...

1 1961 Era ora di alzare dal letto la vecchietta e metterla sulla poltro

by user

on
Category: Documents
8

views

Report

Comments

Transcript

1 1961 Era ora di alzare dal letto la vecchietta e metterla sulla poltro
1
1961
Era ora di alzare dal letto la vecchietta e metterla sulla poltrona, per poi spingerla alla finestra dove di solito, il pomeriggio,
passava tre ore a guardare il parco della vicina casa di riposo.
Era un parco piccolo e trascurato, e a prima vista offriva ben
poco che fosse degno di nota. Sulle orribili e modernissime panche di plastica turchese, a destra e a sinistra dell’olmo, sedevano
due delle quattro sorelle Lamberti, intente a dar da mangiare alle
cinciallegre con pinoli sbriciolati. Gli uccellini impazzivano per
quelle primizie, saltellando avanti e indietro, agitati, tra aster abbandonati al loro destino, per poi posarsi sulle proprie mani, se
solo si aveva la pazienza di aspettare a sufficienza.
Maria Anna ricordò di aver acchiappato, una volta, un uccellino proprio a quel modo, allora si era trattato di un normalissimo
passero, e in quel momento la sua mano si mise a imitare come
l’aveva preso in mano, aveva dovuto essere veloce, e mentre osservava il tanto bizzarro quanto pittoresco quartetto delle sorelle
Lamberti, si sorprese a nutrire del rancore nei loro confronti. Ci
vuole coraggio a chiudere le dita attorno a un uccellino agitato,
ma quello non si difende, inerme, lo si può restare a guardare, ci
si può quasi parlare, gli si può dire in faccia, magari, una parola
conciliante, o frivola, lui se la piglierà e alla fine volerà via grato:
quelle stupide delle sorelle Lamberti non immaginavano quanto
tempo si potesse ingannare, con quel giochino.
Tutte avevano i malleoli dei piedi secchi come manici di scopa.
E soprattutto – scena grottesca – vedere quattro sorelle, tutte
ultraottantenni, lasciarsi spegnere in una stessa casa di riposo,
come se la morte, l’amore o l’avventura non si fossero mai interessate a nessuna di loro – possibile? Doveva essere un record.
Possono mai quattro vite essere così ugualmente banali, e trascorrere senza scocciature, per arrivare infine nello stesso, angusto spazio? Tutte si erano sposate, tutte erano rimaste vedove, no,
non sembrava poi così inusuale la cosa, perché, d’altronde?
Quasi tutti i torinesi amano la propria città e vi rimangono legati.
7
La maggior parte dei torinesi muore prima di compiere settantacinque anni, la maggior parte delle torinesi, a meno che non fumino o siano sfortunate, sopravvivono ai propri mariti, talvolta resta
soltanto questo: quattro ragazze vecchissime, trascurate dalla vita al
punto che ora, godendo ancora di perfetta salute, se ne stanno a dar
da mangiare alle cinciallegre. Ma… a che scopo? La domanda era
lecita. Dio consentiva ogni domanda. Di risposte ne dava raramente, al massimo qualche segno. Quanto avrei voluto starmene seduta
laggiù, tra le sorelle Lamberti, potermi unire a loro, fosse solo per
dirgli quanto fossero mediocri, nel non chiedere nulla nemmeno
agli uccelli. Dio, sto diventando strana, sto lavorando troppo d’immaginazione?
Cinciallegre saltellanti tra vecchie donne mummificate. Maria
Anna si mise a cercare un po’ di musica alla radio. La maggior parte
dei canali, il pomeriggio, trasmettevano soltanto scialbe canzonette
di successo, oppure puro rumore.
Così spesso, i pomeriggi, allora, risuonava la musica di LUI, e lei
spegneva, quella musica era troppo per le sue orecchie. Perché LUI
le aveva baciato tutto il corpo, dalla testa ai piedi, senza eccezioni.
Più delle cinciallegre le piacevano i corvi – o forse si chiamavano
taccole? – quegli uccelli i cui saltelli sembravano sempre un po’ storditi e che quando atterravano dovevano aggiustarsi in continuazione
con minuscoli movimenti del corpo. I becchi semiaperti, le ali quasi
chiuse, quelle cornacchie nerogrigie – dovevano essere di sicuro corvidi, che fossero taccole o no – trasmettevano un gusto per la vita che
talvolta rasentava lo scherno, ma mai la spavalderia. Si trattava, però,
soltanto di una sua interpretazione, e Maria Anna, la cui mente era
ancora limpida (e lei ne era apoditticamente orgogliosa), provò un
po’ di fastidio nel dover attribuire sentimenti alle cornacchie, mentre in realtà quelle si limitavano a lottare per il territorio e a cercare
cibo o, nel migliore dei casi, a dedicarsi alle danze che fungevano da
preliminari nella stagione degli amori.
