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La Repubblica-2 - La Repubblica.it
Domenica
La
di
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
Repubblica
il fatto
Nozze gay, la sfida di Elton John
FRANCESCO MERLO e GIUSEPPE VIDETTI
il viaggio
Giganti dei mari, le foto di Salgado
con un inedito di FRANCISCO COLOANE
Geisha
FEDERICO RAMPINI
R
TOKYO
itorna la geisha e non possiamo resisterle. Il più misterioso modello di femminilità venuto dall’Estremo Oriente soffia di nuovo la magìa della sua seduzione su di noi. Era già accaduto, un secolo fa. Prima che nascesse Hollywood, molto prima di Greta Garbo e Marilyn Monroe, a un’epoca senza tv né star-system, una geisha
giapponese seppe ammaliare una generazione di europei e
americani. Per capi di Stato e intellettuali, geni della pittura e della musica, scrittori e gente del popolo divenne un oggetto del desiderio e un sogno erotico che sfidava antichi tabù. Il suo fascino
ha segnato l’immaginazione dell’uomo bianco. Madame Sadayakko, la geisha che stregò l’Occidente, aveva 27 anni nel 1898
e alle spalle un “privilegio” scabroso (il primo ministro nipponico Ito Hirobumi conquistò l’onore di sverginarla al suo debutto
nell’arte) quando lasciò il Giappone per una tournée sensazionale. A Washington fu ricevuta dal presidente McKinley, a Londra dal principe Edoardo; miliardari di Boston e San Francisco
pagavano qualsiasi prezzo per una serata con lei. Vollero conoscerla Isadora Duncan, Claude Debussy, Gustav Klimt, Auguste
Rodin e André Gide. Giacomo Puccini ne fu influenzato per la
Madama Butterfly, Picasso la disegnò dopo averla vista all’Expo
universale di Parigi. Neanche le donne occidentali si sottraevano alla sua influenza, nacque la moda dei “Sadayakko kimono”,
riconoscibili in certi ritratti di dame dell’alta società nel primo
Novecento.
Mentre ancora il fruscìo delicato delle sete preziose di Madame Sadayakko eccitava i salotti europei, il magnate americano
George Morgan (nipote del banchiere J. P. Morgan) all’età di 31
anni partì per Kyoto a vedere la Danza delle Ciliegie e al teatro
s’innamorò perdutamente della geisha Oyuki, 21 anni. La corte
fu lunga e difficile, la piccola Oyuki era un pezzo di ghiaccio di
fronte al rampollo della più grande dinastia finanziaria di Wall
Street. Secondo la versione cinica della storia — raccontata da
Sheridan Prasso in The Asian Mystique: Dragon Ladies, Geisha
Girls and our fantasies of the exotic Orient — la geisha di Kyoto
negoziò per mesi un contratto matrimoniale coi fiocchi, costringendo Morgan a umilianti andirivieni con New York per
raccogliere fondi (la storia ispirò una commedia di Broadway, Il
sogno di una notte per 40.000 yen). I due convolarono a nozze nel
1904, lo stesso anno della prima di Madama Butterfly alla Scala.
(segue nelle pagine successive)
con un servizio di RENATA PISU
FOTO JODI COBB - NATIONAL GEOGRAPHIC
Un film accolto da mille polemiche riporta
alla ribalta una seduttrice leggendaria,
da sempre simbolo malinteso della donna
d’oriente. Siamo andati a vedere cosa c’è
e cosa c’era di vero dietro la leggenda
cultura
Istanbul e Kars, le città di Orhan Pamuk
MARCO ANSALDO e SIEGMUND GINZBERG
la lettura
La vita incollata sui muri di San Vittore
PINO CORRIAS e PAOLO D’AGOSTINI
spettacoli
Pippi Calzelunghe compie sessant’anni
CONCITA DE GREGORIO
l’incontro
Dulbecco: “Dico addio all’Italia”
DARIO CRESTO-DINA
38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
la copertina
Miti immortali
Riecco, irresistibile, la magìa della geisha. Era già
successo molto prima di Hollywood: più di un secolo fa
al tempo di “Madama Butterfly”, e dopo ancora alla fine
della seconda guerra mondiale. Ecco come e perché...
Il mistero d’amore
FEDERICO RAMPINI
(segue dalla prima pagina)
della cortigiana
venuta dall’Oriente
FOTO JODI COBB - NATIONAL GEOGRAPHIC
Repubblica Nazionale 38 18/12/2005
U
n secolo dopo è Steven Spielberg a rivisitare il mito venuto dal Sol Levante, lanciando la prima superproduzione hollywoodiana interpretata
esclusivamente da star asiatiche. È la
trasposizione cinematografica delle
Memorie di una geisha di Arthur Golden, caso letterario di otto fa anni: l’autore raccolse le confessioni
di una vera geisha, Mineko Iwasaki, e cucendole con
altre storie vere confezionò una love story che divenne un best-seller mondiale. Ora il cinema americano se ne impadronisce rilanciando questa figura femminile inafferrabile: leggendaria e idealizzata, maschera di un erotismo esotico eppure in larga
parte sublimato, schiava votata a soddisfare i desideri maschili ma anche algida e irraggiungibile nel
suo cerimoniale di gesti rituali e stilizzati. L’universo della geisha è così astralmente lontano da noi —
dai seni siliconati di Pamela Anderson, dai glutei
onnipresenti di Paris Hilton, dalle gravidanze mediatiche di Britney Spears e da tutto il sesso pubblico e pacchiano della reality tv — che il segreto del
suo fascino diventa ancora più arcano.
L’origine storica della vera geisha si perde nella
notte dei tempi: le sue antenate erano le Saburuko
del VII secolo dopo Cristo, le prime cortigiane specializzate nell’intrattenimento della nobiltà. Un
millennio più tardi l’attività si diffonde e acquista
prestigio reclutando molte figlie di samurai, che nel
Seicento si insediano nei quartieri Yoshiwara e Shimabara della capitale imperiale Kyoto, accanto ad
artisti e intellettuali. La rispettabilità del mestiere
viene sancita con l’introduzione del kenban, una
sorta di albo professionale con requisiti severi per
l’ammissione: regole precise sull’abbigliamento, le
movenze, il costume di vita. “Gei” significa arte,
“sha” persona, le geishe sono davvero maestre di
tante arti. Seguono un apprendistato rigoroso per
padroneggiare la danza antica, il canto, gli strumenti musicali, la composizione floreale, la cerimonia del tè, la conversazione colta, la calligrafia, il
galateo del servire bevande alcoliche, e naturalmente la cultura del kimono. Una geisha esperta è
capace di calembour provocanti, giochi di parole licenziosi che liberano il maschio dalle sue inibizioni senza mai scivolare nella volgarità. Cortigiana e
cerebrale, custode orgogliosa di tradizioni che vanno al cuore della civiltà giapponese, la geisha deve
al suo talento erotico solo una parte dell’ascendente che ha sull’uomo. Perciò in certe cene di rappresentanza dell’establishment nipponico ancora oggi è buona usanza ingaggiare una geisha di lusso per
animare la serata (tutta maschile, ovviamente), ma
le più stimate sono signore in età avanzata, che ispirano soggezione, e neanche un cliente in preda ai
fumi del saké oserebbe importunarle con avances
sessuali.
L’incomprensione degli occidentali verso la
complessa figura della geisha fu ingigantita dagli
avvenimenti dell’immediato dopoguerra. La massiccia e prolungata presenza di militari americani in
Giappone costrinse le autorità locali a una vera e
propria campagna di reclutamento nazionale di
prostitute, per far fronte a un volume di domanda
senza precedenti. Si formò così un esercito (70mila
secondo lo storico John Dower) di panpan girls e
geesha girlsche occupavano il tempo libero dei G. I.,
banalizzando l’immagine della geisha come di una
professionista del sesso. Ma quell’equivoco madornale non era nato per caso. Gli americani sbarcati in
Giappone sotto gli ordini del generale MacArthur
(lui stesso protagonista di una lunga relazione clandestina con una giovane asiatica) si portavano già
inconsciamente nella memoria antiche immagini
di una donna orientale sottomessa e disponibile,
fragile preda, delicata e incantatrice.
La geisha reale invece è una creatura straordinariamente disciplinata, costruita e artefatta, proiettata verso un ideale di perfezione femminile quasi
inquietante, indecifrabile dentro i canoni della nostra cultura. Ma l’altra geisha, quella figura immaginaria che attrae l’Occidente da oltre un secolo, è un
essere non meno stupefacente. L’infatuazione per
la donna in kimono alla fine dell’Ottocento non era
stato l’exploit singolo di una grande diva. Prima ancora che sbarcasse in Europa Madame Sadayakko,
nel 1876 Claude Monet aveva dipinto La Japonaise,
ritratto di sua moglie col vestito tradizionale nipponico e il ventaglio. Il 14 marzo 1885 al Savoy Theater
di Londra aprì The Mikado, l’operetta di Gilbert e
Sullivan ambientata in Giappone, che rimane a
tutt’oggi uno degli spettacoli più popolari nella storia del musical. L’Estremo Oriente immaginario di
quelle opere, e l’eccitazione del pubblico che comprava quei sogni, tradivano una rivolta contro il puritanesimo dell’èra vittoriana. Alla fantasia degli uomini la geisha giapponese offriva la fuga verso un
piacere sensuale e innocente, senza cristiani sensi
di colpa, a un’epoca in cui la morale dominante
esortava le austere donne inglesi a restare immobili e mute mentre compivano il loro “sacrificio” nel
letto coniugale.
Dopo la vittoria delle truppe di MacArthur nel Pacifico, negli anni Cinquanta Hollywood si incarica
di reinventare il mito della geisha. È l’inizio di un
lungo filone di film americani — per lo più medio-
cri e presto dimenticati — da Sayonara con Marlon
Brando (1957) a Il barbaro e la geisha (1958) con
John Wayne. Le majors cinematografiche di allora
non ingaggiavano star asiatiche come fa Spielberg
oggi, le geishe erano quasi sempre attrici americane vistosamente truccate: pesava ancora l’eredità
delle leggi contro la promiscuità razziale (abrogate
in California solo nel 1948). In quei film l’immagine
della geisha amorevole e sottomessa, in ginocchio
davanti al suo uomo per servirgli il tè, era un messaggio subliminale che le femministe americane
non tardarono a decifrare. Durante la guerra gli Stati Uniti avevano dovuto riempire fabbriche e uffici
di donne per sostituire gli uomini al fronte, ora bisognava far tornare nei ranghi tutte quelle mogli
emancipate.
L’archetipo della donna asiatica in chiave anti-
femminista resiste anche al termine degli anni Sessanta, dopo la pillola e l’aborto, la minigonna e la rivoluzione sessuale. Nel 1975 James Clavell azzecca
un best-seller mondiale con il suo romanzo Shogun
(sette milioni di copie vendute), e l’adattamento in
una serie televisiva diventa uno dei più grandi successi della tv americana con 130 milioni di spettatori. Ispirato alla storia vera di William Adams, naufrago inglese sulle coste del Giappone nel Seicento,
nonché il primo occidentale ad avere sposato una
giapponese, Shogunmette in scena una Mariko che
si offre spontaneamente come regalo sessuale all’uomo bianco, senza mai abbandonare la sua docilità e obbedienza verso il «signore e padrone».
Dopo avere incarnato il sogno della liberazione
dal puritanesimo vittoriano, la geisha offre l’agognata rivincita contro la donna occidentale, è la fu-
ga ideale verso un Oriente favoloso dove il maschio
è servito e adorato. Il maschilismo reale della società giapponese — quello esibito in maniera esilarante da Stupori e tremori di Amélie Nothomb, il romanzo autobiografico sulle tribolazioni di una giovane belga alle prese con la vita dell’impiegata d’ufficio a Tokyo — può solleticare l’invidia dei maschi
occidentali, che da lontano vagheggiano un mondo
dove le colleghe si affaccino alle riunioni solo per
servire il tè. Le immagini delle teenagers-lolite giapponesi, con le loro divise da educande trasformate
in mini-abiti provocanti, si incrociano con le memorie del passato e compongono strani mosaici.
L’Occidente sbanda fra le opposte visioni di una
donna asiatica obbediente e lasciva, laboriosa e
carnale.
Inseguendo il fantasma sexy di una geisha imma-
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39
LA TRADIZIONE
Nelle foto in queste pagine,
alcune geishe giapponesi:
le origini del loro mestiere
risalgono al settimo secolo
dopo Cristo
I giapponesi e “la donna sacra”
Tra giochini e coccole
l’uomo torna bimbo
RENATA PISU
ginaria, la fantasia occidentale subisce sorprese e
infortuni. Può accadere che il pubblico scopra di
colpo una figura di geisha cattiva — la giapponese
Yoko Ono che circuisce e manipola il fragile John
Lennon — e allora la trasfiguri nel mito opposto della donna-drago. Arthur Golden, l’autore delle Memorie di una geisha, viene trascinato penosamente
in tribunale dalla sua ispiratrice Mineko Iwasaki: la
vera protagonista della storia lo accusa di avere inventato di sana pianta una “vendita all’asta” della
verginità delle giovani geishe al migliore offerente.
In quanto al film prodotto da Spielberg prima ancora di uscire nelle sale è stato già il bersaglio di contestazioni in Asia. In Giappone sono allibiti che Hollywood osi smerciare al mondo intero un film dove
tutte le geishe sono impersonate da attrici cinesi.
Un esperto giapponese sul suo blog aggiunge che
FOTO MAGNUM/CONTRASTO
Repubblica Nazionale 39 18/12/2005
L
LA STORIA DI CHIYO
Tratto dal best-seller di Arthur
Golden, il film “Memorie
di una geisha”, diretto da Rob
Marshall, promette di diventare
un campione d’incassi
Da venerdì nelle sale, la pellicola
racconta la storia Chiyo (l’attrice
Ziyi Zhang), figlia di pescatori
giapponesi che, a nove anni,
viene venduta a una scuola
per geishe. La sua sarà una vita
di successi ma l’amore resterà
un sogno impossibile
«in questo film le geishe ballano come se fossero in
uno strip-show di Las Vegas».
I più furibondi sono i cinesi. Notoriamente i rapporti tra Pechino e Tokyo sono pessimi. I cinesi accusano il Giappone di non avere mai fatto i conti con
il passato, con le atrocità inflitte ai popoli asiatici invasi dagli anni Trenta alla seconda guerra mondiale. In un’atmosfera simile, vedere le due dive più popolari del cinema cinese (Gong Li e Ziyi Zhang) prostituirsi nel ruolo di geishe giapponesi, viene vissuto come un oltraggio e l’ondata di sdegno trabocca
su tutti i siti Internet della Cina. Ancora una volta
l’apparizione della nobile geisha eccita i sensi, ma
gli stereotipi fanno velo alla sua vera natura. La leggerezza infinita della creatura che sfiora la terra come una farfalla è destinata a non incontrare mai i
nostri passi maldestri.
a geisha più famosa che ho avuto la ventura di conoscere è morta a Tokyo nel 1996: aveva centodue anni e ancora esercitava la sua antica professione, due o tre volte la settimana suonava il shamisen, il liuto a tre corde, in qualche ristorante esclusivo.
A cantare non ce la faceva più perché la sua voce si era
abbassata in un roco sussurro, però era ancora spiritosa, lanciava frizzi, battute a doppio senso, e si concedeva qualche bicchierino di sakè, se i clienti proprio insistevano. Il suo nome d’arte era Asaji, il suo vero nome Haru Kato. Quando compì cento anni diede alle
stampe le sue memorie, per niente piccanti, niente
pettegolezzi su nomi famosi del mondo politico e industriale giapponese, soltanto qualche scarna annotazione tipo: «All’epoca in cui il Giappone era in guerra, spesso mi è capitato di intrattenere il Primo Ministro Hideki Tojo (giustiziato nel 1948 come criminale
di guerra). In seguito ho versato sakè al signor Honda e
cantato per lui».
A Asaji i medici avevano proibito, negli ultimi anni,
di bere sakè, ma lei ha continuato a sorseggiarlo con i
suoi clienti perché, come ha scritto, «dovere di una geisha è sorseggiare il vino con gli ospiti che intrattiene per
la serata e mai invece deve mangiare, a meno che uno
degli ospiti non la costringa porgendole dei bocconcini con le sue bacchette». Imboccare una vecchia signora? Imboccare una nonna? È un atto di carità, un
dovere di pietà filiale, o cosa? «È una noia mortale, una
perversione» mi ha detto un giapponese che considera le geishe più o meno dei fossili. Eppure Asaji era onorata come “tesoro nazionale vivente”, incarnava quella che per i giapponesi è una sacra istituzione, “unica”
della loro cultura. Ti senti spesso domandare: ma voi
ce le avete le geishe? No, grazie, vien fatto di rispondere. E non soltanto a me che sono donna ma anche agli
uomini occidentali. «Per un maschio adulto occidentale non c’è cosa più tediosa di una cena con geishe»
scriveva nel 1893 un diplomatico tedesco. E di recente
il sociologo inglese David Bennet ha notato che «è
estremamente difficile capire per un occidentale, come il fatto che il sasso vinca la forbice o sia vinto dalla
carta, susciti tanta ilarità nei giapponesi». Eppure si divertono, eccome, a giocare alla morra cinese o a intagliare figurine di origami, o a fare tanti giochini di società con donne la cui compagnia costa dai duecento
ai cinquecento euro all’ora.
