i musicisti. Ha accudito Coleman Hawkins, epilettico, ha assistito
Bud Powell, depresso. Li ha mantenuti, ha
sfidato le convenzioni e il giudizio sociale,
ha vissuto con loro e per loro. Ha ispirato
temi musicali come Pannonica (Thelonius Monk), Nica e My dream of Nica
(Sonny Clark), Blues for Nica (Kenny
Drew), Thelonica (Tommy Flanagan), Nica’s dream (Horace Silver) e decine di altri
pezzi che sono oggi la storia del jazz.
Nel corso della seconda parte della sua
vita, la sua nuova vita, ha fotografato con
una Polaroid gli uomini e le donne che vivevano da lei come in una comune: Thelonius che balla e che gioca a ping pong, che
dorme su una sedia col cappello in testa
mentre Sonny Clark, accanto, si fa una sigaretta e sbadiglia. Art Blakey che scrive a
macchina una lettera, John Coltrane che
cucina. Una galleria di immagini strepitose: sporche sciupate rotte, in bianco e nero, segnate dalle impronte digitali dei loro
protagonisti, i primi a prenderle in mano
quando lei ridendo gliele porgeva e diceva:
guarda. Di tanto in tanto, mentre li fotografava o li riportava a casa da una serata,
chiedeva loro qualcosa: una domanda
sciocca, da bambini. Se potessi avere tre
cose, cosa vorresti? I tuoi tre desideri. I tuoi
tre sogni. Quelli che ti manca, quello per
cui vivi. Loro rispondevano senza pensare,
è questo lo straordinario pregio del volume che ora raccoglie I tre desideri: sono l’istantanea esatta di vite piene di tutto quello che manca, sono la misura e la descrizione di un’epoca che a noi arriva con l’eco della gloria e che a viverla, invece, è stata desolante e durissima.
Pannonica non fece in tempo a realizzare il suo libro. Lo pubblica ora in Francia
una sua nipote, Nadine de Koenigswarter:
Les musiciens de jazz et leurs trois voeux. Ci
Max Roach
Desideri? Sarebbero
un lusso superfluo,
io ho già tutto quello
che desidero...
È QUESTO
L’IMPORTANTE!
Sonny Rollins
1. AVERE DENARO!
2. Riuscire a fare tutto
quello che voglio
col mio sax
3. Essere più vicino
alla natura
sono le sue foto, ci sono le tre risposte battute a macchina come schede d’archivio, a
volte con un commento: sono numerate
da uno a trecento. Hanno risposto nell’arco di vent’anni trecento musicisti: tutti,
verrebbe da dire. Alcuni desideri da questa
antologia di speranze. Thelonius: «Che la
mia musica abbia successo. Che la mia famiglia sia felice. Avere un’amica fantastica
come te». Nica annota: «Gli dissi: ma sono
tutte cose che hai già! Lui stava arpeggiando, si mise a guardare dalla finestra New
York dall’altra parte del fiume. Si limitò a
sorridermi». Dizzy Gillespie: «Non essere
obbligato a suonare per soldi. La pace per
tutti. Un mondo dove non ci sia bisogno
del passaporto». John Coltrane: «Avere
una freschezza inesauribile nella musica.
Esser immune da malattie e cattiva sorte.
Avere tre volte la potenza sessuale di adesso. Poi, posso aggiungerne un quarto? Provare più amore spontaneo per le persone».
Charlie Mingus: «Non ho nessun desiderio. Nessuno. Forse, sì, avere abbastanza
soldi per regolare i miei conti. È tutto. Sono
molto cambiato». Doug Watkins: «Vorrei
vivere una vita degna di questo nome». Miles Davis: «Vorrei essere bianco».
Ecco, essere bianco. Cioè tutte le altre riposte messe insieme: avere più soldi, essere immune dalla cattiva sorte, vivere una
vita degna, girare libero, avere cittadinanza, avere un posto dove suonare e persino
uno strumento mio. Billy Higgins, per
esempio: «Vorrei avere il talento di Thelonius. Poter mandare qualcosa a mia moglie e ai miei due bambini. Vorrei avere una
batteria». Una batteria. Clifford Jordan:
«Vorrei essere te nel momento in cui mi fai
questa domanda». Arthur Taylor: «Che
Charlie Parker fosse ancora vivo». George
Coleman: «Essere bravo la metà di Bird».
Art Blakey: «Vorrei che tu mi amassi. Ti vorrei sposare!».
La volevano sposare. In un certo senso
l’hanno sposata tutti. Era uno scandalo vivente, Nica. Eccentrica e ordinata nel suo
progetto folle, capricciosa e fedele, ribelle
ad un destino da aristocratica non si sa se
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
IL LIBRO
Tutte le immagini e i desideri dei musicisti di queste pagine
sono tratte da Les musiciens de jazz et leur trois voeux
(I musicisti jazz e i loro tre desideri). Il libro è pubblicato
in Francia da Buchet-Chastel (302 pagine, 35 euro)
Sono immagini, ricordi e parole dei grandi jazzisti
che furono amici e ospiti di Pannonica de Koenigswarter
raccolti dalla nipote Nadine. Ognuno di loro, da Coltrane
a Miles Davis ha risposto alla domanda di Pannonica,
“quali sono i tuoi tre desideri?” Ecco le risposte
John Coltrane
1. Una INESAURIBILE
FRESCHEZZA
nella mia musica
2. Essere immunizzato
contro le malattie
3. Triplicare la mia potenza
sessuale
E anche: provare più amore
spontaneo per la gente
Thelonius Monk
1. Che la mia musica
abbia successo
2. Che la mia famiglia sia felice
3. Avere un’amica
meravigliosa come te!
