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Page 10 - La Repubblica.it
Domenica il fatto Theodor Herzl, messia tragico La di DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 SANDRO VIOLA l’immagine Repubblica L’Eur ovvero la fabbrica del potere FILIPPO CECCARELLI e MASSIMILIANO FUKSAS Vita da poliziotto “Ma a noi nessuno chiede scusa” Ecco chi sono e cosa pensano FOTO AGF i celerini nel mirino degli ultras CARLO BONINI D ROMA ice Antonio: «Ti hanno mai pisciato addosso? Voglio dire, hai idea di che cosa significhi sentirti zuppo della puzza di qualcuno che si tira fuori l’affare e si svuota sulla tua testa, mentre hai l’ordine di startene immobile, con il tuo casco e la tua tuta, nel boccaporto di una curva, perché altrimenti, il lunedì, dicono che sei stato un irresponsabile a seminare il panico tra chi sta guardando la partita? Eh? Ne hai un’idea? A me è successo nello stadio di Perugia un paio di anni fa e sento ancora il tanfo». Antonio, quarantotto anni, è una “guardia”. Come Filippo, trentanove, e come Lorenzo, trentacinque (sono nomi di fantasia che proteggono le loro reali identità, note a Repubblica). Un «servo dei servi dei servi», come gli cantano nelle piazze e negli stadi del nostro Paese. È un “celerino” della polizia di Stato, in servizio in un importante reparto mobile. Filippo scherza: «Almeno il piscio è ignifugo e non ti hanno “acceso” come Lorenzo». È successo a Genova, nel luglio di sei anni fa. In piazza Tommaseo. I giorni del G8. Una molotov. Lorenzo posa il boccale di birra che sta bevendo, si alza come un Cristo in croce: «Qui. Mi è arrivata qui, sul petto. Un paio di secondi e non vedi più un cazzo, perché la retina è accecata dalla vampata. Senti solo le urla dei colleghi che ti stanno intorno e, usando le mani e gettandoti per terra, pensi a fare alla svelta quello che ti hanno insegnato per spegnerti da solo e non accendere chi ti sta intorno». (segue nelle pagine successive) GIANCARLO DE CATALDO la memoria T Io, l’ultima dama di compagnia irauna brutta aria di scontro generazionale. Ragazzi contro poliziotti. L’area “antagonista” è carica di risentimento per i fatti del G8: una brutta pagina, esplorata malvolentieri, raccontata peggio, fra reticenze, mezze ammissioni e bruschi ripensamenti. Fra quelli che due domeniche fa hanno devastato mezza Italia non mancavano i simpatizzanti dell’estrema destra. In molti, troppi ragazzi, dominano diffidenza, rancore, astio, e, per usare una delle parole più amate delle curve “nere”, rabbia. E, dopo i tragici fatti di Arezzo, ragazzi che non hanno mai esercitato, in vita loro, nessuna forma di violenza, canticchiano sarcasticamente sparatece addosso sparatece a tutti. Nello stesso tempo, chi lavora quotidianamente a stretto contatto con la polizia non può che apprezzarne l’alta professionalità, e compiacersi per certi risultati eccellenti, come la cattura dei latitanti o la risoluzione (ad onta del chiacchiericcio dei salotti mediatici) di complessi casi criminali. Ma ci si può rassegnare a un’immagine così schizofrenica? Da una parte la polizia buona, sana, efficiente e per giunta così democratica che ti cattura il capobastone senza sparare un colpo né sporcarsi le mani nemmeno con un amichevole buffetto. Dall’altra le asprezze della strada, la repressione, il manganello, l’immancabile (e puntualmente ricorrente nella storia patria) pallottola vagante. La strada. Che ha le sue leggi, le sue regole non scritte e persino la sua lingua. (segue nelle pagine successive) NICOLA CARACCIOLO e HORTENSE SERRISTORI cultura Le mappe del Paradiso in Terra ALBERTO MANGUEL e AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI la lettura L’erbario segreto di Emily Dickinson EMILY DICKINSON e NADIA FUSINI spettacoli Il libro dei desideri dei grandi del jazz CONCITA DE GREGORIO Repubblica Nazionale 32 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la copertina DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 “Dimenticate Pasolini, i suoi celerini non esistono più” Parlano tre poliziotti del reparto mobile, quelli che ogni domenica fronteggiano gli ultras nelle piazze e negli stadi “Noi, servi dei servi dei servi” CARLO BONINI (segue dalla copertina) e, come me quel giorno, hai il culo di indossare una tuta ignifuga e non perdi la testa, resti vivo e con la pelle con cui ti ha messo al mondo tua madre. Se no, bene che ti vada, ti ritrovi scuoiato dal calore». Antonio, Filippo e Lorenzo guadagnano milletrecento euro netti al mese. Più o meno il soldo di un operaio specializzato. Dovrebbero lavorare sei giorni su sette, sei ore al giorno, ruotando su quattro turni (0713; 13-19; 19-01; 01-07). Dovrebbero. Dicono non vada mai così. «Lavori fino a quando c’è bisogno. Sai, forse, quando cominci. Non sai mai quando stacchi». Per ogni ora di straordinario, sei euro. La domenica, dodici euro forfettari. «Che, in busta paga, vedi dopo quattro o cinque mesi». Nessuno li ha costretti a infilarsi in una tuta da ordine pubblico. Né la fame, né l’analfabetismo, né il luogo di nascita. Dice Antonio: «Se i ragazzi mi permettono, visto che ho i capelli bianchi e ho cominciato nel ‘79 nel reparto mobile di Padova, ti dico: dimentica Pierpaolo Pasolini. I suoi celerini non esistono più. Quando ero un ragazzino, nei mezzi che ti portavano in piazza e in cui aspettavi non doveva volare una mosca e, se proprio trovavi qualcosa da leggere, era qualche giornaletto porno. Oggi, nei nostri Ducato, i colleghi ciattano sui portatili, leggono quotidiani, ascoltano l’ipod. Non lo vuole capire nessuno. O forse fanno finta di non capirlo, perché fa comodo per poterci dare allegramente dei subumani. Sia quando si tratta di fare un po’ di scaricabarile nelle nostre gerarchie, sia quando la politica, tutta la politica, destra e sinistra, decide di coprire le provocazioni di chi ha deciso di fare bordello in strada. Respiriamo la stessa aria, abbiamo gli stessi desideri e viviamo immersi negli «S MANGANELLO Non è il controverso “Tonfa” in dotazione ai carabinieri Di gomma flessibile, va usato in parallelo al terreno SCUDO Di plastica trasparente, in due formati, può essere spezzato dal lancio di una bottiglia piena d’acqua stessi gran casini di quelli che ci troviamo di fronte nelle piazze e negli stadi. Il problema dell’affitto. Quello della “terza settimana”. Quello di non far sembrare tuo figlio, a scuola, diverso dagli altri perché alterna sempre le stesse due paia di scarpe. Quello di tua moglie che si è rotta di non vederti mai e un giorno la trovi con un altro». Lorenzo annuisce. Valle Giulia la conosce anche lui. Ma non per Pasolini, che ne scriveva quando ancora non era nato. Perché ha mollato la facoltà di architettura al terzo anno, «con tutti trenta e lode». Conosce l’arabo. Ha studiato il Corano. È di destra. «Molto di destra». Come Filippo, laureato in scienze politiche, ex degli “Irriducibili”, gli ultras della Lazio. «Quando dissi a mia madre che la facevo finita con la curva e che entravo in Polizia, credo sia stato il giorno più bello della sua vita. Peccato non sapesse ancora che quel giorno sarebbe stato il presupposto di quello più brutto. Successe la prima volta che le portai a casa da lavare la mia tuta da ordine pubblico. La tirò fuori dal sacchetto e vide che la schiena era imbrattata di scaracchi grandi come pizzette. Si mise a piangere senza avere il coraggio di chiedermi niente». Antonio preferisce non dire per chi vota. La mette così: «Sono stato per qualche anno nella scorta di Enrico Berlinguer, ho protetto Arafat in uno dei suoi viaggi a Roma, quando lo cercavano americani e israeliani e bisognava impedire che lo facessero sparire. In quel periodo mi davano della “guardia rossa”. Poi succede che, dopo il G8 di Genova, chiacchiero con un giornalista di un quotidiano di sinistra. Gli racconto la mia storia e quello che penso e lui si scusa. Mi dice che non scriverà, perché ha bisogno di un celerino fascista. Un poliziotto e basta non serviva». Eppure la politica c’entra. Eccome. Lorenzo: «Nei reparti trovi di tutto. Dal comunista, all’anarchico, a quello che vota Ds o Forza Italia. E spesso ci si scazza. Una volta mi capitò di trovarmi con due colleghi. Uno era ebreo. L’altro un vero e pro- CASCO In fibra di vetro, con celata integrale. Va indossato all’ultimo momento utile prima delle cariche PISTOLA È la Beretta calibro nove per ventuno di ordinanza, custodita in una fondina speciale anti-disarmo prio nazista. Beh, dopo un servizio si attaccarono di brutto. E non ti sto a dire cosa uscì dalle loro bocche. Dopo di allora, li ho visti difendersi e proteggersi in piazza come fratelli. Forse perché la strada gli aveva mostrato il volto ipocrita della politica e con lei quello delle scelte di ordine pubblico». Racconta Antonio: «Accade che all’inizio di una settimana veniamo messi di servizio a una manifestazione di antagonisti e ce ne stiamo a fare da spettatori mentre qualche decina di dementi fa la spesa proletaria in un supermercato. Accade infatti che l’ordine è quello di assistere immobili. Di non provarci neanche a farli smettere, perché la direttiva è non cedere alle provocazioni. Io il furto lo chiamo reato e sarei anche un ufficiale di polizia giudiziaria, ma tant’è. Non sono nato ieri. Bene, passano un paio di giorni e ci ritroviamo in piazza Montecitorio, con gli operai del Sulcis. Hai presente, no? Ragazzi e padri di famiglia che si fanno il culo duecento metri sotto terra, lasciandoci un pezzo di vita ogni giorno, per portare a casa meno soldi del sottoscritto. Va tutto bene, finché uno di questi operai che chiedevano inutilmente di essere ricevuti nel palazzo della politica ha l’idea di scavalcare una delle transenne che proteggono la zona di rispetto della piazza. Non l’avesse mai fatto. Riceviamo immediatamente l’ordine di caricare e facciamo a pezzi quei poveretti. Uno dei miei, alla fine, piangeva. Si è avvicinato a uno degli operai più malconci e gli ha dato il suo sacchetto con la roba da mangiare. Volevano metterlo sotto processo disciplinare. Dopo una settimana così, pensi significhi qualcosa dire sono di destra o di sinistra?». Filippo annuisce: «Per non parlare di certi parlamentari. Arrivano alla testa dei cortei con il tesserino in mano e capisci che sta per cominciare una recita che umilia tutti. Ti racconto una storia soltanto, l’ultima. Sgombero dei rumeni a Roma. Li raccogliamo nelle baraccopoli e ne concentriamo un po’ nell’ufficio per il decoro urbano della Ama, a Pon- Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 33 “Respiriamo la stessa aria, abbiamo gli stessi desideri e viviamo immersi negli stessi casini di chi ci sta davanti: il problema dell’affitto, quello della terza settimana...” Gli sbirri e gli stradaioli disperazioni allo specchio GIANCARLO DE CATALDO (segue dalla copertina) a strada, dove il poliziotto è coniglio o infame, e chi si maschera per spaccare tutto, semplicemente, stradaiolo. Ora, alla gente comune gli stradaioli fanno paura, e se ne chiede, puntualmente, la repressione. E i brillanti successi dell’Antimafia lasciano del tutto indifferenti gli stradaioli. Non è che esistano due polizie. È la percezione della divisa che divide nettamente gli stradaioli dal resto del mondo. Non è più, come ai tempi della famosa lettera di Pasolini per i fatti di Valle Giulia, uno scontro di classe. Quando si schierò dalla parte dei ragazzi del Sud in divisa contro i figli dei borghesi che giocavano alla rivoluzione, Pasolini osò infrangere, una volta per sempre, il tabù, caro alla sinistra del tempo, di una sbirraglia braccio armato della repressione politica. Nell’immaginario pre-sessantottino, il poliziotto era “questurino”, “piedipiatti”: figura che non autorizzava nessun trasporto, nessuna epica. Erano, quelle parole di Pasolini che tanto fecero discutere, uno schiaffone al conformismo dei luoghi comuni e l’apertura di una linea di credito verso i volti, i corpi, i sentimenti di giovani che non potevano, non dovevano essere mandati in guerra contro altri giovani. Parole pesanti: perché provenivano da un comunista e da un omosessuale, in quanto tale violentemente perseguitato. Oggi, a quarant’anni di distanza, lo sbirro e il giovane stradaiolo sono un’altra volta l’uno di fronte all’altro. Un’altra volta giù nella strada. Dove il confronto è immediato e diretto e non ci sono mediazioni che tengano. Non è più il tempo di Valle Giulia, ma i luoghi comuni esistono anche oggi. Si chiamano “pochi estremisti”, “emergenza ultrà” e via dicendo. Oggi la lettera nobile e ispirata del poeta non farebbe nessun effetto. Nella violenza di strada, oggi, c’è qualcosa di diverso, a un tempo più L atroce e amaro. Nella strada lo “sbirro” è la faccia più visibile dello Stato. Nell’aggredire questa figura, simbolica e reale, gli stradaioli ci scagliano contro una violenza che non è più ideologica, non è più politica, ma ha il sapore di una profonda disperazione esistenziale. È un sapore di vite precarie, soffocate da un senso di esclusione che si fa ribellione, più simile al riot, alla sommossa spontanea, che a intenti sorretti da chissà quale disegno strategico. Il tifo calcistico, la curva eletta a luogo di elaborazione di un pensiero mitico, strutturato intorno a poche parole d’ordine da difendere a ogni costo, la Bandiera, la Fede, l’Onore, tutto questo può costituire persino un alibi, ma non spiega né esaurisce l’ampiezza e la trasversalità del fenomeno. Il giovane poliziotto è, in questo momento, ora e adesso, l’incarnazione di un “sistema” che alimenta promesse vane sapendo di non poterle mantenere. È il volto degli inafferrabili e lontani banchieri che decidono del nostro destino e, indifferenti alla nostra carne viva, ci considerano “numeri” aziendali. È l’immigrato, un poverocristo che ha il solo torto di venire da un altro mondo e che accusiamo di rubarci il lavoro. È l’arcigno guardiano della soglia di una felicità riservata agli altri, ai predestinati, ai fortunati, agli integrati. Per questo si colpisce lo “sbirro”. Ora, poiché le strade non possono diventare teatro di guerriglia, indagini e repressione devono fare il loro corso. Ma la repressione, da sola, non basta. Se non vogliamo continuare a consolarci con la storiella dei “pochi facinorosi” o, peggio, rassegnarci a perdere un corposo settore dei nostri giovani, li dobbiamo convincere, con i fatti, che lo Stato non è Moloch divoratore di innocenti, che non si può essere disperati né a vent’anni e nemmeno a trenta. Che dietro il volto del giovane poliziotto non si nasconde la maschera del Nemico. E vuoi la prova? Domenica 11 novembre, il giorno della morte di Sandri, ero allo stadio Olimpico. Sai quanti dei nostri sono finiti all’ospedale? Trentasette. A un certo punto ci sono venuti addosso con un’accetta. E, come è noto, avevamo l’ordine di non reagire. Lunedì mattina, tutti hanno chiesto scusa. Il capo dello Stato, il ministro dell’interno, il capo della polizia. Tutti hanno giustamente chiesto scusa alla famiglia di Sandri. Qualcuno ha chiesto scusa ai reparti celere che a Roma, Milano, Bergamo, Parma hanno sopportato di tutto e di più? A quelli che sono finiti in ospedale, come un collega che ha quasi perso un occhio per una bomba carta? Non ha chiesto scusa nessuno. Chiedere scusa è troppo? Diciamo allora, qualcuno ha ringraziato i “servi dei servi dei servi”? Nessuno. E allora perché dovremmo meritare rispetto? Perché un ragazzino di quattordici anni dovrebbe capire che non sta bene scrivere su un muro “uno, dieci, cento, mille Raciti”?». Antonio, Filippo e Lorenzo sono sicuri che i giorni della collera e dell’odio sono solo all’inizio. E che la ferita di Genova e del G8, mai rimarginata, può solo tornare ad aprirsi, ad infettarsi della linfa velenosa degli stadi. A Genova c’erano anche loro. Su Genova, Filippo sta scrivendo un romanzo: «È