Per un istante, per un prezioso istante, il giorno prima era stata
assediata dalla voglia di raccontare tutto al suo Pancrazio. Giusto
per vedere come avrebbe reagito. Più tardi avrebbe potuto dirgli
8
che era uno scherzo. Si sarebbe ingelosito ancora, dopo tanti
decenni, si sarebbe infuriato, lui non aveva mai chiesto perché la
loro prima notte di nozze non c’era stata nemmeno una goccia di
sangue. E non gli ha mai dovuto raccontare la storia della caduta
da cavallo, che aveva preparato per l’evenienza.
In gioventù si fanno errori, è per questo che esiste, la gioventù. Quando, nel 1911, scoppiò la guerra in Libia, a protestare
fu soltanto il socialista e pacifista Mussolini. Questo se lo sono
scordati quasi tutti. L’uomo è mutevole.
Lei esitò, cercò di mettere in ordine i pensieri e guardò le cornacchie (o forse corvi? O taccole?) che saltellavano.
Il contratto non è più valido dal punto di vista giuridico. Sono
tutti morti da tempo. Intanto io potrei raccontare tutto, non mi
succederebbe nulla. Ma a che scopo? Per la mia vanità? Dio mi
perdoni, ma sono vanitosa. La mia vanità è un pupazzo a molla
imprigionato nella volta cranica, e raschia il coperchio perché
vuole balzar fuori. E io… tengo chiusa la sua bara. Non c’è più
niente che possa servire. Che Dio, alla fine, mi liberi con la morte
dalla mia vanità. Allora Maria Anna, un po’ per smania di mettersi in luce, un po’ per riguardo, partorì un pensiero. Poteva
scrivere una lettera e depositarla presso un notaio. Il notaio, un
giorno, tra molti anni, dopo la morte di suo marito e dei suoi due
figli, avrebbe mandato la lettera a «La Stampa».
Però… quel pensiero, all’improvviso, perse ogni gusto. Il fatto
che a saperlo sarebbe stata l’umanità, e non solo suo marito e
i figli, no, questo non poteva farlo, avrebbe significato… ebbe
qualche difficoltà a pensare alle possibili conseguenze.
Tuttavia, e non era la prima volta, prese il blocco degli appunti
e la matita dal davanzale, poi abbozzò una lettera. La scrisse, la
stracciò e la buttò. Quante volte era successo.
Di certo sarebbe coerente portare nella mia tomba,
mettere al sicuro per sempre, chiudere sotto due metri
di terra e un coperchio di legno di quercia quel che da
quasi sessant’anni mi appesantisce l’anima. Ho accettato la mia sconfitta, allora come oggi, l’ho presa su di
me, ho taciuto, ho sofferto per amor mio e della mia
famiglia, ho stretto i denti e come per miracolo tutti
9
quelli che sapevano, ed erano parecchi, hanno mantenuto il silenzio, e a poco a poco sono morti fino a lasciare,
da ultimo, solo me e il mio segreto, rovine di un tempo
lontano, oggi già quasi inimmaginabile.
Un po’ patetico, ma quando era ragazza era stato tutto reale, e
poi non è più grave del discorso di un avvocato difensore davanti
alla corte penale.
Per quanto in relazione a questi fatti, non sia mai stato
fatto il mio nome, semplicemente perché il mio nome non
lo conoscevano, oggi si parla di me, l’innominata, come di
una persona malvagia, di una strega, e mi premerebbe molto
raccontare, correggere tante cose, difendermi.
La mia vita sarebbe potuta andare in maniera del tutto diversa, e l’avrebbe fatto, se all’autista Guido Barsuglia non si
fossero chiusi gli occhi dalla stanchezza in coincidenza di
una curva. Incredibile, quali minuzie bastano a cambiare da
cima a fondo la storia di tante vite. È tutto spaventosamente banale, ma davvero impressionante proprio per via della
sua banalità. Almeno penso. Quando camminavo ancora, un
giorno, sono andata in treno a Torre, era il 1938, al cimitero
ho rivisto vecchi conoscenti di una volta: Ferro, l’impomatato, il pittore, ormai, di sicuro, non porterà più i baffi, e la
povera Doria, a cui una volta ho scritto. Purtroppo non l’ho
mai incontrata di persona.