STELLE A “CATHOUSE”
Da sinistra, Miles Davis;
Max Roach al pianoforte;
Sonny Rollins con un drink;
Thelonius Monk appisolato
con un gatto; John Coltrane;
qui accanto, Charlie Mingus
e Roy Haynes
Charlie Mingus
Non ho alcun desiderio, nemmeno uno piccolo
piccolo...! INSOMMA, non mi dispiacerebbe avere
abbastanza soldi per pagare le bollette,
ma questo è tutto, PROPRIO TUTTO...
per noia, per indole, per foga rivoluzionaria applicata a sovvertire la violenza del
razzismo. Da un destino di rampolla del
ramo inglese dei Rothschild a una vita da
mecenate del jazz, madrina madre e compagna di strada e di avventure di un pezzo
di storia della musica. Il nome da farfalla
glielo aveva messo il padre, il banchiere
Charles, anche lui diviso tra una sorte segnata e una passione da entomologo: in
Ungheria (Pannonia, in latino), il paese di
sua moglie, aveva scoperto un nuovo tipo
di farfalla. Battezzò Pannonica la farfalla e
la figlia.
Il jazz glielo aveva portato un giorno suo
fratello Victor dall’America: Victor era sta-
to mandato da Churchill negli Stati Uniti a
negoziare con Roosevelt. Era tornato in Inghilterra pieno di note e di storie fantastiche. Intanto Nica, però, nel ‘35 si era sposata come da copione con un barone. Lui:
rigido, serio, esperto di arti marziali. Lei:
pittrice astratta, nottambula, compositrice al piano. Cinque figli, uno dietro l’altro.
Il barone si arruola con De Gaulle contro
Hitler. Partono in missione per l’Africa
equatoriale, Pannonica diventa agente dei
servizi segreti di De Gaulle. Soldatessa con
le Ffl, Forze francesi di liberazione, voce di
radio Brazzaville, autista di camion militari in Ghana, Congo, Nigeria, Egitto, Libia.
Dopo la guerra il barone intraprende la
Ha ispirato temi come
“My dream of Nica”
di Sonny Clark,
“Blues for Nica”
di Kenny Drew,
“Thelonica”
di Tommy Flanagan
carriera diplomatica: ambasciata di Norvegia, poi del Messico. Nica non riesce a fare la moglie dell’ambasciatore. Invitata a
casa del pianista Tedia Wilson ascolta una
sera una musica che le sembra oppio e balsamo, la malattia e la sua cura: Round Midnight. Si separa dal marito, parte con la prima figlia per New York. Ha quarantadue
anni, va a vivere in una suite dello Stanhope. Riceve i musicisti in camera, li fa dormire da lei, loro suonano tutta la notte. La
clientela protesta, l’albergo le raddoppia e
le triplica i prezzi, lei paga. Cambia albergo, infine. Al Bolivar compra uno Steinway
per Thelonius: lui ci compone Pannonica,
Ba Lue Bolivar Ba lues are, Brilliant cor-
ners. Una notte viaggiano sulla Bentley attraverso il Delaware. Monk scende a bere
un bicchier d’acqua, il padrone del locale
lo denuncia («un negro enorme che non
parla»), arriva la polizia e trova marijuana
nella macchina, Pannonica dice che è sua,
la condannano a tre anni di carcere. A
Cathouse abitano e compongono per anni decine di artisti spesso tenuti a vivere lì
con le loro famiglie. Monk aspetta la morte affacciato alla finestra sul fiume senza
parlare quasi più: guarda le luci nell’acqua.
Quando muore anche Nica, nell’88, lascia
detto che le sue ceneri «siano disperse nell’Hudson più o meno a mezzanotte». La richiesta esatta è: round midnight.
Repubblica Nazionale
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
La patria del latte in polvere, del dado
da brodo e delle tavolette al latte
ha virtù gastronomiche nascoste
Oltre confine
Segreti protetti dalle sue montagne
e dalle sue quattro anime culturali
itinerari
Sud tirolese
con cuore
mediterraneo,
Martin Dalsass
è lo chef-patron
del ristorante
Santabbondio
accoccolato
sulla collina
alle spalle
di Lugano
Mano leggera
e passione
per l’extravergine
lo accompagnano
nella rivisitazione
dei classici
Lugano
Ginevra
Zurigo
La maggiore città del Canton
Ticino, 52mila abitanti,
è una storica località turistica
affacciata sull’omonimo lago
Consolidata piazza
finanziaria, famosa
per le produzioni
di cioccolata, tessuti, carta,
è circondata da vigneti
(Merlot) e castagneti
Appoggiata all’incrocio
tra il lago omonimo
e il Rodano, è la capitale
gastronomica del Paese,
tra ristoranti
e vecchie brasseries
Per i visitatori, crociere
golose, sentieri del vino
e corsi di degustazione
dei maîtres chocolatiers
Valli, boschi e fiumi
che corrono verso il Reno
circondano la città
più popolosa della Svizzera,
nota per la purezza
delle sue acque. Nei mercati
natalizi si degustano torte
e biscotti. Piatto simbolo,
lo spezzatino di vitello
con i rösti
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
HOTEL GARNI STELLA
Via F. Borromini 5
Tel. (+41) 091-9663370
Camera doppia da 150 euro
colazione inclusa
HOTEL SAVOY (con cucina)
Place Cornavin 8
Tel. (+41) 022-9064700
Camera doppia da 100 euro
colazione inclusa
PALAIS KRAFT
Kraftstrasse 33
Tel. (+41) 044-3888485
Camera doppia da 100 euro
colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
SANTABBONDIO
Via Fomelino 10
Tel. (+41) 091-9932388
Chiuso domenica e lunedì
menù da 60 euro
CHEZ JACKY
Rue Necker 9
Tel. (+41) 022-7328680
Chiuso sabato e domenica
menù da 45 euro
VELTLINERKELLER
Schlüsselgasse 8
Telefono: (+41) 044-2254040
Chiuso sabato a pranzo
e dom., menù da 65 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
ENOTECA NONSOLOVINO
Via Balestra 15
Tel. (+41) 091-9214744
CHOCOLATERIE STETTLER
Rue de Berne 10
Tel. (+41) 022-732 44 67
LES HALLES (con cucina)
Pfingstweidstrasse 6
Tel. (+41) 01-2731125
Cucina
Svizzera
Non solo cioccolata
LICIA GRANELLO
l Paese dei numeri. Ventisei cantoni, quattro lingue ufficiali, trentatremila euro di reddito annuo pro capite, millecinquecento laghi, settantaquattro vette sopra i quattromila metri, un
terzo del territorio occupato dai boschi. Ma anche più di quattrocento tipologie di formaggi
e centoquarantamila tonnellate di cioccolato prodotte ogni anno. Il Paese della cuccagna.