cominciato tutto lì. Anche se non so se troverò mai qualcuno che lo pubblicherà. In fondo, a chi può interessare il racconto di quei giorni attraverso gli occhi di un celerino? Non è importato a nessuno per sei anni. Perché dovrebbe importare oggi? Ma non me ne frega nulla se resterà solo un manoscritto. Fa bene a me ricordare quei tre giorni in cui è stata sospesa la legalità. E perché è accaduto. E come». Ora salutano. Lorenzo infila la mano nel cassetto della sua auto. Ne estrae due cd. «Tieni, te li regalo. Così sai cosa ascolto quando mi infilo la tuta da ordine pubblico e quando me la tolgo tornando a casa da mio figlio». Johann Sebastian Bach: Variazioni Goldberg, Gloria in excelsis Deo. FOTO FABIO FIORANI/AG.SINTESI te Marconi, dietro il cinodromo, in attesa di trasferirli verso la frontiera. Arriva l’onorevole di Rifondazione Francesco Caruso alla testa di un centinaio di ragazzi. Da quello che si capisce, vogliono impedire pacificamente il trasferimento dei rumeni, bloccando l’uscita dei pullman. E la cosa, politicamente, ci sta. Bene, sai che accade? Dopo un po’ si avvicina a noi del reparto e dice: “Ma che ve lo devo insegnare io come si fa? Caricate i rumeni sui vostri mezzi di ordine pubblico e fateli uscire da un altro ingresso. A quel punto noi ce ne andiamo e siamo tutti contenti”. Siamo tutti contenti? Chi è contento di partecipare a una farsa? I rumeni? Noi celerini? I ragazzi che sono venuti lì per impedire lo sgombero?». Antonio, Filippo, Lorenzo continuano a raccontare, scendendo ogni volta un gradino in più nel loro microcosmo. Filippo spiega che, una volta abbassata la visiera, l’elmo che indossano amplifica i rumori della piazza o dello stadio, lasciandoti per ore un senso di ottundimento. Che quell’insopportabile e indistinto rumore di fondo, alla fine, ti fa concentrare soltanto sul tuo respiro, trasformandolo in un’ossessione acustica. Lorenzo dice che quando sei in strada «devi dimenticare chi sei, come ti hanno educato tuo padre e tua madre, altrimenti diventi pazzo e reagiresti come non devi». Ma in fondo stanno girando intorno a una verità che fanno fatica a esprimere, finché Filippo non la rovescia sul tavolo delle birre che hanno continuato ad ammucchiarsi per tutta la sera, come fosse un rigurgito. «Sai che penso davvero? Che l’uomo sano è nella tuta da ordine pubblico. Che ti devo dire, forse penso questo perché è la mia unica via di uscita psicologica. Forse perché l’unico momento in cui non mi sento solo in questo Paese è quando divido la piazza e gli stadi con i miei colleghi». «È vero», dice ora Lorenzo. «Perché non può che essere solo chi è servo dei servi dei servi. Ma servo della possibilità che questo Paese resti democratico. Repubblica Nazionale 34 LA DOMENICA DI REPUBBLICA il fatto Padri della patria DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 Ai primi di dicembre le spoglie dell’unico nipote del fondatore del sionismo verranno esumate a Washington e ritumulate a Gerusalemme, vicino a quelle del nonno Dietro questa pietosa cerimonia c’è la storia tormentata di una famiglia perseguitata dalla follia e dalla morte FOTO FRATELLI ALINARI LLET GER-VIO FOTO RO e un lungo conflitto dottrinale in seno all’ebraismo Herzl, messia dalla vita tragica SANDRO VIOLA Q uando a Vienna Theodor Herzl entrava in un teatro, lungo le file della platea si sentiva mormorare: «È arrivata sua maestà». La frase era in parte sarcastica. Essa alludeva infatti alle accoglienze trionfali che le comunità ebraiche in Europa centrorientale, ma anche a Londra o a Istanbul, tributavano ad Herzl ogni volta che egli andava ad esporre il progetto d’uno Judenstaat, il nuovo Israele dove ricondurre gli ebrei della diaspora. Ma in parte la frase rifletteva anche l’impressione che proveniva dall’aspetto fisico del personaggio. In quella metà degli anni Novanta dell’Ottocento, ancora trentenne, Herzl era infatti un uomo di lineamenti perfetti, grande eleganza, l’incedere e i gesti d’un primo attore. Non solo: era benestante, sposato ad una donna molto ricca, con alle spalle un largo successo come giornalista e qualche buon esito anche come commediografo. Le donne, infatti, lo rincorrevano. Il primo a sapere quale effetto producessero sugli astanti la sua figura e il suo carisma, era lui stesso. Quando a Sofia un migliaio d’ebrei erano andati ad accoglierlo alla stazione inneggiando a «Herzl, re d’Israele», e lo stesso era avvenuto con altre comunità della diaspora, quelle invocazioni non l’avevano lasciato indifferente. Si tende a dimenticarlo, ma le prime idee di Herzl sullo Stato ebraico non prevedevano né una vera forma repubblicana né un ordinamento democratico, e neppure una benché minima interferenza della religione nella vita sociale. Fervidi ammiratori dell’aristocrazia asburgica, sua madre e lui covavano una vera e propria smania di nobiltà. La madre Jeannette pretendeva di discendere dai re di Giudea, lui avrebbe voluto essere prima d’ogni altra cosa un aristocratico. Sognava d’essere un conte ricevuto all’Hofburg da Francesco Giuseppe, si paragonava nei suoi diari a Bismarck e a Napoleone, e più tardi aveva immaginato che nello Judenstaat il potere sarebbe stato tenuto da una specie di Doge, e trasmesso per via ereditaria. D’altronde, non fosse stato un sognatore, Herzl non sarebbe forse riuscito nella sua impresa di raccogliere attorno al progetto sionista gli ebrei di Serbia, Bulgaria, Romania, Polonia, Russia, stabilendo così le premesse della rinascita d’Israele. È vero infatti che l’idea e le speranze d’un ritorno a Sion circolavano in Europa già da una ventina d’anni: ma fu Herzl a trasformare un movimento sin allora amorfo, senza basi dottrinarie e organizzative, in un’efficiente macchina politica e propagandistica (provvista d’una banca e d’un giornale) che impose il dibattito sul sionismo all’attenzione dei governi europei. E il tutto avvenne in appena un paio d’anni, dopo che Fragilità psichica e due suicidi nell’arco di due generazioni nel 1895 era tornato a Vienna da Parigi, dov’era stato corrispondente del migliore giornale austriaco, la Neue Freie Presse. E lì aveva assistito sgomento all’ondata antisemita scatenatasi col caso Dreyfus. Ma nonostante i primi successi nella mobilitazione sionista, il favore che incontravano i suoi articoli e gli sguardi ammirati che l’avvolgevano ad ogni comparsa in pubblico, Theodor Herzl era un uomo depresso, l’animo lacerato da un’infelice vita familiare. Il rapporto con sua moglie Julie Naschauer, figlia d’un potente finanziere ebreo, era stato tempestoso sin dal viaggio di nozze nel 1889. Già in quei primi giorni la giovane donna aveva infatti rivelato una mancanza d’equilibrio, una labilità psichica che risalivano probabilmente ad una storia d’isteria familiare. Era soggetta a continui sbalzi d’umore, a collere furibonde. Né questo era tutto, dato che anche i rapporti tra Julie e la madre di Herzl — da questi fervidamente, anzi morbosamente amata — s’erano subito inveleniti, producendo una continua e snervante turbolenza nelle giornate della famiglia. Non è un caso che i biografi del fondatore del nuovo Israele si soffermino a lungo sullo sfondo viennese della sua vita. Primo, per la contiguità con alcuni dei personaggi di quella che chiamiamo la Grande Vienna. Da giovanissimo, quando i suoi genitori s’erano trasferiti da Budapest nella capitale austriaca, Herzl aveva infatti abitato a lungo nella Praterstrasse, non lontano dallo studio di Sigmund Freud e a due passi dalle abitazioni di Arthur Schnitzler e Gustav Mahler. E in secondo luogo, perché Herzl — l’ebreo colto, raffinato, che sogna di veder rappresentata una sua commedia al Burgtheater, ma con alle spalle un dramma familiare — sembra uscito da un romanzo degli scrittori viennesi dell’epoca, Schnitzler soprattutto, ma anche Zweig o Roth. Così come avrebbe potuto essere il padre o marito d’una paziente afflitta da crisi isteriche, e finita in cura da un medico di cui in quegli anni stava crescendo la fama: il Dottor Freud. Il dramma familiare di Herzl non restò circoscritto ai dissapori con la moglie, e col tempo si sarebbe trasformato in una tragedia. Tragedia cui egli non assistette, perché morì nel 1904: dopo i primi due congressi sionisti, quando ancora pensava d’accettare la proposta inglese d’uno Stato degli ebrei in Uganda. Il precipizio s’aprì infatti molto più tardi, e riguardò i suoi tre figli, Pauline, Hans e Trude. Rimasti orfani (la madre era morta tre anni dopo Herzl) e affidati ai parenti Na- Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 35 LA DINASTIA FOTO FOTOTECA GILARDI Qui accanto a sinistra, quattro ritratti di Theodor Herzl: su una cartolina postale; in una caricatura dell’epoca, mentre piange sulle rovine di Gerusalemme; e su un paio di francobolli israeliani. Nelle altre immagini, da sinistra: due appunti di Herzl con l’abbozzo della bandiera di un futuro Stato ebraico; Herzl nel 1898, al centro di una delegazione sionista a bordo di una nave; qui sotto, con i suoi tre figli Hans, Trude e Pauline, in una foto che risale probabilmente al 1897 schauer, Pauline, Hans e Trude vissero infatti vite sciagurate, prendendo anche loro i tratti di certi cupi personaggi della narrativa finis Austriae. Come la madre anche lei psichicamente fragile, tossicomane e in un continuo va e vieni dalle case di cura, Pauline morì a Bordeaux nel 1930 per una overdose di morfina. Hans, che a vent’anni s’era convertito al cattolicesimo e per un certo periodo era stato paziente di Freud, andò al funerale della sorella e due giorni dopo si suicidò con un colpo di pistola. Né andò meglio a Trude. Sposata Neumann, per anni ricoverata in cliniche per malattie mentali e poi in un ospedale psichiatrico, nel 1942 Trude venne portata via dai nazisti con tutti gli altri pazienti ebrei dell’ospedale e internata nel campo di concentramento di Theresienstadt. Alcuni mesi dopo morì, e il suo cadavere scomparve, forse cremato o forse in una fossa comune. Ma Trude aveva avuto un figlio, Stephan Neumann, nato nel 1918, l’unico nipote di Theodor Herzl. Ed è di costui che s’è molto parlato in queste settimane sulla stampa israeliana: i suoi resti stanno infatti per essere traslati a Gerusalemme, sul monte Herzl, dove sono sepolti il leader sionista, i suoi genitori, sua sorella e i figli Pauline e Hans. I giornali parlano dell’evento perché in Israele non c’è un pieno consenso, anzi c’è stato un dibattito con toni a volte aspri, sull’arrivo dei resti di Stephan Neumann. E il motivo della discussione è presto detto. Anche il figlio di Trude Herzl-Neumann ebbe un destino fosco, e alla fine tragico, come quello di sua madre e dei suoi zii. Una vita totalmente «contraria», come hanno sostenuto due o tre rabbini, «ai valori dell’ebraismo». Quando i nazisti si preparavano all’Anschluss, poche settimane prima dell’invasione, Stephan venne infatti inviato in Inghilterra da un vecchio amico di Herzl, David Wolfshon. Lì, più o meno come il protagonista d’un grande romanzo dell’ultimo quindicennio, Austerlitz di George Sebald, il diciottenne Neumann frequentò una public schoole poi l’università. Quindi cambiò il nome divenendo Stephen Norman, si convertì al cristianesimo e infine partecipò all’ultimo scorcio della guerra come ufficiale nell’esercito britannico. Fu davvero anche lui, a Londra, un paziente di Freud? Alcuni biografi di Herzl ne sono certi, altri no. In ogni caso Norman morì suicida nel ‘46. Stava a Washington con un modesto incarico all’ambasciata inglese, e una mattina si gettò dal Massachussets Avenue Bridge. Dopo essersi convertito Stephen Norman si tolse la vita a 28 anni Sono stati necessari perciò molti sforzi da parte d’un paio d’organizzazioni sioniste americane, per far accettare in Israele (ai sionisti religiosi, agli ultra-ortodossi) la sepoltura di Stephen Norman, convertito e suicida, vicino ai suoi parenti sul monte Herzl. La legge rabbinica proibisce infatti di seppellire i suicidi in un cimitero ebraico, e questo sembrava aver bloccato il progetto della Jewish American Society for Historic Preservation, che per prima aveva pensato alla traslazione. Del resto, già l’anno scorso era stato anche lungo e difficile convincere i rabbini ad autorizzare la sepoltura a Gerusalemme dei due figli di Herzl, Pauline e Hans, in due tombe vicine a quella del padre. La tossicomania di Pauline, la conversione e il suicidio di Hans davano una solida base alle obiezioni degli ortodossi. Nel caso dei due figli c’erano però le volontà testamentarie del padre, che aveva scritto di voler essere seppellito nello Stato degli ebrei (il giorno che ce ne fosse stato uno) accanto ai genitori, alla sorella e ai figli. Volontà che alla fine hanno avuto la meglio sulle proteste degli oppositori. Resta che il leader del sionismo, assolutamente laico, non aveva fatto i conti con la pedanteria e i cavilli dei rabbini. La traslazione dei suoi genitori e della sorella sul monte Herzl avvenne infatti all’inizio dei Cinquanta: ma per i figli s’è dovuto aspettare il 2006, un altro mezzo secolo. Nessuna meraviglia quindi che anche l’opposizione alla sepoltura del nipote sia stata nei mesi scorsi molto dura, animosa. Del nipote di Herzl, gli ultraortodossi — che del resto non hanno mai accettato il sionismo — non volevano neppure sentir parlare. Sinché uno degli esponenti della Jewish American Society, Jerry Klinger, non ha pensato di produrre uno strano documento. Un referto clinico sostenuto da chi sa quali dati, secondo cui la famiglia di Theodor Herzl (lui stesso, i genitori e la moglie) era affetta da turbe psichiche ereditarie: le turbe all’origine del suicidio di Stephen Norman. E così, con l’attestazione d’una patologia mentale del grande ispiratore del nuovo Israele, la diatriba s’è finalmente conclusa. Tra pochi giorni il figlio di Trude Herzl-Neumann avrà infatti una tomba vicina a quelle in marmo chiaro con intorno arbusti d’alloro in cui riposano i bisnonni e gli zii, non lontano da quella del famoso nonno. Del quale — perché fosse possibile traslare a Gerusalemme i resti dello sventurato nipote —, s’è dovuto insinuare che non fosse proprio a posto con la testa. Repubblica Nazionale 36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 l’immagine Cantieri Quando Bottai convinse Mussolini a celebrare con un grande progetto il ventennale del fascismo, il Duce entusiasta scelse l’area delle Tre Fontane. Lì sarebbe sorto l’E42, il quartiere simbolo della “Terza Roma” Il regime cadde, quei palazzi rimasero Dai loro scantinati sono saltate fuori migliaia di foto che documentano una storia italiana FILIPPO CECCARELLI utentiche meraviglie riposano di solito nelle cantine. E tanto più a Roma, la Città Eterna, dove la memoria ammuffita dell’ipogeo nasconde tesori di sorprendente e inusitato valore, come se il buio e l’oblio, il disordine della storia e la damnatio della memoria si fossero preoccupati di conservare certe testimonianze con l’occulto scopo di riportarle alla luce nel momento opportuno... In breve e con la ragionevole promessa, dato anche l’argomento, di misurare d’ora in poi il tasso di retorica: negli scantinati del Palazzo della civiltà italiana, il cosiddetto “Colosseo quadrato”, e in quelli del Palazzo degli uffici, dove ha sede Eur Spa, sono stati ritrovati diversi rimarchevoli materiali tra cui delle foto stupende. O meglio: per iniziativa del professor Mauro Miccio, che nella sua pur varia carriera di teorico e manager della comunicazione mai avrebbe sospettato di trasformarsi in una specie di archeologo della sua azienda oltre che della zona in cui lavora, sono state restaurate delle lastre fotografiche, invero piuttosto malridotte, che adesso offrono allo sguardo visioni degne di un CartierBresson. Mentre invece sono istantanee anonime, trovatelle, probabilmente prodotte nel corso di sopralluoghi