Sono stata invitata anch’io una volta, a Tokyo, a una
cena con geishe, sommo onore. Ne avevo una tutta per
me che continuava versarmi sakèin un bicchiere grande come un ditale e voleva a tutti i costi insegnarmi a fare dei pupazzetti di carta, così mi sembrava di essere all’asilo d’infanzia. La cosa più “spinta” che mi ha proposto è stato il “bacio dei cerini”: si accendono assieme due cerini, uno maschio e l’altro femmina (il cerino diventa femmina raschiando via con l’unghia la cera che avvolge la carta che si apre poi a ruota, come un
manto o una gonna) e i due simulacri si consumano nel
loro breve amplesso. Che ridere, bambini miei. Tuttavia sembra che agli uomini giapponesi piacciano molto questi scherzetti innocui, questi giochini di società
che facevano da piccoli con le loro zie e cuginette, intrisi di un vago erotismo pre-adolescenziale.
Le geishe sono maestre nell’arte di far regredire i loro onorevoli ospiti allo stadio infantile, recitando filastrocche e poesiole, e gli uomini sono felici di essere
trattati come “bambinoni”. Come mai? Una spiegazione c’è, bisogna rifarsi a un concetto che spiega la
personalità tipica giapponese, un concetto unico che
in giapponese si chiama amae e che noi fatichiamo a
comprendere e a tradurre. Si tratta di un atteggiamento infantile di totale dipendenza e abbandono, un sentimento dolce derivante dal piacere che si prova a essere coccolati e perdonati, qualsiasi cosa si faccia o si
dica. Nell’età adulta non ce lo si può più permettere, a
meno che non si ceni con una geisha, una professionista nell’arte di far regredire un uomo a quello stadio felice della vita in cui tutto è permesso. Tutto tranne il
sesso, ovviamente: quello è permesso quando si diventa grandi e le geishe non sono mica lì per quello. Per
il sesso, ovviamente, ci sono altre professioniste. Un
amico giapponese con il quale discutevo di amae, che
può anche essere inteso come una sorta di amore passivo, mi ha detto: «Forse anche voi sapete cosa sia amae
ma non ne avete fatto un punto focale della vostra cultura, noi invece sì. E una volta cresciuti cerchiamo di ricreare quella meravigliosa condizione di libertà che la
nostra cultura ci concede soltanto nella prima infanzia. La verità è che nell’infanzia a voi occidentali vengono posti dei limiti, dei divieti, a noi no. Ma voi, diventando adulti, passate dal regno della costrizione a
quello della libertà, noi invece da quello della libertà a
quello della costrizione».
Così in qualche modo loro, i giapponesi, devono rifarsi, riconquistare appena possibile il paradiso perduto. Bevendo, per esempio, perché in Giappone gli
ubriachi sono considerati come bambini, non conoscono vergogna, bisogna rabbonirli, vezzeggiarli, non
punirli. Sbornie nostalgiche, dolci, con pianti e canti
sommessi, sono spesso la conclusione di una dura
giornata di lavoro del sararimen, l’impiegato giapponese che confida nell’indulgenza delle mama-san, le
proprietarie dei bar che li capiscono, si comportano
proprio come mamme. Oppure ci si concede una cena con geishe ma è un lusso riservato solo ai potenti,
politici, industriali e altri vip. Dal canto loro le geishe,
le poche rimaste, «anziane signore vestite all’antica e
un po’ buffe» come le ha definite un teen-ager di Tokyo,
ovviamente continuano a fare innocenti giochetti e ci
trovano il loro tornaconto. Finché dura, dura.
40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
il fatto
Fra tre giorni, grazie alla nuova legge britannica,
il celebre musicista inglese Reginald Kenneth Dwight,
in arte Elton John, e il film-maker canadese David
Furnish si sposeranno: una coppia straordinaria
e normale che si avvia a diventare l’icona planetaria
Svolte sociali
dei diritti degli omosessuali
Nozze gay, la sfida di Elton
GIUSEPPE VIDETTI
«D
LONDRA
Sotto i riflettori tutto è concesso, ma la
realtà è un’altra cosa, soprattutto quando la star in questione è anche un appassionato di calcio (di più, presidente del
Watfor Football Club), un hobby che più
etero non si può. Nel 1984 sposò Renate
Blauel (dalla quale divorziò nel 1988):
«Non fu la prima né l’ultima grande
menzogna dell’Elton John che ero», ci
confessò dieci anni dopo, in un’intervista senza veli. Si presentò in tuta da ginnastica, barba lunga, occhi ancora pieni
di sonno. L’Elton dei lustrini e degli eccessi era già stato chiuso a chiave. Raccontò sorridendo, come se parlasse di un
suo lontano parente strambo e patetico,
di quella volta che per festeggiare il suo
quarantesimo compleanno si era fatto
confezionare un costume settecentesco
così pesante ed elaborato che per essere
“trasportato” al party fu necessario affittare un camion. «Sudavo, stavo male. Risultato: arrivai alla festa completamente
disidratato, da ricovero».
L’ultima volta, pochi mesi fa, lo abbiamo incontrato a Las Vegas, dove ormai da tempo divide il Colosseum del
Caesars’ Palace con Céline Dion (lui con
lo spettacolo The red piano, lei con A new
day). Erano passate poche ore dall’e-
a questo momento vi dichiaro marito e marito». Le pubblicazioni sono state esposte, la promessa è
stata fatta, mercoledì 21 dicembre il
matrimonio tra Reginald Kenneth
Dwight, 58 anni, cittadino inglese, in
arte Elton John, e David Furnish, cittadino canadese, 43 anni, sarà celebrato
a Windsor. Una decisione annunciata e
un gesto simbolico, visto che le nozze tra la popstar e il
film maker/produttore avverranno proprio il primo
giorno in cui in
Gran Bretagna la
legge che consente
il matrimonio tra
persone dello stesFRANCESCO MERLO
so sesso entra in virima
di
chiederci
se
è
vero
che la maggioranza delle coppie omosessuali
gore. «Niente regavoglia sposarsi, con i fiori d’arancio, i confetti, il riso, e tutto il grottesco di
li, solo opere di beuna cerimonia che già nella versione eterosessuale è sontuosamente inne», hanno fatto
digesta, impetuosamente barocca, mobilitante come una chiamata alle armi
sapere i Dwight (o i
ed estenuante come una guerra di trincea; prima di chiederci perché mai i gay
Furnish?) ai settedovrebbero imitare gli eterosessuali, va subito detto che impedire il matrimocento tra vip e star
nio è un delitto, il più anti italiano dei delitti. Il «matrimonio che non s’ha da fainvitati alla cerire» è infatti l’ossessione attorno alla quale è stato costruito il nostro unico romonia, che si terrà
manzo storico, che è anche il catechismo dell’antropologia italiana, di un’inello stesso luogo
dentità nazionale fondata sul «vissero felici e contenti», sul rito coniugale intedove sono convoso non come un inizio, ma come una fine, come il fine. Ebbene, sostituendo
lati Carlo e CamilRenzo e Lucia con Renzo e Lucio rimangono inalterate la struttura del delitto e
la, esortandoli a
l’immoralità degli impedimenti dirimenti.
donare generosaDunque, vietare ai conviventi, alle coppie di fatto, di siglare un patto civile,
mente all’Aids
di legarsi con un contratto riconosciuto dallo Stato, è la soperchieria di una
Foundation di cui
classe dirigente che, ancora e sempre, è composta dai soliti don Rodrigo e daElton è presidente.
gli eterni don Abbondio, pronti a somministrare sofferenza proprio in nome di
«Sarà una cosa per
quel Cristo che prese su di sé tutta la sofferenza del mondo. Davvero ci vorrebpochi intimi», avebe un moderno Manzoni per raccontare che mai Gesù approverebbe lo stato
vano annunciato
di sofferenza di due persone che si amano e credono in Lui e pure nei SacraSir Elton e David
menti, ma devono soffrire perché il loro amore, la loro convivenza e la loro stesnell’unica intervisa fede non sono riconosciute come ortodosse da Berlusconi don Rodrigo e dal
sta cheek to cheek
Griso Castagnetti, dai bravi Casini e Rutelli, dai lanzichenecchi Buttiglione e
rilasciata a AttituMastella, da una classe politica antimoderna che non rappresenta il proprio
de, il mensile gay
paese e le sue tantissime famiglie di fatto, non solo omosessuali. Ci vorrebbe
britannico a più alun nuovo Manzoni per spiegare che Renzo e Lucio non sono mostri sociali, orta tiratura. Ma la
rori della natura, errori di Dio.
mania di grandezE tuttavia, una volta stabilito che gli omosessuali hanno il diritto di fare tutto
za della popstar è
quel che vogliono, con il loro corpo, con la loro anima, con i loro soldi, con le loproverbiale, e gli
ro pensioni, con la loro vita..., ci permettiamo di aggiungere che il matrimonio,
intimi, tra Liz Huril rito classico del matrimonio, non ci pare una bella idea. Certo, su Elton John
ley e i Beckham,
non abbiamo dubbi: il matrimonio sarà il più fantasioso dei suoi concerti, non
Rod Stewart e i
più un assolo ma un duetto, un fantastico spettacolo con il sindaco come imVersace, basterebpresario, la sala comunale come palcoscenico, il mondo come pubblico e i benbero a popolare un
pensanti come bersaglio dell’irriverenza, della provocazione, del “prendersi
matrimonio reale.
gioco”. Quel rito che spettacolarizza un ambito molto intimo come il rapporto
«Adesso sono la
amoroso, e che sempre resta a ridosso del grottesco, anche nelle coppie eteroregina madre del
sessuali, in Elton John si riscatta perché il grottesco è l’anima dello spettacolo, è
pop», esclamò irril’alimento della teatralità eccessiva. Come molti artisti, anche Elton John fa delverente il 24 febla bizzarria una forza. Ma perché mai le normali coppie gay dovrebbero accebraio 1998, quando
dere a un’istituzione che si regge a fatica e che tutti dribblano con il tradimenElisabetta II lo noto, con l’evasione, con il divorzio, con la sacra rota, persino con l’omicidio?
minò cavaliere delIl matrimonio è un’istituzione in crisi, difesa a spada teologica dispiegata sola corona, confelo da chi non si sposa, dai preti appunto che pretendono di salvare una istiturendogli l’ambito
zione che non solo non conoscono ma che nei fatti dileggiano, con il loro voto
titolo di sir (già dal
di castità. Dunque il matrimonio omosessuale è un pasticcio perché è modella‘95 è Comandante
to su un altro pasticcio, sulla filosofia matrimonialista del prete, del single per
dell’ordine dell’imdevozione. Del resto, basta un’occhiata distratta per capire che sfasciamo più
pero britannico).
matrimoni di quanti ne facciamo. Neppure da un punto di vista contabile l’istiAll’epoca poteva
tuzione regge, visto che ogni matrimonio in crisi prelude almeno a due matrianche permettersi
moni sfasciati. La verità è che ci sposiamo per i figli. Ci sono famiglie plurime che
di scherzare sulla
sembrano fattorie di genitori, altre che sono fondate su una fatica domestica
propria omosesquotidiana, e nel migliore dei casi le mogli diventano sorelle... Davvero il matrisualità, David Furmonio sopravvive come istituzione solo per i figli. Funziona come i numeri irnish era ufficialrazionali in matematica, quei numeri matti che permettono il calcolo del cemente il suo commento armato, l’elevazione di un grattacielo, la costruzione del ponte che colpagno da cinque
lega la Danimarca alla Norvegia. Chi capisce i numeri irrazionali?
anni. Ma fare coCerto, se si ammette il diritto all’adozione per le coppie omosessuali, allora il
ming out non era
discorso cambia. Ma noi, che siamo contro le discriminazioni, sappiamo che le
stato così semplice:
differenze esistono. Ci sono l’affetto materno e quello paterno, c’è il doppio reuna star deve rigistro psicologico, la tenerezza della mamma e la durezza del papà o viceversa.
spondere del suo
L’omosessualità è uno dei tanti misteri della psiche degli uomini e delle donne,
comportamento (e
una piega che non è frattura, una opportunità come un’altra, una divagazione,
della sua sessuauna delle possibili maniere di vivere il sesso. Ma, senza obiezioni teologiche, non
lità) a milioni di fan.
ci convince la banale vita quotidiana di un figlio affidato a una coppia di omoNel 1971 aveva
sessuali. E perciò l’adozione non ci pare un diritto, ma un eccesso perché i figli
mandato un segnahanno bisogno di un padre e di una madre, perché anche Elton John è cresciule a buon intendito come noi e l’idea che si possa fare a meno della madre è il rovesciamento di
tor... Sulla copertiquell’altra turpe idea secondo la quale il padre è solo un incidente nella gestana dell’album
zione di un figlio. Ci sono importanti momenti della vita nei quali contano i sesTumbleweed consi diversi e complementari, i complessi di Edipo e di Saturno..., ci sono atti in cui
nection si era fatto
la differenza ha una forza, un codice e un protocollo che nessuno sinora ha pofotografare con il
tuto sostituire. Sarà banale, sarà un luogo comune o magari anche una presunsuo paroliere di
zione, ma noi siamo laicamente contro l’idea che un bambino passi dalla viosempre, Bernie
lenza di un orfanotrofio a quella di un “omosessualtrofio”.
Taupin, sulla banchina di una stazione di provincia nell’atteggiamento di un tipico “rimorchio”
gay. Nel 1976 dichiarò in un’intervista a
Rolling Stone: «Sono bisessuale». Il pubblico non reagì benissimo, ci fu una flessione nelle vendite, anche perché le canzoni non erano all’altezza di quelle incise nei primi cinque anni di carriera
(1969-74). Non faceva molto per nasconderlo, ma il palcoscenico, si sa, può
essere complice del reato d’ipocrisia.
sternazione di Buttiglione contro i matrimoni gay all’Europarlamento. «State
combinati male in Italia», esclamò, «con
il Vaticano in casa c’è poco da sperare
per i diritti degli omosessuali e una corretta informazione sull’Aids. Peggio di
così hanno fatto solo Reagan e Bush»,
disse, tormentandosi l’orecchino pendente, un piccolo fallo d’oro forgiato dal
suo gioielliere di fiducia. Ma il discorso
scivolò quasi subito su David, mentre ci
faceva ascoltare My elusive drug (La mia
inafferrabile droga), una canzone dell’ultimo cd dedicata al compagno, in cui
canta: Ti stavo cercando da una vita /
Tutti i vizi che non riuscivo più a gestire /
Ormai li ho nascosti sotto il tappeto / In
favore della più dolce delle dipendenze /
Tu, mia inafferrabile droga.
Con un Oscar sul camino per le musiche del Re leone, tre musical in scena
(Aida, The lion king e Billy Elliot, in cui
Furnish figura come produttore) e uno
in arrivo (Lestat, musical sulla saga dei
vampiri di Anne Rice che debutta a San
Francisco il 17 dicembre e arriva a
Broadway a marzo 2006), Elton John
pretende di aver fatto un salto al di là dei
confini della cultura pop. «Non sono
una popstar, non nel senso comune
LA PROVA GENERALE
La prova generale
delle nozze, Elton John
e David Furnish l’hanno fatta
davanti a Julian Dufort
che li ha fotografati
per la copertina di dicembre
di “Attitude”, il mensile gay
britannico a più alta tiratura
Nella lunga intervista,
la coppia racconta ogni
dettaglio della storia d’amore
che dura da 12 anni:
«Non ci sentiamo i paladini
del matrimonio gay»,
dice Elton John. «So
che il nostro non può
rappresentare un modello
di famiglia identico a quello
eterosessuale»
Il matrimonio che non s’ha da fare
quell’ossessione tutta italiana
P
Il cammino
dell’artista
per sfuggire
all’ipocrisia
è stato lungo: una
moglie di comodo
lasciata presto,
le allusioni
sulla scena,
l’ammissione
di essere
bisessuale, fino
al coming out
I PROMESSI SPOSI
In alto Elton John e David Furnish
sulla copertina della rivista
“Attitude”. Al centro, la coppia
in un’immagine recente.
