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donne nei lager finale
1. Il lavoro nei Lager
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Donne inabili al lavoro
Le punizioni
Trattamento
La giornata tipo di una donna a Ravensbruck
Lavoro all’interno del campo
Testimonianza Ruth Moser Borsos
2. Rapporto
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5. Esperimenti
madre-figlio
Tatiana e Andra Bucci
Il fumo di Birkenau
Jona che visse nella Balena
Se questo è un uomo “Primo Levi”
Vento di Primavera
Testimonianza Giacomo Belloni
3. Condizioni
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4. Istruzione
igieniche
Condizioni nei dormitori
Alimentazione
Malattie
Il parto
Condizioni in treno
Servizi igienici
6. Testimonianze
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Ines Figini
Luciana Nissim
Etty Hillesum
Liliana Segre
Rosa Cantoni
Marta Ascoli
“Il lavoro rende liberi", in tedesco "Arbeit macht frei". Era la frase
scritta all'ingresso dei campi nazisti dove furono sterminati milioni
di uomini, donne e bambini.
Durante le deportazioni, le donne in stato di gravidanza e le madri di
bambini piccoli venivano generalmente catalogate come "inabili al
lavoro" e venivano perciò trasferite nei campi di sterminio, dove gli
addetti alla selezione le inserivano quasi sempre nei gruppi di
prigionieri destinati a morire subito alle camere a gas.
Sia nei campi che nei ghetti, le donne erano particolarmente vulnerabili
e soggette spesso sia a pestaggi che a stupri. Le donne ebree in
gravidanza cercavano di nascondere il loro stato per non essere costrette
ad abortire.
La gravidanza fu l'ovvia
conseguenza per molte donne
polacche, sovietiche e iugoslave
inviate ai lavori forzati e costrette
a relazioni sessuali con i Tedeschi.
Se i cosiddetti "esperti della razza"
determinavano che il bambino non
potesse essere "germanizzato", le
donne venivano generalmente
obbligate ad abortire, o mandate a
partorire in ospedali improvvisati,
dove le condizioni avrebbero
garantito la morte dei nascituri.
Altre volte, invece, venivano
semplicemente rispedite nelle
regioni d'origine, senza cibo né
assistenza medica.
La storia di una donna concepita nei lager nazisti Si chiama Eva
Clarke ed è un miracolo. Al momento della sua nascita, la madre
Anka aveva subito sei anni di dominio nazista ed era
sopravvissuta a tre campi di concentramento.
•“Vivevo una vita divertente fra
società e fidanzati, non sapevo
nemmeno che Hitler fosse al
potere. Trascorrevo il mio
tempo tra cinema, teatri, feste”.
•E ‘stato ad Auschwitz che Anka ha
visto il vero orrore nazista.
“Abbiamo visto i camini fumare, il
fuoco, sentivamo l’odore. E sembrava
l’inferno”, dice oggi .
•“Mio padre pensava che
fosse abbastanza lontano dai
nazisti” dice oggi Eva.
“Non era vero, ma se non
fosse partito non avrebbe
mai incontrato mia madre”.
Il 29 aprile 1945, Anka arriva ​al campo
di sterminio di Mathausen. La sola
vista di questo nome alla stazione è un
profondo shock per lei, che ha già
sentito parlare della sua fama terribile
sin dalle prime fasi della guerra.
“Mia madre era talmente spaventata da
iniziare a partorirmi là, in mezzo al
carbone”, sottolinea Eva. “
“Ci sono due motivi per cui siamo sopravvissute:
il primo è che, il 28 aprile 1945, i nazisti avevano
smantellato la camera a gas di Mauthausen. Il mio
compleanno è il 29 aprile, quindi se fossi nata il 26
o il 27 sarei stato uccisa insieme a mia madre. “E
la seconda ragione perché siamo sopravvissute
pochi giorni dopo la mia nascita, è che l’esercito
americano liberò il campo. Mia madre calcola che
non avremmo potuto vivere molto più a lungo.”
Marchini Chiara 4^L
LE PUNIZIONI
La punizione è giustizia per l’ingiusto
BOTTE
Dalla testimonianza di una
giovane donna, Zina, abbiamo
potuto apprendere che una delle
più frequenti punizioni per
motivi futili erano proprio le
botte. Zina era una donna russa
rimasta vedova in giovane età.