Niente allevamenti intensivi, colture in prevalenza biologiche, conservazione e recupero delle metodiche agricole tradizionali. Ma per nulla al riparo dalla contraddizione massima, se è
vero che qui è stato inventato il dado da brodo, prospera la multinazionale alimentare più controversa del mondo e le mucche sono colorate di viola.
La Svizzera è così composita che identificare un unico filone gastronomico è davvero impossibile: come mettere d’accordo l’anima francofona che sospira per i sauciers parigini e i gli appassionati di bradwurst, che hanno come riferimento gourmand Monaco di Baviera?
Eppure, le produzioni virtuose delle quattro aree culturali di riferimento formano un minimo comune denominatore che attraversa tutti i Cantoni, per la felicità di turisti e appassionati. Da questo
punto di vista, benedetta fu la montagna, che ha segnato la storia della Svizzera, con
il suo carico di povertà e sapere, riuscendo a resistere a banalizzazioni e standardizzazioni. Altrimenti, oggi nulla sapremmo del glorioso pane di segale e di quello di caIl Centro esposizioni di Lugano stagne, che leggenda vuole offerto da San Gallus a un orso affamato, oppure dell’aospiterà, dal 7 al 9 dicembre, maro Appenzeller, con il suo profluvio d’erbe vergini, o dell’Assenzio, messo al bando cent’anni fa e da poco riabilitato agli onori della produzione liquoristica di prela prima edizione di PiùGusto, gio. Del resto, in Svizzera anche i pretesi cattivi di oggi hanno un passato da buoni.
Salone internazionale svizzero È il caso di Henri Nestlé, rifugiato politico tedesco in terra elvetica, che un secolo e
fa sviluppò il sistema in grado di combinare farina e latte per nutrire i neodel gusto. Dibattiti e laboratori mezzo
nati. Altra storia strappacuore, quella del mugnaio Julius Maggi, figlio di un immicon chef in arrivo da tutta Europa grato italiano, che insieme a Fridolin Schuler ideò il brodo istantaneo, utilizzando
impegnati a tradurre in piatti sfiziosi piselli, fagioli e lenticchie.
In quanto alla cioccolata, è stata importata in Svizzera dal Belgio alla fine del Diil meglio della produzione ciassettesimo secolo per soddisfare il palato del sindaco di Zurigo Heinrich Escher,
enogastronomica svizzera che l’aveva assaggiata a Bruxelles e ne era rimasto fulminato. In breve, nulla fu più
uguale, a partire dal genio di Daniel Peter, inventore del cioccolato al latte. Rivoluzionaria anche l’intuizione di Rodolphe Lindt: concaggio e temperaggio (ovvero le
tecniche di affinamento e ammorbidimento) restano tutt’oggi due punti fermi nella lavorazione della massa di cacao. Chiusura in gloria con il pasticcere Theodor Tobler, che assemblando cioccolato
al latte, miele e torrone in stampi triangolari si è guadagnato un posto nell’Olimpo dei golosi.
Ma non di solo cioccolato vive la tavola degli svizzeri: nei menù tradizionali si alternano trote blu
e carni seccate all’aria fine dei pascoli, salsicce di tutti i tipi e soprattutto formaggi. L’elenco delle benemerite produzioni casearie è guidato dai fuoriclasse protetti dalla dop, come Gruyère, Tête de
Moine, Etivaz, Alpe Ticinese, Sbrinz. Ma se volete vivere un’esperienza mistico-gastronomica, assicuratevi una boîte (la classica scatoletta rotonda) di Vacherin Mont d’Or (dop a sua volta), appena
arrivato nelle nostre gastronomie, dopo la giusta maturazione autunnale. Sollevate un poco la crosta con un cucchiaio, riempite la cavità di vino secco, richiudete e infornate venti minuti. Meglio ridurre al minimo i commensali, per evitare litigi sul diritto all’ultimo boccone.