Qui sopra, la pop star britannica
al pianoforte durante un concerto
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41
LE LEGGI
I MATRIMONI
LE UNIONI
IL RICONOSCIMENTO
IL DIVIETO
I matrimoni fra
omosessuali, spesso
con diritto all’adozione,
sono ammessi
in Olanda, Belgio,
Canada e Spagna
Dai Pacs alle unioni
civili: in Francia, Gran
Bretagna, Germania
e Danimarca forme
giuridiche ad hoc
regolano le coppie gay
Diritti alle coppie gay
sono riconosciuti,
con diverse gradazioni,
in Norvegia,
Finlandia, Svezia
e Portogallo
In Italia non esistono
norme statali che
riconoscano le coppie
gay. Lo stesso accade
in numerosi stati
americani
Repubblica Nazionale 41 18/12/2005
che si attribuisce a questa parola. Ho 58
anni, sono un artista, punto. Robbie
Williams e i Blue sono popstar. È un lavoro bellissimo, meraviglioso, ma anche quello a un certo punto può venire
a noia. Infatti, a un certo punto della
mia esistenza, mi ha trascinato in basso. Ma negli ultimi dodici anni, da
quando David è entrato nella mia vita,
ho cambiato le mie abitudini, ho dato
un taglio netto alle droghe, niente più
alcol. Mi dicono, non hai paura di diventare vecchio? No, perché la maturità mi ha dato saggezza. Se avessi a disposizione la macchina del tempo, vorrei tornare indietro, non per cambiare
qualcosa della mia carriera, ma di me
stesso, degli errori, delle scelte sbagliate che ho fatto in amore, del male che mi
sono inflitto abusando di sostanze nocive. Oggi ho una consapevolezza che
quando sguazzavo tra cocaina e boa di
struzzo mi mancava. Per questo mi appassiona aiutare la gente che è caduta
nei miei stessi errori, artisti come l’attore Robert Downey Jr. (che ha voluto
nel clip di I want love) che ha dovuto affrontare anni di riabilitazione per liberarsi dal vizio del bere. Ma anche Rob-
bie Williams e George Michael, che
malvolentieri hanno accettato i miei
consigli», dice riferendosi a quella volta che piombò in casa dell’ex Take That
con uno stuolo di psicanalisti e alle ripetute telefonate per convincere Michael (che a suo volta sposerà il suo
compagno Kenny Goss tra qualche settimana) a smetterla con gli spinelli, con
il risultato che quest’ultimo ormai non
si fa più trovare in casa. Con Pete
Doherty, il più irriducibile tossicodipendente della nuova scena rock, ha
duettato al Live 8.
«Elton John, la popstar, appartiene a
quei primi cinque anni della carriera in
cui ho inciso i miei capolavori. Poi la vita
cambia, diventi ricco, hai una casa tutta
tua, comici a coltivare altri interessi. All’epoca io non avevo una vita privata, solo dischi e concerti. Poi a un certo punto
senti un campanello d’allarme: hey, è
ora che incominci a vivere. Rimpianti?
Non me li posso permettere, perché la lista sarebbe infinita. Per riacquistare l’equilibrio che ho ora con David ho dovuto prima di tutto chiedere scusa a me
stesso. Una storia d’amore come la nostra basta di per sé a cambiare una vita.
Quando mi drogavo, circondato com’ero da inutili yes men, non avrei neanche
avuto il tempo di accorgermi di una persona come David. Il mio più grande rimorso è di aver offerto cocaina agli altri,
di aver fatto l’amore con ragazzi che avevo sedotto con la cocaina. Non c’è da esserne fieri. Il mio percorso esistenziale e
sentimentale con David è iniziato con un
chiaro proposito: cambiare vita. Con lui
è una sfida continua. È stato perentorio
fin dall’inizio, anche quando si trattava
di critiche aspre: “Non dovresti fare così,
da troppo tempo stai buttando all’aria la
tua vita, non è ora che la smetti con questi atteggiamenti?”. E aveva ragione, perché un lato del mio carattere è molto autodistruttivo. Questa è una cosa che accomuna tutti noi artisti: ci facciamo del
male, ci spariamo sui piedi, non sentiamo ragioni. A volte quel vecchio demonio mi assale di nuovo; per fortuna c’è
David a sdrammatizzare: “Dai, falla finita”, mi dice. E io mi rendo conto che sto
facendo di nuovo lo stronzo. Ma la differenza tra me e il “vecchio Elton” è che
ora, grazie a David, non chiudo più la
porta a chi ha un buon consiglio da darmi. E, soprattutto, ho molto più rispetto
verso me stesso. Troppo tempo ho sprecato a dormire di giorno, con le imposte
che impedivano ai raggi del sole di entrare in casa. Versace fu il primo a insegnarmi che la vita andava vissuta pienamente, a trasformarmi un una spugna
che assorbe tutto. E ora lo faccio. Mi accusano di spendere troppo in fiori (oltre
300mila euro all’anno, giardinieri esclusi, naturalmente, ndr), ma a me i fiori
piacciono, mi piace essere circondato
dalla bellezza».
Di fiori ce ne sono tanti anche a Woodside, la villa di Windsor che delle sue
quattro sparse per il mondo (a Nizza, ad
Atlanta e a Venezia, «il nostro nido d’amore alla Giudecca») è quella più vicina
al luogo delle nozze. «Ho una specie di
cappella in giardino in cui ci sono, scolpiti su marmo, i nomi di tutte le persone
morte di Aids che conoscevo. Almeno
quaranta. In cucina ho il ricordo più caro, una foto di Matthew Shepherd che mi
hanno dato i genitori. Non so se ricordate la storia: era quel ventunenne gay di
Laramie, Wyoming, che fu pestato a morte da due suoi coetanei (6 ottobre 1998).
Scrissi per lui la canzone American triangle e feci un concerto nella sua città. Per
me è diventato il simbolo della nostra fragilità, del linciaggio di cui tanti omosessuali sono stati oggetto, soprattutto in
provincia».
Sulla religione è categorico, e non si
illude che i matrimoni gay saranno mai
un sacro vincolo: «Mi ha scandalizzato
soprattutto il fatto che nessun leader religioso, neanche il Dalai Lama, abbia
preso posizione contro la guerra con un
gesto più clamoroso di una semplice
omelia. Se sono credente? Lo spero.
Una parte di me m’induce a credere. Ho
sentito così tante storie di fantasmi... ma non so dare una risposta definitiva. La vita sarebbe inutile se la morte
cancellasse ogni cosa, ma
mi consola il fatto che a
un certo punto nella vita
arriva un momento in
cui smetti di preoccuparti di perdere il prossimo aereo. Quel che più
desidero, se esiste un aldilà, è di continuare a vivere con David».
42 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il viaggio
L’itinerario di Sebastião Salgado alla ricerca delle origini del mondo
fa tappa in Patagonia, dove il grande fotografo ha immortalato
splendidi esemplari di “balena franca”, chiamata così proprio perché
considerata dai cacciatori un bersaglio facile e ideale. Le evoluzioni
dei cetacei ci portano dunque fino all’Antartide, al cospetto
di una bellezza bianca e unica: lo spettacolo del ghiaccio
Repubblica Nazionale 42 18/12/2005
FOTO SEBASTIÃO SALGADO/AMAZONAS/CCONTRASTO
Genesi
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
Sulla rotta segreta
dei giganti fragili
FRANCISCO COLOANE
N
ell’estate del 1947, mi metto in viaggio verso l’Antartide,
partendo da Valparaíso per arrivare a Bahía Margarita, settemila miglia più in là. Passo a volo d’uccello sui giorni e le
notti della traversata, che per me significarono oltre due
mesi attraverso labirinti di specchi. Dallo Stretto di Magellano arriverò al Mare di Drake, sull’isola vulcanica chiamata Decepción: i suoi crateri trasformati in specchi di acque celesti, sulfuree, rassomigliano a smeraldi sinuosi che imitano le stampe fotografiche.
Il Mare di Drake, dal temuto Capo Horn in poi, è tranquillo. Le sue ondulazioni sono trapassate dalle veloci lancette delle pinne dei pinguini, e dalle danze degli uccelli delle tempeste di Wilson, una specie di falena marina, che si sostiene sull’acqua grazie alle sue membrane natatorie.
Da queste parti si inciampa sul ghiaccio compatto, ostacolo impenetrabile per il dislocamento: come fortificare il nostro spirito di fronte a questo paesaggio di freddo, di vento, di neve? La mente umana a volte è come
una rete vuota, o come il grosso cucchiaio di un ricercatore capace di raccogliere microscopici crostacei, particelle dell’universo sommerso.
Siamo a metà febbraio, la temperatura oscilla tra i due e i quattro gradi
sotto lo zero, per arrivare fino ai cinque e qualcosa sopra lo zero. Un giorno radioso di estate antartica che è un autentico microclima delle Shetland meridionali. Approfitto di questo dolce tepore e mi incontro con
quell’immensa lastra di ghiaccio che assomiglia a una montagna di colori e musica, quando il sole e il mare mi spruzzano il viso producendo le lo-
ro iridescenze di raggi e ondosità sul suo contorno.
Man mano che mi addentro in queste solitudini, l’imponenza dei ghiacci diventa sempre più impressionante, è un’unica bellezza bianca, un’unica natura, quella del ghiaccio, con un biancore che arriva a essere monotono. Ora mi godo un giorno chiaro, trasparente, anche se il sole non c’è. Il
chiarore si prolunga per quasi ventuno ore, e quindi cede il passo all’aurora polare, con i suoi bagliori e luminosità, ma il mare non si lascia vedere.
***
Ma ovunque, fin dove arriva lo sguardo, c’è uno strano chiarore. Il mare
è talmente trasparente che si può vedere fino a grandi profondità. Si è detto che l’Antartide è una terra ricca di oro, carbone, petrolio e altri minerali.
Sicuramente è così. Ma soltanto per arrivare alla superficie della Terra di
Graham bisognerebbe attraversare una crosta di ghiaccio spessa diverse
centinaia di metri, secondo quello che è stato misurato al suo interno.
Il giorno in cui la nave solcò le acque del Canale Gerlache, e quindi del
canale Neumayer, che passano proprio accanto alle coste della Terra di
Graham, questa imponente bellezza del ghiaccio si mostrò in tutta la sua
grandezza. Era un giorno chiaro, trasparente, nonostante non ci fosse il
sole, quella trasparenza custodita come un tesoro dai ghiacci, e che sembra portarci in altri ambiti. Le acque del canale erano talmente limpide che
la prua della nave le infrangeva appena, fluidamente e silenziosamente,
come lo sfiorare di un tessuto di raso. La stretta fascia di acqua grigio-verde del canale era incorniciata da montagnosi contrafforti di ghiaccio e neve, che scendevano fino al mare in diverse e curiose prospettive.
(segue nelle pagine successive)
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
Repubblica Nazionale 43 18/12/2005
IL SALTO DI ADELITA
Nella pagina accanto, la balena chiamata
Adelita che riemerge nelle vicinanze
di Puerto Piramides. Sotto, lo stesso cetaceo
che salta e, sullo sfondo, le spiagge
e la costa di Adele Bay. Adelita
non si è tuffata ogni giorno ma quando
lo ha fatto, ha lasciato il suo balenottero
a giocare vicino alla nostra barca
e si è allontanata di poche centinaia di metri
IL PROGETTO: LA TERZA PUNTATA
“Genesi” è un viaggio alla scoperta delle origini
del mondo. Un percorso fotografico,
rigorosamente in bianco e nero, che fa fare
al lettore un salto all’indietro nel tempo,
alla ricerca della preistoria della Terra, quando
i luoghi e la natura erano incontaminati, quando
i primi insediamenti umani diedero vita alla civiltà
Il progetto è iniziato nel 2003 e dovrebbe
durare in totale otto anni. Il lavoro sarà diviso
in quattro capitoli: “La creazione”, “L’Arca
di Noè”, “I primi uomini”, “Le prime società”
Questa terza puntata è dedicata alle balene
che si possono incrociare al largo della costa
atlantica della Patagonia
(La prima puntata del progetto “Genesi” è uscita
su La domenica di Repubblica del 16 ottobre,
la seconda è stata invece pubblicata il 20
novembre). Le didascalie in queste pagine sono
di Sebastião Salgado
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 43
IL COLPO DI CODA
Sotto, una balena vista dall’aereo, nel Golfo
di San José. Le balene colpiscono l’acqua con la
coda, esercitando la massima forza. A volte lo
fanno dopo aver saltato: potrebbe significare che
tentano di far staccare la pelle vecchia. In basso,
ancora Adelita: veniva verso di noi e, quando era
arrivata abbastanza vicino, si è voltata di lato
e ci ha fissato (le balene australi hanno gli occhi in
basso, sotto la mascella inferiore)
IN ESCLUSIVA
SU REPUBBLICA E D
La Domenica di Repubblica
e D-La Repubblica delle donne
continueranno a pubblicare
in esclusiva per l’Italia
il progetto Genesi di Sebastião
Salgado. La divulgazione
dell’opera del fotografo in Italia
è a cura di Contrasto. Salgado
è nato in Brasile l’8 febbraio
del 1944: ha firmato reportage
sugli indios, i contadini
dell’America Latina
e sulla carestia in Africa,
che sono stati raccolti
nei suoi primi libri. Poi,
tra il 1986 e il 2001,
ha documentato la fine
della manodopera industriale
e il mondo dei migranti
44 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
il viaggio
Genesi
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
La navigazione è durata
sei settimane. E ha rivelato
la dolcezza degli animali
più grandi ma anche
più delicati del pianeta
Questi cetacei sono stati
vittime di una strage:
due secoli fa si contavano
fra le duecentomila
e le trecentomila balene
ma oggi al largo
dell’Argentina non ce
ne sono più di settecento
(segue dalle pagine precedenti)
Un giorno, una bambina di Santiago mi chiese com’era l’Antartide: lì per lì non seppi che cosa dirle, ma poi mi tornò alla memoria il passaggio attraverso il Canale di Gerlache, e le dissi: immagina che tutta la terra si trasformi in una colossale torta nuziale, avvolta da strisce di veli bianchi e tempestati di pietre luccicanti, e che d’improvviso si frantuma ai bordi lasciando passare fino al suo cuore innevato una nave color
del piombo, dove tu solchi un’angusta via d’acqua.In quel canale mi imbattei anche
nelle lastre di ghiaccio più belle che abbia incontrato sul percorso. Non le più imponenti, ma le più belle e delicate: queste lastre di ghiaccio, tuttavia, che sono l’espressione più viva e presente del paesaggio, dove si trovano le balene, la foca di Weddell,
l’elefante marino, non sono altro che pesanti ombre statiche adagiate ai suoi bordi.
Oltrepassato il Gerlache, chiamato così in memoria dell’esploratore belga Adrian
de Gerlache, che attraversò i mari polari all’inizio del XX secolo, entrammo nel Canale Neumayer, e la decorazione precedente cambiò fino a dare un senso di tristezza. La serena bellezza del canale Gerlache, ci condusse a una tortuosa strada di
meandri dove la prua della nave sembrava cozzare di tanto in tanto con le alte pareti di ghiaccio. Strade senza uscita, dove un colpo di timone faceva virare l’imbarcazione dal lato opposto per imboccare un nuovo canale. L’isola León, con una protuberanza che ricorda la ieratica testa del grande felino, si restringe ancora di più in
uno dei suoi passaggi per il Canale Neumayer, alla fine del quale si trova un porto di
tranquillità e bellezza che ha pochi eguali nella regione: Porto Lockroy. Qui la natura ha ritagliato ormeggi pacifici, baie e insenature protette da moli e argini, dove la
nostra nave ebbe modo di riposarsi. Osservo anche gli isolotti disseminati come in
base a un disegno razionale.
È un angolo meraviglioso, preferito dalla stessa fauna del luogo: foche, pinguini
papua e pinguini di Adelia. Mi accolgono con la loro innocente curiosità e il loro malinconico gracchiare. Forse loro vivono il piacere della tranquillità, e la loro malinconia è solo apparente.
FRANCISCO COLOANE
Il primo frammento è tratto dal racconto Antártica, contenuto nel libro omonimo e mai tradotto in italiano. Il secondo appartiene al manoscritto inedito
L’inglese di Lockroy, curato ed editato da Eliana Rojas de Coloane nel 2004
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Repubblica Nazionale 45 18/12/2005
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45
IL MISTERO DELLA VERTICALE
A sinistra, una balena al largo
dei golfi della penisola. Talvolta
una coda rimane eretta fuori
dall’acqua per decine di minuti
e possiamo dedurre che l’animale
sia completamente in verticale
in una sorta di posizione di riposo.
Alcuni sostengono anche che le
balene usino la coda come una vela
spinta e diretta dal vento. Accanto,
Adelita e il suo balenottero che
nuotano: un gabbiano punta la
schiena di Adelita
LO SHOW NELL’OCEANO
Nella foto grande qui sopra,
la balena Adelita: a volte
rimaneva con la coda in aria
e il corpo immerso verticalmente
mentre il figlio giocava,
nuotava e girava intorno a lei.