per esigenze di lavoro. Ebbene: queste immagini non solo cantano, ma in qualche modo riscattano le stesse ragioni che le avevano precipitate sotto terra, nell’abbandono e nella vergogna. Rappresentano infatti i lavori di costruzione dell’E42, il vasto insediamento che l’architettura del regime mussoliniano aveva in programma per degnamente celebrare, con un’esposizione internazionale che poi mai si fece, i vent’anni della marcia su Roma; e la gloria pregiudiziale del fascismo; e il genio italico ritornato sui «colli fatali» dell’Urbe; e l’attitudine bellica di un popolo che il Duce qualificava «di poeti di artisti di eroi di santi di pensatori di scienziati di navigatori di trasmigratori» come ancora si legge sul frontone di quel gigantesco A Eur, la fabbrica del potere cubo razionalista che perfino nel numero dei piani (sei) e delle arcate (nove) sembra dovesse riflettere, conteggiandole, le lettere di Benito e di Mussolini. Ebbene, in cima a quel monumento inconcluso, nel vuoto della campagna assolata si staglia oggi la sagoma di un operaio che ha la grazia raccolta di un acrobata. In un’altra foto si vede una fila di lavoratori che a forza di braccia tirano un cavo con le stesse facce, gli stessi sguardi e la stessa concentrazione di certe icone del New Deal. Potenza. Equilibrio. Geometria. Poesia. Operai a cavalcioni sull’arco che Adalberto Libera non ha ancora appoggiato al vertice del Palazzo dei congressi: ma in bilico su una struttura appoggiata a dei tubi Innocenti c’è anche l’ingegnere con il suo cappello Borsalino, ed è come se danzasse tra fili e carrucole, sotto un cielo bianchissimo, come una specie di figura di Chagall. Sono figurazioni astratte e insieme umanissime presenze che a settant’anni di distanza finiscono per purificare quella pazza avventura architettonica che fu l’E42. Il pasto dei manovali, il silenzio che si coglie su quella scena, le scarpe impolverate in primo piano, il grappolo d’uva, le pietre spezzate, tutto sembra anticipare le inquadrature del neorealismo. Due ragazzini a bocconi sui mosaici di stile kitsch imperiale, una scopa e un secchio di calce riabilitano l’onore del lavoro e in fondo della realtà di fronte alla dissennata superbia di quelle forme. Memorie pesanti che recuperano di colpo la loro leggerezza. Viene da pensare che forse è stato davvero un bene che quelle lastre fotografiche, quei pezzi di vetro alla gelatina ai sali d’argento siano rimaste sepolte così a lungo, pure sfidando umidità, crinature, fratture, graffi, impronte, abrasioni; ma anche fastidio, vergogna, mancanza di senso. Un umile scalpellino è alle prese con un marmoreo bassorilievo, apoteosi del lavoro e della santità, pare di capire, al piano di sopra; mentre al piano terra, a grandezza naturale, si santifica la potenza militare, legionari con casco e fucile a tracolla, bandiere, labari, insegne, gagliardetti, donne supplicanti un condottiero a cavallo, anche se in piedi, e pure con elmetto, un braccio proteso nel saluto romano, l’altro con il pugno appoggiato minacciosamente sui fianchi. E l’omino vero che nell’umile foto di IL PROGETTO Nel 2005 dai sotterranei del Palazzo degli uffici, dove ha sede l’Eur Spa, sono emersi sedicimila scatti fotografici mai visti sulla storia dell’ E42. Il progetto di restauro, voluto dall’Eur Spa e dalla Sovrintendenza ai beni culturali del Lazio, di oltre tremila negativi su lastre di vetro sarà presentato a Venezia durante il Salone dei beni e delle attività culturali dal 29 novembre al primo dicembre. Dal 12 al 20 gennaio 2008 all’Eur sarà realizzata una mostra con una selezione di trecento immagini dal titolo Istantanee di vita lavoro se ne sta lì sotto, a rifinire quella bizzarra creazione che presto verrà tragicamente contraddetta dagli eventi — e ciò che resta di quel tempo è la sua camicia, il suo berretto, la pacifica sua fatica. Postuma, per giunta, eppure o forse proprio per questo tale da ristabilire una ragionevole gerarchia di ricordi, di valori e di segni, e proprio nel cuore del sogno mattoide dell’E42. Fu il più illuminato dei gerarchi, Giuseppe Bottai, a spingere Mussolini su quella strada già nel 1935, in vista del ventennale del regime. Il Duce scelse l’area delle Tre Fontane, e subito fu entusiasta del progetto, che interessò i migliori architetti su piazza. Ma già allora il capo del fascismo aveva troppe cose a cui pensare, né alcuno che temperasse la sua conclamata, patologica megalomania. Ancora oggi si fatica a capire cosa veramente significasse quel progetto per Mussolini, se non il tentativo, forse, di regolare personalmente i suoi conti con Roma, quale essa era e ancor più quale lui la sentiva: scettica, pittoresca, disordinata, opportunista, irridente. Così si proclamò demiurgo della fantomatica “Terza Roma”, dopo quella dei Cesari e dei Papi, convincendosi della necessità di allestire una bianca scenografia per i riti totalitari. Sul piano estetico puntò sull’imperium, sul grandioso e sul moderno, proponendo l’E42 come «l’ostentazione consapevole e matura della civiltà italiana, romana e fascista in tutti i suoi aspetti», come ha sintetizzato Vittorio Vidotto (Roma contemporanea, Laterza, 2006). Non era previsto che qualcuno potesse opporsi a quest’idea. «La Terza Roma — venne inciso sull’edificio nei cui scantinati finirono le foto — si dilaterà sopra altri colli lungo le rive del fiume sacro sino alle spiagge del Tirreno». Ma in questa pur legittima indicazione urbanistica, almeno sulla carta, entrò di tutto: teatri, palazzi, musei, padiglioni (uno da dedicare al fratello defunto di Mussolini), archi di trionfo in metallo, elementi di classicismo onirico e cimiteriale, statue di uomini nudi che tenevano a freno cavalli o si strusciavano addosso a leoni con la lingua penzolante. Ma soprattutto guerrieri, armi, eroismo. Si è poi capito, purtroppo, dove buttava questa impostazione. Ora si comprende bene come quelle frenesie, quel- Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37 Quel set metafisico nato troppo presto MASSIMILIANO FUKSAS UOMINI E PALAZZI • Ultimi ritocchi al bassorilievo di Publio Morbiducci Storia edilizia di Roma (1939) • Operai al lavoro su una struttura in ferro del cantiere del Palazzo dei ricevimenti e congressi (1940) • Un gruppo di operai durante la pausa pranzo (1937-1941) • Lavoratori sotto sforzo nel trascinare una macchina da costruzione (1937-1941) • Un gruppo di bimbe profughe giuliane fanno un girotondo davanti al “Colosseo quadrato”, dove erano ospitate (1958) • Nella foto in basso a sinistra, il progetto originale dell’E42 (Tutte le foto pubblicate in queste pagine sono gentilmente concesse dall’Eur Spa) Eur è un’eccezione, una contraddizione irripetibile nella storia di Roma. È un progetto monumentale che ricorda un passato pesante ma allo stesso tempo è un luogo di forte dinamismo, trasformazione, vitalità. Lo anima una tensione alla modernità che non ha mai smesso di agire. Se arriva troppo tardi per l’Esposizione universale del 1942 per cui era stato pensato (scoppia la Seconda guerra e tutto va all’aria), arriva troppo presto rispetto alla sensibilità comune: la sua proiezione avveniristica scardina schemi urbanistici e consuetudini estetiche. I migliori architetti che vengono chiamati a lavorarci hanno esperienze internazionali, una cultura formata nel mondo. Si trattava di ricostruire il Paese, circolava entusiasmo e ottimismo, si era passati per l’esperienza del Futurismo e della sua fiducia nel progresso, nelle tecnologie, nella comunicazione. Nasceva il mito del piroscafo, dell’aereo, dei viaggi. Al di là della propaganda, delle tentazioni autocelebrative e monumentali, il capolavoro urbanistico di Marcello Piacentini porta in sé i germi di un’accoglienza del nuovo, di uno sperimentalismo fino ad allora mai praticato. Lo dimostra il fatto che quando la guerra interrompe il sogno dell’Esposizione (che è il tentativo dell’Italia di allinearsi all’Occidente più avanzato) e molti edifici rimangono incompiuti e i cantieri aperti, l’Eur continua a produrre idee e ricostruzioni. All’interno del quartiere completato nel dopoguerra, sono nate alcune delle architetture più significative di Roma, opere che uniscono classico e moderno (barocco e international italian style) edifici di straordinario valore simbolico, spesso riconducibili all’orizzonte metafisico di De Chirico: il Palazzo della civiltà italiana di Guerrini, La Padula e Romano; il Palazzo dei ricevimenti e dei congressi di Adalberto Libera; il Palazzo degli uffici di Gaetano Minnucci; i musei e il teatro sulla piazza imperiale cui collaborarono Fariello, Muratori, Quaroni, Moretti e altri; l’edificio delle Poste di Banfi, Belgioioso, Peressutti e Rogers; il Museo della civiltà romana di Aschieri, Bernardini e Pascoletti. Non è un caso che l’Eur anche per Fellini sia stato l’unico set in grado di competere con Cinecittà. E il cinema, che tanto rappresentò per il fascismo in termini di modernità e comunicazione oltre che di propaganda, è uno spirito che si aggira ancora nel quartiere. Ne interpreta lo spirito e incarna quello che mai dovremmo dimenticare: che la città vive in un metabolismo continuo. Roma in particolare incarna questa prospettiva, ha un passato sedimentato che spinge sempre verso il dopo. Tra gli edifici della ricostruzione, tra i più significativi ci sono i contenitori realizzati dall’Eni, dalla Società generale immobiliare e dall’Inps, il Grattacielo Italia, il ministero delle Finanze e il nuovo palazzo sede della Democrazia cristiana, di Saverio Muratori. Altri, portati a termine per l’occasione delle Olimpiadi romane del 1960, come il “Fungo” di Colosimo, Martinelli e Varisco, il Palazzo dello sport di Pierluigi Nervi e Marcello Piacentini, e il bellissimo Velodromo olimpico di Ligini, Ortensi e Ricci ma che è ormai scomparso. Non dimentichiamo l’“asse” piacentino rappresentato dalla via Cristoforo Colombo per ricucire la città al mare (e ristabilire nelle intenzioni originarie il legame storico e ideologico con l’antico porto della Roma imperiale). La mia Nuvola si inserisce in questa traiettoria: materiale aereo “incorniciato” in un cubo, morbidezza nella razionalità, comunicazione dentro la storia e la memoria. Sta dentro un passato “pesante” ma si alza leggera. (Testo raccolto da Alessandra Retico) L’ le forme, quei materiali, tutto insomma era coerente con un potere che stava andando a rotta di collo verso la sua autodistruzione. La guerra prima rallentò i cantieri, poi tra mille vicissitudini abbandonò l’Eur al suo destino, che per la verità ebbe poi a rivelarsi meno drammatico del previsto, dal momento che il quartiere resuscitò dalla sua desolazione di sterpi e travertino divenendo ricca zona residenziale, sede di ministeri, impianti sportivi, set cinematografici e luna park; e al giorno d’oggi anche così lodevolmente interessata alla sua storia, l’ex Ente Eur ora Eur Spa, da affrontare onerosi lavori di restauro figurativo. Ma nel frattempo, e quindi nell’immediato dopoguerra, il Palazzo degli uffici, da cui oggi il professor Miccio governa agevolmente seduto su una preziosa scrivania anni Trenta pure scovata in cantina e risanata, si trovò a ospitare centinaia di esuli giuliano-dalmati. Per cui sottoterra, chissà come, finirono anche delle foto di quella stagione, e ce n’è una di bimbe che giocano e saltano e ballano con i loro grembiulini nei viali deserti. In quella Roma, in quell’Italia così povera e insieme così ricca di speranza. Repubblica Nazionale 38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 la memoria Hortense Serristori, nobildonna fiorentina colta e curiosa, attraversa gli anni Venti e Trenta del Novecento in intimità con la famiglia reale italiana e con i grandi della politica, della letteratura, dell’arte Sangue blu E fissa gli incontri e i ricordi di quell’epoca in un diario che ora viene pubblicato HORTENSE DE LA GÁNDARA SERRISTORI MORE per Roma (22 dicembre 1927). Cara, ho sempre amato molto Roma. Non posso nasconderti che quando era giovane tua nonna era frivola e mondana, e dal punto di vista della mondanità Roma è stata davvero una città unica, al contempo capitale e metropoli religiosa, centro sportivo e ritrovo artistico, e in più, un clima meraviglioso. Roma attirava tutto ciò che c’era di desiderabile in Europa; tutto quello che contava passava per Roma. La nobiltà romana regnava ancora nei suoi palazzi, così belli che il Kaiser, congedandosi dalla principessa Doria la sera del gran ballo che lei aveva dato per festeggiare le nozze d’argento del re Umberto e della regina Margherita, ringraziando le disse che, il giorno in cui la principessa si recasse a Berlino, lui con sommo dispiacere non avrebbe potuto offrirle nulla di paragonabile alla festa di quella sera. (Ammetto che è più o meno la verità: ho partecipato a un ballo di corte a Berlino, ho avuto l’onore di pranzare al tavolo del Kaiser: tutto molto bello, ma non paragonabile al «decoro» di palazzo Doria). Quegli anni furono l’âge d’or del Grand Hotel. La nobiltà di provincia vi regnava; ci andavamo tutti, ma i più fedeli erano i siciliani: i Trabia, i Florio, i Mazzarino. Lo spettacolo che offriva il restaurant del Grand Hotel, soprattutto le sere quando c’era qualche gran festa in città, qualche gala per sovrani stranieri e tutte le donne scendevano in grandi toilette e diademi — toilette che non avevano niente da spartire con i ridicoli stracci di oggi — era davvero unico e destava l’ammirazione di tutti. La regina Elena (22 dicembre 1927). Anche la regina allora era bellissima: altissima, molto snella, la pelle scura, occhi neri, aveva l’aria di una Madonna bizantina. Il tipo poteva anche non piacere, ma a Parigi la sua bellezza riscosse un grande successo. Vi aveva accompagnato il re per una visita ufficiale a Monsieur Loubet nell’ottobre del 1903 e, quando si presentò seguita dalle dame — sia quelle che l’accompagnavano da Roma sia altre che si trovavano in quel momento in città — Parigi si entusiasmò, andò in visibilio e attraverso le mille voci della folla, dei giornalisti, degli chansonniers fu tutta un’ovazione per noi. Posso ben dire noi, perché in quel corteo dove brillavano gli astri di prima grandezza come Franca Florio, Vittoria Teano, Maria Trinità, Jeanne Vigiano, anche coloro che belle non erano, lo sembravano. Questa impressione durò anche dopo la partenza della regina. Venivamo riconosciute nei negozi, a teatro, segnate col dito, per poco non ci applaudivano! Per una stagione fummo gli idoli di Parigi, la città incantatrice! [...] La regina ha due passioni: da un lato la natura, la vita selvaggia e libera, la caccia, la pesca; dall’altro la medicina, le operazioni, le infermiere ecc. [...]La regina ha avuto un destino felice, brillante, «Ich gönne es Ihr!», sebbene non le siano mancate le pene. Amava molto il suo Paese, e la soppressione del Montenegro freddamente eseguita dagli Alleati l’ha profondamente afflitta, e ancor più ha sofferto per il fatto che la sua famiglia l’ha ritenuta in qualche modo responsabile, accusandola di non aver saputo difendere la sua Patria. Quando, dopo la guerra, la vecchia regina del Montenegro, fuggiasca, esiliata, passò per Roma, si rifiutò di scendere dal vagone. Ed è lì che ricevette sua figlia. Nessuno ha assistito a questo incontro, da cui la nostra regina è uscita silenziosa e con gli occhi rossi. La catastrofe russa è stata un’altra pena per lei. Era russa nel A FOTO DEDICATE Sopra, Maria Josè col piccolo Vittorio Emanuele Qui accanto, Hortense Serristori A destra dall’alto: Vittorio Emanuele III e Mussolini La dama di compagnia dell’ultima Regina cuore come tutti gli slavi e alla Russia guardava come a una seconda e più grande Patria. Le sorelle erano sposate in Russia, lei stessa era stata allevata a Smolny e si riteneva destinata a sposare qualche