Nel campo di concentramento in
cui era stata portata aveva notato
un uomo in difficoltà che le
ricordava il marito defunto e non
esitò ad aiutarlo nel lavoro. La
conseguenza fu atroce:
un’infinità di botte sul corpo
nudo della giovane.
PROSTITUZIONE
Sempre tramite un’altra testimonianza sappiamo che il
fenomeno della prostituzione era molto ricorrente
soprattutto nei campi adibiti solo alle donne. Lise racconta
di essersi trovata di fronte ad un bivio e, come lei, molte
altre donne a cui veniva imposto di soddisfare i desideri di
uomini meschini che si credevano non solo più forti di loro
ma addirittura a cui tutto era dovuto; o loro o la morte
Tradire il marito e
sopravvivere
Rimanere fedele al
marito ma morire
FRUSTATE
Le frustate o manganellate erano una tipica
punizione di chi non compieva adeguatamente il
proprio lavoro. Per dare l’esempio le donne
erano sottoposte a questa punizione durante
l’appello, in modo tale che tutte le altre potessero
comprendere a cosa andavano incontro in caso di
un lavoro riuscito male. I colpi non dovevano
superare i 25 di numero.
RECLUSIONE IN UNA CELLA
La cella era chiamata “Stehzelle”
La punizione consisteva nel rimanere in piedi
nella cella, al buio e con poca aria. La tortura
poteva durare dei giorni oppure intere
settimane
Dolcetto Greta 4^L
.
TRATTAMENTO
- Il viaggio: sul treno le persone erano tutte ammassate nei
vagoni, non avevano buchi dove poteva passare l’aria, c’era
solo una piccola finestrella in alto. Quando aprivano le porte
dalle quali dovevano uscire, i comandanti gridavano e le
picchiavano con i frustini.
- Arrivo nei lager: gli uomini venivano separati dalle donne, i
bambini strappati dalle braccia delle madri, gli anziani radunati
come bestie, i malati e i disabili, poi, venivano trattati come
spazzatura: venivano gettati da parte insieme a valigie rotte e
scatole. (Testimonianza di Leo Schneiderman)
- Procedura dopo l’arrivo: li mandavano in stanze separate, li
facevano spogliare e li rasavano tutti, con un unico rasoio per circa
cento persone. Le donne venivano umiliate davanti a tutte le altre.
(testimonianza di Blanka Rothshild). Inoltre alle donne era imposta
ogni tipo di violenza carnale, costrette a prestare il loro corpo per
soddisfare SS, soldati o detenuti politici. Oltre alla libertà e alla vita,
si trovavano private della dignità. Tutte vissero tragicamente la
perdita dell'identità individuale; traumatico fu denudarsi tra le
brutalità degli aguzzini, vedersi un numero tatuato sul braccio,
vedersi rasate a zero. Non erano più donne, non erano più individui.
(testimonianze di più donne)
- Esperimenti: La prima serie di esperimenti riguardò farmaci per la
cura delle infezioni dei soldati al fronte. Le donne internate nei campi
venivano ferite e infettate. Nelle ferite venivano spesso introdotti pezzi
di legno o di vetro per arrivare alla cancrena. A questo punto venivano
curate con i farmaci e in questo modo se ne testava l’efficacia. Altre
donne subirono amputazioni per ricerche sulla possibilità di trapiantare
ossa e nervi. Ad altre venivano spezzati gli arti. Le sterilizzazioni
vennero effettuate per testare nuovi metodi basati sulla chirurgia e i
raggi X. (Venivano fatti esperimenti anche sui gemelli monozigoti e
cercavano una cura ormonale dell’omosessualità). (L’inferno delle
donne – DonneViola)
Iniezione per un
esperimento
- “Le prigioniere vengono rivestite con stracci, con una grossa croce
dipinta davanti e di dietro. Questi stracci sono la divisa d’obbligo delle
deportate in quarantena. Il cibo è una brodaglia insipida e dolciastra,
molto liquida, che dovevamo mangiare senza cucchiaio. Il leccare la
minestra come i cani avvilisce, fa sentire bestie molto più di altre
cose.” “I morti vengono privati anche dell’ultimo misero avere, come
laceri di vestiti, scarpe spaiate e biancheria lisa: ripuliti serviranno per
altri infelici dopo di loro. I corpi vanno poi ad ingrossare il mucchio di
cadaveri presso il crematorio, in attesa di essere bruciati come scarto
inutile; l’ultima parte del ciclo per la distruzione scientifica del
deportato tra poco sarà completata. Alcuni, nel grande mucchio di
corpi scomposti agonizzavano ancora.” (Tratto dal libro “Le donne di
Ravensbrück” di Lidia Beccara Rolfi)
Montanari Erica 4^L
La giornata di una donna a Ravensbrück
La sveglia
• Fischio della sirena alle 5:30
• 2 ore in posizione d’attenti
all’aperto
con
qualsiasi
tempo.