Nelle due foto in alto
nella pagina accanto,
un altro bellissimo spettacolo
nei golfi della Penisola Valdes:
la vista delle code
delle balene che si ergono
sull’acqua
46 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
Due romanzi, due luoghi in cui si riflette la vita e il pensiero dello scrittore
che in questi giorni viene processato nel suo Paese per “avere offeso l’identità
turca”: “Neve”, successo internazionale ambientato nell’Anatolia estrema,
e “Istanbul, le memorie e la città”, già pubblicato in Gran Bretagna e Stati Uniti e di prossima
uscita in Italia; un borgo sperduto dove confluiscono tutti i conflitti della Turchia moderna
e una capitale da rievocare “non per la sua purezza ma per la lamentevole assenza di essa”
Orhan
Pamuk
SIEGMUND GINZBERG
Repubblica Nazionale 46 18/12/2005
L
a mia Istanbul è la stessa di
cui scrive Orhan Pamuk nel
suo ultimo libro: in bianco
e nero. Solo, se possibile,
ancora più sfocata, “mossa”, sgranata, pulviscolare,
annebbiata, incerta nei contrasti, nel
confondersi di grigi e foschia delle fotografie e altre illustrazioni che fanno di
Istanbul, le memorie e la città un libro
forse unico nel suo genere (un romanzo? Un’autobiografia? Un saggio fotografico? In America l’ha pubblicato
Knopf, in Inghilterra Faber & Faber, in
Italia sta per uscire da Einaudi). Da leggere e da guardare, sfogliare. Da gustare, mi verrebbe da dire, se un libro potesse dare anche un senso degli odori e
dei sapori (per me il profumo salmastro
del mare, quello acre dello smog da carbone, le vernici per barche, quello della ciambella al sesamo appena sfornata) e dei suoni (lo sferragliare dei tram,
le sirene delle navi che attraversano il
Bosforo, le grida dei venditori, il raglio
struggente degli asini).
Sono nato a Istanbul qualche anno
prima di lui. Lui non l’ha mai lasciata.
Noi l’abbiamo lasciata su una nave nera, che avevo otto anni, dopo le sommosse del 1955, che Pamuk ricorda nel
libro. In quel caso non ce l’avevano
con gli armeni, non con i curdi e nemmeno con gli ebrei, ma con i greci. Il
negozio di mio padre aveva comunque un nome che suonava “straniero”.
Non bastò che vi sventolasse una bandiera turca (per anni poi tenemmo una
Istanbul, la nostalgia
di uno sguardo bambino
bandiera italiana nel cassetto,
non si sa mai). Mio padre aveva
“voglia d’Europa”. L’ultima cosa che vorrei ancora vedere è
un’Europa che se la prende coi
suoi stranieri. «Parlate turco!»,
ingiungeva lo slogan nazionalista. Meglio: pensavo in turco. «È
vostro figlio? Non sembra», dicevano ai miei, che tra di loro parlavano in armeno o francese quando non volevano che orecchiassi.
L’ho dimenticato, tranne le parolacce e i nomi del cibo. Ma le poche
foto di famiglia sono identiche a
quelle dei Pamuk. La sua Istanbul
in bianco e nero l’ho riconosciuta
nei recessi della memoria. Quella di
de Nerval, Gautier, Flaubert, De
Amicis, Loti, Melling, Tampinar,
Yahya Kemal — «La maggiore virtù
di Istanbul è come la città possa essere vista sia da occhi occidentali
che orientali» — l’ho ritrovata in
questi anni nei libri (mi chiedo solo
perché non citi Nazim Hikmet: ancora non si può?).
Un po’ diversa la nostalgia, se si
preferisce la malinconia che evocano
quelle immagini e quelle memorie.
Hüzün la chiama Pamuk, preferendo
mantenere anche nella traduzione inglese, da lui riveduta, il termine turco
che viene dal Corano, cui intitola un intero capitolo. Non è angoscia, non è tristezza, non è solo rimpianto, mancanza di qualcuno o qualcosa di caro, o
«lontananza da Dio» come sostenevano i mistici. Non è solo senso di solitudine, anche se resta per definizione
qualcosa di intimo, personale. Non è
sofferenza, anzi è uno stato di malessere che può dare soddisfazioni, in cui ci
si può crogiolare provandone persino
piacere. Ha forse affinità col pianto,
che non è la stessa cosa del dolore, anzi lo addolcisce. Forse non c’entra, ma
mi fa venire in mente il particolare no-
“Sono nato a Istanbul
qualche anno prima
di Pamuk. Lui non
l’ha mai lasciata. Noi
l’abbiamo lasciata
su una nave nera,
che avevo otto anni”
do in gola — amaro, ma anche liberatorio — che sin da bambino
mi veniva non dalla soddisfazione di un torto, ma dalla sensazione che fosse in qualche modo riconosciuto. «Il mio punto di partenza è l’emozione che può provare un bambino a guardare attraverso una finestra madida di
vapore. Ora cominciamo a
comprendere che hüzün non è
solo la malinconia di un individuo in solitudine ma può essere l’umore nero condiviso da
milioni di persone insieme.
Quello che sto cercando di
spiegare è lo hüzün di un’intera città: Istanbul», è il modo in
cui lo scrittore riassume quel
che si propone.
Non la malinconia di una
città, ma il modo in cui ciascuno, a modo suo, vi si riflette. «Parlo delle sere in cui
il sole tramonta presto, di
padri sotto i lampioni nei vicoli che tornano a casa con
sacchetti di plastica. Dei
vecchi traghetti del Bosforo
in stazioni deserte nel mezzo dell’inverno… vecchi librai che aspettano
tutto il giorno che faccia la comparsa
un cliente; dei barbieri che si lamentano che la gente non si sbarba più così
spesso con la crisi economica; di bambini che giocano al pallone tra le auto
in strade selciate; delle donne con i loro sacchetti di plastica in remote stazioni di autobus in attesa di un autobus che non arriva mai; …di sale da tè
affollate di disoccupati; di ruffiani pazienti… in attesa di un ultimo turista
ubriaco; della folla che si affretta a
prendere il traghetto nelle sere d’inverno; degli edifici di legno dove ogni
asse scricchiolava anche quando erano magioni di pascià…; delle donne
che sbirciano tra le tende mentre
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47
PENSIERI E PREMI
Orhan Pamuk è nato a Istanbul
nel 1952. È uno dei più importanti scrittori
turchi. Tra i suoi romanzi, pubblicati
in più di 25 lingue, sono stati tradotti
in italiano “Roccalba”, “La casa
del silenzio”, “Il libro nero”, “La nuova vita”,
“Il mio nome è rosso”. Più volte premiato,
ha vinto anche il Grinzane Cavour
IL LIBRO: LA MEMORIA E IL RIMPIANTO
Il libro di Orhan Pamuk “Istanbul, le memorie
e la città” è già stato pubblicato da Knopf
negli Stati Uniti e da Faber & Faber in Gran
Bretagna, e uscirà in Italia l’anno prossimo,
tra aprile e maggio, per Einaudi. Un’opera che
ripercorre i ricordi d’infanzia, pieni di malinconica
nostalgia, (testimoniati anche da un ricco album
di famiglia fotografico) del romanziere turco oggi
al centro di un processo per reati d’opinione
Kars, la città bianca
nodo e specchio
della questione turca
MARCO ANSALDO
N
INFANZIA
Nelle foto della pagina,
tratte dall’edizione
americana dell’ultimo
libro di Orhan Pamuk,
una serie di immagini
e di memorabilia
dell’infanzia
dello scrittore,
della sua famiglia
e della capitale turca
di quegli anni
KARS
eve, solo neve. Una distesa bianca accecante, lunga fino al Caucaso. E freddo. Molto
freddo. «Quaranta gradi sotto zero qui sono la
norma — dice Celil, la guida — sarà così fino ad
aprile». A Kars, cittadina incastonata in un
triangolo di terra fra Turchia, Armenia e Georgia, l’aria è rarefatta. L’atmosfera quella descritta perfettamente da Orhan Pamuk nel suo
ultimo romanzo di grande successo, Neve (Einaudi), Kar in turco. Dove il protagonista, dal
singolare nome di Ka e alter ego dell’autore, si
trova al centro di una vicenda inquietante. Nella realtà lo scrittore, venerdì scorso, è stato
chiamato a processo per aver accennato in
un’intervista alla questione del genocidio armeno e alla guerra con i curdi.
Il suo libro dunque lo ha preceduto. Ka, Kar, Kars. Un gioco
di parole i cui riferimenti kafkiani sono evidenti. Perché attorno
a questo abbagliante paesaggio
di neve, stretto addosso a un pugno di viali spazzati da un vento
bianco che non smette di soffiare, c’è di tutto: islamici radicali,
nazionalisti laici, polizia segreta, religiosi, terroristi. E donne
belle, dal profilo caucasico. Alcune indossano il velo. Si uccidono, nel romanzo, perché non
sono ammesse a scuola con
quella bandiera, simbolo dell’Islam politico.
Una città unita da cinque strade perpendicolari che squadrano il centro, nella regione più
sperduta e arretrata dell’Anatolia. Buttata in mezzo a un grumo
di etnie diverse, turchi, curdi, armeni, caucasici,
iraniani. Al di sopra di tutto, la neve che cade in
fiocchi copiosi, qui più grandi del normale. Fiocchi enormi, si legge, «come piume d’uccelli». Da
guardare dietro le finestre ghiacciate.
La realtà non è poi molto diversa. A Kars alle
tre del pomeriggio è già notte. Nell’aria una
malinconia che prende allo stomaco e non ti lascia se non con la luce dell’alba. Al piccolo
sgangherato albergo dove il taxi si ferma non
c’è nessuno. Una stordente sosta di venti minuti mentre nel deserto bianco la neve sul cappotto diventa ghiaccio. Alla fine, dal negozio a
fianco esce qualcuno a spiegare in un dialetto
incomprensibile che «il proprietario è andato
in moschea a pregare».
In tv solo immagini di canali turchi. Fuori, il
silenzio. Per strada coppie di militari fanno la
ronda. Le ragazze sfiorano veloci i muri, la maggior parte sono in jeans e a capo scoperto. Il
freddo è davvero impossibile. Agli angoli gruppi di disoccupati giocano a dadi battendo i piedi, il ripiano appoggiato su un trespolo. Da una
taverna arriva un’ondata di calore. Dentro, cibo semplice e caldissimo: riso, fagioli, carne e
sugo, verdure cotte. Si è serviti in un lampo. Gli
avventori hanno gli occhi appesi al televisore
attaccato alla parete e alle curve della bella Gulsen, la cantante di Istanbul più sensuale del
momento. Da qui, la grande metropoli appoggiata alla costa europea, sul lato opposto del
paese, sembra lontana quanto Marte.
Sorgu è il cameriere. Si
pianta seduto al tavolo che ha
appena apparecchiato e sfoglia i giornali lasciati sulla sedia: «Perché così tanti?», chiede. Poi commenta la notizia
del capo delle Forze armate
che smentisce di voler entrare in politica. «Qui ci sono tanti problemi — bisbiglia calando la voce di un tono — soprattutto il Pkk». E si passa un
dito sotto la gola. Tutti si stupiscono della presenza dello
straniero, lo guardano come
un marziano. Non devono essere molti i viaggiatori che si
spingono fin quassù. «Lei
perché è venuto?», chiede la
gente di continuo.
All’Internet cafè l’ospitalità turca è comunque salva,
e per prima cosa gli addetti ai
computer portano il tè. La musica è alta, niente
salmi islamici, ma il rock di Anastacia e la Madonna della Isla bonita. «Qui molti ce l’hanno a
morte con Pamuk — spiega Celil — dicono che
ha infangato il nome di Kars. Ma non hanno
nemmeno letto il libro. Però non è vero che questa città è il cuore del fondamentalismo turco e
del confronto fra militari e Pkk. Non è la mistica Konya, e nemmeno Batman o Hakkari dove
si combatte tutti i santi giorni. Neve in fondo è
solo un romanzo».
In parte è così. Pamuk ha mescolato in maniera eccelsa elementi reali con la fantasia. Vere sono le descrizioni delle strade e degli edifici, gli uffici della polizia e le casupole senza riscaldamento al di là dei binari dove Ka, il poeta che si
finge giornalista, incontra Blu, il terrorista fanatico. Altrove siamo al verosimile: la pasticceria
“Nuova vita”, dove si svolge la scena centrale e
forse più drammatica del libro, con il colloquio
fra il killer integralista armato di pistola e il rettore dell’Università che si rifiuta di ammettere ai
corsi le ragazze velate, non esiste. Ma botteghe
simili si aprono a grappoli lungo Ataturk Caddesi e le cinque parallele del centro.
Kars appare davvero come l’altra faccia della
Turchia, lontana secoli dalla luce solare di Istanbul e dai colori rutilanti della grande città. All’ospedale, un dottorino di Smirne è l’unico chirurgo cardiovascolare nella zona. Si trova qui solo
da un mese, e come tutti i medici farà pratica per
un anno a est prima di iniziare la professione vera e propria. Oggi appare stremato. «Il cellulare
squilla di continuo — dice — le urgenze sono infinite, notte e giorno. Ma qui non c’è nemmeno
un’unità per la terapia intensiva. Operiamo con
mezzi arcaici. Tra questo e l’ospedale di Smirne
ci sono cinquant’anni anni di differenza».
Quarantacinque chilometri più su si apre la
frontiera. E soprattutto Ani, l’antica capitale armena, ridotta a un cumulo di rovine. Una fortezza conquistata e ripresa da tutti: arabi, bizantini,
selgiuchidi, georgiani, persiani, mongoli, ottomani, russi, armeni, turchi. Un paio di montagne
perennemente imbiancate segnano l’esatto
punto di convergenza tra i confini di Turchia,
Georgia e Armenia. Se mai Ankara dovesse entrare a far parte della Ue, fra dieci anni i confini
d’Europa arriverebbero fin qui.
Si torna a Kars, sepolta nella neve e già immersa nell’ombra. La notte in giro ci sono solo cani,
ad abbaiare e inseguire i passanti. Dall’alto dominano invece gli storni, padroni dei viali deserti con i loro urli striduli e gli escrementi lanciati a
pioggia dalla cima degli alberi. Per strada la neve
è adesso una poltiglia informe. All’Internet cafè
il ragazzo barbuto che serve tè sorride: «E mi raccomando, scriva un bel reportage, che lo vogliamo leggere». Al rientro in albergo trovo la camera in ordine perfetto e il mio libro buttato a terra.
A Kars è inutile chiedere di Kar, Neve. Nelle librerie, il romanzo di Orhan Pamuk non c’è.
Qui, in queste
strade spazzate
da un vento
polare, a pochi
chilometri dalla
frontiera armena,
lo scrittore ha
ambientato la sua
storia più famosa
Repubblica Nazionale 47 18/12/2005
aspettano mariti che non rincasano
sempre a notte tarda; di vecchi che
vendono libri religiosi, rosari nei cortili delle moschee; di decine di migliaia
di ingressi di case d’appartamento
identici, le facciate scolorite da sporco, ruggine, cenere e polvere…; delle
sirene delle navi nella nebbia; …dei
gabbiani appollaiati su zattere incrostate di muschio e molluschi…; di sottili nastri di fumo che si alzano dai comignoli nel giorno più freddo dell’anno; …di coloro che pescano dalle
sponde del ponte di Galata; dell’odore
del fiato nei cinema che un tempo avevano soffitti dorati e ora sono locali
pornografici frequentati da uomini
che se ne vergognano; …di muri coperti da manifesti anneriti; dei vecchi
e stanchi dolmus, Chevrolet anni Cinquanta che sarebbero pezzi da museo
in qualsiasi città occidentale, e qui servono da tassì collettivi; …dei libri di
storia in cui i bambini leggono delle
vittorie dell’Impero ottomano…». Così continua per molte pagine, tra le più
belle. Qualche pagina dopo confessa
la tentazione di evocare un’età dell’oro, un momento splendente in cui la
città era «in pace con sé stessa» (quando i miei antenati sefarditi vi vivevano
in pace con turchi, musulmani, cristiani, armeni, greci?), ma poi si sovviene di «amare questa città non per la
sua purezza, ma appunto per la lamentevole assenza di essa».
Sì, si potrebbero forse dire cose simili di qualsiasi altra città d’Europa.
Ma perché ritrovo in questa nostalgia
di Istanbul di Pamuk tanto della Istanbul della mia infanzia? Non so nemmeno se sia ancora così. Mi raccontano che è ormai un ingorgo unico, tutto
è sovrastato da un traffico spaventoso
di automobili. So che c’è anche chi dice che «Istanbul non è la Turchia». Ma
alla stessa stregua si potrebbe dire che
«New York non sono gli Stati Uniti».
48 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
la lettura
Per poche ore, tra l’esodo degli ottocento detenuti
che le abitavano e l’arrivo dei muratori che dovevano
restaurarle, le celle del quarto e quinto raggio del carcere
milanese restarono deserte. Il regista Davide Ferrario
ha fotografato quei muri coperti di ritagli e graffiti:
ne sono nati un libro, “Foto da galera”, e una mostra
Dietro le sbarre
San Vittore, tracce di vita reclusa
S
PINO CORRIAS
MILANO
Repubblica Nazionale 48 18/12/2005
cogliera del quarto e quinto raggio, carcere di San Vittore. Come una risacca
che dondola, dopo il naufragio. Dettagli di molte vite e di molte sigarette. Celle vuote come una dimenticanza, ma ancora sature di aglio, sugo e inchiostro. Crocefissi che sgocciolano pentimento. Donne a gambe spalancate,
lampeggiando vita. Seni. Muscoli. Una Ferrari.