È strano passeggiare così, tra le lapidi. Alla villa non sono
stata, non volevo andarci da turista, una volta ci entrai per
una lunga notte di desiderio, certo che ci entrai, alla villa, è
stato quasi nel secolo scorso, ma non so bene come sia oggi.
Probabilmente hanno lasciato tutto com’era. È diventata un
museo. E io… preferisco passeggiare in una vetrina, piuttosto che sotto terra, no?
Eh, ci sono alcune voci dentro la mia testa che dicono:
non fare del male a nessuno, è troppo tardi, sei stata tradita
e hai rimosso tutto quanto, accettalo. E il tuo segreto, non
condividerlo con nessuno, appartiene soltanto a te, tutto il
resto viene dall’orgoglio. Ma se la cosa più grande della mia
vita…
10
Arrivata ai puntini di sospensione, come se un legame arcano
si legasse a qualcosa di più elevato, e nello stesso tempo a qualcosa di trascorso da lungo tempo, Maria Anna smise di scrivere e
diede un lieve sospiro. La matita le cadde di mano, e quando colpì un bracciolo della poltrona quel rumore, quel ticchettio acuto
del legno che sbatte, fu l’ultimo suono che Maria Anna, nella sua
vita, fu in grado di provocare. Il marito Pancrazio, funzionario
in pensione, che era stato tutto il pomeriggio a pescare al fiume,
senza prendere nulla, la trovò morta verso le diciassette. Essendo troppo debole per portarla a letto, aprì la finestra e chiamò
il vicino perché venisse ad aiutarlo. Quindi bevve una bottiglia
di birra. In fondo Maria era stata una buona moglie. Era valsa
la pena amarla. Cercò di non pensare al fatto che avesse tenuto
qualcosa per sé e che avesse sempre trattato lui, il suo sposo davanti a Dio, in maniera un po’ sprezzante, e a tutta la sofferenza
che ne era derivata, come se quel pensiero non fosse adeguato
al momento.
La vista di Pancrazio era diminuita molto, negli ultimi anni.
Quel foglietto a righe, scritto fitto, sul davanzale della finestra,
finì prima nel cestino della carta e poi, con uno sbuffo violento,
quasi ci fosse qualcosa che lo spingesse a farlo, il vecchio lo riprese su. Uno degli uomini dell’impresa funebre, un giovane di
nemmeno diciott’anni, su sua richiesta, decifrò con grande fatica
la prima frase, di certo sarebbe coerente portare nella mia tomba, mettere
al sicuro per sempre, chiudere sotto due metri di terra e un coperchio di legno
di quercia quel che da quasi sessant’anni mi appesantisce l’anima.
Stranamente toccato dal tono di quelle righe, il giovane, invece
di continuare a leggere, chiuse gli occhi. Evidentemente si trattava di cose che non lo riguardavano.
Pancrazio gli prese di mano il foglietto. Un coperchio di legno
di quercia? Era tanto per dire. Semplici discorsi. Va bene, lui
aveva sempre saputo ogni cosa, come avrebbe potuto accettarla,
se così non fosse stato? Lei aveva sempre conservato l’ultima
lettera di lui, era nell’armadio della biancheria, nascosta tra le
coperte. Il giovane non capì una parola, ma non si azzardò a fare
domande sul significato di quel che leggeva. Pancrazio baciò la
11
morta sulle labbra e pregò il ragazzo di fare un buon lavoro, cosa
che il giovane promise in silenzio, con un semplice cenno del
capo. Più tardi, dopo aver bevuto un altro po’ di birra, dopo le
prime tre ore di estrema solitudine, il vecchio andò all’armadio
della biancheria e tirò fuori la lettera dal suo nascondiglio.
Ti prego, sii ragionevole. Non tratterò con te per mezzo
di intermediari legali. Come puoi esser caduta così in basso da passare ad altri le mie lettere? Eventualmente avrei
trattato direttamente con te. Dobbiamo trovare un accordo. Se vuoi, puoi rovinarci. Ma a che scopo? Hai ancora
tutta una vita davanti.