granduca. La regina Vittoria di Spagna un giorno mi disse che aveva pensato a lei per l’imperatore Nicola II. Comunque sia, credo che abbia sofferto molto di queste due catastrofi. Il Vaticano (5 dicembre 1929). Siamo lì dalle 9 e 30 della mattina e solo verso mezzogiorno qualcosa si muove al soglio di San Pietro, il re e la regina si congedano dal cardinale Merry del Val, arciprete della basilica e scendono lentamente la scalinata — la regina e le sue dame, la duchessa Cito, tua zia Frankey Guicciardini e Donna Nini Grazioni, tutte in bianco, diadema e velo bianco, la regina con uno strascico d’argento sorretto da Cito, suo gentilhomme de service, le dame con il loro di velluto blu; il re e il suo seguito in uniforme e decorazioni, i dignitari pontifici nei loro meravigliosi costumi. Monsignor Caccia Dominioni è accanto al re, Ruspoli alla regina. Al seguito c’è ancora una dama in abito e velo nero, è la contessa di Val Cismon, la moglie dell’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede, ma questa macchia scura si perde nello splendore del corteo e nell’abbagliante luce del sole. Ancora qualche istante e le sette auto attraversano lentamente la bellissima piazza, mentre le truppe pontificie rientrano in Vaticano; il cordone di piazza Rusticucci viene tolto e la folla invade la piazza. Vediamo passare ancora il cardinale Gasparri, diretto al Quirinale a rendere visita, poi lo spettacolo è finito per noi stanchi ma ben ripagati della fatica perché il colpo d’occhio era magnifico! Le dame di corte (7 dicembre 1929). Alla corte d’Italia, le regine hanno dame di due specie: ci sono le dame di corte che IL LIBRO Memorie di Hortense (qui accanto ne riportiamo alcuni brani) scritto da Hortense de la Gándara Serristori e a cura di Piero Gelli, è pubblicato da Baldini Castoldi Dalai, ha 280 pagine che comprendono un ricco apparato fotografico, costa 17,50 euro, e sarà in libreria dal 27 novembre. Si tratta del diario che, sotto forma di lunga lettera a una nipote, la contessa Serristori, una delle figure più in vista della nobiltà fiorentina e dama di corte della regina Elena, scrisse tra il 1927 e il 1943 prestano servizio a turno alla regina, abitano a palazzo e viaggiano con lei; ora hanno molto da fare e una grande responsabilità perché non c’è una grandemaîtresse: la regina Margherita aveva la sua, la marchesa di Villamarina, che chiamavano dama d’onore — ma l’attuale re non l’ha voluta per la sua sposa temendo l’influsso che una dama sempre a contatto tutto l’anno con la giovane principessa potrebbe avere sul suo animo, o il grande potere che potrebbe esercitare a corte. Di fatto il ruolo di dama d’onore è sempre vacante e sono le dame di corte che fanno tutto. Poi ci sono le dame di palazzo, nominate in ogni città, la cui funzione consiste nell’accompagnare la regina alle cerimonie di palazzo, nelle udienze o nelle uscite. Quelle romane hanno ancora qualcosa da fare, ma quelle in provincia quasi nulla. Da quando sono stata nominata per Firenze, ho avuto in tutto quattro giorni di servizio. Ti racconto tutto questo, piccola mia, perché chissà mai dove saranno combinazioni di diamanti e strascichi di velluto blu quando sarai grande? Orneranno ancora le spalle di giovani donne e frusceranno ancora dietro la scia di Altezze future? Speriamo bene! Umberto e Maria Josè (4-8 gennaio 1930). Roma, la Città Eterna, eternamente in festa sotto un cielo sfolgorante, si prepara ad accogliere una futura regina! Bandiere, archi di trionfo, luminarie, rovine illuminate a giorno, passaggio di truppe, fanfare e così via. [...] Sono le dieci e un quarto quando arrivano nel nostro salone — noi formiamo un cerchio — la regina Elena in blu zaffiro appare per prima al braccio del re Al- berto; dietro segue il nostro re al braccio della regina Elisabetta. Costei è in mauve, e così leggera e aggraziata nei movimenti che mi fa venire in mente ciò che mi disse un giorno Beaumont, della sua famigliarità con gli uccelli, e questo non mi sorprende: la sua persona così minuta e graziosa non va intimidita. Dietro vengono i fidanzati e tutti gli sguardi si fissano su questa coppia così ben assortita e così piacevole da guardare: sono snelli, eleganti, slanciati, splendenti di salute e freschezza, lui bruno e lei bionda, lui in uniforme e lei in bianco; lui ci presenta a lei per nome, una per una, senza mai sbagliare — oh memoria dei nomi e dei volti, virtù essenziale dei re! — lei ci porge la mano da baciare e sorride a tutti, gli occhi blu raggianti di felicità. [...] La regina Elena conduce suo figlio e re Vittorio Emanuele la regina Elisabetta. Sovrani e principi, stranieri e italiani, seguono a due a due. Le principesse hanno gentiluomini a sorreggere gli strascichi, alcuni dei quali talmente ricchi che senza questo aiuto le poverette non potrebbero muoversi — si ammira in modo particolare lo strascico di velluto rosso ricamato in oro della casata degli Hesse che indossa la principessa Mafalda. I gioielli sono fantastici — la principessa Ruprecht di Baviera ha dei rubini incredibili — il diadema della duchessa di Bramante è composto di diamanti del Congo, ciascuna provincia del Belgio ne ha donato uno… Traduzione di Piero Gelli e Angelica Chiara Gallo © 2007 Baldini Castoldi Dalai Spa Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39 Il teatro scintillante della corte Savoia NICOLA CARACCIOLO lla vigilia della Prima guerra mondiale in Europa c’erano due sole repubbliche: la Francia e la Svizzera. Tutti gli altri stati erano monarchie. La regalità: un concetto che ha radici profonde nella storia europea. Un’idea di pompa, di gloria e di potere che oggi ci è estranea ma che fino a poco tempo fa rappresentava politicamente la norma. Le memorie della contessa Hortense Serristori hanno questo di affascinante. Ci consentono di capire come si viveva all’ombra di una grande dinastia europea, quella italiana. È un tema che ho toccato spesso nel mio lavoro di giornalista storico televisivo. L’ultimo lavoro per Rai Tre si intitolava appunto Casa Savoia: era la storia del regno di Vittorio Emanuele III e della fine della monarchia. A più riprese negli ultimi anni ho avuto occasione di intervistare la principessa Maria Gabriella di Savoia su questi temi. L’ho sentita di nuovo molto recentemente e l’ho trovata sul piede di guerra. S’era appena dissociata con una lettera a Repubblica da una richiesta di danni allo Stato italiano avanzata da suo fratello Vittorio Emanuele. Esasperazione motivata: a lei va il merito d’aver capito che è giunto il momento di rivedere storicamente i complicati rapporti tra monarchia e paese. Ha messo in piedi una fondazione con relativo archivio per custodire le memorie dell’ex casa regnante. Manca cioè, ritengo, alla storiografia italiana un’opera che riconsideri — un po’ sul modello di quello che ha fatto De Felice per il fascismo — quegli aspetti pur sempre essenziali del nostro passato. Il successo della rubrica alla quale collaboro su Rai Tre, La grande storia in prima serata, dimostra che c’è un vero interesse per vedere le immagini e sentire il racconto della nostra tormentata storia recente, purché fatto in spirito di obiettività. Le memorie di Hortense Serristori vanno in questa direzione. Ci aiutano a capire quel mondo così diverso da quello della gente comune di allora ma anche dalla mentalità contemporanea. La Serristori era, ce lo conferma Maria Gabriella, molto legata alla regina Elena di cui era stata “dama di palazzo”. La figlia Maria Bossi Pucci, era stata “dama di corte” della madre di Maria Gabriella, la “regina di maggio” Maria José. Anzi qualcosa di più: un’amica stretta soprannominata “chiffon”, straccetto cioè. Alla corte d’Italia si parlava molto il francese. E il piemontese, occorre aggiungere. “Dame di corte”, “dame di palazzo”: sfumature esoteriche quasi, il cui significato oggi ci sfugge completamente ma che allora appariva importantissimo. La Serristori nata nel 1871, morirà nel 1960 a ottantanove anni. Il suo diario — scritto anche quello in francese — si concluderà subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ha preso la forma, un po’ artificiale, d’una serie di lettere a una nipote molto amata. Descrive grandi avvenimenti conosciuti: la Prima guerra mondiale, la Marcia su Roma, la Conciliazione e via enumerando. La Serristori ha frequentato grandi scrittori, D’Annunzio, Moravia, Berenson per esempio. Tuttavia la parte che c’è sembrata più interessante del suo libro è quella che riguarda la vita di corte. È l’argomento che abbiamo preferito nella scelta dei brani che riportiamo. Risponde al desiderio di sapere come si viveva all’ombra di una importante dinastia. Perché tale era casa Savoia. Imparentata con tutte le famiglie regali d’Europa aveva un millennio di potere alle spalle — dalla Savoia al Piemonte, all’Italia. Cosa ha significato essere re? C’è in questa tradizione anche qualcosa di strano e soprannaturale per la mentalità tradizionale. Un grande classico della storiografia francese, I re taumaturghidi Marc Bloch, dimostra quando fosse diffusa nel Medioevo la credenza che i re avessero il potere magico di guarire con l’imposizione delle mani certe malattie. L’ultimo re guaritore fu Carlo X, in Francia, che perse il trono nel 1830. Nel secolo Ventesimo nessuno più credeva né praticava questi riti ma l’idea che ci potesse essere qualcosa di trascendente, di più che umano nella regalità, è andata avanti molto a lungo. E traccia di questa atmosfera si ritrova nel libro della Serristori. Sono sufficientemente vecchio per avere avuto tra i testi sacri della mia gioventù Il mondo magicodi De Martino e il Ramo d’oro di Fraser. Ecco con quale arcaica solennità la Serristori descrive una cerimonia regale: «Il primo corteo è quello della regina. Insieme alle principesse e ai loro seguiti. Sua maestà occupa la tribuna centrale, proprio sopra il trono. La regina è incantevole, elegantemente vestita di velluto, ornata con magnifiche perle e un grande cappello “garni d’esprits” che le incornicia il viso. Alla sua destra siede la principessa di Piemonte, alla sua sinistra la duchessa Elena d’Aosta. Infine giunge il re che prende posto sul trono, sotto le tribune; al suo fianco per ordine di diritto nella successione, i principi del sangue. Gli aiutanti di campo restano sempre in piedi. Le nuove uniformi scintillano». A AUTOGRAFI Qui sopra, una poesia autografa di Gabriele D’Annunzio e una serie di dediche, l’ultima di Paul Valery, tratte dal libro degli ospiti DISEGNI Sopra, Arthur Neville Chamberlain A destra un disegno di Vernette Henraux IN VOLO CON BALBO Edizioni Dedalo www.edizionidedalo.it Sopra, Margherita di Savoia nel 1922 Sotto, Hortense Serristori nel 1939 dopo un volo con Italo Balbo A destra, dall’alto: dediche di Puccini, Trilussa, Serao prefazione di Gianrico Carofiglio GENGIS KHAN E IL TESORO DEI MONGOLI 20 Ottobre 2007 | 4 Maggio 2008 Main Sponsor Chinese Academy of International Culture Comune di Treviso - Fondazione Italia Cina Touring Club Italiano Organizzazione: Sigillum Guardando i disegni di Pillinini viene in mente Totò... (Gianrico Carofiglio) Info Tel. 0422 513150 - 0422 513185 - www.laviadellaseta.info Prenotazioni turistiche Tel. +39 0422 422891 - www.marcatreviso.it Repubblica Nazionale 40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 Da millenni gli uomini hanno pensato un luogo dove i giusti dopo la morte abbiano la loro ricompensa Ma non hanno mai smesso di immaginarne CULTURA* un altro, più sensuale e concreto, da dove i nostri progenitori furono cacciati Ora un libro raccoglie le carte che nei secoli hanno tracciato la possibile via del ritorno Mappe Eden le dell’ ALBERTO MANGUEL gnidesiderio ha la propria cartografia, ogni mappa i propri punti di partenza e di arrivo. Impegnati a trovare un senso nell’incessante abbinamento di molecole che ci compongono e ci scompongono, da lungo tempo immaginiamo che le nostre azioni rispondano a un significato e a una missione, e che quindi quel che realizziamo su questa terra possieda un valore morale o etico, sottoposto al giudizio di un Amministratore Supremo che a tutto offre ricompensa o castigo. E così le nostre anime, pensionate dopo la morte della carne, passeranno all’eternità in una sorta di residenza per anziani, decente o spaventosa, a seconda dell’inclinazione della bilancia. Come testimoniano le tombe troglodite, tale speranza è ben antica. Per i greci, le anime dei morti viaggiavano tutte assieme verso quel luogo comune denominato Ade, dove attendevano il loro destino sui grigi prati di asfodelo. Chi aveva offeso gli dei era condannato al Tartaro, dove veniva poi torturato; chi godeva del favore divino era trasportato alle isole benedette o Eliseo: l’Ade si trova sotto terra o al di là del mare; in alcuni casi eccezionali, può essere visitato da chi è ancora in vita. Odisseo, Orfeo ed Enea si annoverano tra i privilegiati. Ho descritto una delle oltretombe: ce ne sono migliaia. Tutte le popolazioni del mondo hanno immaginato una versione dell’aldilà nella quale i buoni sono premiati e i cattivi puniti. C’è chi crede che tali promesse corrompano. Ivo, vescovo di Chartres, durante una missione voluta da O ziosi della biblioteca universale, ce ne sono alcune in cui Giacomo Leopardi, dopo dieci lunghi anni di riflessione su tutte le cose, s’interroga sul significato di questo Paradiso terreno. Secondo Leopardi, il Paradiso in cui Adamo ed Eva sono stati creati fu uno dei piaceri materiali e carnali, un “paradiso voluptatis” che doveva essere coltivato e protetto. A differenza del Paradiso celeste che i giusti si aspettano dopo la morte del corpo, il Paradiso terrestre (seppur perduto) ha qualcosa di verosimile, di materiale e persino di carnale, niente ingiustizie sul lavoro, imbrogli economici o tormenti filosofici: una sorta di Club Mediterranée, potremmo dire, avant la lettre. Dinanzi a tali incanti, l’ascetico Paradiso futuro diventa astratto fino all’inverosimile. «E la felicità promessa dal Cristianesimo non può al mortale parer mai desiderabile [...] Ed oso dire che la felicità promessa dal paganesimo (e così da altre religioni), così misera e scarsa com’ella è pure, doveva parere molto più desiderabile, massime a un uomo affatto infelice e sfortunato, e la speranza di essa doveva essere molto più atta a consolare e ad acquietare, perché felicità concepibile e materiale, e della natura di quella che necessariamente si desidera in terra». L’altro, il Paradiso terrestre o Eden è, secondo la Genesi, un giardino nel quale persino Dio ama passeggiare. Etimologicamente lo si è voluto associare alla parola ebraica miquedemche possiede un significato spaziale (“in oriente”) e temporale (“fine dell’inizio”). Il Dizionario Biblico editato da Paul J. Achtemeier lo fa derivare da edemche vuol dire “lusso, pia- Alla ricerca del Paradiso perduto San Luigi, re di Francia, raccontò al re che lungo la strada aveva incontrato una signora dall’aria malinconica, che aveva in una mano una torcia e nell’altra un’anfora. Il vescovo, incuriosito, volle sapere di più sul suo conto e le chiese cosa avrebbe fatto con quel fuoco e quell’acqua. «L’acqua è per spegnere l’Inferno», rispose la donna, «e il fuoco per incendiare il Paradiso. Voglio che gli uomini amino Dio per il solo amore di Dio». Per quanto ammirevole possa apparirci una simile impresa, la nozione di Paradiso (così come quella di Inferno) perdura con i suoi celestiali incanti: un luogo futuro, alla portata delle anime con la fedina penale pulita (è bene ricordare che l’unico a ricevere la promessa del Paradiso direttamente dalle labbra di Gesù, sia stato un ladro). Esiste però un altro Paradiso, più solido, meglio immaginabile, forse più accessibile, un luogo nel quale un tempo abbiamo goduto del diritto di abitazione e dal quale siamo stati esiliati. Il