Una spiaggia. Padre Pio. Petali di carta. La Madonna, una moschea, una mosca. Un segreto da
svelare.
Il carcere è quasi sempre un racconto gridato,
porte che sbattono, serrature, ferro che scatta come una tagliola, vene gonfie, l’aria che diventa un
urlo, o il fumo delle rivolte. Stavolta no. Le cento e
passa fotografie di Davide Ferrario sono puro silenzio, luce in polvere, sospensione. Vengono dopo l’esodo degli ottocento carcerati e prima degli
imbianchini che ripulendo avrebbero cancellato,
per sempre, queste sequenze da un mondo remoto. Vengono in coda alla ressa dell’ultima notte.
Tutti in fila, all’alba, verso altre sbarre, addio, portandosi via le lettere di mamma e la pasta dello
spaccio, le caffettiere, i libri, le stecche di sigarette,
i detersivi e il colpo d’occhio dello spazio intorno,
che ha intrappolato la vita. Tutta intera la vita di
dentro, cioè il sonno, la veglia, e il suo perimetro.
Ora il perimetro non coincide più con la cella
standard, quattro metri per due, letti a castello,
sette detenuti (talvolta) che fanno a turno per stare in piedi, ma è violato da questo vuoto congelato dalle foto e reso incongruo da quel resta: piccoli colori che interferiscono con il grigio; un occhio
blu, circondato dal rimmel, che fa fiorire una macchia di vernice. Immagini talmente sorprendenti
da contenere un tramonto e un addio, una donna
in bikini e un kalashnikov, Madre Teresa di Calcutta e Alessandra Mussolini, Karol Wojtyla e una
pin up. Come una piccolissima finestra spalancata sul disordine vitale della vita (di fuori).
Di colpo viene voglia di estrarre proprio la vita
da queste tracce. Farsi raccontare da loro la storia
degli uomini che le hanno ritagliate, incollate, appese, usando i muri di San Vittore per forzare i muri di San Vittore. Riuscendo a non renderle tristi o
quasi mai tristi, ma cariche di malinconia e di destino, incorporate alla vita quotidiana, incorporate alla condanna, incorporate alla prigione.
Eppure belle come una via d’uscita. E struggenti come certe lavagne di Basquiat, quando era ancora giovanissimo e furente, da sconciare Monna
Lisa e l’Uomo nero, pasticciare bambini e bombe,
firmarsi Same Old Shit, tutto-la-stessa-merda,
prima di farsi fregare e di finire dentro alla prigione di una siringa. O narrative come i decollages di
Mimmo Rotella che strappa dai muri quello che il
tempo accumula, ricicla gli occhi e i sorrisi delle dive, i muscoli degli eroi, ci parla del nostro viaggio
imprigionato, sfasando il bacio di Marilyn in una
eterna lontananza.
Artisti involontari di un’arte quotidiana: sopravvivere. Dentro a storie di carcere già lette in
molti taccuini e testimonianze, tipo «Mi chiamo
Vladimir, prigioniero del tempo». Oppure: «Mi
sento un pesce boccheggiante petrolio». Oppure:
«Precipito ogni giorno in questo spazio di crudeltà». Oppure: «Rapinavo banche, ora faccio i
conti degli spesini». Oppure: «Ho ucciso, se lo meritava». Tossici con nere visioni. Cuochi dal cuore
spezzato. Africani scappati dalle immense siccità
di Agadez. Guerrieri scesi dai pendii balcanici.
Borseggiatori. Truffatori di pensionati. Usurai.
Trafficanti di uomini e di cose.
In uno dei tanti libri di galera, Andare ai resti di
Emilio Quadrelli, un ex detenuto racconta: «Insomma se tu togli il ruolo delle grandi organizzazioni criminali (…) le attività illegali sono una specie di secondo lavoro che si affianca a quello legale. Il broker che traffica in cocaina, la commessa
che fa anche i massaggi o li organizza, il barista che
ha il suo giro di pastiglie, l’orafo che presta i soldi,
la parrucchiera che gestisce un giro di marchette:
questo è il mondo vero dell’illegalità». Questi i de-
stini che galleggiano.
Le grosse scogliere di San Vittore ne ingoiano
millequattrocento ogni anno. Poi ci sono le guardie, i volontari, gli infermieri. Poi i parenti che
aspettano, nell’aria turbolenta di Milano, i trenta
minuti del colloquio. Portano cibo, vestiti, ma anche quelle foto, quei disegni, quei ritagli d’aria che
finiranno sui muri delle celle, fessure di libertà.
Il carcere ha sei raggi a stella. Soffitti alti. Umidità. Arredi scrostati. L’eco continuo di cento cancelli. Una storia di muri edificati nel primissimo
Ottocento, secolo che perfezionò, insieme alle
prigioni, l’architettura delle fabbriche, delle banche e dei più piccoli chiavistelli del tempo, gli orologi.
San Vittore ne ha assorbito le tempeste, comprese due guerre e la miseria, la fame nera, le migrazioni interne cariche anche di vite spezzate, i
conflitti sociali, fino al fuoco Anni Settanta delle ri-
Davide Ferrario racconta la sua esperienza nel penitenziario
“Il limite mi ha cambiato”
PAOLO D’AGOSTINI
«È
cominciato tutto per caso. Sono
entrato a San Vittore per la prima
volta cinque anni fa, mi hanno
chiamato per tenere un corso di montaggio
ai detenuti della sezione penale...». Davide
Ferrario è appena rientrato da Londra dove
è andato ad accompagnare l’uscita del suo
film Dopo mezzanotte, al telefono si sente
che ha un attimo di esitazione prima di usare un’espressione che può sembrare fuori
luogo: «...E mi sono trovato bene. Ne è nata la
scintilla di una relazione umana. Sono rimasto colpito dalla quotidianità del carcere, diversa da come l’immaginavo. Detto in due
parole: in pochi posti, nella vita moderna, sei
a confronto con te stesso. Nella malattia, nel
dolore, in galera: situazioni estreme. Da una
parte, fuori, il delirio delle illimitate possibilità; dall’altra il senso del limite che la galera
ti sbatte in faccia».
Da allora lei svolge regolare attività di volontariato.
«Volontario, sì, il cosiddetto articolo 17.
Sottoposto alla valutazione del magistrato di
sorveglianza che conferma di anno in anno
se ti comporti bene. Dopo quell’esperienza
come docente ho chiesto di poter continuare a frequentare il carcere, e la direzione mi
ha sempre molto appoggiato».
Ha fatto parte del suo percorso, da quel
primo contatto fino al libro fotografico Foto da galera, anche un film realizzato in carcere con i detenuti.
«Fine amore mai, s’intitolava. Sì, con il
gruppo del corso, quindici-venti persone
con le quali ci si incontrava una volta a settimana. Ma dev’essere chiaro un punto. Io
non vado in carcere per fare i miei film. Il contrario. Sono andato, sono stato invitato in
quanto faccio film. Non mi sento investito di
alcuna velleità missionaria, vado perché
chiamato come regista, come esperto. E
quello che ho potuto mettere a disposizione,
in un luogo dove manca ogni progettualità, è
solo qualcosa che tiene in pista con la testa.
Con il mio gruppo ci siamo chiesti su quale
argomento avremmo potuto esercitarci, ed
è venuta subito fuori la sessualità. Loro avevano visto il mio film Guardami(storia di una
pornostar). La cosa sorprendente è che quell’esperienza ha colto quanto di questo tema
si prestava all’ironia. Ci sono due modi, in
carcere, di reagire. La disperazione assoluta:
ti suicidi, ti cancelli. Oppure ti guardi da un
punto di vista comico. L’ho scoperto lì, non
pensavo che fosse così».
Il paradosso, infatti, è che la legge consente a due detenuti di sposarsi ma non di
consumare il matrimonio.
«Sì, prevede che si possa creare una famiglia ma non fare figli. Io sono capitato al matrimonio tra un ergastolano e una donna
condannata a 24 anni. Non ho imbarazzo a
dire che è il matrimonio più bello che abbia
visto in vita mia. Quella che nella vita normale rischia di essere una messinscena perfino triste lì aveva la forza dirompente di riaffermare la vita al di là della gabbia».
E veniamo ai muri delle celle abbandonate per ristrutturazione che lei ha fotografato.
«Ecco, come non vado in galera per fare i
miei film così non ci vado neanche per fare il
fotografo. Anche qui, il caso. Loro stessi, i detenuti prima di essere trasferiti, mi hanno
sollecitato. E mi sono reso conto che questi
muri era come se chiamassero la necessità di
essere documentati prima di sparire. La
scorsa settimana ho mostrato il libro a San
Vittore. Il commento più bello è stato: abbiamo visto ‘sta roba per anni e mai ci siamo accorti che c’era. Era quello che speravo: la fotografia isola un significato che sul muro non
c’era. Io esco arricchito da questa esperienza senza dimenticare che c’è una ragione per
cui io sono fuori e loro dentro, evitando ogni
compatimento ma anche senza dimenticare quanto la galera sia inutile e sia una spesa
sociale che non produce nulla. Una discarica sociale: ma il pattume ci torna addosso.
Vorrei che per un attimo chi sfoglierà questo
libro sognasse i sogni e gli incubi che si fanno tra quelle mura».
volte, le tegole sbriciolate, con Sante Notarnicola
a torso nudo sui tetti e i drappelli antisommossa
nei reparti. I materassi incendiati dai brigatisti. I
pestaggi. Gli omicidi. Le evasioni di Renato Vallanzasca. Le insonnie degli arrestati di Tangentopoli al VI raggio.
Dai tempi cupi di allora, sprazzi di luce, pacificazione e dialogo, moltiplicazione dei diritti, buone direzioni, come ieri Luigi Pagano, come oggi
Gloria Manzelli.
Il portone è in ferro. Apertura elettrica. Da lì ogni
giorno entrano una trentina di nuovi arrestati, polvere volata qui in una sola notte, ladri d’auto e spacciatori, marchettari, ubriachi con cattivo carattere,
clandestini, pistoleri delle gang, stupratori e strafatti. Passano dall’ufficio matricole e dalle docce.
Entrano nel mondo dove tutti i muri sono verdi,
verdini, marroni e la luce è sbiancata dai neon. Entrano uomini, diventano detenuti e numeri.
Sei su dieci vengono da un posto qualunque che
non è l’Italia, ma ha almeno tre dozzine di nomi,
sull’atlante, alla voce Africa, Balcani, Medio
Oriente, Cina, Indonesia, Sud America. Sei su dieci rimarranno qui senza processo, in attesa di processo, spediti via senza processo. Sei su dieci ingoieranno psicofarmaci per dormire, per pensare,
per arginare il panico. Sei su dieci piangeranno tra
la prima e la settima notte.
Uno ogni dieci notti si farà del male con il ferro o
con il vetro, ingoierà schegge di plastica, si taglierà
una vena, cercando di moltiplicare la propria sofferenza e di buttarla finalmente fuori. Uno ogni dieci notti proverà a uccidersi con un pezzo di lenzuolo al collo, con un sacchetto di plastica in testa, con
il gas butano delle bombolette nei polmoni.
Dieci su dieci, cento su cento, andranno in
rewind sulla scena cruciale dell’arresto, del sangue versato, della fuga non riuscita, risalendo le
coincidenze del destino che li hanno intrappolati,
provando a spostare la vita di un millimetro, quell’appuntamento di un minuto, per inceppare finalmente l’ingranaggio che li ha trascinati qui.
Ma non c’è mai modo di anestetizzare il passato, se non tornando a abitare il presente, misurandolo dentro al nuovo spazio, tre passi, un tavolino,
il sonno. Se non tornando a immaginare il futuro
proprio sulla superficie più ostile, più indifferente, i muri.
Eccolo il segreto da svelare. Ecco cosa hanno di
tanto speciale queste immagini che vanno dall’opacità alla luccicanza, da un cuore inciso come
una promessa alla carta geografica di casa appesa
come un appuntamento: parlano tutte del futuro.
Letteralmente: lo inquadrano.
E lo declinano, grazie al rito di un’icona, nell’amore che verrà, nella vita ancora da rincorrere, nel
sesso che brucia e brucerà, nei molti viaggi da intraprendere, compreso l’ultimissimo, magari per
devozione o scaramanzia, lungo i sentieri del Corano, evocato in un versetto, o tra i colori sbiaditi
di un’Ultima cena, ma con Giuda tagliato via.
Perché se il passato non si può più disfare, se il
presente è solo il risarcimento della pena, quello che resta da maneggiare è il prossimo inizio.
Che sarà pure una illusione per molti, il prossimo fallimento di un sogno, magari altre sofferenze e un ritorno agli scogli del naufragio. Ma
intanto è un colore.
IMMAGINI DA NON PERDERE
Le immagini nelle pagine sono tratte dal librocatalogo di Davide Ferrario, “Foto da galera”
pubblicato da Mazzotta Editore (112 pagine,
25 euro), e sono in mostra, dal 15 dicembre
al 26 febbraio, in piazza Gramsci
a Cinisello Balsamo (Milano)
La rassegna è stata organizzata
dal Museo di fotografia contemporanea
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
‘‘
La palla è rotonda, e a volte
sgonfia[...]. Basta un tiro alto,
e il pallone finisce oltre il muro
di cinta. L’autore del tiro allarga
le braccia desolato. Gli altri
restano mogi come bambini
in un cortile, con la palla
sequestrata
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49
‘‘
È singolare come possa essere
pubblica l’esistenza di uno chiuso
in gabbia[...]. Si sa anche - basta
guardare l’orologio - dov’è adesso
il recluso. Nella sua cella, all’aria,
nella sua cella, all’aria, nella sua
cella. Diciotto ore nella cella,
sei all’aria o nel corridoio
‘‘
Forse vi fate un’idea sbagliata
della galera: di persone che
stiano alla catena contando
gli anni, e i minuti, che le separano
da un ritorno alla vita. Succede
anche il contrario: che molti
contino il tempo che li separa
dal passato
‘‘
I detenuti sanno farla breve...
Sanno che trovare un orecchio
disposto ad ascoltare è difficile, e
quando capita bisogna sbrigarsi:
tirare fuori dal taschino la storia
della propria vita in edizione
condensata. Cinque, dieci minuti:
dopo, l’orecchio si annoierebbe
Repubblica Nazionale 49 18/12/2005
ADRIANO SOFRI, da “Altri Hotel” (Mondadori Editore)
50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
Incanta i bambini e spaventa gli adulti. Perché è libera, fantasiosa,
antiautoritaria, perché è dentro ogni ragazzino che ascolta la storia.
Il libro che l’ha inventata, scritto da Astrid Lindgren per la figlioletta
ammalata, è stato pubblicato nel 1945. Nell’anniversario siamo andati a Stoccolma
per raccontare il culto che ancora oggi la circonda
Pippi
calzelunghe
«D
CONCITA DE GREGORIO
STOCCOLMA
o you know Pippi
Longstoking?»,
dicono le copertine gialle esposte
in libreria, le locandine al Teatro dell’Opera, le scritte sul fianco delle navi al
porto. Ecco, la conoscete? Che peccato
se vi manca: cosa vi siete persi. Sareste
persone diverse se foste cresciuti con
lei: donne e uomini diversi, verrebbe da
dire migliori. Sul serio: non è una storia
per bambini, questa. È una storia per
adulti che si affannano a trovare il modo di costruire un mondo più giusto, più
libero, per tutti uguale: uomini e donne,
grandi e piccoli, indigeni e ospiti. È una
storia per tutti quelli che credono che si
possa fare di meglio. Bisogna tornare
piccoli per diventare grandi. Ricominciare dalle favole, davvero. È proprio
inutile rompersi la testa a studiare le
carte per capire il segreto del “modello
svedese”. Non serve a niente finanziare
commissioni di esperti dell’Unione europea che stiano mesi a produrre diagrammi su quanto sono bravi in questo
posto a vivere meglio di noi, anzi meglio
di tutti, niente povertà niente conflitti:
tanto le tabelle non spiegano. Bisogna
prendere un fine settimana libero, invece, e venire a Vimmerby.
Trecento chilometri di boschi da
Stoccolma, case storte di legno. Migliaia di bambini al parco di Pippi, uno
spettacolo. Bimbe con la parrucca di capelli rossi e anche senza, tanto ce li hanno di natura, mezzi nudi col freddo che
fa e con le gote rosse, le scarpe troppo
grandi, i vestiti sghembi, ragazzini che
si issano aiutandosi uno con l’altro a salire in groppa a un cavallo di cartapesta
alto due metri, che salgono incertissime
scale a pioli e restano lassù, a cavalcioni
sul tetto. Pensi ai nostri parchi giochi
nei giardini: allo scivolo c’è sempre un
adulto che regge suo figlio, stai attento.
Non ti sporcare, non ti fare male, lascia
passare l’altro bambino. Pensi a quante
madri italiane lascerebbero un figlio a
cavallo sul tetto di una casa senza rincorrerlo gridandogli scendi subito.
La questione è questa. Mentre noi
avevamo Pinocchio loro avevano Pippi.