Ora che tuo padre è stato condannato ti crederanno in
pochi, ma non m’importa di farti del male. Usciamo da
questa faccenda entrambi a testa alta. Pensa ai bei momenti che abbiamo passato. G.
Pancrazio bruciò la lettera, anche se in un primo momento
pensò di metterla nella bara della moglie defunta. Solo il pensiero che ciò potesse sembrare un rimprovero a lei lo distolse subito dall’idea. Ma mentre quella carta macchiata e già ingiallita bruciava, sentì un enorme senso di liberazione, proprio come allora,
quando i giornali avevano annunciato che G. era morto. Maria,
quel giorno, aveva pianto, cercando di nascondergli le lacrime.
Ora nessuno avrebbe mai più immaginato… no, era una storia
chiusa, morta, e non solo lei, anche tutto questo. Meglio così.
2
1904
Con ampie e caute remate, quasi silenziose, il cacciatore conduce la barca nelle acque più profonde. È la fine di un novembre
fresco e senza vento e, mentre nei pressi della riva si dissolvono
i resti di una nebbia informe, il canneto rugiadoso si mette su il
12
primo strato di brillantina, con una vanità femminile e allo stesso
tempo discreta, come se in quel momento non si possa e non si
debba osare null’altro. Dalla prua della barca i cerchi vanno disperdendosi nel lago, fugaci corrugamenti in un campo di gioco,
altrimenti immoto, di raggi di sole improvvisi, di serpenti di rame
che continuano, uno dopo l’altro, a trasformarsi in fili d’oro.
Si rischiara il mattino sul lago di Massaciuccoli. Fioriscono il
rosa e il rosso, le ombre si staccano dalle cose. La villa sulla lingua
di terra comincia a illuminarsi, come le montagne, lontane, sullo sfondo, presto diverrà visibile, all’orizzonte, il borgo, non più
di dodici case immerse nella foschia. Un’anatra si alza in volo. Il
cacciatore solleva il fucile e preme il grilletto. Lo sparo squarcia
il silenzio, e anche l’anatra, e quel silenzio squarciato, invece di
rinserrarsi, di riappiattirsi, schiacciato dall’imperturbabilità e dalla
discrezione, torna a dissolversi perché nei secondi seguenti, dal
canneto, si alzano altre venti anatre. Il cacciatore spara la seconda cartuccia a pallini, estrae dal cinturone un revolver e fa fuoco,
fino a scaricarlo. Eccitato, lo ricarica, afferra i remi, che ora schiaffeggiano l’acqua rumoreggiando. Ecco che sul lago cominciano i
luccichii, i riflessi cangianti, e tra i giunchi hanno inizio i pigolii e
i cinguettii.
Il cacciatore afferra quelle piume morte, raccoglie la propria
preda.
Una delle anatre, che galleggia riversa sull’acqua, ha un’aria quasi umana, è un’impressione strana, muove ancora le ali, lentissima,
con le ultime forze. La parte più bella del giorno se ne va.
Il cacciatore. Uomo prestante, non troppo alto, alla soglia dei
quarantasei anni, ha le tempie appena imbiancate, i baffi curati e
occhi castani sempre un po’ assonnati, o tristi. Indossa una specie
di divisa da soldato color sabbia, di fustagno, la gamba destra allungata, torce il collo all’anatra e si accende una sigaretta. A lungo
il suo sguardo si posa sul lago scintillante, per poi vagare verso la
barca a motore sul pontile, verso il giardino della villa, dove due
donne di servizio tolgono la biancheria dalle corde. Puccini infila
le anatre in un sacco di paglia e rema verso la riva. Là ci sono due
ragazzi ad aspettarlo, che lo aiutano a scendere dalla barca. Non
si fida a stare in piedi, con le stampelle, su un terreno traballante.
Tra poco pioverà.
13
3
1924
Quasi lo stesso giorno di vent’anni dopo. Risveglio. Primo
pensiero: può essere l’ultima volta che mi sveglio. Ledoux ha definito l’operazione relativamente semplice, ma i medici devono
dire così, e poi relativamente è una parola terribile, io ho una sensazione terribile, non posso parlare, incatenato a questi marchingegni. L’opera! Se esiste un Dio, che mi lasci finire di scrivere, ma
purtroppo non esiste, come non esiste l’inferno. Probabilmente
non esiste nulla. Nulla. Che sia meglio così?