primo Paradiso è intangibile, extraterrestre, spirituale, descritto con un linguaggio di metafore e allegorie. Il secondo (ci piace credere) è concreto, sensuale, nascosto seppur in questo mondo, e per tanto, vanta un’autentica cartografia. Spesso si confonde un Paradiso con l’altro, il Paradiso celeste presuntamente promesso ai giusti e l’Eden terrestre presuntamente perduto. La confusione (e la distinzione) non è nuova. Tra le oltre 4.500 pagine che compongono lo Zibaldone, uno dei libri più singolari, personali e ambi- TORRI E COLLINE Il Paradiso terrestre dal Rudimentum noviciorum di Lucas Brandis (Lubecca 1475) cere, delizia”; Achtemeier sottolinea tuttavia che i filologi moderni lo associano a una voce sumera, edin, che si traduce con “pianura” o “prato”. Attraverso i secoli, l’Eden ha trasmesso le sue incantevoli caratteristiche a un’immaginaria nostalgia: quella dell’Età dell’oro classica, nella quale il mondo intero è un giardino, «quand’era cibo il latte», dice Guarini, «del pargoletto mondo, e culla il bosco;/e i cari parti loro/godean le gregge intatte,/né temea il mondo ancor ferro né tosco!». È questa la caratteristica principale dell’Eden: si coniuga nel tempo passato, desiderio di ciò che è perduto, negato, di ciò che ora è proibito. È la terra come vorremmo che fosse, come sogniamo che sia. Per questo crediamo, con più o meno fede, di poterla ritrovare. La ricerca del Paradiso terrestre conta su una vasta biblioteca cartografica. Centinaia di documenti manoscritti e stampati, e una bibliografia di svariate pagine che non disdegnano né le fonti secondarie né i siti web, hanno permesso ad Alessandro Scafi di dare corpo, un anno fa, a una straordinaria mostra presso il British Museum di Londra, il cui catalogo magistrale, Il paradiso in terra: Mappe del giardino dell’Eden, viene pubblicato da Bruno Mondadori in questi giorni. Le testimonianze sono numerose, e pochi tra gli autori studiati da Scafi hanno avuto, come Sir John Mandeville nel Quattordicesimo secolo, la scrupolosità di dichiarare: «Del Paradiso non posso dir nulla, non ci sono stato». Al contrario, senza atto di presenza, viaggiatori, storici, geografi, mistici e visionari, hanno dichiarato con imperturbabile convinzione che l’Eden si trovava (si trova) in Mesopotamia, in Inghilterra, a Gerusalemme, nel punto di coincidenza tra Asia, Europa e Africa, al nord dell’India, alla foce del Gange, nella Persia settentrionale, sui monti del Libano. Alcuni cronisti sono di una precisione esemplare: secondo Jean Mansel, per esempio, nel suo Fleur des histoires composto tra il 1460 e il 1470, l’acqua dei fiumi del Paradiso cade da una tale altezza che il suo fragore ha reso sordi tutti gli abitanti delle regioni limitrofe. Il libro di Scafi è istruttivo, rasserenante, erudito, e (agli occhi di questo lettore profano) assolutamente completo. Nel suo lungo percorso, dal primo Medioevo ai nostri giorni, Scafi raccoglie una serie di versioni moderne di mappe paradisiache, disegnate da artisti così diversi come Hendrikje Kühne, Beat Klein, Ilya ed Emilia Kabakos, i quali hanno tentato di riscattare l’idea di un Paradiso terrestre per il nostro ormai inguaribile secolo Ventunesimo. Tuttavia, penso esista un’ulteriore versione di questa interminabile idea. Nel 1615, sei anni dopo la firma del decreto di espulsione degli ultimi mori di Spagna (quegli arabi costretti a convertirsi al cristianesimo dopo la prima espulsione del 1502) Cervantes pubblicò a Madrid la Seconda Parte del Don Chisciotte della Mancha. Nel capitolo 54, Sancho incontra un suo vecchio vicino, il moro Ricote, il quale esiliato dalla Spagna con i suoi consanguinei, è tornato nella sua terra natale travestito da pellegrino. «Fummo con giusta ragione puniti con la pena dell’esilio, lieve e blanda, secondo alcuni, ma per noi la più tremenda che ci si potesse infliggere. Dovunque stiamo, abbiamo nostalgia per la Spagna; poiché, infine, vi siamo nati ed è la nostra patria naturale; non c’è nessun paese dove ci si accolga come meriterebbe la nostra sventura; e in Berberia, e in tutte le parti dell’Africa dove speravamo d’esser ricevuti, accolti e trattati bene, proprio lì invece è dove più ci si tratta male e ci si offende». Esilio e asilo: visioni entrambe, una di terra abbandonata e l’altra di terra promessa, che si fondono in quella Spagna che rifiuta Ricote e in quella di cui lui ha nostalgia, confondendosi in una cartografia illusoria e circolare. Per Ricote, quella Spagna da cui è stato esiliato è (a voler essere letterali) il Paradiso perduto, il luogo al quale vuole arrivare e il luogo che vorrebbe non aver mai abbandonato. Per lui, come per i suoi eredi, espulsione, deportazione, allontanamento, si fondono in un solo gesto di esilio che trasforma la terra di ognuno in terra estranea. Un altro Paradiso forse esisterà pure, al di là dei mari, ma Ricote e i suoi congeneri non lo hanno trovato. Ciò nonostante, continuano a sognare le mappe intime dei loro Eden perduti, che si chiamino al-Andalus, Palestina, Marocco, Albania, l’America Latina delle dittature militari, Iraq, Kurdistan, Cecenia, Darfur, Etiopia... Purtroppo, come è noto, la geografia del Paradiso è più vasta della Terra stessa. Traduzione di Fiammetta Biancatelli (© 2007, Guillermo Schavelzon & Asocc., Literary Agency) Alberto Manguel, autore di un celebre Dizionario dei luoghi immaginari, ha appena pubblicato Iliade e Odissea, una biografia (Newton Compton Editori) TERRE E OCEANI Il Paradiso terrestre secondo la Mapa Mondi Figura Mondi di Giovanni Leardo (Venezia1442) Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41 IL LIBRO Si intitola Il paradiso in terra: mappe del giardino dell’Eden (448 pagine, 58 euro) il libro di Alessandro Scafi che Bruno Mondadori manda in libreria il 27 novembre Attraverso più di duecento immagini (alcune sono riprodotte in queste pagine), il volume ripercorre la storia della cartografia del Paradiso in Occidente Un giardino di delizie cinto da mura di fuoco AGOSTINO PARAVICINI BAGLIANI a dove si trova il Paradiso terrestre? È una domanda antichissima e sempre attuale. Ancora recentemente, studiosi hanno tentato di scoprirlo nelle regioni più svariate, in Mesopotamia, in Arabia, in Armenia e persino in un’isola delle Seychelles… La credenza del Paradiso terrestre ha affascinato il cristianesimo fin dai primi secoli, come ricorda Alessandro Scafi ne Il Paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden. La Genesi (2,8) raccontava che «il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato», e questo passo biblico fu presto interpretato in senso letterale. L’autorità di sant’Agostino fu decisiva, anche per quanto riguarda i quattro celebri fiumi che uscivano dall’Eden: Pison (sovente identificato con il Gange), Ghicon (con il Nilo), Tigri e Eufrate. «Sono veri fiumi e non espressioni figurate». Agostino aggiungeva: Adamo aveva un corpo materiale, aveva dunque vissuto in un Paradiso materiale. Alla costruzione dell’immaginario paradisiaco contribuirono molto le antiche traduzioni dei testi biblici. Per definire il giardino, la versione ebraica usò le parole gan-be-Eden («un giardino in Eden»). Nella Vulgata, Girolamo aggiunse la qualifica «delizie». I traduttori della Settanta introdussero la parola Paradiso che significa in greco “giardino recintato”. La geografia del Paradiso si precisa intorno al Settimo secolo. Isidoro di Siviglia identifica l’oriente di cui parlava la Genesi con l’Asia: «Il Paradiso è un luogo che si trova nella parte orientale dell’Asia». E sottolinea il fatto che l’Eden sia un giardino delle «delizie»: vi abbondano «ogni genere di piante ed alberi da frutto, tra cui anche l’albero della vita». L’Eden è inoltre un luogo in cui «non fa né freddo né caldo, vi è sempre un clima temperato», ma è un giardino reso inaccessibile «da una spada ardente», è luogo «sbarrato da un muro di fuoco, che arriva quasi al cielo». Situato in Asia da Isidoro, il Paradiso terrestre poteva ora figurare anche su una carta, e molte sono infatti le carte medievali, qui studiate pregevolmente da Alessandro Scafi, che lo presentano nelle sue varie forme, anche come isola o come castello accerchiato da mura. La sua inaccessibilità è rappresentata dall’altezza. Il Paradiso viene immaginato nel punto più orientale dell’Asia, ma verso l’alto «come situato in relazione al cielo» (Duns Scoto). Anche Dante pone il Paradiso sulla cima di una montagna eccezionalmente alta, la montagna del Purgatorio. Virgilio spiega a Dante che Gerusalemme e la montagna del Purgatorio sono esattamente agli antipodi. Nelle carte medievali, a partire dalla prima crociata (1096), Gerusalemme, luogo del sepolcro di Cristo, viene posta al centro del mondo. Ed ecco che il Paradiso terrestre situato in Asia diventa anticipazione dell’Incarnazione e del Paradiso celeste, tanto più che accanto al Paradiso terrestre figurano sovente Enoch e Elia, i due profeti che aspettano la fine del mondo. Nella cartografia medievale vi è un secondo luogo recintato e inaccessibile, contrassegnato da una negatività che si contrappone all’Eden: è il luogo in cui secondo la leggenda Alessandro Magno racchiuse Gog e Magog, le temute tribù che a detta dell’Apocalisse verrebbero a distruggere il mondo il giorno del giudizio. Le carte medievali, sovrastate dal Paradiso terrestre, presentano dunque una visione cristiana della storia del mondo. Ma l’Eden è anche un Eldorado, regione sempre temperata e rigogliosa di vegetazioni e di frutti abbondanti, e che gode di un’aria sana e incontaminata. All’uscita dal Medioevo quell’immaginario si sgretola. Fra Mauro, uno dei massimi geografi del Rinascimento, nel suo mappamondo (1459) relega il Paradiso terrestre in un medaglione posto al di fuori del mondo abitato. Un secolo dopo, un altro uomo di Chiesa, Agostino Seuco, prefetto della Biblioteca Vaticana, afferma che il Paradiso terrestre fu distrutto dal diluvio. Anche secondo Lutero scomparve per colpa del peccato. Per Calvino invece i quattro fiumi dell’Eden erano rimasti inalterati nonostante il diluvio per la benevolenza di Dio. Questa nuova teoria religiosa tentava di risolvere l’equazione tra il dogma del diluvio e la scoperta del Nuovo Mondo. Ponendosi contro la tradizione, fu però dimenticata. Anzi proprio allora gli studiosi incominciarono a ricercare il luogo dove era vissuta la prima coppia umana proponendo i posti più svariati: il Terzo Cielo, Babilonia, l’Arabia, la Palestina, la Terra del Fuoco, e anche il Polo Artico. Il Paradiso terrestre perse così la sua originaria funzione, di rappresentare insieme il passato (la nostalgia per una purezza perduta), il presente (la vita dell’uomo come peregrinazione) e il futuro (il cammino verso il Paradiso celeste), oltre che una natura in perfetto equilibrio perché tutta orientata al volere di Dio. Tentando di scoprire dove si trovava su basi “scientifiche”, la modernità situava il Paradiso terrestre soltanto nel passato, lasciando ai poeti (John Milton, 1667) il compito di piangere Il Paradiso perduto. M BIBBIE E MAPPAMONDI In alto a sinistra, il giardino dell’Eden in una Bibbia stampata a Wittenberg nel 1536; accanto, dettaglio da un mappamondo (Londra, 1265 circa) qui sopra, l’incipit del libro della Genesi da una Bibbia conservata alla British Library MONDO ABITATO Carta del mondo anglosassone detta anche Cottoniana (Canterbury, 1025-1050 circa), conservata alla British Library di Londra La mappa, che raffigura tutto il mondo abitato, contiene riferimenti indiretti al Paradiso terrestre MONDI IMMAGINARI In alto, pagina di un manoscritto del De civitate Dei di Agostino, 1473-80 circa, Bibliothèque Municipale di Macon. Qui sopra, carta del mondo dal Polychronicon di Ranulf Higden, 1350 circa (Londra, British Library) ADAMO ED EVA Dettaglio del Paradiso terrestre da un mappamondo di Hanns Rüst (Augusta, 1480 circa). Il paradiso terrestre è raffigurato come un giardino circondato da mura All’interno Adamo ed Eva colgono il frutto proibito Repubblica Nazionale 42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA la lettura Scritto in verde DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 Quando la Dickinson incominciò a raccogliere foglie, petali, steli aveva quattordici anni. Li incollava su grandi fogli accompagnandoli con una didascalia Un esercizio botanico e alchemico che gettò i semi dei suoi versi e delle sue “geometrie dell’estasi” Ora il suo “Herbarium” viene pubblicato in Italia IL LIBRO L’Herbarium, per lungo tempo conservato nella biblioteca di Harvard, è rimasto finora sconosciuto al pubblico italiano. Ora viene pubblicato da Elliot (250 pagine, 120 euro) in edizione facsimile, arricchito da alcuni saggi introduttivi, dal catalogo e da un indice delle specie botaniche presenti. Vi sono anche alcune poesie (che riproponiamo, tratte da Emily Dickinson: Tutte le poesie, I Meridiani, Mondadori). All’Herbarium, che sarà in libreria il 27 novembre, è anche dedicata una mostra al Museo civico di storia naturale “G. Doria” di Genova Il segreto di Emily le poesie nascono dai fiori NADIA FUSINI ocambolesche vicende ereditarie portano un certo giorno le spoglie della storia terrena di Emily Dickinson alla Houghton Library di Harvard. Arrivano enormi bauli con i libri di casa, i dagherrotipi, vari oggetti dell’infanzia, i ritratti dei Dickinson bambini, i manoscritti... E tra il bric-à-brac che accompagna l’esistenza, un Herbarium. Ovvero, un album dalla copertina rigida, di colore verde, che conta sessantasei pagine, in cui una mano esperta ha con cu- R ra disposto in mostra 424 esemplari essiccati di fiori e piante da giardino, da prato o da interno, appartenenti a specie autoctone o naturalizzate nelle vicinanze di Amherst, Massachusetts. I grandi fogli vengono ripuliti dalla polvere, e dagli insetti che vi si erano annidati, e si scopre così la bellezza del primo, anzi unico “libro” di Emily Dickinson. La disposizione dei fiori, le combinazioni di foglie e gambi e corolle, le etichette con i nomi propri, per lo più in latino, tutto è incantevole. E oggi perfettamente riprodotto in facsimile dalla casa editrice Elliot. È un regalo meraviglioso per noi appassionati di Emily. In tale occupazione si apparenta a Shakespeare, che ha un vocabolario vastissimo e distingue la cicuta dal crescione e dalla zizzania Che ci avvicina ancora di più alla sua poesia. E conferma quel che già sapevamo, e cioè che Emily Dickinson è una scienziata della natura. Una naturalista attenta e scrupolosa, che nell’Herbarium raccoglie non solo esemplari botanici, ma i semi della sua poesia. I fiori essiccati sono ad arte accoppiati perché conversino insieme i più umili e i più sofisticati. Come in quelle sacre conversazioni della pittura rinascimentale, un muto colloquio unisce il gelsomino bianco e il crespino comune, sì che la grazia delicata del primo suggerisce a contrasto la forza tenace del secondo. Emily adora entrambe: sia la forza che la fragilità. Dalla frequenza con cui appaiono nelle sue pagine è chiaro che ama i narcisi, ma anche i gerani, e le margherite. Si identifica con una margherita. E in poesia — la numero 19 — interpreta senza difficoltà la parte della rosa. A volte sbaglia, confonde il toxicodendron radicans con il celastro, chiama la gentiana clausa con il nome di cardo stellato. Sono errori non di incompetenza, ma di distrazione, secondo me. Li fa anche Henry Thoreau nel suo erbario. Lo dico per avvertire che la devozione allo studio di fiori e piante e erbe era comune in quegli anni. Attività Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43 Emily Dickinson Dalla zolla, così, d’oro e scarlatto sorgerà più d’un bulbo che scaltramente fu nascosto ad occhi esperti Dal bozzolo, così, balzerà più d’un verme con tanti lieti colori I contadini come me, i contadini come te guardano perplessi (Poesia 66, 1859 ca) Un sepalo ed un petalo e una spina in un comune mattino d’estate, un fiasco di rugiada, un’ape o due, una brezza, un frullo in mezzo agli alberi — ed io sono una rosa! (Poesia 19, 1858 ca.) La pallida colonna del soffione sgomenta l’erba — ed ecco che l’inverno d’un tratto si trasforma in un coro di gemiti infinito — Una sontuosa gemma dallo stelo spicca seguita da un fiore sgargiante — sono i soli che danno l’annuncio delle esequie compiute (Poesia 1519, 1881 ca.) Fiorire - è il fine - chi passa un fiore con uno sguardo distratto stenterà a sospettare le minime circostanze coinvolte in quel luminoso fenomeno costruito in modo così intricato poi offerto come una farfalla al mezzogiorno — Colmare il bocciolo — combattere il verme — ottenere quanta rugiada gli spetta — regolare il calore - eludere il vento — sfuggire all’ape ladruncola non deludere la natura grande che l’attende proprio quel giorno — essere un fiore, è profonda responsabilità — (Poesia 1058, 1865 ca.) poetica, più che femminile per Emily. La quale in tale occupazione si apparenta ai poeti, più che alle donne: a Shakespeare, che ha un vocabolario botanico vastissimo e distingue la cicuta dal crescione e dalla zizzania; e a Keats, che quando poggia i piedi in vetta a un colle riconosce il biancospino e il laburno e la siepe d’avellana e la rosa selvatica… Se i romantici hanno letto Rousseau, che è grande botanico, Emily ha letto senz’altro il grande saggio di Emerson sulla natura. E condivide l’emozione di Thoreau, quando in Walden, di fronte alla primavera, confessa di sentirsi «nel laboratorio dell’artista che creò il mondo». Nel vocabolario trascendentale scienza e teologia si abbracciano. Né dobbiamo dimenticare che Emily è una giovane donna istruita, che si avvantaggia delle migliori scuole. Appartiene non a caso a una famiglia coinvolta nella storia dell’istruzione in America. E nei sette anni trascorsi all’Amherst Academy, fondata dal nonno, dove entrò all’età di nove anni, imparò non solo a leggere, scrivere e far di conto, ma si educò alla filosofia, al latino, alla botanica. Nella convinzione che, grazie alla scienza, l’amore dovuto alla Creazione, in quanto manifestazione dell’Altis- Sapremo cogliere il simbolo se saremo capaci della piroetta metafisica, che stringe in vertiginosa intimità micro e macrocosmo simo, si sarebbe rafforzato. E dal cuore sarebbe sgorgata spontanea l’esclamazione di gratitudine a Dio padre, artefice di ogni bellezza. Ma per riuscire a vedere che «il Soprannaturale non è altro che il Naturale rivelato» bisognava applicarsi: la «rivelazione» sarebbe mancata a chi non avesse occhi «preparati». Ecco perché Emily, studentessa non solo scrupolosa, ma intelligente, studia con passione la storia naturale, zoologia e botanica, e impara a distinguere il calice e il sepalo, la corolla, lo stame, il pistillo, il ricettacolo, il pericarpo, il seme. È precisa Emily. Ha una mente lucida, ama il dettaglio. Non usa mai l’immagine del fiore in modo decorativo, evocativo — alla maniera di Wordsworth, per fare un esempio. Semmai, lavora al modo opposto. Osservate la poesia 66: nei primi quattro versi descrive nudamente il processo che porta dal bulbo al fiore, nei tre successivi associa alla metamorfosi del bruco in farfalla. E negli ultimi tre ci lascia perplessi. Sapremo cogliere il simbolo? Sì, se saremo capaci della piroetta metafisica, che stringe in vertiginosa intimità micro e macrocosmo. Ma intanto, sotto i nostri occhi è fiorito un bulbo, è nata una farfalla. Repubblica Nazionale 44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 Nome da farfalla, Pannonica, cognome da banchiere, Rothschild. Fu pianista, spia, pilota d’aerei, ereditiera ripudiata. Ma la sua passione, oltre ai centoventi gatti con cui viveva, erano i grandi geni del sound che l’America stava scoprendo. Li portava a casa, li aiutava, li fotografava. Loro le confessavano SPETTACOLI sogni e aspirazioni. Che sono stati raccolti in Francia in un libro per immagini Miles Davis ESSERE BIANCO! La fata che curava i musicisti randagi CONCITA DE GREGORIO isogna immaginarsela una che nasce con un nome da farfalla e un cognome da banchiere, Pannonica Rothschild. Il destino è scritto nei nomi e il suo era questo: una farfalla venuta al mondo in una gabbia d’oro, libera solo di provare a scappare e costretta invece a sbattere le ali contro militari e baroni, sedi diplomatiche e mariti appassionati di arti marziali, doveri, inchini, buonasera eccellenza come va. Bisogna immaginarsela dopo, quando finalmente libera di vivere ripudiata dalla famiglia e con centoventi gatti — una piccola rendita: piccola per lei gigantesca per i suoi amici, una somma capace di mantenere a vita nella New York degli anni Sessanta decine e decine di musicisti, Thelonius Monk e Charlie Parker, Mingus e Miles Davis — esce la sera, in macchina, e va a cercare fuori dalle bettole chi non ha niente salvo un mostruoso talento: «Dai, sali sulla mia Bentley», andiamo che ti porto a casa, c’è un piatto di minestra e un letto, puoi restare finché vuoi. Era altissima, magra, pallida, con un viso lungo non bello ma davvero aristocratico, quel naso, quegli occhi neri, quei capelli sempre spettinati e gli abiti di seta a fiori e a colori scombinati, pezzi di un guardaroba miliardario indossati come stracci senza valore, la sigaretta sempre accesa nel bocchino. Quando camminava nel sud degli Stati Uniti accanto a Thelonius Monk, una montagna nera di due metri, la gente per strada sputava per terra e cambiava marciapiede. Una bianca elegante con un negro, che schifo. Pannonica De Koenigswarter (il cognome del marito, il barone Jules) è stata pianista e pittrice, militante antinazista e spia in Africa, soldato e autista di camion, pilota di aereo, fotografa, madre di cinque figli e musa del jazz, mecenate di quella irripetibile generazione di geni che l’America della segregazione razziale trattava peggio dei cani: Art Blakey, Bud Powell, Sonny B Clark, Charlie Parker, John Coltrane, Charlie Mingus, Miles Davis, Sonny Rollins. Nella sua casa di New York sono morti due di loro: Parker e Monk. La casa si chiamava Cathouse: cat che sono i gatti, certo, ma poi nello slang nero del tempo “cats” erano i “tipi randagi”, i musicisti. Ha accudito Coleman Hawkins, epilettico, ha assistito Bud Powell, depresso. Li ha mantenuti, ha sfidato le convenzioni e il giudizio sociale, ha vissuto con loro e per loro. Ha ispirato temi musicali come Pannonica (Thelonius Monk), Nica e My dream of Nica (Sonny Clark), Blues for Nica (Kenny Drew), Thelonica (Tommy Flanagan), Nica’s dream (Horace Silver) e decine di altri pezzi che sono oggi la storia del jazz. Nel corso della seconda parte della sua vita, la sua nuova vita, ha fotografato con una Polaroid gli uomini e le donne che vivevano da lei come in una comune: Thelonius che balla e che gioca a ping pong, che dorme su una sedia col cappello in testa mentre Sonny Clark, accanto, si fa una sigaretta e sbadiglia. Art Blakey che scrive a macchina una lettera, John Coltrane che cucina. Una galleria di immagini strepitose: sporche sciupate rotte, in bianco e nero, segnate dalle impronte digitali dei loro protagonisti, i primi a prenderle in mano quando lei ridendo gliele porgeva e diceva: guarda. Di tanto in tanto, mentre li fotografava o li riportava a casa da una serata, chiedeva loro qualcosa: una domanda sciocca, da bambini. Se potessi avere tre cose, cosa vorresti? I tuoi tre desideri. I tuoi tre sogni. Quelli che ti manca, quello per cui vivi. Loro rispondevano senza pensare, è questo lo straordinario pregio del volume che ora raccoglie I tre desideri: sono l’istantanea esatta di vite piene di tutto quello che manca, sono la misura e la descrizione di un’epoca che a noi arriva con l’eco della gloria e che a viverla, invece, è stata desolante e durissima. Pannonica non fece in tempo a realizzare il suo libro. Lo pubblica ora in Francia una sua nipote, Nadine de Koenigswarter: Les musiciens de jazz et leurs trois voeux. Ci Max Roach Desideri? Sarebbero un lusso superfluo, io ho già tutto quello che desidero... È QUESTO L’IMPORTANTE! Sonny Rollins 1. AVERE DENARO! 2. Riuscire a fare tutto quello che voglio col mio sax 3. Essere più vicino alla natura sono le sue foto, ci sono le tre risposte battute a macchina come schede d’archivio, a volte con un commento: sono numerate da uno a trecento. Hanno risposto nell’arco di vent’anni trecento musicisti: tutti, verrebbe da dire. Alcuni desideri da questa antologia di speranze. Thelonius: «Che la mia musica abbia successo. Che la mia famiglia sia felice. Avere un’amica fantastica come te». Nica annota: «Gli dissi: ma sono tutte cose che hai già! Lui stava arpeggiando, si mise a guardare dalla finestra New York dall’altra parte del fiume. Si limitò a sorridermi». Dizzy Gillespie: «Non essere obbligato a suonare per soldi. La pace per tutti. Un mondo dove non ci sia bisogno del passaporto». John Coltrane: «Avere una freschezza inesauribile nella musica. Esser immune da malattie e cattiva sorte. Avere tre volte la potenza sessuale di adesso. Poi, posso aggiungerne un quarto? Provare più amore spontaneo per le persone». Charlie Mingus: «Non ho nessun desiderio. Nessuno. Forse, sì, avere abbastanza soldi per regolare i miei conti. È tutto. Sono molto cambiato». Doug Watkins: «Vorrei vivere una vita degna di questo nome». Miles Davis: «Vorrei essere bianco». Ecco, essere bianco. Cioè tutte le altre riposte messe insieme: avere più soldi, essere immune dalla cattiva sorte, vivere una vita degna, girare libero, avere cittadinanza, avere un posto dove suonare e persino uno strumento mio. Billy Higgins, per esempio: «Vorrei avere il talento di Thelonius. Poter mandare qualcosa a mia moglie e ai miei due bambini. Vorrei avere una batteria». Una batteria. Clifford Jordan: «Vorrei essere te nel momento in cui mi fai questa domanda». Arthur Taylor: «Che Charlie Parker fosse ancora vivo». George Coleman: «Essere bravo la metà di Bird». Art Blakey: «Vorrei che tu mi amassi. Ti vorrei sposare!». La volevano sposare. In un certo senso l’hanno sposata tutti. Era uno scandalo vivente, Nica. Eccentrica e ordinata nel suo progetto folle, capricciosa e fedele, ribelle ad un destino da aristocratica non si sa se Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45 IL LIBRO Tutte le immagini e i desideri dei musicisti di queste pagine sono tratte da Les musiciens de jazz et leur trois voeux (I musicisti jazz e i loro tre desideri). Il libro è pubblicato in Francia da Buchet-Chastel (302 pagine, 35 euro) Sono immagini, ricordi e parole dei grandi jazzisti che furono amici e ospiti di Pannonica de Koenigswarter raccolti dalla nipote Nadine. Ognuno di loro, da Coltrane a Miles Davis ha risposto alla domanda di Pannonica, “quali sono i tuoi tre desideri?” Ecco le risposte John Coltrane 1. Una INESAURIBILE FRESCHEZZA nella mia musica 2. Essere immunizzato contro le malattie 3. Triplicare la mia potenza sessuale E anche: provare più amore spontaneo per la gente Thelonius Monk 1. Che la mia musica abbia successo 2. Che la mia famiglia sia felice 3. Avere un’amica meravigliosa come te! STELLE A “CATHOUSE” Da sinistra, Miles Davis; Max Roach al pianoforte; Sonny Rollins con un drink; Thelonius Monk appisolato con un gatto; John Coltrane; qui accanto, Charlie Mingus e Roy Haynes Charlie Mingus Non ho alcun desiderio, nemmeno uno piccolo piccolo...! INSOMMA, non mi dispiacerebbe avere abbastanza soldi per pagare le bollette, ma questo è tutto, PROPRIO TUTTO... per noia, per indole, per foga rivoluzionaria applicata a sovvertire la violenza del razzismo. Da un destino di rampolla del ramo inglese dei Rothschild a una vita da mecenate del jazz, madrina madre e compagna di strada e di avventure di un pezzo di storia della musica. Il nome da farfalla glielo aveva messo il padre, il banchiere Charles, anche lui diviso tra una sorte segnata e una passione da entomologo: in Ungheria (Pannonia, in latino), il paese di sua moglie, aveva scoperto un nuovo tipo di farfalla. Battezzò Pannonica la farfalla e la figlia. Il jazz glielo aveva portato un giorno suo fratello Victor dall’America: Victor era sta- to mandato da Churchill negli Stati Uniti a negoziare con Roosevelt. Era tornato in Inghilterra pieno di note e di storie fantastiche. Intanto Nica, però, nel ‘35 si era sposata come da copione con un barone. Lui: rigido, serio, esperto di arti marziali. Lei: pittrice astratta, nottambula, compositrice al piano. Cinque figli, uno dietro l’altro. Il barone si arruola con De Gaulle contro Hitler. Partono in missione per l’Africa equatoriale, Pannonica diventa agente dei servizi segreti di De Gaulle. Soldatessa con le Ffl, Forze francesi di liberazione, voce di radio Brazzaville, autista di camion militari in Ghana, Congo, Nigeria, Egitto, Libia. Dopo la guerra il barone intraprende la Ha ispirato temi come “My dream of Nica” di Sonny Clark, “Blues for Nica” di Kenny Drew, “Thelonica” di Tommy Flanagan carriera diplomatica: ambasciata di Norvegia, poi del Messico. Nica non riesce a fare la moglie dell’ambasciatore. Invitata a casa del pianista Tedia Wilson ascolta una sera una musica che le sembra oppio e balsamo, la malattia e la sua cura: Round Midnight. Si separa dal marito, parte con la prima figlia per New York. Ha quarantadue anni, va a vivere in una suite dello Stanhope. Riceve i musicisti in camera, li fa dormire da lei, loro suonano tutta la notte. La clientela protesta, l’albergo le raddoppia e le triplica i prezzi, lei paga. Cambia albergo, infine. Al Bolivar compra uno Steinway per Thelonius: lui ci compone Pannonica, Ba Lue Bolivar Ba lues are, Brilliant cor- ners. Una notte viaggiano sulla Bentley attraverso il Delaware. Monk scende a bere un bicchier d’acqua, il padrone del locale lo denuncia («un negro enorme che non parla»), arriva la polizia e trova marijuana nella macchina, Pannonica dice che è sua, la condannano a tre anni di carcere. A Cathouse abitano e compongono per anni decine di artisti spesso tenuti a vivere lì con le loro famiglie. Monk aspetta la morte affacciato alla finestra sul fiume senza parlare quasi più: guarda le luci nell’acqua. Quando muore anche Nica, nell’88, lascia detto che le sue ceneri «siano disperse nell’Hudson più o meno a mezzanotte». La richiesta esatta è: round midnight. Repubblica Nazionale 46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA i sapori DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 La patria del latte in polvere, del dado da brodo e delle tavolette al latte ha virtù gastronomiche nascoste Oltre confine Segreti protetti dalle sue montagne e dalle sue quattro anime culturali itinerari Sud tirolese con cuore mediterraneo, Martin Dalsass è lo chef-patron del ristorante Santabbondio accoccolato sulla collina alle spalle di Lugano Mano leggera e passione per l’extravergine lo accompagnano nella rivisitazione dei classici Lugano Ginevra Zurigo La maggiore città del Canton Ticino, 52mila abitanti, è una storica località turistica affacciata sull’omonimo lago Consolidata piazza finanziaria, famosa per le produzioni di cioccolata, tessuti, carta, è circondata da vigneti (Merlot) e castagneti Appoggiata all’incrocio tra il lago omonimo e il Rodano, è la capitale gastronomica del Paese, tra ristoranti e vecchie brasseries Per i visitatori, crociere golose, sentieri del vino e corsi di degustazione dei maîtres chocolatiers Valli, boschi e fiumi che corrono verso il Reno circondano la città più popolosa della Svizzera, nota per la purezza delle sue acque. Nei mercati natalizi si degustano torte e biscotti. Piatto simbolo, lo spezzatino di vitello con i rösti DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE DOVE DORMIRE HOTEL GARNI STELLA Via F. Borromini 5 Tel. (+41) 091-9663370 Camera doppia da 150 