Noi abbiamo imparato a tre anni che se
dici le bugie ti cresce il naso, se non vai
a scuola ti vengono le orecchie di un
asino, se ti comporti male ti succedono
cose terribili ma è per colpa tua. Colpa,
sì: allora ti devi pentire. Devi espiare,
essere buono e torni bambino. Buono,
composto, pentito uguale bambino.
Loro: Pippi Calzelunghe. Che vive da
sola, «non ha né mamma né papà, e va
bene così perché non c’è nessuno che
le dice che deve andare a letto proprio
quando sta cominciando a divertirsi».
Che mangia sdraiata sul tavolo col
piatto sulla sedia e nessuno le spiega
che deve stare composta. Che dorme
alla rovescia coi piedi sul cuscino «perché preferisce». Che non ha genitori né
maestri, nessun adulto non uno straccio di educatore, non un preside, uno
psicologo di appoggio.
Pippi non va a scuola, vive da sola a
Villa Villacolle che sta in piedi per miracolo, a vederla da fuori diresti che è una
casa abbandonata. Invece no: dentro ci
sta lei che ha nove anni, ci abita con un
cavallo e con una scimmia, il signor Nelson: proprio dentro casa, il cavallo e la
scimmia. Si cucina da sola, si veste da sola con una calza verde e una gialla, con le
scarpe troppo grandi tanto nessuno le
dice cosa è «troppo». Pippi che è libera,
In Italia abbiamo
Pinocchio. Sappiamo
che se dici le bugie
ti cresce il naso,
se non vai a scuola
ti vengono
le orecchie d’asino,
se ti comporti male
ti succedono
cose terribili,
ma è colpa tua
e poi devi espiare
I magnifici
sessant’anni
della monella
anarchica
IL TELEFILM
La foto in alto
a sinistra è tratta
dal serial tv,
diretto
da Olle Hellbom
e interpretato
da Inger Nilsson
I disegni delle
pagine sono
tratti dal libro
“Känner
du Pippi
Langstrump?”
edito da Rabén
& Sjögren
autosufficiente, indipendente, forte,
completamente autonoma, generosa,
saggia della saggezza formidabile e assurda che hanno i bambini prima che
qualcuno gli spieghi che sbagliano, che
così non si fa, la regola è un’altra. Pippi
che è ricca perché suo padre marinaio
(pirata? Forse) le ha lasciato un forziere
di dobloni, è forte da sconfiggere i tori i
serpenti i ladri la polizia e i fantasmi in
soffitta: i fantasmi li convince, ci parla.
Pippi che è bellissima anche con le lentiggini e il naso a patata, le trecce all’insù, mica il caschetto di capelli biondi
con la riga. Pippi, che è felice.
Poi uno dice: perché in Svezia le donne sono il cinquanta per
cento in Parlamento,
stanno a casa diciotto
mesi quando fanno un
figlio. Perché lavorano
più degli uomini, non
conoscono la disoccupazione e mandano
avanti l’economia. Perché le trovi fuori la sera a
gruppi di sei anche se è
buio pesto e sono alla guida
delle aziende, perché la polizia se trova un cliente con una
prostituta manda in galera il
cliente. Le buone leggi, certo. Il
welfare perfetto. Non sarà mica per
Pippi. Non solo, di certo: però aiuta.
Intanto loro da piccoli hanno avuto
quel modello lì, ci sono cresciuti. I danesi la Piccola Fiammiferaia e la fatalità
del destino cupo da sopportare com’è,
le vesti nere di Andersen. I francesi Asterix il gallico imbattibile e protervo. Noi
Pinocchio. Loro Pippi Calzelunghe.
Ora Pippi ha sessant’anni. C’è da non
crederci, ma è così. Il libro è uscito nel
1945, mentre qui finiva la guerra e le
donne stavano a casa a cercare il pane
fra le macerie. Le celebrazioni, in Svezia, fanno segnare una leggerissima impennata del mito perpetuo, a cui non
servono ricorrenze per rinnovarsi. Un
nuovo balletto della Royal Opera, Pippi
Langstrump, due settimane in cartellone fra settembre e ottobre, tutto esaurito da mesi. Una speciale edizione del
premio annuale a lei dedicato. La ristampa delle edizioni in arabo e in serbocroato, e nelle altre quasi sessanta
lingue in cui è tradotto. Per il resto: ogni
mattina alle dieci in punto la fila dei passeggini di fronte allo Junibacken aspetta l’apertura della «casa dei giochi» come ogni giorno dell’anno, tutto l’anno.
Lo Junibacken è la casa-teatro-parco
giochi dei bimbi di Stoccolma. Per chi sa
perdersi nelle favole è uno dei posti più
belli che ci siano. Lo ha voluto Astrid
Lindgren, la scrittrice che ha inventato
la favola di Pippi, ma siccome le sembrava esagerato che fosse dedicato so-
SCANDINAVIA IN TV
L’ISOLA DEI GABBIANI
Tratto da un romanzo di Astrid Lindgren,
l’autrice di Pippi Calzelunghe, il telefilm
“Vacanze nell’isola dei gabbiani”
raccontava le avventure della famiglia
svedese dei Melkersson
KARLSSON SUL TETTO
È il telefilm che narra le avventure
di un bambino che vive sul tetto
di una famiglia scandinava e che riesce
a volare grazie a un motore a elica
sistemato sulla schiena
EMIL
Nata anch’essa da un testo
di Astrid Lindgren, la serie ha come
protagonista il piccolo Emil
da Lonneberga, vivacissimo bimbo
svedese con la tendenza a mettersi nei guai
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51
I SUCCESSI
IL LIBRO
IL TELEFILM
IL CARTOON
I FILM
IL RITORNO
Il romanzo della scrittrice
svedese Astrid Lindgren
viene pubblicato
per la prima volta
nel 1945. Sarà tradotto
in 54 lingue
La famosa serie
televisiva, interpretata
da Inger Nilsson,
fu trasmessa in Italia
a partire
dal 6 settembre 1970
Pippi diventa un cartone
animato nel 1998.
I 26 episodi della serie
sono seguiti
da un lungometraggio
che esce nel 1999
La ragazzina svedese
finisce diverse volte
al cinema. L’ultima
volta nel 1988 con
“Le nuove avventure
di Pippi Calzelunghe”
Gli episodi della storica
serie televisiva
sono stati restaurati
e trasmessi su Disney
Channel a partire
dal giugno 2004
lo a lei ha voluto che ci fossero dentro
tutte le storie, anche tutte le altre. La
vecchia signora è morta a 95 anni nel
2002. Nel giardino del parco c’è la sua
statua: una vecchietta seduta che sorride. Quando scrisse Pippi era una giovane madre. La figlia Katrin, ammalata di polmonite, voleva che le raccontasse una storia. La polmonite è una
faccenda seria a certe latitudini, Cartesio ne morì proprio qui a Stoccolma,
quando la regina Cristina lo chiamò a
corte a dargli lezioni di filosofia. Così
per settimane Astrid raccontò la storia
di Pippi a Katrin malata. Quando decise di trascriverla e mandarla a un editore, Bonniers, il più importante di
Svezia, naturalmente la rifiutò. Lei non
si perse d’animo e qualche anno dopo
mandò il racconto ai giurati di un premio: arrivò seconda, della vincitrice
nessuno ricorda il nome.
Allo Junibacken, casa col tetto spiovente appoggiata sulle rive dell’isola
che guarda il palazzo reale, i bambini
tolgono la cuffia i paraorecchie i guanti
e salgono sul trenino che li porta dentro
le fiabe: la voce che racconta è quella di
Astrid Lindgren. C’è Emil il terribile, il
ragazzino protagonista di un’altra popolare serie della scrittrice: una specie
di Pippi maschio, un bimbetto che per
divertirsi issa la sorella sul pennone di
una bandiera. C’è la figlia del brigante,
il drago e il topo gigante, i bambini rim-
piccioliti che entrano in una tazza. Poi
c’è Villa Villacolle: ricostruita a grandezza naturale, tutta sghemba, di legno, con la cucina e il bagno minuscolo,
il cavallo, la scimmia. Ci sono Tommy e
Annika, i ragazzini per bene. Annika,
che ha il caschetto di capelli biondi con
la divisa da una parte, è il prototipo della bambina beneducata dell’epoca:
nella storia sua madre non vuole che
frequenti Pippi. Pippi è una pessima
compagnia, il suo contrario esatto, la
disperazione dei benpensanti del paese, l’anarchia fatta bambina. Ancora
oggi in Svezia per dire non essere noiosa si dice: «Non fare Annika».
Pippi si chiama Pippilotta Viktoradria Rullgardina Krysmynta Efraimsdotter Långstrump, in italiano Pippinella Tapparella Pesanella Succiamenta. Di sicuro il nome se lo è dato da sola.
È bellissima ma non della bellezza convenzionale: ama le sue lentiggini, al
tempo si nascondevano sotto la cipria.
Vuole diventare un pirata e raggiungere
un giorno suo padre, il capitano, scomparso in mare: di certo è approdato in un
isola di cannibali ed è diventato il re, gira con la corona in testa e, quando lo troverà, lei sarà principessa. Sua madre è
un angelo che la guarda col cannocchiale da un buco nelle nuvole, «sono una
bambina fortunatissima, chi altri ha per
madre un angelo e per padre il re dei
cannibali?». È forte da portare in braccio
In Svezia hanno
Pippi Langstrump,
che non ha
né mamma né papà
a dirle cosa deve fare,
che non va a scuola,
che vive
con un cavallo
e una scimmia,
che è forte,
autonoma, saggia
della saggezza
assurda dei bambini
il suo cavallo ma non è una superwoman, perché è buffa. Fa ridere, incanta.
Al principio degli anni Settanta arrivò
anche in Italia il serial tv della regista Olle Hellbom (donna, ovvio). Il ritornello
della sigla diceva: «Pippi Pippi Pippi,
che nome, fa un po’ ridere, ma voi riderete di quello che farò». La ragazzina di
quei film, che ebbe un successo planetario, si chiama Inger Nilsson e ha oggi
46 anni: non ha avuto fortuna nel cinema, fa ancora l’attrice di teatro in provincia, ha avuto serie difficoltà economiche: «A volte vorrei che la gente si dimenticasse di me come Pippi e invece
tutti credono che io sia lei, vogliono da
me cose eccezionali e spiritose. L’unica
che avrebbe potuto chiamarmi Pippi
era Astrid, ma non l’ha fatto mai: sapeva che non lo ero».
Non lo era, Pippi non è un personaggio tv. Non sarebbe mai stata una Lara
Croft, non può trasformarsi in un videogioco né in un cartone animato. Pippi bisogna immaginarsela: è un disegno sulle pagine di un libro, sono parole che corrono, Pippi è dentro ogni bambino che
ascolta la storia, dentro ogni bambina.
Pippi sei tu. Poi hanno scritto centinaia
di saggi: il modello svedese della ribellione, il femminismo ante litteram. La prima pietra del pensiero di genere, la pacifista, l’avventuriera, l’antiautoritaria.
Certe organizzazioni di genitori e certi
educatori l’hanno condannata. «Un
Stylos Pasha de Cartier
www.cartier.com
modello mediocre di subcultura», disse
il professor Landquist, all’epoca celebre
didatta. I paesi conservatori e le dittature hanno censurato la novella: anarchica, rivoluzionaria, comunista.
In effetti Pippi Calzelunghe, che fa da
sé e non ha bisogno di nessuno, incanta i bambini e spaventa gli adulti. Ancora oggi, sessant’anni dopo, li spaventa
un po’. Non gli svedesi, certo, i cui figli
salgono sui tetti. Più a sud, dalle nostre
parti. Perché cammina sul filo del circo
e va da sola a pulire il camino. Dorme
con una scimmia (la scimmia nel verso
giusto, coi piedi al posto dei piedi: la
scimmia sì che sta composta), per lavarsi i capelli infila la testa in un secchio
di acqua gelata, per pulire i pavimenti
lega due spazzole ai piedi e ci pattina sopra, spacca la legna con l’ascia cinque
ceppi alla volta, invita gli amici a casa a
fare il gioco del «si cammina senza toccare il pavimento»: sui tavoli, sulle credenze, attaccati ai lampadari. «Sono
una trovacose», dice di sé. Cosa? «Una
trovacose. Il mondo è pieno di cose che
aspettano di essere trovate. Io faccio
questo». Senza paura, con la fortuna degli audaci, la generosità dei puri, l’allegria degli innocenti, la malinconia dei
saggi. Trova cose e le regala, così alla fine non è mai sola: è sempre piena di
quello che ha trovato e regalato. Dei
suoi ricordi, dei suoi progetti: tutte cose
che non finiscono mai. Bello, no?
52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
i sapori
Natale in tavola
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
Di madre lingua francese, irrinunciabile
in ogni brindisi, quest’anno è molto
apprezzato (più 14 per cento d’import)
e piace soprattutto in versione magnum
Una bottiglia super da condividere
con tanti amici, meglio se a pranzo
CHAMPAGNE
Pioggia di bollicine
sulle serate di festa
LICIA GRANELLO
BRUT NATURE
Laurent Perrier
Diciture diverse — Pas
dosé, Dosage zéro,
Brut sauvage —
per gli Champagne
a cui non viene aggiunto
il liqueur d’expédition
dopo la sboccatura.
L’assenza di zucchero
aggiunto richiede uve
molto selezionate
Il gusto è secco,
finissimo
BRUT
Perrier Jouet
La tipologia più diffusa
vanta un minimo
residuo zuccherino
(fino a 15 grammi/litro,
contro i 3 dei Brut
Nature), che permette
di gustarli sia come
aperitivi sia come
apripasto, dagli
stuzzichini ai primi
piatti, fino a carni
bianche e pesci
DEMI SEC
Veuve Clicquot
La concorrenza
con il nostrano Moscato
d’Asti, compagno
ideale di panettone
e pasticceria secca,
ostacola la diffusione
in Italia della versione
più morbida (da 33 a 50
grammi/litro
di zucchero)
dello Champagne, molto
apprezzato in Francia
CUVÉE
Feuillatte
L’assemblaggio
delle uve “elette”
è dosato in maniera
diversa a seconda
delle segretissime ricette
— cuvée — messe
a punto dagli enologi
delle singole maisons
e perpetuate anno
dopo anno. La Cuvée
Espéciale è figlia
delle migliori annate
U
na bollicina per amica. Alcolica, di madrelingua francese, possibilmente versata da bottiglia in formato super. Da gustare in tutti i brindisi da qui a Capodanno,
senza trascurare qualche cena particolarmente preziosa o la perversione gourmand della fetta di mortadella (o
di un eccellente prosciutto crudo stagionato) accompagnata da una flute tentatrice.
Malgrado il dicembre irrigidito dal freddo e dalle tredicesime magre, lo
Champagne resiste impavido in testa alle classifiche golose dei sogni di Natale, vantando addirittura due piccoli primati stagionali: l’importazione, aumentata del 14 per cento, e la preferenza per le versioni magnum. Se a qualcuno, nel mondo, piace grande, agli italiani di più. Infatti, solo gli inglesi, ovvero i
più incalliti tracannatori di Champagne al di là della terra-madre Francia, ci superano nella speciale classifica dei consumatori di magnum, dove il rapporto tra
volume del vino e della bottiglia risulta ottimale per la sua perfetta evoluzione.
Non che il formato tradizionale, con i suoi 75 centilitri di bollicine seducenti, ci dispiaccia, anzi. Abbiamo imparato a berlo “a prescindere”, svincolandolo dalla sua collocazione più tradizionale e terribilmente sbagliata, al termine del
pranzo. Momento in cui l’unico Champagne consentito, a meno di chicche
straordinarie, è il misconosciuto Demi Sec, delizioso fratello maggiore del nostro
Moscato d’Asti (che pure con panettone e biscottini fa la sua bella figura). Una versione “ammorbidita” rispetto ai comuni Brut, da servire con creme, ciambellone e
friandise, lasciando Banyuls e Pinot de Charente a contendersi la palma di miglior
partner alcolico francese del cioccolato.
Da quando Dom Perignon, cantiniere nell’abbazia di Hautvillers, cominciò a fare
esperimenti sulla fermentazione in bottiglia (anno di grazia 1679) per trasformare in
qualità il guaio del vino a cui le temperature polari del nord della Francia impedivano
di completare la fermentazione, l’irresistibile ascesa dello Champagne non ha conosciuto ostacoli. Oggi, se ne producono più di 300 milioni di bottiglie l’anno, rigorosamente all’interno di un largo fazzoletto di campagna a un’ora o poco più di macchina a
est di Parigi, dove ogni vigna è uno scrigno e ogni récoltant, che produca in proprio o
venda alle varie maisons, un viticoltore da trattare coi guanti bianchi.