I
L’appuntamento
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DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
Raclette
Alpenbitter
Il nome identifica
sia un cacio vaccino
d’alpeggio, sia la ricetta
La mezza forma viene
abbrustolita in superficie
con l’apposito
apparecchio e raschiata
sopra patate, salumi, sottaceti
Scorciatoia col formaggio in fette
infornate e colate nei piatti
Fondue au chocolat
Al latte, morbido,
nocciolato, Toblerone:
molte delle invenzioni
intorno al cioccolato
sono svizzere. Dopo
averlo fuso a fuoco dolce
insieme a panna o latte
(varianti golose con liquore
o caffè), ci si inzuppano biscotti,
bocconi di torta, spiedini di frutta
Fonduta
L’Appenzeller
Alpenbitter, digestivo
della tradizione alpina,
vanta una ricetta
rigorosa, che prevede
l’utilizzo di sessantasette
tra erbe, fiori e radici. Il mix,
messo in infusione, aromatizza
anche la crosta del formaggio
che porta il nome del Cantone
Salsicce
Centinaia di tipologie
differenti – dimensioni,
carni, aromi, cotture
differenti – per il cibo
preferito degli svizzeri
Si va dai saucisson
della parte francofona
al risotto e luganighe del Carnevale
ticinese, fino ai bradwurst
della regione di San Gallo
Vermicelli
Secondo la leggenda,
è derivata dalla “zuppa
di Kappel” del 1529
che sancì la pace
tra confederati cattolici
e riformati. Nel goloso mix
di gruyère e vacherin
scaldato con vino bianco e kirsch
(distillato di ciliegie) si intingono
tocchetti di pane raffermo
Rösti
La castagna è stata
a lungo nutrimento
dei contadini
(che chiamavano
il castagno albero
del pane). Come
nel Montebianco, la purea
con rum e zucchero si passa
nello schiacciapatate. Panna
e meringhe come decorazione
Zuppa di birra
Il tortino croccante, nato
come colazione
dei contadini bernesi,
ha per base le patate
grattugiate, crude
o lessate pochi minuti
Dopo l’aggiunta di burro,
gli si dà forma rotonda e si frigge
Popolari le varianti con cipolle,
pancetta, erbe e formaggi
Carne secca
Nei cantoni di lingua
tedesca, la passione
per la birra si traduce
in una minestra calda
e appetitosa, che parte
da una simil bechamelle,
con la birra al posto del latte
(presente in piccole dosi)
Si rifinisce con pepe, cannella
e buccia di limone
Rublitorte
Il trancio di manzo
rosato, con la superficie
profumata d’erbe,
è il logo dei tanti
essiccatoi sparsi
nel Cantone del Vallese,
tra Monte Rosa e Losanna
Nei Grigioni, la tipologia della
bunderfleisch comprende anche
una bresaola, di cervo o capriolo
È così sana e genuina,
la torta di carote –
con tuorli d’uovo
e bianchi montati,
zucchero, mandorle,
lievito e poca farina –
che per darle un po’
di “grinta” viene aggiunto
un bicchierino di brandy. Alcolica
anche la glassa, con rum e limone
nemmeno sempre ricotta (in dialetto zigra) e mascarpini. Risorsa fondamentale per la tavola contadina era il
maiale. Mazza di primavera e mazza d’autunno. C’eraono un cosiddetto buongustaio, non un conoscitono così le belle filze di luganighe (salsicce), da far cuocere di vini scelti. Ma sono affettivamente legato alla cucire subito (e il giorno della mazza era forse il giorno più ecna contadina rimasta viva nella memoria, anche se crecitante dell’anno). C’erano le salsicce da conservare,
do a Pascal che dice la memoria, con «l’imaginativa», pomesse prima a maturare nella aerea camera delle salsictenza ingannatrice. Confesso che la cena cui avrei desice, poi nella cantina, con salami, mortadelle, pancetta…
derato partecipare è quella ricordata dal poeta inglese
I prosciutti divenivano prosciutti dopo lungo respirare
Stephen Spender. Era da poco finita la guerra, Spender
aria fredda, nevosa, in solaio. Ma il meglio del meglio era
era in Germania e fu invitato a cena da un campione nela cazzöla, amata anche dagli scapigliati lombardi delgli studi sulla civiltà dell’Occidente europeo, Ernst Rol’Ottocento: la cazzölacui i vocabolaristi moderni fanno
bert Curtius. Spender era indeciso se accettare l’invito:
torto riducendola a «verdure miste a carne di maiale».
sapeva della situazione disastrosa di tanti tedeschi, CurChe sarà traduzione accettabile per la cazzöla dei ristotius compreso, dopo le sciagure hitleriane. Ma vinse il sì.
ranti d’oggi, non per quel complesso pot-pourri fatto
In tavola comparvero patate bollite e un cavolo, nient’alnelle cucine di una volta.
tro. Curtius disse: «È quello che
Carne “normale” (lesso, qualabbiamo sognato a lungo. Goche volta arrosto) la domenica.
diamocelo!».
Con le eccezioni legate alle stagioNaturalmente, il condimento
ni: le deliziose rane a primavera,
impareggiabile di quella cena era
catturate nelle pozze magari ancola conversazione. La cena del
ra coperte dall’ultima neve. CaCurtius è un po’ parente della cepretto a Pasqua, qualche selvatico
na che Titiro (Virgilio) offre, in
d’autunno: marmotta, capriolo,
forma di invito, a Melibeo, caccervo.
ciato dal campicello da Cesare,
Eravamo lontani, anche in temper darlo ai suoi soldati veterani:
po di guerra alle nostre frontiere,
ho tenere mele, castagne e tanto
da quella miseria descritta da Piecacio (egloga prima, in fine). È
ro Bianconi in uno di più bei libri
anche una cena parente delle noGIOVANNI ORELLI
della Svizzera italiana, Albero gestre cene contadine quando c’enealogico: «La mia zia Paolina averano ancora i contadini di monva assaggiato il primo boccone di pan bianco che aveva
tagna. Cena fatta soprattutto di pane e formaggio. Gli uovent’anni; e raccontava che quando spezzavan le noci
mini “maturi” sceglievano quello molto stagionato, da
per l’olio (alimentava un lumino da poveri morti nelle
mandar giù col barbera. Le donne il cacio giovane, malunghe sere d’inverno a filare infinitamente), se faceva
gari scaldato sulla brace per una rudimentale raclette. In
tanto di azzardarsi a mettere in bocca un frammento di
tutti e due, formaggio vecchio o giovane, c’era il profugheriglio, si sentiva dire: “Mangia, mangia, che st’invermo delle erbe di montagna.
no ti metteremo lo stoppino nel culo!”».