Il malato, che rantola un po’ per via del respiratore artificiale
che ha in gola, cerca di rialzarsi, poi si guarda intorno. La clinica
di Bruxelles gode di un’ottima reputazione, come sottolineano
una frase sì e una frase no le lettere che arrivano. Sybil è venuta
e ha fatto fatica a guardarmi, poi è tornata a Londra, una visita
breve, giusto per darmi fiducia. Certo, deve occuparsi del suo
Esmond, che è malato, dice lei, e fa le acrobazie per minimizzare
la mia faccenda. Con il modo di fare tutto suo, pieno di tatto.
Ed Elvira non può venire, ha l’influenza. Ma sì, ecco come va
a finire la gloria mundi. Ma l’opera? L’intero finale ce l’ho pronto
in testa, come fosse una suppurazione del seno frontale che non
vuole uscire.
La stanza gigantesca, con il pavimento di travertino, dà un
senso di malaticcio, quasi come una corsia del reparto di medicina. Nella luce, tonalità scontrose di marrone e giallo. Veneziane
di stoffa alle finestre. Quanti fiori, nell’anticamera.
Entra il dottor Ledoux. Toglie al paziente matita e foglio dalle
mani. Puccini scuote energicamente il capo, ma alla fine cede.
Difficile che qualcuno sia riuscito a leggere i suoi scarabocchi, ancora quando stava bene. Tra gli illustri colleghi soltanto Beethoven
14
aveva una calligrafia così «indomita», come ha detto un bonario ma
non meno disperato compositore, con tutta la cortesia che aveva in
serbo. (La casa editrice Ricordi si concede di pagare un impiegato,
Carlo Chiusuri, il quale non fa altro che decifrare le partiture di
Puccini).
«State con animo buono!».
Il dottor Ledoux parla un pessimo italiano; Giacomo capisce
che deve avere un animo buono. Ce l’ho. A dire il vero. Spesso a mie
spese.
Il medico sente il polso al paziente. Ascolta con uno stetoscopio
gelido il suo battito cardiaco. Puccini si distende, sprofondando nel
cuscino.
«Sembra tutto buono» afferma Ledoux con quel sorriso da medico che più a sud potrebbe corrispondere a una lacrima da coccodrillo.
«Tra un’ora» dice, «mettiamo l’iniezione. L’operazione poi alle
cinque».
Puccini prende il blocco e scrive Tonio.
Il dottor Ledoux fa un cenno con la testa. È rivolto a un’infermiera, che deve lavare il paziente. È la più carina della clinica.
Andra tutto liscio, papà.
Tonio ha trentasette anni. Dio mio, pensa Puccini, avere trentasette anni e stare bene, quale grazia. Avrei dovuto fare di più. E
comunque un pochino ho pur sempre fatto e bisognerebbe essere
abbastanza contenti di essere arrivati quasi a sessantasei anni. Non
andrà liscio niente. Tonio promette troppo, ormai. Non ha mai fatto tutte queste promesse, ma va bene, è così che va, tale padre, tale
figlio.
Puccini indica i fogli di appunti sul finale della Turandot, vorrebbe
prenderli.
«Li ho già guardati. Sono grandiosi!» tuba Tonio, pur sapendo
che il proprio giudizio conta poco, anzi niente. Sa a malapena leggere le note e parla come si parla ai malati, come fossero bambini.
Puccini muove le labbra: Tropposcuro!
Tonio va alla finestra, alza a metà una veneziana. Penetra una
luce accecante, da lontano si sente il rumore della strada.
15
Puccini dà un rantolo. Cerca di sorridere. Troppo scuro. Farò
mica come Goethe? Saranno queste le mie ultime parole?