Mezz’ora
per
vestirsi,
lavarsi, rifare il letto
secondo regolamento e farsi
la coda alla latrina
“All'appello è proibito muoversi, parlare con le compagne,
accoccolarsi quando le gambe non reggono più, battere i piedi
per riscaldarsi, avere il petto ricoperto di un pezzo di carta
rubata per difendersi dal freddo. Dopo la prima mezz'ora
diventa una tortura. Il cervello si svuota, le gambe si gonfiano, i
piedi fanno male, dolori atroci corrono per tutti i muscoli” cit.
Lidia Beccaria Rolfi
I pasti
COLAZIONE: tazza di surrogato
di caffè
PRANZO e CENA: una minestra
di patate o cavoli con del pane.
Le prigioniere per la fame si
trovavano a mangiare le
bucce di patate e di cavoli che
trovavano per terra vicino alla
cucina
Il cibo non era sufficiente a tenere in vita le
prigioniere e tanto meno a darle la forza per lavorare
Il lavoro nel campo
• 2 turni di lavoro: giorno e notte di 11 ore ciascuno. Le deportate
vengono divise in due gruppi
• Lavoro inutile: lavoro svolto in quarantena a scopo punitivo
“Il lavoro consiste nel prendere una palata di sabbia nel mucchietto di
sinistra e gettarla in quello di destra dove la compagna di fianco esegue
la medesima operazione. La sabbia viaggia in tondo e ritorna al luogo
di partenza dopo essere passata sulla pala di tutte le deportate addette al
lavoro. Se il mucchio di sinistra cresce, l'SS se ne accorge e spesso
picchia con le mani o con il frustino la deportata che non sa reggere al
ritmo. Il lavoro della sabbia è un lavoro che massacra.”
• Lavoro ‘disponibile’
“Sono i lavori più duri e massacranti: bonifica dei terreni paludosi
lungo le rive del lago, rimboschimento di zone brulle, taglio di pini,
carico e scarico di vagoni e di battelli…pulizia dei pozzi neri,
disinfestazione…”(L. Beccaria).
Fausta Finzi – la vita nel campo
“Partimmo in direzione a noi sconosciuta, […] Arrivate a
Ravensbruck, ci portarono in un grande locale per la doccia e dopo
traumatiche visite mediche, completamente nude, ci diedero dei
logori stracci da indossare e ci portarono in una baracca già piena
di internate. Non ci avevano rasate ne tatuato il numero sul
braccio, portavamo cucito nel vestito il numero e il triangolo di
appartenenza e noi avevamo la Stella. Il mio numero di matricola
era 49.538. La vita cominciava al mattino con ore di appello
sempre ferme ed in piedi, poi veniva distribuito il “caffè” e subito
dopo venivamo reclutate per il lavoro. Le mia prima esperienza fu
che dovevamo trainare un rullo, attaccate due a due con una catena
alla spalla, girando per tutte le strade del Campo. In seguito
lavorai a riempire di sabbia piccoli carretti oppure spianare terreni.
Poi un giorno, le SS cercavano donne che sapessero cucire a macchina […] ci portarono in una
fabbrica adiacente al Campo (Campo nuovo). I turni di lavoro erano di 11 ore, giorno e notte al
coperto e le baracche qui erano meno sporche e affollate. Avevo male ad un dito, era gonfio e
pieno di pus, la kapò se ne accorse e mi mandò in infermeria dove me lo tagliarono. Rimasi in
riposo per qualche giorno e avevo il terrore di rimanere in baracca sia per le selezioni che per
altri lavori così i miei giorni di riposo li passai a caricare carbone sotto la neve. Poi rientrai in
fabbrica. In fabbrica cucivamo guanti militari, cappotti, giacche in una catena di montaggio. Le
botte per seguire il ritmo di lavoro piombavano frequentemente […]. I lavori poi erano vari: si
stirava, si attaccavano bottoni e si eseguivano tutti i lavori di sartoria.