Dei nostri sensi, chi ha memoria più forte è l’olfatto. Lo
Qui siamo retrocessi alla prima metà del Novecento.
dicono anche Leopardi, Baudelaire e Proust. I profumi
Poi la musica è cambiata. Almeno di quel tanto che ci
di cento erbe come il timo. Come la mutellina (ligusticonsentiva di fare kilbi due o tre volte all’anno. La parocum mutellina), aristocratico nettare per le vacche della tedesca kilbi era il pranzo alla Trimalcione (Petronio,
l’alpe. Di lì, latte profumato, delizia. Ricordo ancora il viSatyricon) per quelli di Zurigo (Crisopoli, come la chianattiere della “bassa” (bassa valle), che quando voleva
ma lo scrittore lombardo Guido Morselli). Noi, tra poonorare degnamente i suoi ospiti, un fratello giudice fevertà-povertà e “gozzoviglie” eravamo non proprio a
derale a Losanna e altre «prominenti» (tedeschismo cametà strada, ma non poi così lontani.
ro ai confederati) personalità, saliva fin da noi a cercarvi
L’autore, scrittore svizzero, è stato insignito
certo cacio, fatto da mani che sapevano fare, con quel latdel Premio Schiller. L’ultimo suo libro
te che…, con quelle erbe che…
è “Da quaresime lontane”, Ed. Casagrande 2006
Non si può mangiare sempre patate e formaggio. E
S
LUGANO
Quelle cene
a pane, cacio
e castagne
Repubblica Nazionale
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
le tendenze
FERRAGAMO
Fagiani reali
dai colori d’autunno
animano il foulard
di Ferragamo
Una proposta
di stagione
BULGARI
Diversi toni di rosa
si inseguono
nel foulard
di georgette
con logo Bulgari
per l’inverno 2007
Stile elevato
1937: JEU DES OMNIBUS
È il primo carré
messo in produzione
da Hermès:
un girotondo a colori
LAURA LAURENZI
ompie settant’anni (e fa del tutto per non dimostrarli) il foulard più famoso del mondo, il più classico e il più copiato, status symbol per eccellenza: il
foulard di Hermès, che immediatamente evoca lusso, esclusività, fruscio di seta pregiata. Lunga vita e
lunga carriera a quel quadrato di stoffa — il carré appunto — che misura novanta per novanta e che dal
lontano 1937 è stato declinato e riprodotto in ben
novecentocinquanta disegni diversi — quindici diversi modelli ogni anno — spesso a tema calessi,
carrozze, equitazione, sellerie, cacce, nodi marinari, sport d’élite ma anche riti stagionali, rarità bota1946: EX LIBRIS
niche e ornitologiche, cielo stellato, musica delle
Viola intenso
sfere e via elencando consimili amenità. Che trama
è il tono di fondo
e che ordito: un foulard di Hermès in twill di seta, pur
per il carré
pesando solo sessantacinque grammi, richiede
del dopoguerra
quattro chilometri di filo e circa milleduecento ore
dedicato
di lavoro. Ecco spiegato (almeno in parte) il prezzo.
agli ex libris
Amore e odio quello fra la donna e il foulard. Nel
Sessantotto fu il primo accessorio a cadere in disgrazia e in disuso, ad essere abolito, a significare tradizione, conservazione, perbenismo come e più del filo
di perle. Tranne poi ricomparire in grande stile, sdoganato e reinventato, rilanciato in versione sdrammatizzante, ringiovanito e spesso usato con ironia più
versatile. Non a caso Hermès per l’anniversario del
settantesimo anno propone ora un carré più sportivo
e più facile da mettere, meno
monumentale, ridotto a settanta per settanta, e in seta
I disegni firmati e prodotti
vintage, più morbida e già
da Hermès in settant’anni
opacizzata effetto vissuto,
come le decine di foulard
d’epoca che molte donne —
ex accanite collezioniste —
conservano in fondo a un
cassetto e non sempre sanIl peso di un foulard
no come riutilizzare. C’è adin twill di seta
dirittura chi li ha fatti incorniciare appendendoli alle
pareti come quadri.
Certo non è stato Hermès a inventare il foulard moderno, basta pensare a certi autoritratti di Tamara de
Lempicka alla guida di una decappottabile. Ma sono
di Hermès, o di Gucci o di Ferragamo, i foulard più famosi impressi nella nostra memoria. Il celebre Flora,
per esempio, che Vittorio Accornero di Gucci disegnò
appositamente per Grace di Monaco nel 1966: un tableau di fiori di serra che conteneva nei chiaroscuri
dei petali trentadue colori diversi. O i modelli con
staffe e speroni che Elisabetta d’Inghilterra indossa
in campagna quando va a passeggio con i suoi corgies, nodo morbido sotto il mento per non schiacciare la cotonatura dei capelli. O il foulard tutto bianco,
incrociato e poi legato dietro la nuca, reso famoso da
Jacqueline Kennedy nelle sue vacanze in costiera.
Quarant’anni dopo lo ritroviamo, uguale identico —
praticamente un feticcio — nel guardaroba della perfida direttrice nel Diavolo veste Prada: «Indossa sempre, comunque e immancabilmente, un foulard
bianco di Hermès. È come dire un po’ il suo marchio,
il suo tratto distintivo. Tutto il mondo sa che Miranda Priestly non esce di casa senza un foulard bianco
1965: LES CLÉS
Fondo blu china
di Hermès».