Ora mi piacerebbe dirti qualcosa, figlio mio. Non posso dirlo,
a malapena riesco a esprimerlo in pensieri, e non è più tempo di
scrivere. Ma ricordo un mattino, quando sarà stato, vent’anni fa,
sparavo alle anatre e osservavo il giorno che sorgeva in tutta la
sua indifferenza, sul lago di Massaciuccoli. Tutta la notte, cosa
che gli artisti non dovrebbero fare, avevo rielaborato un lavoro
vecchissimo, il mio secondogenito, perché a Buenos Aires non
apparisse come un primogenito ripudiato, ero annebbiato e soffocato dalla rabbia, perché mi sentivo perseguitato, tradito dai miei
stessi amici e innamoratissimo, innamorato senza via di scampo,
ma queste sono altre storie, venivo da Londra, da Parigi, andai a
Genova per assicurarmi della mia buona stella, del mio successo, come un maniaco, che vita, allora, nove rappresentazioni e
ancora tremila persone che ti portavano su un palmo di mano,
la tappa successiva sarebbe stata Roma: l’avvocato dell’editore,
Campanari, mi aveva convinto che fosse una buona idea e che
avrei dovuto inserirlo nel programma di appuntamenti, e là, alla
fine, ti ho legittimato, figlio mio illegittimo, tante volte hai chiesto: Perché così tardi? Non so dare risposta che possa suonare credibile. L’ebbrezza. Tutto quel vivere. Così poco tempo. E troppo
poco morire. Doveva prima crepare l’ex marito di Elvira perché
potessi, dopo vent’anni, sposare tua madre. Lo si potrebbe dire
in un altro modo: lui poteva crepare… e io dovevo sgobbare. Il
vecchio Ricordi mi metteva addosso una pressione tale, per via
di Cori, che una volta mi piacerebbe molto raccontarti di lei, in
maniera più dettagliata, non solo le cose che già sai. Tutte quelle
bugie. Io, certo, ero a letto con le ossa fracassate, esposto alla
perfidia senza difesa alcuna. Tutti mi mettevano pressione, si accoccolavano sul mio petto, mi sbraitavano, mi sussurravano che
dovevo mollare Cori, neanche fosse stata una scorreggia. Fuori
l’aria cattiva! Un esorcismo sotto forma di assistenza a un malato! Perché? Perché è successo tutto questo? Ma sto divagando,
mescolando le storie. Cos’è che volevo raccontare? Che mi sono
seduto, quel giorno piovoso di novembre, a scrivere una cosina
da dieci minuti, un requiem per il quarto anniversario della morte
16
di Verdi, come per pagare un debito di gratitudine, allora l’ho fatto, un po’ controvoglia, come spinto da un obbligo interiore, un
lavoro semplice per organo, viola e coro. La melodia della viola era
quella di un’anatra morente. A dire il vero. Per mio desiderio non è
mai stata eseguita in pubblico, tranne una volta, alla messa funebre
nella cappella della casa di riposo, l’hanno ascoltata i cinquanta
ospiti, anzi abitanti, dell’ospizio, e a loro, credo, è piaciuta, ora,
dopo vent’anni, di sicuro saranno tutti morti, stramorti, non c’è
più nessun testimone, sarebbe piaciuto anche a me, come Verdi,
fondare un ospizio di quel genere per musicisti, e avrei anche potuto farlo, ma non mi piace nulla di quel che riguarda la vecchiaia,
e non ho avuto tempo, ho sperperato tanti di quei soldi, tanto
di quel tempo, infantilmente, egoisticamente, e anche avaramente,
tua madre mi rimproverava per l’avarizia, lei aveva sempre abbastanza vestiti, figlio mio, ma il requiem, comunque… un pezzo
conciso, molto semplice, in fondo, ma di grandissimo effetto, una
delle migliori opere che non ho scritto per il palcoscenico. Allora
ero furioso, sono andato a caccia con il revolver che mi ha regalato un granduca francese, con un revolver, cosa che un bravo
cacciatore non dovrebbe mai fare, ma non importava. Perlomeno
alle anatre non importava. Certo. E oggi penso, quella melodia
in re minore che mi annotavo in mente mentre infilavo le anatre
morte in un sacco, sai, nelle ultime settimane ho scritto la musica
mortuaria per la Liù, niente male, davvero niente male, quella volta
però ho scritto la musica per il mio funerale e, generosamente, l’ho
regalata a Verdi, per non fare la figura dell’ingrato, o dell’indiscreto, ah, Mozart ebbe fortuna, scrisse il suo requiem e poté tenerselo
per sé, morendo mentre lo scriveva, sarò forse invidioso? No, non
è invidia né avarizia… non capiresti, mio caro e mediocre figlio, ti
ringrazio infine di tutto cuore per la tua mediocrità. Cosa non voglio dire? Nessuno saprà mai quanto ho sofferto, tranne io, l’uomo
che tutti chiamano fortunato, prediletto dagli dèi. Ho sparato alle
anatre, e comunque volevo sparare a me stesso… Dio sa quante
volte ci ho pensato, e qualche volta ho tenuto anche il dito sul
grilletto. Questa mattina, la melodia, la luce. La speranza. Tutta la
mia musica: Turandot… non importa per chi e perché… dobbiamo
già iniziare?