Ho passato almeno tre selezioni per la Camera a gas, ho visto il fumo dei Crematori, le cataste di
Capellaro laura 4^L
LA DIVERSIFICAZIONE DEL LAVORO
ALL’INTERNO DEL CAMPO
I Nazisti obbligarono ai lavori forzati milioni di persone, per la
maggior parte Ebrei, ma anche vittime appartenenti ad altri
gruppi etnici e sociali; le condizioni nelle quali tali lavori
venivano effettuati erano brutali e disumane.
Le motivazioni
I Tedeschi sfruttarono in modo
crescente il lavoro forzato dei
cosiddetti “nemici dello Stato”, sia a
fini economici che per sopperire alla
mancanza di forza lavoro. La maggior
parte degli uomini Ebrei residenti in
Germania era stata obbligata a fornire
lavoro forzato per vari ministeri e
agenzie governative.
I Nazisti perseguirono una politica
consapevole
di
“annientamento
attraverso il lavoro”, nell’ambito della
quale certe categorie di prigionieri
venivano eliminate tramite attività
disumane.
Il lavoro
•Industria bellica
•Agricoltura
•Artigianato
Chizzoni Alessandra 4^L
Testimonianza di una donna:
Ruth Moser Borsos descrive i lavori forzati a Westerbork
Karaj Alessia 4^L
“Nel campo ci misero a lavorare, un lavoro proprio stupido. Dovevamo trasportare
sabbia da un posto all'altro. Non aveva alcun senso, ma dovevamo
farlo. Con il passare del tempo loro organizzarono anche diversi altri
compiti che dovevamo eseguire. Beh, in realtà io venni assegnata a un posto
dove cucivamo i vestiti, cucivamo per... non sono proprio sicura
per chi fossero quei vestiti. Facevamo quello tutto il giorno. Ogni tanto noi
... ecco... io lavorai in una fattoria olandese, ma in realtà era una fattoria
nazista olandese. Il padrone ci faceva pulire il porcile e ci faceva lavorare
nella fattoria, a pulire diverse cose. Ci faceva anche lavorare nei
campi di patate, o ovunque gli servisse, così che lui non dovesse [lavorare]; insomma,
eravamo come degli schiavi per lui. Si approfittava del fatto che il campo di
concentramento fosse così vicino e che lui fosse un Nazista e un collaboratore dei
Tedeschi.
E come ricompensa ci faceva sedere nel cortile con i polli e ci dava una
minestra acquosa. Quello era il nostro pasto, per tutta la giornata.”
RAPPORTO MADREFIGLIO
Introduzione
La sera del 28 marzo 1943, le sorelle Tatiana e Andra di 4 e 6 anni,
furono arrestate con la mamma Mira, la nonna, la zia e il cuginetto Sergio
.Come dice il passo che segue,tratto da un’intervista alle sorelle,i bambini
venivano separati dalle madri:
“Arrivati a Birkenau ci divisero in due file. La nonna e la zia vennero
sistemate sull’altro lato, dei prigionieri destinati alla camera a gas. Ci
portarono nella sauna, ci spogliarono, ci rivestirono con i loro abiti e ci
marchiarono con un numero sull’avambraccio. Ci trasferirono nella
baracca dei bambini (il “Kinderblok” di Birkenau) e lì cominciò la
nostra nuova vita nel campo. Giocavamo con la neve e con i sassi, mentre
i grandi andavano a lavorare. Quando poteva, di nascosto, la mamma
veniva a trovarci ricordandoci sempre i nostri nomi.”
Tipo di legame tra madre-figli:
Il rapporto che i bambini avevano con le proprie madri non era più un rapporto
basato su sentimenti forti,in quanto la dura soppravivenza del campo gli fece
dimenticare cosa fosse il dolore:
“Un giorno la mamma non venne più e pensammo che fosse morta, ma non
provammo dolore, la vita del campo ci aveva sottratto un pezzo d’infanzia, ma ci
aveva dato la forza per sopravvivere.”