Riconosciuta la superiorità delle bollicine francesi (anche se chi ha gustato i franciacortini “Anna Maria Clementi” e “Cabochon”, o la trentina “Riserva del Fondatore” sa che in certi casi la distanza è pressoché azzerata), resta la difficoltà di destreggiarsi tra etichette, prezzi, denominazioni. Un debito di conoscenze che l’ingresso
nella grande distribuzione, dove le informazioni sono ancora scarse, non ha certo colmato. Insomma, ci è più facile comprarlo – per prezzo e reperibilità – ma i dubbi rimangono: Brut o Millesimato, Rosé o Blanc de Blancs?
Non preoccupatevi: dove cade la scelta, funzionerà comunque, grazie alla privilegiata condizione di vino super partes (o quasi), pronto a lasciarsi godere in situazioni
(e su piatti) molto diversi tra loro. A voler cavalcare l’onda modaiola, oggi il più cercato insieme al magnum è il Rosé, forte della sua resistenza anche a piatti più impegnativi. Se invece siete di palato delicato, regalatevi un Crémant, che in Italia corrisponde al Satèn: minor pressione, gusto più cremoso e satinato (come da traduzione). Lo
stesso che la famiglia Mumm donava agli ospiti con il biglietto da visita a mo’ di etichetta, rimasto intatto fino ad oggi. Di colpo, il vostro Natale diventerà charmant come un cotechino tiepido. E gustati insieme, maiale & champagne, saranno il regalo
più goloso della giornata.
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53
itinerari
L’italo-francese Florence Guyot è una giovane,
appassionata esperta di Champagne, di cui importa diversi
marchi insieme al padre Bernard (nella foto). Vive facendo
la spola tra le maisons francesi e i migliori locali italiani
Epernay
Reims
Bere Champagne
qui «è come
ascoltare Mozart
a Salisburgo»,
dicono i locali,
simboleggiando
il guanto di sfida
con la cara nemica
Reims. Intorno
alla città, 20mila ettari di vigne e oltre cento chilometri
di cantine secolari scavate nella roccia gessosa
Bella e quieta, nei suoi
dintorni ospita alcune
tra le più celebri maison,
aperte a visite
e degustazioni
Nell’enoteca di fronte
alla Cattedrale,
capolavoro di arte
gotica protetto
dall’Unesco, ci si può far personalizzare le etichette delle
bottiglie comprate
DOVE DORMIRE
DOVE DORMIRE
CLOS RAYMI
3 rue Joseph de Venoge
Tel. 0033-3-26510058
Camera doppia da 130 euro, colazione inclusa
HÔTEL CONTINENTAL (con cucina)
93 place Drouet d'Erlon
Tel. 0033-3-26403935
Camera doppia da 80 euro, colazione inclusa
DOVE MANGIARE
DOVE MANGIARE
LES CÉPAGES
16 rue de la Fauvette
Tel. 0033-3-26551693
Chiuso mercoledì, menù da 20 euro
FOCH
37 boulevard Foch
Tel. 0033-3-26474822
Chiuso sabato, domenica sera, lunedì, menù da 56 euro
DOVE COMPRARE
DOVE COMPRARE
LA CAVE À CHAMPAGNE (con cucina)
16 Rue Gambetta
Tel. 0033-3-26555070
LES DELICES CHAMPENOISES
2 rue Rockefeller
Tel. 0033-3-26473525
MILLESIMATO
Dom Perignon
Tanti stili sotto una sola etichetta
Hit parade delle cantine
ENZO VIZZARI
E
307 milioni
Le bottiglie di Champagne
prodotte ogni anno
8,2 milioni
Le bottiglie importate
in Italia
1 milione
Le bottiglie che saranno
bevute durante le feste
284
Repubblica Nazionale 53 18/12/2005
Le imprese
dello Champagne
ntrereste in un’enoteca dicendo «vorrei
acquistare una bottiglia di vino», e basta?
No, evidentemente, tanti essendo i vini
presenti sul mercato, bianchi o rossi, dolci, freschi e leggeri, d’annata, beverini o strutturati.
Sono molti, invece, coloro che chiedono genericamente uno «spumante», uno «Champagne», delle «bollicine» come ormai si dice, non
rendendosi conto che in un grande Champagne
si possono trovare più affinità con un Barolo che
con un frizzantino fabbricato in autoclave. Limitandosi allo Champagne, la molteplicità degli stili, degli uvaggi (cioè del mix fra le tre varietà
di uve principali che danno origine ai vini), dei
modi di vinificazione e dei tempi di affinamento ne rende incomparabilmente ampia la gamma e ne fa un vino per tutti i gusti e per tutte le
circostanze, che se ben conosciuto non si può
non amare.
Ma per conoscerlo bisogna berne parecchio.
Solo così si comprende che non c’è “lo” Champagne ma tanti Champagne, che in comune
hanno praticamente solo il nome e l’origine, e
che ogni palato può avere il “suo” Champagne.
Alla base della piramide, i “brut non millesimé”,
cioè senza annata in etichetta perché ricavati
dall’assemblaggio di vini di annate diverse, in
genere i più semplici di ogni produttore, ma con
differenze sensibili anche di prezzo dall’uno all’altro: vale per tutti l’esempio del Krug Grande
Cuvée, che pur non millesimato, costa più dei
grandi millesimati Dom Pérignon e Belle Epoque Perrier Jouët; etichette che si distinguono in
questa categoria, Charles Heidsieck mise en cave, Roederer Brut Premier, Selosse Extra brut.
“Millesimé” sono gli Champagne prodotti solo con le uve raccolte in annate particolarmente favorevoli e devono essere venduti dopo tre
anni dalla messa in bottiglia, anche se i migliori
— per esempio Billecart Salmon, Bollinger
Grande Année, Pol Roger, Gosset — fanno almeno cinque anni in bottiglia.
Categoria a sé i “blanc de blancs”, ovvero i vini ottenuti soltanto da chardonnay. Possono essere millesimati o non millesimati e si distinguono per la leggerezza, la finezza, la complessità e l’eleganza, che crescono col passare degli
anni. Su tutti Salon e Krug Clos du Mesnil, eccellenti Taittinger Comtes de Champagne e
Bruno Paillard Blanc de Blancs.
I “blanc de noirs” sono meno conosciuti e sono ricavati soltanto da uve di pinot nero e pinot
meunier, non competono in finezza con i
“blanc de blancs” ma nelle loro migliori espressioni sono grandi vini, adatti ad accompagnare
piatti importanti, anche di carne, certo da non
offrire all’aperitivo. Un’etichetta non ha rivali,
il Bollinger Vieilles Vignes Françaises, ma è ottimo il Jacquesson Blanc de Noirs d’Ay.
Sorvolando sui rosé, sui dolci e sui gioielli dei
“dégorgement tardif” (per intenderci ancora
Bollinger RD, Jacquesson DT, Dom Pérignon
Oenothèque), categoria che ciascuna meriterebbe un capitolo a sé, resta la fascia più nobile,
quella dove lo Champagne si dimostra irraggiungibile, le “cuvées de prestige” e quintessenza dello stile di ogni maison, elaborato sempre
con le migliori uve dei “grand cru”, con le vigne
più vecchie a rendimento ridottissimo, vinificate con procedure ricercate e peculiari di ogni
marca. Non ci sono regole né sugli uvaggi, né sui
tempi di vinificazione o di stoccaggio, ciascuno
è libero di cercare la “qualità massima” come
meglio crede. Fatica improba stilare una classifica, ma certo chi assaggia un datato Krug Collection, un Salon, un Laurent Perrier Grand Siècle, un Pol Roger Sir Winston Churchill, un Dom
Pérignon Oenothèque, un Grande Dame Veuve
Clicquot, un Cristal Roederer, un Jacquesson
Signature, non li dimentica più.
Il millesimo è l’anno
di produzione
e millesimati sono
gli Champagne fatti
con uve di una sola,
eccellente vendemmia
(e quindi solo negli anni
enologicamente
benedetti). Prima della
messa in commercio,
devono trascorrere
almeno tre anni
BLANC DE BLANCS
Ruinart
Bianco dei Bianchi,
perché realizzato
da sole uve Chardonnay,
è delicato, fine, elegante.
Freschezza e acidità
ne fanno la bottiglia giusta
per l’aperitivo,
ma anche
per accompagnare
ostriche, crostacei
oppure sformati
di verdure
BLANC DE NOIRS
Pommery
Una produzione ridotta
per lo Champagne
più “maschile”, ricco
di corpo e di sentori
di frutti rossi, composto
da sole uve a bacca
nera, ovvero Pinot
Nero e Pinot Meunier
(spesso solo
dalla prima). Perfetto
per carni rosse
e formaggi stagionati
ROSÉ
Jacquart
Rosato e suadente,
è un vero Champagne
a tutto pasto, soprattutto
con i piatti più moderni
e innovativi. Si ottiene
vinificando in rosso
il Pinot nero
e poi assemblandolo
alle altre uve, o lasciando
brevemente le bucce
a contatto del mosto
in fermentazione
54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
le tendenze
Regali hi-tech
Non solo suoni e voci da ascoltare ma anche immagini
e filmati da guardare: l’ultima generazione di lettori
portatili, mette nelle nostre tasche l’intero universo
dell’intrattenimento. Ecco gli oggetti di culto che, grazie
a un mix sapiente di tecnologia e design, invaderanno
nelle prossime settimane le case degli italiani
PADRONI DEL TELECOMANDO
Schermo Lcd da 8 pollici, possibilità
di vedere film in dvd, di ascoltare musica
e di visualizzare foto e persino
un telecomando per gestire tutto
a distanza. È il lettore Philips Pet 810,
in commercio a circa 308 euro
CINQUE IN UNO
Il Vibe 500 della Packard Bell
è un lettore Mp3
e video, un visualizzatore
di foto, un registratore vocale
e un disco fisso portatile
da 20 Gb.
In appena 16 millimetri
di spessore e 150 grammi
di peso. Tra gli optional
c’è anche l’antenna
per ascoltare la radio in Fm.
Lo si trova in commercio
a 279 euro
video
&
music
Il fascino dello show
in palma di mano
ERNESTO ASSANTE
I
Repubblica Nazionale 54 18/12/2005
PER UN’AUTO DA FILM
Il Vhd 9401 è il nuovissimo car
system della Panasonic.
Il monitor ad alta risoluzione,
orientabile e regolabile,
può essere da 7 o da 9 pollici.
Costa fra gli 800 e i 900 euro
PICCOLO MA GRANDE
Video o foto, audio o file,
il Thomson Lyra 2862
è una vera e propria
mediateca portatile.
E può essere usato
per videoregistrare,
sul disco fisso da 20 Gb,
direttamente dalla tv
o da una telecamera.
Il prezzo si aggira
intorno ai 450 euro
file Mp3? Roba vecchia,
pronta a finire nel dimenticatoio dei “dead media”. L’oggetto digitale
più cool del momento è
un solo numero più avanti, Mp4, anzi, per essere precisi
Mpeg-4, un formato che promette di rivoluzionare il mondo
delle immagini così come l’Mp3
ha rivoluzionato il mondo della
musica. L’Mp4 permette, infatti, di ridurre le dimensioni dei video senza che perdano in qualità, consentendo la trasmissione di videoclip, film, programmi
tv o riprese girate nelle feste comandate attraverso Internet,
oppure il loro trasferimento su
cd e dvd o, meglio ancora, l’inserimento nella memoria di un
lettore portatile di ultima generazione, una di quelle macchinette che sono in grado di mostrare immagini oltre che far
ascoltare suoni.
I video player sono l’oggetto
del desiderio di questo Natale.
A trasformare quella che sembrava fino a poco fa una roba da
maniaci e smanettoni in una
vera e propria moda è stata come al solito la Apple che ha messo in commercio il nuovo iPod
che, a differenza dei precedenti, può anche memorizzare e riprodurre immagini in movimento. In pochissimo tempo
centinaia di migliaia di persone
hanno iniziato a scaricare videoclip e programmi tv dalla
Rete. I numeri parlano chiaro:
dal sito di iTunes sono stati prelevati in meno di due mesi oltre
tre milioni di video: in maggioranza videoclip musicali, ma
anche programmi televisivi di
successo, come Desperate Housewives e Lost (frutto di un accordo con la Disney). Ancora
niente cinema sul fronte Apple
(anche se si possono scaricare
alcuni “corti” della Pixar), ma
per gli appassionati del microschermo ci sono molte altre
possibilità, prima fra tutte quella di trasformare in formato
compresso i dvd che si hanno in
casa, rendendoli “tascabili”.
Se la Apple ha fatto diventare
di moda il video portatile, sono
in realtà moltissime le aziende
che negli ultimi anni si sono
mosse nel settore, sfornando
una lunga serie di lettori, grandi, medi, piccoli e piccolissimi,
che consentono la visione di video e film, oltre ad essere dei
lettori Mp3, a poter funzionare
come hard disk esterni per i
computer, a poter raccogliere e
memorizzare fotografie, e ad
avere, in molti casi, anche la radio. Sono dei “personal mediaplayer”, pronti a essere sistemati sotto al televisore in salotto, così come nel taschino della
giacca. La maggior parte di queste macchinette offre infatti la
possibilità di collegamenti con
il televisore, per vedere film, video e programmi in qualità migliore.
Il “target” però non è quello di
chi vuole vedere “bene” le immagini, bensì quello di chi vuole mettere in tasca il cinema, la
tv e la videomusica. Nella battaglia in corso per “l’ordigno fine
di mondo”, l’oggetto che tutti
vorranno avere in tasca, i lettori audio-video di ultima generazione fanno ampiamente concorrenza ai telefoni cellulari
umts, che hanno le funzioni video aggiunte a quelle telefoniche ma hanno memorie meno
capienti e schermi più piccini. I
telefoni hanno a tutt’oggi un
mercato più ampio, ma i “media player” sono certamente in
grandissima ascesa. Ogni
azienda impegnata sul fronte
dell’intrattenimento digitale
ha infatti sfornato il suo videolettore tascabile. E chi non vuole passare il tempo a scaricare
film dalla rete può optare per
qualcosa di più ingombrante e
scomodo, ma con schermi più
ampi e una qualità d’immagine
decisamente migliore di quella
dei lettori Mp4. I prezzi dei lettori dvd portatili, che fino a
qualche tempo erano talmente
alti da rendere i “portable dvd
players” inavvicinabili per il
grande pubblico, hanno subito
un drastico taglio e oggi è possibile trovare anche lettori con un
prezzo che si avvicina ai cento
euro, molto meno, dunque, del
prezzo medio di un “media
player” Mp4.
IL MITO CAMBIA PELLE
L’ultimo nato di casa Apple
si chiama iPod video.
La versione da 30 Gb
(che contiene 7.500 brani
musicali, o 12.500 foto o 75
ore di video) costa 329 euro,
quella da 60 Gb,
con capacità doppia,
si acquista a 449 euro
VISIONE ZEN
Si chiama appunto Zen
Vision, il nuovo gioiello
della Creative. Ha un hard
disk da 30 Gb (15mila
canzoni, 120 ore di video).
Con il suo microfono
si possono anche registrare
appunti vocali.
Il prezzo: 549 euro
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
LA DOMENICA DI REPUBBLICA 55
SVAGO TOTALE
Il lettore dvd portatile della Sony MV700-HR, con schermo da 7 pollici,
è compatibile con tutti i formati video
e audio. Ma soprattutto è dotato
di una staffa per il montaggio
sul poggiatesta del sedile dell’auto.
Costa 499 euro
LA SCATOLA MAGICA
Musicbox pesa appena 50
grammi. Grazie a una
convenzione con le case
discografiche è l’unico in Italia
a permettere di scaricare
legalmente
i videoclip sul disco da 1 Gb.
Costa 149 euro
L’attrazione per i gadget e il rischio di isolarsi dalla realtà
POTENZA IN MINIATURA
Lo spessore del lettore
multimediale Samsung Yepp
Yh-999 è di appena
due centimetri. Ma l’hard disk
da 20 Gb consente di portarsi
appresso migliaia di brani
in Mp3 ma anche 80 ore
di video o 100mila foto,
visualizzabili sul display
da 3,5 pollici. Sui 310 euro
Io, l’iPod e i rumori del mondo
LINUS
Repubblica Nazionale 55 18/12/2005
A
VIDEOREGISTRATORE NEW WAVE
L’Archos Av420 è un vero e proprio
videoregistratore portatile.
Nella memoria da 20 Gb si possono
salvare fino 80 ore di trasmissioni
provenienti dal televisore o da qualsiasi
altra sorgente video. Costa sui 440 euro
ll’ultima maratona di New
munque un cervello da far funzioYork c’erano quarantamila
nare. Ed è quello che dico ancora
partecipanti. Almeno cinadesso a chi mi conosce, quando
quemila correvano con le cuffiette
andiamo sull’argomento: bisogna
dell’iPod. Io no. Ma questo non vuol
porsi un limite, non prendere come
dire che lo trovi disdicevole: sempliun obbligo tutto quanto. Le possibicemente ero con amici, e preferisco
lità del telefonino sono fantastiche,
correre insieme agli amici e, mentre
ma è fantastico soprattutto avere la
si corre, chiacchierare e scherzare
libertà di poterlo spegnere. Sentirci
se il fiato ci regge. Quando corro da
la musica può servire, ma guardarci
solo, però, infilo le cuffiette anch’io.
un film è assurdo.