17
Ledoux mette l’iniezione. Con il sorriso da medico.
«State con animo buono!»
Con quanta semplicità se ne va lo splendore.
Voglio…
4
1902
«Puccini» dice Tito, con il veleno nella voce, «è il classico caso
di artista che ha avuto troppo e troppo presto. È una situazione
che non ha mai fatto bene a nessuno, annienterebbe quasi chiunque. Ora lui, certo, non è ancora del tutto distrutto, ma consumato sì, logorato. Cuoce nel proprio brodo. Questo è chiaro».
Giulio fa il meravigliato. Ah, è chiaro? Però, però… Perché
parla così di lui? Perché?
La casa editrice Ricordi di Milano, accumulata una leggendaria
ricchezza grazie alle opere di Rossini e Verdi, e ampliata questa
ulteriormente dai successi pucciniani di Manon Lescaut, La Bohème
e Tosca, non doveva essere, dal punto di vista economico, un luogo di eccessive preoccupazioni né di sinistri presagi. Proprio no.
Giulio Ricordi, uomo intelligente e dall’aria dignitosissima,
si avvicina lentamente ai settant’anni. Nell’aspetto del vecchio
Verdi, l’amico morto da poco, intenzionalmente non dissimile,
riesce a ripercorrere una vita altrettanto ricca di successi. La sua
casa editrice ha praticamente il monopolio, in Italia; solo quelli
che vengono rifiutati da lui cercano rifugio da Sonzogno, ricevendo per sempre il marchio di autori di seconda classe.
Eppure, Giulio è stato educato alla paura e alla prudenza. Suo
padre gli ha inculcato nell’anima, sulla base di una cultura umanistica, il modello del tramontato Impero romano quale la più
tremenda catastrofe che abbia mai coinvolto la civiltà umana,
18
e da allora Giulio non può che osservare il Regno d’Italia del
tempo come una vaga ombra dell’antico impero, costantemente
in attesa di nuovi segni di prevaricazione e decadenza. Nel suo
ufficio, un piccolo salone di gala, decorato con arazzi di velluto
rosso e busti che riproducono i dodici imperatori, quintessenze
del potere e del declino, è seduto davanti a lui suo figlio Tito,
quasi quarantenne, l’erede designato: presto la conversazione
raggiunge il culmine.
Non si tratta di lui, papà. Si tratta… è una cosa eccezionale,
davvero, no? Di me. E della casa editrice Ricordi. Se un giorno
dovrò prendere in mano la nostra azienda, perdonami se parlo
così chiaro…
Ah, questo è un parlare più che chiaro!
Non voglio andarmene a vendere roba di compositori strasuperati. Ho bisogno di forze giovani. Le mie scoperte. Invece tu
distruggi ogni talento che ti porto con un’alzata di spalle.
Giulio non sembra convinto. I talenti, pensa lui con presunzione, che si lasciano distruggere da un’alzata di spalle non dovrebbero di per se stessi valere poi molto.
Tito, uomo ormai quasi calvo e dal fisico esuberante, insorge
sbuffando. Questa Butterfly, tutti ci scommetterebbero, sarà un
disastro. Qualsiasi ragione umana sana potrebbe prevederlo.
Vuole forse dire che io non sono più sano di mente? Quanto
è arrabbiato. Giulio piega il dito davanti al labbro inferiore, ma
evita di interrompere il figlio.
Una solfa esotica, brutale, priva di gusto, dalla lunghezza che
straborda gli argini della sopportazione. Sentimentale e scurrile.
Puccini è diventato pigro, vanitoso, non è più affamato. Un galletto libidinoso e bramoso di piaceri, egocentrico, ipocondriaco, depresso, lamentoso.
Segue qualche altro aggettivo, nessuno dei quali è migliore di
galletto libidinoso e bramoso di piaceri. Giulio lascia che il figlio
sfoghi la propria rabbia fino a placarsi.
C’è già qualcosa di vero, Giacomo dovrebbe una buona volta
scrivere una grande opera seria, dal soggetto elevato, che si elevi
19
sopra ogni dubbio, pensa, un’opera dalla dimensione storica e
dalla potenza tragica, senza quegli ornamenti ipermoderni, da
fumatore di hashish. E senza trucchi esaltanti. Maria Antonietta,
la regina infelice, sarebbe stata una materia adatta.