L’assenza della madre
Le SS promettevano ai bambini di portarli dalle proprie madri e
invece li sottoponevano a esperimenti sulla tubercolosi, condotti
dal Dr. Heissmeyer alle dipendenze di Mengele.Ma,per
fortuna,una donna avvisò le sorelle:
“La donna che si occupava del nostro blocco con noi era
gentile. Un giorno ci prese da parte e ci disse: “fra poco vi
raduneranno e vi ordineranno: chi vuole rivedere sua mamma
faccia un passo avanti … voi non vi muovete”. Spiegammo a
nostro cugino Sergio di fare la stessa cosa, ma lui non ci ascoltò.
Da allora non lo rivedemmo mai più. L’ ultimo ricordo di nostro
cugino è il suo sorriso mentre ci salutava dal camion che lo
portava via insieme agli altri 19 bambini, desiderosi di rivedere la
mamma. Nostro cugino Sergio fu portato, assieme agli altri 19
bambini, a Neuengamme vicino ad Amburgo,dove divenne una
cavia per orribili esperimenti sulla tubercolosi”
Il
rapporto con la famiglia ritrovata
Il 27 gennaio del 1945 l’Armata Rossa liberò il campo e i
bambini vengono accolti da vari centri organizzati per l’occasione
e, dopo varie peripezie, Andra e Tatiana raggiungono Londra.Per
la prima volta trovano affetto, cibi caldi, spazi per giocare anche
se non si fidano, pensano che sia un’altra beffa.
“I nostri genitori, nel frattempo rientrati in Italia, riuscirono con
l’aiuto della Croce rossa a ritrovarci. La fotografia della «buona
notte» ci consentì di riconoscerli e per fortuna ricordavamo i
nostri nomi e il nostro cognome”
All’inizio i rapporti erano diffidenti anche perché non erano più
abituati ad avere una famiglia,il campo le aveva cambiate.Ma
dopo le prime settimane, l’atteggiamento di chiusura verso gli
adulti cominciò a trasformarsi lentamente ed emerse il bisogno di
amore.
La speranza di una madre per il figlio
Nonostante il mancato rapporto con il figlio, per anni la madre
di Sergio è convinta che suo figlio tornerà, magari è andato in
Russia da qualche famiglia o nell’esercito.
In realtà, un giornalista tedesco dopo varie ricerche, scopre che
Sergio è morto, ma nessuno lo dirà a Gisella che portò la
speranza fino al giorno della sua morte.
Guarnieri Miriam 4^L
Il fumo di Birkenau
Il fumo di Birkenau è il primo libro di Liana Millu, poco dopo il suo ritorno dalla
prigionia nel campo di concentramento nazista di Auschwitz - Birkenau. Con questo
libro l’autrice vuole proporci sei storie, sei storie di sei donne realmente esistite, sei
donne che con lei hanno condiviso gli orrori, lo strazio e il martirio della
deportazione nel lager.
Sei donne, sei storie diverse che però hanno in comune qualcosa: testimoniano tutte
gli abomini che milioni di donne hanno dovuto subire e che spesso, non sono
riuscite a sopportare.
Alta tensione
Alta tensione è la terza storia narrata da Liana Millu nel suo libro. È la storia di Bruna che vede
suo figlio Pinin, dal quale era stata separata, all’interno del lager. Sono soliti incontrarsi durante
il tragitto di ritorno dal lavoro e dal momento del loro primo incontro, Bruna inizia a conservare
parte della sua (già miserabile) razione di cibo per il suo Pinin. Liana riesce a convincere anche
altre donne a fare lo stesso in vista del prossimo compleanno del piccolo Pinin.
Ma è proprio il giorno del compleanno del figlio, quando Bruna scopre che Pinin era stato
portato al Block di riposo dal quale non sarebbe uscito vivo. Bruna cade quindi nello sconforto.
Il giorno seguente, passando davanti al Quarantänelager dove si trova Pinin, Bruna inizia a
correre verso la rete che la separa dal figlio chiamandolo e invitandolo a fare lo stesso, a correre
verso la madre, e verso l’alta tensione.
«…sentii gridare e vidi Bruna correre verso la rete ad alta tensione. Dall’altra parte il figlio
stava a guardarla.
Vieni dalla tua mamma! - gridava Bruna con le braccia tese. - Vieni dalla tua mamma,
Pinin! Corri!
Il ragazzo ebbe un attimo di esitazione. Ma la madre seguitò a chiamarlo, e allora si
precipitò verso la rete invocando: "Mamma! Mamma!". Raggiunse i fili, e nell’istante in cui
le piccole braccia si saldavano a quelle della madre, ci fu uno scoppiettio di fiamme
violette, un ronzio si propagò sui fili violentemente urtati, infine si sparse intorno un acre
odor di bruciato...