È il tempo in cui milioni di persoL’unica salvezza è la razionalità:
ne in tutto il mondo, giovani sopratmi sono alzato in piedi e ho applaututto, tendono sempre più a isolarsi
dito quando ho letto che la Mazda
dagli altri ascoltando ognuno la sua
invitava i propri dipendenti ad anmusica preferita. Non lo trovo gradare al lavoro a piedi. Questo ha un
vissimo, a patto che questa sia una
senso, molto forte, e non solo simseconda scelta. Ovbolico: serve anche
vero, per prima coa fuggire da quello
sa bisogna cercare
che le multinaziodi fare altro, coinnali dell’elettronivolgere gli altri, fare
ca vogliono. Ovvecose
insieme,
ro trasformarci in
chiacchierare, diconsumatori senza
scutere e magari
razionalità, pronti
ascoltare musica
a correre appresso
insieme: quando
a ogni diavoleria inquesto non è possinovativa senza
bile, allora ha un
chiederci se ci serve
senso tirare fuori
oppure no. La lenl’oggettino stipato
tezza, in questi casi,
di canzoni e sentirpremia: e lentasele per conto promente si ragiona
prio. Per quanto mi
molto di più.
riguarda, se camL’iPod per necesIL
PERSONAGGIO
mino per strada
sità, insomma. E da
Nella
foto
qui
sopra,
preferisco sentire i
utilizzare solo in
Linus, direttore artistico
rumori del mondo:
quel caso. Un mondi
Radio
Deejay
quando sono in
do che si riempie
macchina cerco di
sempre di più di
ascoltare la radio.
persone che vagano per strada isoMa capisco i miei simili affascinalate dal mondo e immerse nelle loro
ti dalla tecnologia. Pochi giorni fa
cuffiette o nel loro parlottare al tealla radio è arrivata l’e mail di un
lefonino sembra un film di Cronenascoltatore che sosteneva di essere
berg. Alcune discoteche hanno inin volo in quel momento sul Tibet, e
trodotto il ballo collettivo silenzioche ci stava ascoltando via Internet.
so, ognuno con le proprie cuffiette:
Gli abbiamo risposto che non gli
lo fanno per il problema del rumore
credevamo, e allora lui ci ha subito
all’esterno, ma vi assicuro che visto
spedito alcune foto scattate dall’aeda fuori sembra uno spettacolo di
reo, con la cima delle montagne.
folli.
Abbiamo scoperto che la Lufthansa
Morale: nessuna nostalgia per il
ti offre un servizio simile su alcuni
passato, nessuna visione da incubo
voli. Ovvio che poi uno rimane folper il futuro. Ma l’uso della testa, da
gorato da queste possibilità.
parte di tutti. Detto questo, l’iPod e
Per la musica da ascoltare nelle
gli aggeggi simili, sono diabolici: per
cuffiette, per il proliferare di tutti gli
un giovane c’è anche un fascino
oggetti elettronici da tasca che ti traestetico superiore, per uno meno
sformano in una specie di cyborg, a
giovane, c’è la possibilità di archime sembra che si stiano avverando
viare in una library tutta la più grangli scenari che da ragazzo leggevo
de musica della propria vita. Cioè, è
nei libri di fantascienza dell’epoca.
bello. Ma se ci sono amici con cui
E anche allora pensavo: magari ficorrere insieme, è più bello chiacnirà così, ma le persone avranno cochierare, ridere e scherzare.
MEDIA CENTER DA PASSEGGIO
Musica, video e foto a volontà, grazie
a un disco fisso da 40 Gb. Ma l’iRiver
Pmp-140, che è dotato di un’uscita
video incorporata, può essere usato
anche per vedere i film su un comune
televisore. Costa circa 570 euro
A SPASSO CON I DVD
Il lettore portatile di Lg
Dp-8821 permette di
vedere dvd dovunque
ci si trovi. È compatibile
con i formati
di compressione video
divx ma anche con i più
comuni standard audio.
Il prezzo si aggira intorno
ai 290 euro
56 LA DOMENICA DI REPUBBLICA
DOMENICA 18 DICEMBRE 2005
l’incontro
Ha vinto un Nobel per la medicina,
ha frugato tra i misteri del dna,
ha reso migliore il futuro di tutti noi
arricchendo di speranze la lotta
al cancro. Adesso, a quasi 92 anni,
è pronto per un doloroso
addio. “Sto preparando
il trasloco, lascio
l’Italia per sempre:
non mi dividerò più
tra l’America e qui,
d’ora in poi la mia unica
casa sarà la California”.
E da Lugano, con le valigie pronte,
ripercorre le tappe di una vita
ricca di avventura e di passione
Grandi vecchi
Renato Dulbecco
Repubblica Nazionale 56 18/12/2005
S
re, per una delusione, per un sogno, per
una carriera. Ma può succedere che un
giorno sia la vita a chiedercelo. Dulbecco adesso si è accomodato sul divano, la
schiena rimane diritta, gli occhi sono ancora limpidi e allegri, ma i pantaloni non
riescono a nascondere la magrezza delle
gambe. Dice: «L’età conta, eccome se
conta. Divento vecchio, quando faccio
due piani di scale mi sento più stanco di
un anno fa. Il viaggio in aereo dagli Stati
Uniti a Lugano, dove mi è sempre piaciuto vivere tre, quattro mesi l’anno, è divenuto pesante, mi ci vuole una settimana per riprendere le forze. Ho detto basta
anche per questo. La fine della vita verrà,
non ci posso fare niente. L’idea della
morte non mi preoccupa. A me interessa
soltanto la vita e, finché ce l’ho, la adopero. So che non avremo mai l’immortalità e dico: per fortuna. L’unica immortalità che si meriterebbe di possedere è
quella giovanile. Ma siccome ci è negata
questa gioia non vedo perché dovremmo vivere per l’eternità da vecchi, quando il fisico e il cervello non funzionano
più. Meglio l’addio».
Qui, nel silenzio di un non luogo, di
una non città, di un non paese, in una
grande stanza dove regna l’immobilità
delle situazioni sospese, la vita gli sfila di-
La fine verrà,
ma l’idea della morte
non mi preoccupa
A me interessa
la vita finché ce l’ho
e la uso. So che
non avremo
mai l’immortalità
e dico: “Che fortuna”
FOTO GRAZIE NERI
LUGANO
i può annunciare un addio
anche così, con una compostezza che sarebbe più adatta
a un commiato quotidiano.
Come se si dicesse alla famiglia riunita in cucina per colazione, infilandosi la manica del cappotto in equilibrio sul filo della porta, «ciao
a tutti, ci vediamo stasera». Parole che
nemmeno più ci accorgiamo di pronunciare perché le ripetiamo ogni giorno, da
tanto tempo, sempre uguali. Forse, per
recidere l’emozione di un saluto senza
ritorno, bisognerebbe essere il John
Wayne del Grinta. Oppure uno scienziato purissimo e, solo in apparenza glaciale, come Renato Dulbecco. Uno che ha
vinto il Nobel per la medicina, che ha migliorato la nostra vita e il futuro dei nostri
figli, che ci ha aggiunto una speranza
nella lotta alla malattia che più fa paura,
il cancro, e ha acceso una luce nella penombra della nostra conoscenza, frugando tra i misteri del dna e sezionando
il genoma, cioè l’insieme dei geni di un
essere qualunque, sia esso un virus o un
uomo.
Nella sua bella e luminosa casa di Lugano Dulbecco sembra fragile e incerto,
chiuso dentro la giacca secca di taglio
americano, la cravatta stretta e di nodo
piccolo in cima al suo azzurro senza personalità, ma dietro le lenti tonde degli
occhiali ha uno sguardo curioso e buono, lo sguardo di un investigatore matematico puntato dritto su di me. Un Harry
Potter di quasi 92 anni che mi dice: «La
prego, non mi faccia parlare di filosofia,
non l’ho mai amata. La filosofia è soltanto immaginazione, in essa non c’è nulla
di obiettivo». Sarà un ossimoro, eppure
Lugano, con il suo lago così triste d’inverno, è un luogo perfetto per questi addii asciutti. «Stiamo preparando il trasloco. Lascio l’Italia e l’Europa. Per sempre. Non mi dividerò più tra l’America e
qui, d’ora in poi la mia unica casa diventerà la California. Mi spiace, ma ho deciso».
L’appartamento del residence Bristol
di via Clemente Maraini ha infatti l’aria
di un posto che sta per essere riconsegnato. Questione di ore. Non un velo di
polvere sui tavoli di cristallo e sul cubo
della tv, non un oggetto in posa stonata,
non un mobile distratto dalle sue geometrie. Da dietro la parete sottile di un
soppalco filtra appena il rumore ovattato di una persona che compie ordinari
piccoli gesti di una vicina partenza. È
Maureen, la moglie scozzese di Dulbecco. Ha 24 anni meno di lui e muscoli più
allenati: «Facciamo lunghe passeggiate
assieme. Lei è molto comprensiva,
quando le dico torniamo indietro che
non ce la faccio più finge di essere stanca
e mi dice “stavo per proportelo io”. Un
tesoro». Maureen e Renato tra loro parlano inglese. Stanno insieme da 42 anni,
hanno una figlia, Fiona, che fa la cardiologa in un ospedale di San Francisco. Lui
era — ed è — più timido di una tartaruga,
eppure ha lo humour non so quanto inconsapevole di chi ha ormai consumato
tutti gli imbarazzi possibili: «Ho amato
sempre in modo limitato, in occasioni
speciali. Come si dice? Ogni lasciata è
persa...? Bene, non è mai stato il mio caso. È stata Maureen a conquistare me, io
non mi accorgevo di nulla. Ci siamo frequentati per anni prima di capire che
c’era qualcosa tra noi, ma oggi posso dire che è andata molto meglio di quanto
avrei potuto sperare».
Renato Dulbecco è uno dei più straordinari scienziati italiani, ha lavorato con
Rita Levi Montalcini e con Umberto Veronesi, ha combattuto per l’Italia nella
seconda guerra mondiale, è stato partigiano nelle montagne di Sommariva
Perno e membro del Cln di Torino, è un
uomo che il mondo non finisce più di ringraziare, ma al quale l’Italia non ha saputo volere bene fino in fondo. Nel dicembre del 1975, proprio mentre a Stoccolma ritirava il Nobel per la medicina,
Roma gli revocava la cittadinanza. Perché lui voleva fare l’americano. Da allora
è stato semplicemente un americano
che ha lavorato anche con l’Italia. Niente di più. Adesso non dovrà più dividersi,
resterà al Salk Institute di La Jolla. Il suo
cielo. «Vede — mi dice — senza l’America non sarei mai diventato ciò che sono.
Oggi non mi domando nemmeno più se
sono italiano o americano. Avverto però
le differenze. Ho votato Bush, Kerry non
mi convinceva. Certo, dopo i dubbi sull’intervento in Iraq, gli errori e le bugie
della sua amministrazione, mi sono
pentito. Ma gli Stati Uniti restano un
paese autenticamente democratico,
con una democrazia che nasce dal basso
perché fondata sul diritto di uguaglianza
che gli abitanti, siano bianchi, neri o gialli, si trasmettono l’uno con l’altro. Per
me, invece, non sono paesi democratici
né la Cina né la Francia. L’Italia è diventato un posto complicato del quale non
capisco più nulla e di cui non so valutare
il grado di democrazia, posso dire di essere perlomeno sospettoso sull’aria che
tira da voi».
Di solito si parte o si resta per un amo-
nanzi. La prima immagine è quella di Catanzaro, la città in cui è nato nel ‘14: «Mio
padre era ligure, di Imperia, ingegnere
del genio civile, un esperto di cemento
armato, fu chiamato in Calabria dopo il
terremoto». Genova e Torino: «Ancora
dietro a papà, che si trovò impiegato in
una fabbrica di proiettili. A Torino presi
la laurea in medicina nel ‘36, discutendo
con Giuseppe Levi una tesi di anatomia
patologica. Ricordo Torino come una
città simpatica». La guerra: «Fui richiamato come ufficiale medico, il mio reggimento stava a Sanremo. Ci spedirono
in Russia, fronte del Don, io ero a capo
del servizio sanitario. Tra le mie braccia
posso dire che ho visto morire decine di
ragazzi, sono tornati a casa solo il venti
per cento di noi. Arrivavano in condizioni disperate, spesso fatti a pezzi, sangue
ovunque, pance squarciate, ferite orribili. Qualcuno mormorava tra le lacrime,
“non rivedrò più i miei figli”, e io gli dicevo “ti opereremo subito, ce la farai”, ma
sapevo che non c’era proprio niente da
fare. Una mattina sono caduto sul ghiaccio, mi sono rotto una spalla. E mi sono
salvato». Il nazismo: «Credo fosse l’inverno del ‘41, ero su un treno che attraversava la Polonia, appena fuori Varsavia il convoglio si fermò nei pressi di un
groviglio di binari. Noi soldati scendemmo, vidi un gruppo di persone vestite di
nero con una macchia gialla sulla schiena che stavano lavorando sulla ferrovia.
Non sapevo nulla, chiesi a un soldato tedesco, mi rispose ridendo: sono ebrei,
quando hanno finito qui kaputt. Quel
giorno cambiò la mia vita, decisi che non
avrei più avuto nulla a che fare con il regime fascista. Una volta rientrato in Italia sono diventato il medico dei partigiani che combattevano sulle montagne di
Cuneo». L’impegno politico e la ricerca:
«A Torino entrai nel partito dei lavoratori cristiani portato da Giacomo Mottura,
diventai membro del Cln, ma compresi
subito che la politica non era il mio mestiere. A me interessava la ricerca sui geni. La intendevo e l’ho sempre intesa come l’opportunità di giocare attorno a un
grande mistero, una cosa affascinante e
divertente. Nel ‘47 lasciai l’Italia per l’università di Bloomigton, nell’Indiana.
Mi chiamò Salvatore Luria. Cominciai a
studiare nei fagi, i virus batteriofagi, i
meccanismi cellulari che riparano il Dna
quando è danneggiato da radiazioni».
Un giorno la moglie di un amico e collega si ammalò di tumore al seno. Morì.
Era il 1960. Da allora Dulbecco si è dedicato quasi esclusivamente alla battaglia
contro il cancro. Ancora sui geni, sulle
staminali, là dove il male si manifesta per
colpire a tradimento. Un percorso compiuto in silenzio che lo portò prima al
Nobel — con David Baltimore e Howard
Temin — e nell’86 a impegnare la comunità scientifica mondiale nel progetto
Genoma con un intervento alla conferenza di Cold Spring Harbor che suscitò
le perplessità della maggioranza di medici e scienziati. «Alcuni pensarono fossi
impazzito. Oggi tutti mi chiedono: scon-
figgeremo il cancro? La mia risposta è:
dipende. La verità risiede nelle cellule
staminali, ma su di esse sappiamo ancora troppo poco. Quando avremo la conoscenza saremo vicini alla vittoria, ma
la strada della conoscenza è lunghissima, in alcuni campi infinita». Il gioco di
Renato Dulbecco è destinato a continuare, come vuole lui, senza aloni romantici, senza filosofia: «Io sono uno
scienziato di base. C’è un problema, io
cerco una soluzione, e se la trovo non mi
preoccupo della sua applicazione. È un
compito che spetterà ad altri. Quando
sono in un laboratorio penso soltanto
che sto lavorando per la scienza, non per
l’uomo. Se poi qualcuno mi fa notare che
il mio possibile contributo è rivolto anche al bene dell’umanità, ne sono ben felice».
Dulbecco legge soltanto libri scientifici, non va mai al cinema perché se la storia è bella ne viene letteralmente rapito e
la cosa gli mette l’ansia. Suona il pianoforte, soprattutto Bach — «raffinato e
poliedrico» —, pochissimo Mozart —
«troppo monotono». Il suo mito è Arturo
Benedetti Michelangeli. Come Samuel
Beckett crede di essere poco portato per
la felicità. Piange a tutte le feste e a tutte
le opere di Puccini: «Soprattutto alla Tosca, lacrime inarrestabili e tanta vergogna di fronte agli sguardi stupefatti dei
vicini». Da ragazzo era tifoso del Genoa,
oggi passa ore davanti al televisore per il
tennis di Agassi e Federer, ma soprattutto per quello delle donne: «Bellissime e
eleganti. Sembrano volare sulla terra
rossa». Si alza. È un po’ lento ma anche
lui elegante. Si avvicina alla finestra e
guarda il lago che pare cucinare la nebbia. Dice: «Sa che cosa desidero fare più
di tutto? Leggere e studiare, stare con
mia moglie e con mia figlia. Non ho più
conti in sospeso con nessuno». Neanche
con dio. «Non sono credente. Da bambino sono stato educato nell’ambito della
Chiesa cattolica, ma quando sono cresciuto mi sono separato da essa come da
qualunque altra religione». La scienza
non ha dio. Lui mi corregge: «La scienza
ha delle regole. Ma sono le regole della
natura e dell’uomo, non della Chiesa».
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DARIO CRESTO-DINA
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