Non hai niente da dire, papà?
Giulio alza lo sguardo e si accorge, con sollievo, che Tito si è
fermato. Il vecchio strizza l’occhio con furbizia ed elenca tutti i
teatri d’opera che avrebbero già dimostrato un grandissimo interesse per la Butterfly. Buenos Aires, Londra, Roma.
Quelli prenoterebbero pure un sacco pieno di gatti morti.
Notando che il padre reagisce irritato, scuote il capo e aggrotta leggermente, leggerissimamente le sopracciglia, Tito torna sui
suoi passi. Lo ammetto: da Puccini c’è ancora qualcosa da prendere, ammesso che si dia una controllata e poi, soltanto poi, forse ci
si potrebbe aspettare qualcosa. È già abbastanza grave che non sia
sposato con la madre dei suoi figli: a questo il Paese, in tutti questi
anni, si è faticosamente abituato, ma ecco arrivare lo scandalo, anzi
il terremoto, in casa, e quando si saprà che se la fa con una mezza
puttana, con una villana di cui si è invaghito… Questa relazione
dev’essere troncata, con ogni mezzo. Quest’ambigua puttanella è
una cisterna di benzina, una vampira di talenti, gli toglie tutta la
forza che dovrebbe usare per lavorare.
Giulio annuisce. La cosa è giunta anche alle sue orecchie, e da un
pezzo. Benché sia una voce di seconda mano, Illica gli ha raccontato che Giacomo, nelle sue lettere, si è vantato di aver avuto sette
rapporti sessuali di fila. Ma sì. Naturalmente capisco un uomo di
mezz’età che cerca ispirazione sessuale...
Tito si spaventa. Suo padre non ha mai pronunciato quella parola in sua presenza: «sessuale», in nessuna situazione. La cosa lo
infastidisce un po’, no, lo infastidisce molto, ma allo stesso tempo
percepisce, ancora troppo sorpreso per rallegrarsene in maniera
adeguata, che quello è una sorta di premio paterno, e riguardo, poi,
al tema più scabroso, per una conversazione. Imbarazzato, per non
dire confuso, resta ad ascoltare le conclusioni del padre.
20
Giacomo, stavolta, ha mancato di qualsiasi discrezione, il legame con Elvira è naufragato. Se la cosa trapelasse, la reazione della
stampa sarebbe devastante, a prescindere dai meriti accumulati dal
suo genio. Sette volte – un’impresa più che considerevole, la si può
festeggiare, certo, ma di queste cose non ci si dovrebbe vantare.
Ti prego, papà, “genio” è una parola così inflazionata, sussurra
Tito, rossissimo in volto, che vorrebbe abbandonare l’argomento,
allora si mette a nominare alcune nuove promesse, cui si preannuncia un gran futuro, sempre che si leghino all’editore giusto.
Giulio alza le spalle.
5
1903
Come ci sforziamo, noi poveri umani, di creare qualcosa che ci faccia
apparire artisti importanti, degni d’essere eternati. E quale terribile lotta
conduciamo, alla ricerca di quest’apparente via verso le stelle che, se tutto
andrà bene, ci donerà glorie e benesseri fugaci, farà piacere a qualcun altro
e, nel migliore dei casi, porterà un nonnulla di ragione nella piccolezza della
nostra esistenza. Eppure siamo proprio quelli che siamo, nati con difetti
estranei alla nostra responsabilità e, a differenza delle bestie, costretti a
vincere i più malvagi dei tiranni: la certezza di morire e la noia.
Vi sono diverse strategie per alleviare un’esistenza simile. Alcuni accumulano giocattoli, altri denaro, altri ancora amori, alcuni fanatici rimangono unicamente in quel mondo lontano che è l’arte, dove negano il proprio
corpo e il proprio candore, e si fanno monaci, per una sorta di rivolta pseudoreligiosa contro Dio, un Dio che essi vogliono correggere e sostituire, dedicando proprio a lui, ipocritamente, i frutti del loro lavoro. Quant’è ridicolo
tutto ciò, eppure così necessario… Io, da parte mia, sfrutto ogni strategia a
mia disposizione. È un gesto che ai miei occhi appare del tutto naturale e
ragionevole. E ogni donna con cui sono andato a letto ha finito per creare,
21
Fly UP