euro colazione inclusa HOTEL SAVOY (con cucina) Place Cornavin 8 Tel. (+41) 022-9064700 Camera doppia da 100 euro colazione inclusa PALAIS KRAFT Kraftstrasse 33 Tel. (+41) 044-3888485 Camera doppia da 100 euro colazione inclusa DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE DOVE MANGIARE SANTABBONDIO Via Fomelino 10 Tel. (+41) 091-9932388 Chiuso domenica e lunedì menù da 60 euro CHEZ JACKY Rue Necker 9 Tel. (+41) 022-7328680 Chiuso sabato e domenica menù da 45 euro VELTLINERKELLER Schlüsselgasse 8 Telefono: (+41) 044-2254040 Chiuso sabato a pranzo e dom., menù da 65 euro DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE DOVE COMPRARE ENOTECA NONSOLOVINO Via Balestra 15 Tel. (+41) 091-9214744 CHOCOLATERIE STETTLER Rue de Berne 10 Tel. (+41) 022-732 44 67 LES HALLES (con cucina) Pfingstweidstrasse 6 Tel. (+41) 01-2731125 Cucina Svizzera Non solo cioccolata LICIA GRANELLO l Paese dei numeri. Ventisei cantoni, quattro lingue ufficiali, trentatremila euro di reddito annuo pro capite, millecinquecento laghi, settantaquattro vette sopra i quattromila metri, un terzo del territorio occupato dai boschi. Ma anche più di quattrocento tipologie di formaggi e centoquarantamila tonnellate di cioccolato prodotte ogni anno. Il Paese della cuccagna. Niente allevamenti intensivi, colture in prevalenza biologiche, conservazione e recupero delle metodiche agricole tradizionali. Ma per nulla al riparo dalla contraddizione massima, se è vero che qui è stato inventato il dado da brodo, prospera la multinazionale alimentare più controversa del mondo e le mucche sono colorate di viola. La Svizzera è così composita che identificare un unico filone gastronomico è davvero impossibile: come mettere d’accordo l’anima francofona che sospira per i sauciers parigini e i gli appassionati di bradwurst, che hanno come riferimento gourmand Monaco di Baviera? Eppure, le produzioni virtuose delle quattro aree culturali di riferimento formano un minimo comune denominatore che attraversa tutti i Cantoni, per la felicità di turisti e appassionati. Da questo punto di vista, benedetta fu la montagna, che ha segnato la storia della Svizzera, con il suo carico di povertà e sapere, riuscendo a resistere a banalizzazioni e standardizzazioni. Altrimenti, oggi nulla sapremmo del glorioso pane di segale e di quello di caIl Centro esposizioni di Lugano stagne, che leggenda vuole offerto da San Gallus a un orso affamato, oppure dell’aospiterà, dal 7 al 9 dicembre, maro Appenzeller, con il suo profluvio d’erbe vergini, o dell’Assenzio, messo al bando cent’anni fa e da poco riabilitato agli onori della produzione liquoristica di prela prima edizione di PiùGusto, gio. Del resto, in Svizzera anche i pretesi cattivi di oggi hanno un passato da buoni. Salone internazionale svizzero È il caso di Henri Nestlé, rifugiato politico tedesco in terra elvetica, che un secolo e fa sviluppò il sistema in grado di combinare farina e latte per nutrire i neodel gusto. Dibattiti e laboratori mezzo nati. Altra storia strappacuore, quella del mugnaio Julius Maggi, figlio di un immicon chef in arrivo da tutta Europa grato italiano, che insieme a Fridolin Schuler ideò il brodo istantaneo, utilizzando impegnati a tradurre in piatti sfiziosi piselli, fagioli e lenticchie. In quanto alla cioccolata, è stata importata in Svizzera dal Belgio alla fine del Diil meglio della produzione ciassettesimo secolo per soddisfare il palato del sindaco di Zurigo Heinrich Escher, enogastronomica svizzera che l’aveva assaggiata a Bruxelles e ne era rimasto fulminato. In breve, nulla fu più uguale, a partire dal genio di Daniel Peter, inventore del cioccolato al latte. Rivoluzionaria anche l’intuizione di Rodolphe Lindt: concaggio e temperaggio (ovvero le tecniche di affinamento e ammorbidimento) restano tutt’oggi due punti fermi nella lavorazione della massa di cacao. Chiusura in gloria con il pasticcere Theodor Tobler, che assemblando cioccolato al latte, miele e torrone in stampi triangolari si è guadagnato un posto nell’Olimpo dei golosi. Ma non di solo cioccolato vive la tavola degli svizzeri: nei menù tradizionali si alternano trote blu e carni seccate all’aria fine dei pascoli, salsicce di tutti i tipi e soprattutto formaggi. L’elenco delle benemerite produzioni casearie è guidato dai fuoriclasse protetti dalla dop, come Gruyère, Tête de Moine, Etivaz, Alpe Ticinese, Sbrinz. Ma se volete vivere un’esperienza mistico-gastronomica, assicuratevi una boîte (la classica scatoletta rotonda) di Vacherin Mont d’Or (dop a sua volta), appena arrivato nelle nostre gastronomie, dopo la giusta maturazione autunnale. Sollevate un poco la crosta con un cucchiaio, riempite la cavità di vino secco, richiudete e infornate venti minuti. Meglio ridurre al minimo i commensali, per evitare litigi sul diritto all’ultimo boccone. I L’appuntamento Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47 Raclette Alpenbitter Il nome identifica sia un cacio vaccino d’alpeggio, sia la ricetta La mezza forma viene abbrustolita in superficie con l’apposito apparecchio e raschiata sopra patate, salumi, sottaceti Scorciatoia col formaggio in fette infornate e colate nei piatti Fondue au chocolat Al latte, morbido, nocciolato, Toblerone: molte delle invenzioni intorno al cioccolato sono svizzere. Dopo averlo fuso a fuoco dolce insieme a panna o latte (varianti golose con liquore o caffè), ci si inzuppano biscotti, bocconi di torta, spiedini di frutta Fonduta L’Appenzeller Alpenbitter, digestivo della tradizione alpina, vanta una ricetta rigorosa, che prevede l’utilizzo di sessantasette tra erbe, fiori e radici. Il mix, messo in infusione, aromatizza anche la crosta del formaggio che porta il nome del Cantone Salsicce Centinaia di tipologie differenti – dimensioni, carni, aromi, cotture differenti – per il cibo preferito degli svizzeri Si va dai saucisson della parte francofona al risotto e luganighe del Carnevale ticinese, fino ai bradwurst della regione di San Gallo Vermicelli Secondo la leggenda, è derivata dalla “zuppa di Kappel” del 1529 che sancì la pace tra confederati cattolici e riformati. Nel goloso mix di gruyère e vacherin scaldato con vino bianco e kirsch (distillato di ciliegie) si intingono tocchetti di pane raffermo Rösti La castagna è stata a lungo nutrimento dei contadini (che chiamavano il castagno albero del pane). Come nel Montebianco, la purea con rum e zucchero si passa nello schiacciapatate. Panna e meringhe come decorazione Zuppa di birra Il tortino croccante, nato come colazione dei contadini bernesi, ha per base le patate grattugiate, crude o lessate pochi minuti Dopo l’aggiunta di burro, gli si dà forma rotonda e si frigge Popolari le varianti con cipolle, pancetta, erbe e formaggi Carne secca Nei cantoni di lingua tedesca, la passione per la birra si traduce in una minestra calda e appetitosa, che parte da una simil bechamelle, con la birra al posto del latte (presente in piccole dosi) Si rifinisce con pepe, cannella e buccia di limone Rublitorte Il trancio di manzo rosato, con la superficie profumata d’erbe, è il logo dei tanti essiccatoi sparsi nel Cantone del Vallese, tra Monte Rosa e Losanna Nei Grigioni, la tipologia della bunderfleisch comprende anche una bresaola, di cervo o capriolo È così sana e genuina, la torta di carote – con tuorli d’uovo e bianchi montati, zucchero, mandorle, lievito e poca farina – che per darle un po’ di “grinta” viene aggiunto un bicchierino di brandy. Alcolica anche la glassa, con rum e limone nemmeno sempre ricotta (in dialetto zigra) e mascarpini. Risorsa fondamentale per la tavola contadina era il maiale. Mazza di primavera e mazza d’autunno. C’eraono un cosiddetto buongustaio, non un conoscitono così le belle filze di luganighe (salsicce), da far cuocere di vini scelti. Ma sono affettivamente legato alla cucire subito (e il giorno della mazza era forse il giorno più ecna contadina rimasta viva nella memoria, anche se crecitante dell’anno). C’erano le salsicce da conservare, do a Pascal che dice la memoria, con «l’imaginativa», pomesse prima a maturare nella aerea camera delle salsictenza ingannatrice. Confesso che la cena cui avrei desice, poi nella cantina, con salami, mortadelle, pancetta… derato partecipare è quella ricordata dal poeta inglese I prosciutti divenivano prosciutti dopo lungo respirare Stephen Spender. Era da poco finita la guerra, Spender aria fredda, nevosa, in solaio. Ma il meglio del meglio era era in Germania e fu invitato a cena da un campione nela cazzöla, amata anche dagli scapigliati lombardi delgli studi sulla civiltà dell’Occidente europeo, Ernst Rol’Ottocento: la cazzölacui i vocabolaristi moderni fanno bert Curtius. Spender era indeciso se accettare l’invito: torto riducendola a «verdure miste a carne di maiale». sapeva della situazione disastrosa di tanti tedeschi, CurChe sarà traduzione accettabile per la cazzöla dei ristotius compreso, dopo le sciagure hitleriane. Ma vinse il sì. ranti d’oggi, non per quel complesso pot-pourri fatto In tavola comparvero patate bollite e un cavolo, nient’alnelle cucine di una volta. tro. Curtius disse: «È quello che Carne “normale” (lesso, qualabbiamo sognato a lungo. Goche volta arrosto) la domenica. diamocelo!». Con le eccezioni legate alle stagioNaturalmente, il condimento ni: le deliziose rane a primavera, impareggiabile di quella cena era catturate nelle pozze magari ancola conversazione. La cena del ra coperte dall’ultima neve. CaCurtius è un po’ parente della cepretto a Pasqua, qualche selvatico na che Titiro (Virgilio) offre, in d’autunno: marmotta, capriolo, forma di invito, a Melibeo, caccervo. ciato dal campicello da Cesare, Eravamo lontani, anche in temper darlo ai suoi soldati veterani: po di guerra alle nostre frontiere, ho tenere mele, castagne e tanto da quella miseria descritta da Piecacio (egloga prima, in fine). È ro Bianconi in uno di più bei libri anche una cena parente delle noGIOVANNI ORELLI della Svizzera italiana, Albero gestre cene contadine quando c’enealogico: «La mia zia Paolina averano ancora i contadini di monva assaggiato il primo boccone di pan bianco che aveva tagna. Cena fatta soprattutto di pane e formaggio. Gli uovent’anni; e raccontava che quando spezzavan le noci mini “maturi” sceglievano quello molto stagionato, da per l’olio (alimentava un lumino da poveri morti nelle mandar giù col barbera. Le donne il cacio giovane, malunghe sere d’inverno a filare infinitamente), se faceva gari scaldato sulla brace per una rudimentale raclette. In tanto di azzardarsi a mettere in bocca un frammento di tutti e due, formaggio vecchio o giovane, c’era il profugheriglio, si sentiva dire: “Mangia, mangia, che st’invermo delle erbe di montagna. no ti metteremo lo stoppino nel culo!”». Dei nostri sensi, chi ha memoria più forte è l’olfatto. Lo Qui siamo retrocessi alla prima metà del Novecento. dicono anche Leopardi, Baudelaire e Proust. I profumi Poi la musica è cambiata. Almeno di quel tanto che ci di cento erbe come il timo. Come la mutellina (ligusticonsentiva di fare kilbi due o tre volte all’anno. La parocum mutellina), aristocratico nettare per le vacche della tedesca kilbi era il pranzo alla Trimalcione (Petronio, l’alpe. Di lì, latte profumato, delizia. Ricordo ancora il viSatyricon) per quelli di Zurigo (Crisopoli, come la chianattiere della “bassa” (bassa valle), che quando voleva ma lo scrittore lombardo Guido Morselli). Noi, tra poonorare degnamente i suoi ospiti, un fratello giudice fevertà-povertà e “gozzoviglie” eravamo non proprio a derale a Losanna e altre «prominenti» (tedeschismo cametà strada, ma non poi così lontani. ro ai confederati) personalità, saliva fin da noi a cercarvi L’autore, scrittore svizzero, è stato insignito certo cacio, fatto da mani che sapevano fare, con quel latdel Premio Schiller. L’ultimo suo libro te che…, con quelle erbe che… è “Da quaresime lontane”, Ed. Casagrande 2006 Non si può mangiare sempre patate e formaggio. E S LUGANO Quelle cene a pane, cacio e castagne Repubblica Nazionale 48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 le tendenze FERRAGAMO Fagiani reali dai colori d’autunno animano il foulard di Ferragamo Una proposta di stagione BULGARI Diversi toni di rosa si inseguono nel foulard di georgette con logo Bulgari per l’inverno 2007 Stile elevato 1937: JEU DES OMNIBUS È il primo carré messo in produzione da Hermès: un girotondo a colori LAURA LAURENZI ompie settant’anni (e fa del tutto per non dimostrarli) il foulard più famoso del mondo, il più classico e il più copiato, status symbol per eccellenza: il foulard di Hermès, che immediatamente evoca lusso, esclusività, fruscio di seta pregiata. Lunga vita e lunga carriera a quel quadrato di stoffa — il carré appunto — che misura novanta per novanta e che dal lontano 1937 è stato declinato e riprodotto in ben novecentocinquanta disegni diversi — quindici diversi modelli ogni anno — spesso a tema calessi, carrozze, equitazione, sellerie, cacce, nodi marinari, sport d’élite ma anche riti stagionali, rarità bota1946: EX LIBRIS niche e ornitologiche, cielo stellato, musica delle Viola intenso sfere e via elencando consimili amenità. Che trama è il tono di fondo e che ordito: un foulard di Hermès in twill di seta, pur per il carré pesando solo sessantacinque grammi, richiede del dopoguerra quattro chilometri di filo e circa milleduecento ore dedicato di lavoro. Ecco spiegato (almeno in parte) il prezzo. agli ex libris Amore e odio quello fra la donna e il foulard. Nel Sessantotto fu il primo accessorio a cadere in disgrazia e in disuso, ad essere abolito, a significare tradizione, conservazione, perbenismo come e più del filo di perle. Tranne poi ricomparire in grande stile, sdoganato e reinventato, rilanciato in versione sdrammatizzante, ringiovanito e spesso usato con ironia più versatile. Non a caso Hermès per l’anniversario del settantesimo anno propone ora un carré più sportivo e più facile da mettere, meno monumentale, ridotto a settanta per settanta, e in seta I disegni firmati e prodotti vintage, più morbida e già da Hermès in settant’anni opacizzata effetto vissuto, come le decine di foulard d’epoca che molte donne — ex accanite collezioniste — conservano in fondo a un cassetto e non sempre sanIl peso di un foulard no come riutilizzare. C’è adin twill di seta dirittura chi li ha fatti incorniciare appendendoli alle pareti come quadri. Certo non è stato Hermès a inventare il foulard moderno, basta pensare a certi autoritratti di Tamara de Lempicka alla guida di una decappottabile. Ma sono di Hermès, o di Gucci o di Ferragamo, i foulard più famosi impressi nella nostra memoria. Il celebre Flora, per esempio, che Vittorio Accornero di Gucci disegnò appositamente per Grace di Monaco nel 1966: un tableau di fiori di serra che conteneva nei chiaroscuri dei petali trentadue colori diversi. O i modelli con staffe e speroni che Elisabetta d’Inghilterra indossa in campagna quando va a passeggio con i suoi corgies, nodo morbido sotto il mento per non schiacciare la cotonatura dei capelli. O il foulard tutto bianco, incrociato e poi legato dietro la nuca, reso famoso da Jacqueline Kennedy nelle sue vacanze in costiera. Quarant’anni dopo lo ritroviamo, uguale identico — praticamente un feticcio — nel guardaroba della perfida direttrice nel Diavolo veste Prada: «Indossa sempre, comunque e immancabilmente, un foulard bianco di Hermès. È come dire un po’ il suo marchio, il suo tratto distintivo. Tutto il mondo sa che Miranda Priestly non esce di casa senza un foulard bianco 1965: LES CLÉS Fondo blu china di Hermès». e chiavi dorate Alle dive e alle bellissime il foulard, evocatore di fasono la “trama” scino e di mistero, serviva per nascondersi, sempre del carré abbinato a grandi occhiali scuri, anche di notte. La che Hermès mette prima fu Greta Garbo, ma anche Marlene Dietrich, in vetrina nel 1952 Jacqueline Kennedy, Liz Taylor, Paola del Belgio, Au- C 950 1952: LITTÉRATURE Firmato dall’artista Cassandre, il carré nobilita con la seta lettere e caratteri tipografici: un gioco grafico da indossare 65 gr Repubblica Nazionale DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49 TRUSSARDI Riproduce perfettamente un’auto d’epoca il foulard dal bordo verde proposto da Trussardi GUCCI È degli anni Settanta il foulard di Gucci con esemplari ornitologici Un classico che torna di moda Compie settant’anni il fazzoletto (novanta per novanta) più celebre del mondo. Sulla testa e al collo di star e regine, l’accessorio che i francesi chiamano semplicemente “carré” torna, a sorpresa, di moda come capo vintage E le ragazze esplorano i cassetti delle mamme alla ricerca degli esemplari storici con rarità botaniche e nodi marinari al quadrato 1970: LE COUPES Decisamente anni Settanta nelle forme il foulard in cui domina l’arancio drey Hepburn. Audrey Hepburn, insuperato paradigma di classe ed eleganza, era proprio fissata con i foulard: nel suo primo matrimonio, quello con Mel Ferrer nel ‘54, fece stampare il menu del pranzo di nozze su un foulard di seta dai bordi decorati con motivi floreali. Quanto al secondo matrimonio, quello con Andrea Dotti nel ‘67, stupì il mondo intero scegliendo al posto del velo o del cappello un piccolo foulard rosa annodato sotto il mento. Alle donne comuni invece il fazzoletto in testa non è mai stato benissimo. Molto meglio al collo, come sciarpa, come diversivo, come punto luce e macchia di colore, per rallegrare un vecchio tailleur o un vestito un po’ cupo. Lo suggeriva Diana Vreeland, sacerdotessa incontrastata della moda: «Prerogativa del foulard è conferire un’eleganza istantanea. Consiglio alle donne di annodarlo semplicemente attorno al collo, al mattino prima di uscire di casa, senza neppure guardarsi allo specchio, e di indossarlo così per tutta la giornata». 