e chiavi dorate
Alle dive e alle bellissime il foulard, evocatore di fasono la “trama”
scino e di mistero, serviva per nascondersi, sempre
del carré
abbinato a grandi occhiali scuri, anche di notte. La
che Hermès mette
prima fu Greta Garbo, ma anche Marlene Dietrich,
in vetrina nel 1952
Jacqueline Kennedy, Liz Taylor, Paola del Belgio, Au-
C
950
1952: LITTÉRATURE
Firmato dall’artista
Cassandre, il carré
nobilita con la seta
lettere e caratteri
tipografici: un gioco
grafico da indossare
65 gr
Repubblica Nazionale
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
TRUSSARDI
Riproduce
perfettamente
un’auto d’epoca
il foulard dal bordo
verde proposto
da Trussardi
GUCCI
È degli anni Settanta
il foulard di Gucci
con esemplari
ornitologici
Un classico
che torna di moda
Compie settant’anni il fazzoletto (novanta per novanta)
più celebre del mondo. Sulla testa e al collo di star e regine,
l’accessorio che i francesi chiamano semplicemente
“carré” torna, a sorpresa, di moda come capo vintage
E le ragazze esplorano i cassetti delle mamme alla ricerca
degli esemplari storici con rarità botaniche e nodi marinari
al quadrato
1970: LE COUPES
Decisamente anni
Settanta nelle forme
il foulard in cui
domina l’arancio
drey Hepburn. Audrey Hepburn, insuperato paradigma di classe ed eleganza, era proprio fissata con i foulard: nel suo primo matrimonio, quello con Mel Ferrer nel ‘54, fece
stampare il menu del pranzo di nozze su un
foulard di seta dai bordi decorati con motivi
floreali. Quanto al secondo matrimonio, quello con Andrea Dotti nel ‘67, stupì il mondo intero scegliendo al posto del velo o del cappello un
piccolo foulard rosa annodato sotto il mento.
Alle donne comuni invece il fazzoletto in testa
non è mai stato benissimo. Molto meglio al collo,
come sciarpa, come diversivo, come punto luce e
macchia di colore, per rallegrare un vecchio tailleur o un vestito un po’ cupo. Lo suggeriva Diana
Vreeland, sacerdotessa incontrastata della moda:
«Prerogativa del foulard è conferire un’eleganza
istantanea. Consiglio alle donne di annodarlo semplicemente attorno al collo, al mattino prima di uscire di casa, senza neppure guardarsi allo specchio, e di
indossarlo così per tutta la giornata».
1988 : EQUATEUR
Il bosco Hermès
Alcune in Italia — parliamo della metà degli anni
è colmo di specie
Novanta — ci hanno provato ma poi hanno desistito,
ornitologiche
forse scoraggiate da Irene Pivetti, che da giovane predai piumaggi
sidente della Camera evidentemente considerava il
variopinti...
foulard indispensabile per accrescere la propria riClassico e chic
spettabilità e autorevolezza. Foulard più croce della
Vandea, al di là delle ideologie, fu considerato un binomio di scarso glamour. Meglio lasciar perdere.
Ma eccolo ricomparire sulle
passerelle, così démodé da essere tornato di moda: citazione, revival, mania del vintage, nuovo Il filo di seta che occorre
corso. Indossato come un top, per fare un foulard
annodato al polso, trasformato
1997: PERLE DU KENYA
in cravatta, reggiseno, bustino,
È ispirato all’Africa
portato come un pareo, avvole alle sue tribù il carré
to attorno alla vita o addirittuproposto da Hermès
ra infilato nei passanti dei La lunghezza del rotolo
nella collezione di dieci anni fa
jeans, legato alla borsa model- su cui si stampa il foulard
lo Parioli come facevano le
nostre madri, o addirittura
parte integrante della borsa stessa, in testa sì ma in
stile pirata dei Caraibi o gipsy di lusso, o persino a
decorare e a ravvivare gli stivali, cucito sul cuoio.
Nuova vita per il foulard da quando è diventato
obbligatorio il casco, per raccogliere i capelli prima di indossare l’elmetto.
C’è il foulard miliardario e quello povero, di
lana a quadri. Per la principessa e per la strega.
Il foulard della diva e il fazzolettone della Befana. Il fazzoletto della mondina e della contadina. Da sempre è stato usato come segnale
d’appartenenza. Dagli scout, dai pellegrini, dai
partigiani. Dai gruppi di volontari che accompagnano i malati a Lourdes, dalle madri della Plaza de
Mayo. Diventa moda la kefiah di Arafat per le ragazze (e i ragazzi) della generazione Porci con le ali. È
parte integrante di molte divise: per esempio quelle
delle hostess. È un segno religioso che accomuna le
religioni. Le nostre nonne si coprivano la testa per entrare in chiesa e ancora oggi non si può andare in
udienza dal Papa a capo scoperto.
Usano il sofisticato foulard di seta firmata a posto
del velo le donne islamiche che possono permetter2007: CARRÉ
Disegno brillante
selo. In Turchia lo stilista Atil Kutoglu sta facendo sale misura speciale,
ti mortali per occidentalizzare il look della first lady
Hayrunnisa Gul, la moglie del presidente: per rende- settanta per settanta,
per il compleanno,
re il velo presentabile, farlo digerire ai kemalisti e alla
settant’anni,
Turchia laica, in pratica farlo somigliare a un foulard
della maison
di haute couture in stile europeo.
4 km
100 mt
Qui sopra, alcune carte prodotte dalla maison Hermès per insegnare i mille possibili usi del foulard
Repubblica Nazionale
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007
l’incontro
È una ragazza bella, viva,
appassionata, di cinquant’anni
passati. Vive, “per la prima volta
da sola”, con l’amatissimo
gatto Pulci (da Pulcinella)
È attrice o cantante?
Da palcoscenico
o da grande schermo?
Interprete classica
o di ricerca?
Impossibile collocarla:
ha ricevuto premi
per tutto, ovunque
“Sono una bandita, una fuorilegge
dello spettacolo”, scherza
E si prepara a nuovi film, nuovi ruoli
Spiriti liberi
Lina Sastri
ina Sastri, lo spirito libero,
Medea e la moglie di Picone
nel film di Nanni Loy, Margherita Gautier e l’interprete di Te voglio bene assai, Anna Magnani
in Celluloide e la ragazza che in Ecce
Bombo con la sua malattia reale spezzava i deliri dei personaggi in crisi generazionale. Attrice o cantante? Cinema o
teatro? Interprete di prosa classica o di
ricerca? Ma la domanda che più la indispettisce è: attrice italiana o napoletana? «Parliamone. In che senso? Sono nata a Napoli, dunque sono fortunata perché la mia lingua madre è nota in tutto il
mondo, si è espressa attraverso grandi
poeti, grandi scrittori, grandi musicisti,
è una grande ricchezza averla addosso.
Poi faccio Sofocle e Pirandello, ma che
problema è? L’emozione del teatro viene dal rapporto tra pubblico e palcoscenico, non contano gli accenti».
Il fatto è che collocare Lina Sastri in un
ambito dell’espressione artistica non è
possibile. Non a caso è l’unica della sua
generazione ad aver ricevuto premi per
la musica, per il teatro e per il cinema, e i
manifesti alle pareti della sua casa all’Esquilino evocano concerti in tutto il
mondo, rappresentazioni teatrali, immagini di film. «Sono una bandita, una
fuorilegge dello spettacolo», ma scherza, perché in fondo è fiera e felice delle
sue scelte fuori dagli schemi e di un percorso artistico fantastico, soprattutto da
parte di una che da bambina era animata da un solo desiderio: «Volevo farmi
suora, avevo una sincera fede religiosa,
e mi è rimasta, la considero una grazia».
Dalla fede religiosa scaturisce «una
fede altrettanto forte per l’arte della recitazione». Senza scuola — «mi esprimo
soprattutto con il mio corpo» — solo
con la passione e la lunga gavetta di
spettacoli in teatrini di quartiere e nelle
piazze di paese per la festa del santo pa-
va. Il cinema, che è maschio, è rimasto
sconcertato da questa ragazza un po’ ribelle che si permetteva tanti rifiuti. Per
questo e per vicende anche private io e il
cinema ci siamo visti più di rado».
Tra le vicende personali ci sono i sentimenti. Raramente oggetto di attenzione da parte della stampa pettegola, Lina
Sastri ha vissuto con discrezione storie
di passioni forti, abbandoni senza cautele. «Quando arriva l’Amore mi dedico
completamente, credo nello scambio
reciproco, so che l’uomo è diverso e amo
la sua diversità, ma non so giocare al
“come tu mi vuoi”, ci sto dentro con tutta me stessa, vivo tutto con passione. Sono stata male e ho fatto star male perché,
anche se non conosco l’odio e per me è
naturale il perdono, non vuol dire che
sono buona, sono irascibile e aggressiva. Forse per insicurezza».
Negli anni caldi, quando finiva una
storia, Lina Sastri andava a vivere in un
residence di Roma. «Stavo meglio in un
ambiente estraneo, sfogavo il dolore
Quando la femmina
arriva a portare
addosso i segni
che il tempo
ha seminato
sul suo corpo,
o li togli col botulino
o accetti di vivere
la tua età
e non un’altra
FOTO DI CARLO BELLINCAMPI
L
ROMA
trono. A diciassette anni arriva Masaniello di Armando Pugliese, uno spettacolo storico per originalità, energia e
popolarità, e con il personaggio della
mendicante Lina Sastri svela il suo talento, il temperamento impetuoso, la
fisicità elegante e sensuale, la voce bassa, roca, forte. «Recitavamo sotto una
tenda, con i piedi bagnati, senza microfono. Poi andammo in giro, povere
pensioni, soldi pochissimi e ricordo lo
sconforto di quando mi rubarono l’eskimo, era la cosa più preziosa che avevo», racconta con la leggerezza di sempre, una qualità che contrasta con la
drammaticità dei suoi colori scuri, illuminati dallo sguardo penetrante e mobile, a volte tragico, a volte ridente. Da
Masaniello a Patroni Griffi e Pirandello,
poi la grande scuola di Eduardo e di Peppino De Filippo. Recitando da giovanissima, le è rimasta addosso una timidezza di spettatrice: «Non sto a mio agio nei
foyer, non appartiene alla mia esperienza di vita, sto bene e mi sento libera
solo sul palcoscenico».
Libertà è la parola che più ritorna nel
suo linguaggio. La musica è libertà: «È
una terra di nessuno, la zona artistica
dove sono più padrona di me stessa, soprattutto perché gli spettacoli musicali
li produco da sola e la musica diventa
teatro perché solo cantare mi annoia. La
musica non ha lingua, arriva ovunque
oltre le parole, il canto è la prima espressione dell’uomo, la più artistica, la più
universale». Ha cantato classici napoletani in Cina, in Giappone, a Broadway,
ovunque l’hanno capita, applaudita.
Ma anche il teatro — in questo periodo è in tournée con Elettra — è libertà
«perché necessita di lunga preparazione, di rigore, di studio, di confronto continuo con se stessi. È la regola, bisogna
sapere tutto, perché è dalla conoscenza
che si può spaziare e si è liberi di rovesciare tutto, di improvvisare e interpretare senza tradire».
Altra cosa è il cinema, arrivato un po’
per caso, prima con piccoli ruoli, poi con
Nanni Moretti, Nanni Loy, Giuseppe
Bertolucci, Ricky Tognazzi e fu subito
popolarità e riconoscimenti prestigiosi,
poi le apparizioni sullo schermo diventarono sempre più rare. «Ma non sono in
credito con il cinema, l’ho fatto per sette
anni di seguito, ho avuto incontri ricchi
e fortunati, ho avuto premi. Il cinema mi
ha dato assai, molto di più di quanto abbia dato io. Ma non ero preparata. Il cinema è sogno, è bellezza, è seduzione e
io non mi sentivo un’attrice di cinema,
non amo le pose, sono a disagio davanti
a un obiettivo, ho un rapporto difficile
con la mia immagine, non mi sento attrice di cinema. E mentre la musica va, il
teatro va, l’immagine dello schermo resta, non c’è libertà di cambiare. Il cinema lo fa chi guarda, non chi è guardato.