1988 : EQUATEUR Il bosco Hermès Alcune in Italia — parliamo della metà degli anni è colmo di specie Novanta — ci hanno provato ma poi hanno desistito, ornitologiche forse scoraggiate da Irene Pivetti, che da giovane predai piumaggi sidente della Camera evidentemente considerava il variopinti... foulard indispensabile per accrescere la propria riClassico e chic spettabilità e autorevolezza. Foulard più croce della Vandea, al di là delle ideologie, fu considerato un binomio di scarso glamour. Meglio lasciar perdere. Ma eccolo ricomparire sulle passerelle, così démodé da essere tornato di moda: citazione, revival, mania del vintage, nuovo Il filo di seta che occorre corso. Indossato come un top, per fare un foulard annodato al polso, trasformato 1997: PERLE DU KENYA in cravatta, reggiseno, bustino, È ispirato all’Africa portato come un pareo, avvole alle sue tribù il carré to attorno alla vita o addirittuproposto da Hermès ra infilato nei passanti dei La lunghezza del rotolo nella collezione di dieci anni fa jeans, legato alla borsa model- su cui si stampa il foulard lo Parioli come facevano le nostre madri, o addirittura parte integrante della borsa stessa, in testa sì ma in stile pirata dei Caraibi o gipsy di lusso, o persino a decorare e a ravvivare gli stivali, cucito sul cuoio. Nuova vita per il foulard da quando è diventato obbligatorio il casco, per raccogliere i capelli prima di indossare l’elmetto. C’è il foulard miliardario e quello povero, di lana a quadri. Per la principessa e per la strega. Il foulard della diva e il fazzolettone della Befana. Il fazzoletto della mondina e della contadina. Da sempre è stato usato come segnale d’appartenenza. Dagli scout, dai pellegrini, dai partigiani. Dai gruppi di volontari che accompagnano i malati a Lourdes, dalle madri della Plaza de Mayo. Diventa moda la kefiah di Arafat per le ragazze (e i ragazzi) della generazione Porci con le ali. È parte integrante di molte divise: per esempio quelle delle hostess. È un segno religioso che accomuna le religioni. Le nostre nonne si coprivano la testa per entrare in chiesa e ancora oggi non si può andare in udienza dal Papa a capo scoperto. Usano il sofisticato foulard di seta firmata a posto del velo le donne islamiche che possono permetter2007: CARRÉ Disegno brillante selo. In Turchia lo stilista Atil Kutoglu sta facendo sale misura speciale, ti mortali per occidentalizzare il look della first lady Hayrunnisa Gul, la moglie del presidente: per rende- settanta per settanta, per il compleanno, re il velo presentabile, farlo digerire ai kemalisti e alla settant’anni, Turchia laica, in pratica farlo somigliare a un foulard della maison di haute couture in stile europeo. 4 km 100 mt Qui sopra, alcune carte prodotte dalla maison Hermès per insegnare i mille possibili usi del foulard Repubblica Nazionale 50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 25 NOVEMBRE 2007 l’incontro È una ragazza bella, viva, appassionata, di cinquant’anni passati. Vive, “per la prima volta da sola”, con l’amatissimo gatto Pulci (da Pulcinella) È attrice o cantante? Da palcoscenico o da grande schermo? Interprete classica o di ricerca? Impossibile collocarla: ha ricevuto premi per tutto, ovunque “Sono una bandita, una fuorilegge dello spettacolo”, scherza E si prepara a nuovi film, nuovi ruoli Spiriti liberi Lina Sastri ina Sastri, lo spirito libero, Medea e la moglie di Picone nel film di Nanni Loy, Margherita Gautier e l’interprete di Te voglio bene assai, Anna Magnani in Celluloide e la ragazza che in Ecce Bombo con la sua malattia reale spezzava i deliri dei personaggi in crisi generazionale. Attrice o cantante? Cinema o teatro? Interprete di prosa classica o di ricerca? Ma la domanda che più la indispettisce è: attrice italiana o napoletana? «Parliamone. In che senso? Sono nata a Napoli, dunque sono fortunata perché la mia lingua madre è nota in tutto il mondo, si è espressa attraverso grandi poeti, grandi scrittori, grandi musicisti, è una grande ricchezza averla addosso. Poi faccio Sofocle e Pirandello, ma che problema è? L’emozione del teatro viene dal rapporto tra pubblico e palcoscenico, non contano gli accenti». Il fatto è che collocare Lina Sastri in un ambito dell’espressione artistica non è possibile. Non a caso è l’unica della sua generazione ad aver ricevuto premi per la musica, per il teatro e per il cinema, e i manifesti alle pareti della sua casa all’Esquilino evocano concerti in tutto il mondo, rappresentazioni teatrali, immagini di film. «Sono una bandita, una fuorilegge dello spettacolo», ma scherza, perché in fondo è fiera e felice delle sue scelte fuori dagli schemi e di un percorso artistico fantastico, soprattutto da parte di una che da bambina era animata da un solo desiderio: «Volevo farmi suora, avevo una sincera fede religiosa, e mi è rimasta, la considero una grazia». Dalla fede religiosa scaturisce «una fede altrettanto forte per l’arte della recitazione». Senza scuola — «mi esprimo soprattutto con il mio corpo» — solo con la passione e la lunga gavetta di spettacoli in teatrini di quartiere e nelle piazze di paese per la festa del santo pa- va. Il cinema, che è maschio, è rimasto sconcertato da questa ragazza un po’ ribelle che si permetteva tanti rifiuti. Per questo e per vicende anche private io e il cinema ci siamo visti più di rado». Tra le vicende personali ci sono i sentimenti. Raramente oggetto di attenzione da parte della stampa pettegola, Lina Sastri ha vissuto con discrezione storie di passioni forti, abbandoni senza cautele. «Quando arriva l’Amore mi dedico completamente, credo nello scambio reciproco, so che l’uomo è diverso e amo la sua diversità, ma non so giocare al “come tu mi vuoi”, ci sto dentro con tutta me stessa, vivo tutto con passione. Sono stata male e ho fatto star male perché, anche se non conosco l’odio e per me è naturale il perdono, non vuol dire che sono buona, sono irascibile e aggressiva. Forse per insicurezza». Negli anni caldi, quando finiva una storia, Lina Sastri andava a vivere in un residence di Roma. «Stavo meglio in un ambiente estraneo, sfogavo il dolore Quando la femmina arriva a portare addosso i segni che il tempo ha seminato sul suo corpo, o li togli col botulino o accetti di vivere la tua età e non un’altra FOTO DI CARLO BELLINCAMPI L ROMA trono. A diciassette anni arriva Masaniello di Armando Pugliese, uno spettacolo storico per originalità, energia e popolarità, e con il personaggio della mendicante Lina Sastri svela il suo talento, il temperamento impetuoso, la fisicità elegante e sensuale, la voce bassa, roca, forte. «Recitavamo sotto una tenda, con i piedi bagnati, senza microfono. Poi andammo in giro, povere pensioni, soldi pochissimi e ricordo lo sconforto di quando mi rubarono l’eskimo, era la cosa più preziosa che avevo», racconta con la leggerezza di sempre, una qualità che contrasta con la drammaticità dei suoi colori scuri, illuminati dallo sguardo penetrante e mobile, a volte tragico, a volte ridente. Da Masaniello a Patroni Griffi e Pirandello, poi la grande scuola di Eduardo e di Peppino De Filippo. Recitando da giovanissima, le è rimasta addosso una timidezza di spettatrice: «Non sto a mio agio nei foyer, non appartiene alla mia esperienza di vita, sto bene e mi sento libera solo sul palcoscenico». Libertà è la parola che più ritorna nel suo linguaggio. La musica è libertà: «È una terra di nessuno, la zona artistica dove sono più padrona di me stessa, soprattutto perché gli spettacoli musicali li produco da sola e la musica diventa teatro perché solo cantare mi annoia. La musica non ha lingua, arriva ovunque oltre le parole, il canto è la prima espressione dell’uomo, la più artistica, la più universale». Ha cantato classici napoletani in Cina, in Giappone, a Broadway, ovunque l’hanno capita, applaudita. Ma anche il teatro — in questo periodo è in tournée con Elettra — è libertà «perché necessita di lunga preparazione, di rigore, di studio, di confronto continuo con se stessi. È la regola, bisogna sapere tutto, perché è dalla conoscenza che si può spaziare e si è liberi di rovesciare tutto, di improvvisare e interpretare senza tradire». Altra cosa è il cinema, arrivato un po’ per caso, prima con piccoli ruoli, poi con Nanni Moretti, Nanni Loy, Giuseppe Bertolucci, Ricky Tognazzi e fu subito popolarità e riconoscimenti prestigiosi, poi le apparizioni sullo schermo diventarono sempre più rare. «Ma non sono in credito con il cinema, l’ho fatto per sette anni di seguito, ho avuto incontri ricchi e fortunati, ho avuto premi. Il cinema mi ha dato assai, molto di più di quanto abbia dato io. Ma non ero preparata. Il cinema è sogno, è bellezza, è seduzione e io non mi sentivo un’attrice di cinema, non amo le pose, sono a disagio davanti a un obiettivo, ho un rapporto difficile con la mia immagine, non mi sento attrice di cinema. E mentre la musica va, il teatro va, l’immagine dello schermo resta, non c’è libertà di cambiare. Il cinema lo fa chi guarda, non chi è guardato. Con la mia presunzione, con la vanagloria sfrontata della giovinezza ho cominciato a dire troppi no, e in qualche modo credo di non aver rispettato fino in fondo me stessa e la fortuna che mi capita- nella solitudine, finché mi sforzavo di uscirne e cercavo rassicurazioni in modo anche selvaggio». Oggi, passati i cinquant’anni — incredibili, da ragazza, bella, viva e appassionata — ha una vera casa, comoda, circolare, allegra. Ci vive con l’amatissimo gatto Pulci (da Pulcinella) e «per la prima volta sono sola. Attraverso la sofferenza ho imparato a capire la vita, ma la solitudine non è una condizione umana. A chi lo dici “Vuoi un poco di caffè?”, con chi dividi il piacere di un libro o di un film?». Per fortuna c’è il lavoro, ci sono le occasioni impreviste, il ritorno del cinema per esempio. «Bisogna riconoscere che il tempo è ingiusto, le età della vita esistono. Quando la femmina arriva a portare addosso i segni che denunciano tutto quello che nel tempo ha seminato sul suo corpo, o li togli con il botulino o, se non li togli come nel mio caso, accetti di vivere la tua età e non un’altra. Anche con dolore, perché non è vero che noi donne siamo contente quando abbiamo una ruga in più. Le accetti per paura del botulino o perché ami troppo la tua identità per volerla cambiare. Allora il cinema, sempre come un maschio, ti guarda con più sospetto e non ti vuole più incontrare, ma ti vuole usare. Però si può incontrare un animo gentile». Lei lo ha incontrato in Fabrizio Bentivoglio che in Lascia perdere, Johnny! le ha offerto il ruolo di Vincenza, la madre del protagonista, «una donna piccolo borghese di Caserta, vedova, non ricca, che vive con discrezione e grazia un’esistenza dignitosa, che ama e rispetta il figlio e la sua passione per la chitarra, tanto che lo spinge a provarci e lo manda verso la sua vita, anche se non è sicura che in quella chitarra ci sia la certezza di un futuro». Dopo Bentivoglio ci sarà Tornatore che nel film Baaria le ha offerto madre Tana, «un doppio personaggio, una donna che fa parte di una famiglia in questo paese che Peppuccio racconta reale e immaginario in maniera molto poetica. Tutti i personaggi parlano in siciliano stretto, sto cercando di imparare una lingua, mio padre è di Siracusa, la musicalità della Sicilia non mi è estranea». Ma nella vita, secondo Lina Sastri, niente arriva per caso. Non è per caso che «dopo la morte di mia madre, due anni fa, una donna bellissima e leggera, sono capitate, a me che madre non sono, tante “madri”, anche speciali, Madre Teresa di Calcutta, la Madonna, la madre superiora di Santa Rita». Alcuni sono stati ruoli per la televisione, «l’elettrodomestico, come diceva Eduardo, che una volta, quando al telefono gli dissero “qui è la Rai” rispose “mo’ vi presento il frigorifero”. È lo schermo piccolo, quello per cui non paghi il biglietto, ma è comunque obiettivo, luce, recitazione, occhio che guarda». Non è per caso neanche che dopo Medea con la regia di Piero Maccarinelli, stia facendo Elettra con Luca De Fusco. «Da sempre, da quando ero ragazzina, Medea era con me, una che conoscevo, una passione che potevo capire, capivo la gelosia, il sentirsi traditi ed esclusi e la terribile forma di ira e di dolore che si esprime nell’atto tragico dell’uccisione dei figli. La capisco perché, pur essendo figlia di dèi, Medea è più umana di Elettra nel suo percorso di vita, è una donna che agisce. Elettra, figlia di re e non di dèi, è più nobile e solitaria, priva di passioni umane. Non mi è capitata per caso in un momento in cui, più che la ricerca di corrispondenza appassionata con un uomo, sento l’anelito civile verso l’umanità. È un momento in cui, per volontà politica, gli uomini sembrano allontanarsi dall’umanità e il mondo sembra avviarsi verso la morte. Elettra è sete di giustizia, se non di pietà, ma di giustizia nel mondo. Forse chiuderà un ciclo della mia vita, lo saprò a gennaio, finite le recite». E ancora non è per caso che l’anno prossimo l’aspetti Filumena Marturano, un ritorno ad Eduardo che ricorda come «maestro, uomo sensibile, parco, giusto, intelligentissimo, generoso. Ogni tanto sento dire che era cattivo, non è vero. Ho avuto la fortuna di conoscerlo che ero una ragazzina e lui un vecchio, ho avuto il privilegio della sua stima e forse del suo affetto. Era un uomo che aveva una semplice severità di vita e oltre al grande artista che tutti conosciamo era erotico: perché conosceva le donne, le capiva e le amava». Lina Sastri considera Filumena Marturano un appuntamento continuamente rimandato. «Quando me lo proponevano, io dicevo sempre “piango ancora, non la posso fare, perché Filumena non piange più”. È vero che io piango ancora, ma sempre meno. E forse l’anno prossimo, quando la farò, piangerò ancora, ma spero di essere ritornata a piangere per qualcosa di felice». ‘‘ MARIA PIA FUSCO Repubblica Nazionale