Con la mia presunzione, con la vanagloria sfrontata della giovinezza ho cominciato a dire troppi no, e in qualche modo
credo di non aver rispettato fino in fondo me stessa e la fortuna che mi capita-
nella solitudine, finché mi sforzavo di
uscirne e cercavo rassicurazioni in modo anche selvaggio». Oggi, passati i cinquant’anni — incredibili, da ragazza,
bella, viva e appassionata — ha una vera
casa, comoda, circolare, allegra. Ci vive
con l’amatissimo gatto Pulci (da Pulcinella) e «per la prima volta sono sola. Attraverso la sofferenza ho imparato a capire la vita, ma la solitudine non è una
condizione umana. A chi lo dici “Vuoi un
poco di caffè?”, con chi dividi il piacere
di un libro o di un film?». Per fortuna c’è
il lavoro, ci sono le occasioni impreviste,
il ritorno del cinema per esempio.
«Bisogna riconoscere che il tempo è
ingiusto, le età della vita esistono.
Quando la femmina arriva a portare
addosso i segni che denunciano tutto
quello che nel tempo ha seminato sul
suo corpo, o li togli con il botulino o, se
non li togli come nel mio caso, accetti
di vivere la tua età e non un’altra. Anche con dolore, perché non è vero che
noi donne siamo contente quando abbiamo una ruga in più. Le accetti per
paura del botulino o perché ami troppo la tua identità per volerla cambiare.
Allora il cinema, sempre come un maschio, ti guarda con più sospetto e non
ti vuole più incontrare, ma ti vuole usare. Però si può incontrare un animo
gentile».
Lei lo ha incontrato in Fabrizio Bentivoglio che in Lascia perdere, Johnny!
le ha offerto il ruolo di Vincenza, la madre del protagonista, «una donna piccolo borghese di Caserta, vedova, non
ricca, che vive con discrezione e grazia
un’esistenza dignitosa, che ama e rispetta il figlio e la sua passione per la
chitarra, tanto che lo spinge a provarci
e lo manda verso la sua vita, anche se
non è sicura che in quella chitarra ci sia
la certezza di un futuro».
Dopo Bentivoglio ci sarà Tornatore
che nel film Baaria le ha offerto madre
Tana, «un doppio personaggio, una
donna che fa parte di una famiglia in
questo paese che Peppuccio racconta
reale e immaginario in maniera molto
poetica. Tutti i personaggi parlano in
siciliano stretto, sto cercando di imparare una lingua, mio padre è di Siracusa, la musicalità della Sicilia non mi è
estranea».
Ma nella vita, secondo Lina Sastri,
niente arriva per caso. Non è per caso
che «dopo la morte di mia madre, due
anni fa, una donna bellissima e leggera, sono capitate, a me che madre non
sono, tante “madri”, anche speciali,
Madre Teresa di Calcutta, la Madonna,
la madre superiora di Santa Rita». Alcuni sono stati ruoli per la televisione,
«l’elettrodomestico, come diceva
Eduardo, che una volta, quando al telefono gli dissero “qui è la Rai” rispose
“mo’ vi presento il frigorifero”. È lo
schermo piccolo, quello per cui non
paghi il biglietto, ma è comunque
obiettivo, luce, recitazione, occhio che
guarda».
Non è per caso neanche che dopo
Medea con la regia di Piero Maccarinelli, stia facendo Elettra con Luca De
Fusco. «Da sempre, da quando ero ragazzina, Medea era con me, una che
conoscevo, una passione che potevo
capire, capivo la gelosia, il sentirsi traditi ed esclusi e la terribile forma di ira
e di dolore che si esprime nell’atto tragico dell’uccisione dei figli. La capisco
perché, pur essendo figlia di dèi, Medea è più umana di Elettra nel suo percorso di vita, è una donna che agisce.
Elettra, figlia di re e non di dèi, è più nobile e solitaria, priva di passioni umane. Non mi è capitata per caso in un
momento in cui, più che la ricerca di
corrispondenza appassionata con un
uomo, sento l’anelito civile verso l’umanità. È un momento in cui, per volontà politica, gli uomini sembrano allontanarsi dall’umanità e il mondo
sembra avviarsi verso la morte. Elettra
è sete di giustizia, se non di pietà, ma di
giustizia nel mondo. Forse chiuderà un
ciclo della mia vita, lo saprò a gennaio,
finite le recite».
E ancora non è per caso che l’anno
prossimo l’aspetti Filumena Marturano, un ritorno ad Eduardo che ricorda
come «maestro, uomo sensibile, parco, giusto, intelligentissimo, generoso.
Ogni tanto sento dire che era cattivo,
non è vero. Ho avuto la fortuna di conoscerlo che ero una ragazzina e lui un
vecchio, ho avuto il privilegio della sua
stima e forse del suo affetto. Era un uomo che aveva una semplice severità di
vita e oltre al grande artista che tutti conosciamo era erotico: perché conosceva le donne, le capiva e le amava». Lina
Sastri considera Filumena Marturano
un appuntamento continuamente rimandato. «Quando me lo proponevano, io dicevo sempre “piango ancora,
non la posso fare, perché Filumena
non piange più”. È vero che io piango
ancora, ma sempre meno. E forse l’anno prossimo, quando la farò, piangerò
ancora, ma spero di essere ritornata a
piangere per qualcosa di felice».
‘‘
MARIA PIA FUSCO
Repubblica Nazionale
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