Prima di allontanarmi mi voltai: Bruna e Pinin erano ancora là strettamente abbracciati e la
testa della madre posava su quella del figlio come volesse proteggerne il sonno.»
L’amore di una madre che si spinge fino alla morte pur di proteggere il figlio, ecco a cosa
portava il lager. L’amore di una madre che si spinge a privarsi del cibo per il figlio, l’amore
di una madre consapevole di non essere riuscita a salvare il figlio da un simile orrore.
Favero Federica 4^L
Jona Che Visse Nella Balena
“Jona che visse nella Balena” è un film del
regista italiano Roberto Faenza, del 1993.
Racconta la storia di un bambino e della sua
esperienza nei lager e del rapporto che ha
con i suoi genitori al loro interno; è tratto dal
romanzo autobiografico “Anni d’infanzia.
Un bambino nei lager” di Jona Oberski.
La locandina del film;
Fonte: google immagini
Jona Che Visse Nella Balena
Trama
Jona è un bambino che vive ad Amsterdam con sua mamma Hanna e suo papà Max.
Sono ebrei e subiranno la deportazione nel campo di Bergen-Belsen. Qui riesce a
rimanere con la madre, ma viene separato dal padre, che riuscirà a rivedere solo in
punto di morte.
Durante il viaggio di trasferimento in treno ad Auschwitz vengono liberati dai
sovietici e ospitati in un vicino paese. La madre viene ricoverata in ospedale perché
è ormai mentalmente instabile, infatti a prendersi cura di Jona è l’amica di famiglia
Simona, ritrovata nel campo di concentramento.
Dopo la morte della madre, di cui nessuno aveva informato Jona,
Simona va via; Jona viene invece adottato da amici di famiglia,
ma ha praticamente perso la voglia di vivere: non mangia più. I
suoi nuovi genitori gli hanno regalato una bicicletta e dopo aver
avuto dei flashback su suo padre lo si vede sorridere di nuovo.
Cecconi Lara 4^L
“Se questo è un uomo”
(Primo Levi)
In questo libro ricoprono un ruolo di primo piano le
descrizioni dei rapporti sociali: Levi si concentra sulla
psicologia e sulle dinamiche di gruppo dei detenuti indicando
come diverse regole della civilizzazione umana vengono, per
cause di forza maggiore, messe a tacere.
Libro: “Una bambina e basta”
(Lia Levi)
Lia Levi narra i momenti della sua storia personale: il trasferimento al rifugio
presso un convento cattolico insieme alla madre e alle sorelle per sfuggire alla
deportazione dal punto di vista di una bambina.
In particolare uno degli aspetti che definisce l’universo di Lia bambina: è il
RAPPORTO AMBIVALENTE CON LA MADRE, una donna forte, forse più del
marito e padre delle sue figlie che lotta per proteggerle dalla minaccia della
deportazione.
Condizione femminile nei lager
Come presupposto madre e figli nei lager
bisognerebbe tener conto della condizione femminile
nei lager: essere prigioniere vuol dire esporre in
pubblico corpi che a quei tempi erano abituati a un
pudore rigoroso;
Vedere altri corpi, subire violenze,vivere con bambini
destinati a sparire,affannarsi e nutrire un figlio che verrà
ucciso appena nato. Ma anche per le poche sopravvissute il
danno psicologico è enorme che si protrarrà per lungo
tempo.
Rottura del legame tra madre e figlio
Esperienza di
separazione dalla madre
Reazione di
protesta ansiosa da
parte del figlio
Effettiva minaccia di
separazione
Riduzione del
comportamento di
esplorazione
autonoma
Danno psicologico (soprattutto a causa del lager) per
l’assenza della figura materna come punto di
riferimento
Masrour Wiam 4^L
.
Vento di Primavera
Francia, 16 luglio 1942
13 000 ebrei, dopo essere stati costretti ad indossare come simbolo della
loro “ DIVERSITA’ ” una casacca con una stella gialla cucita sul petto.
La mattina del 16 luglio vennero prelevati sulla collina di Montmatre e
deportati nel Vélodrome d’Hiver. Lì assetati e in pessime condizioni
igieniche, gli ebrei ebbero il sostegno di un benevolo medico (Attore:
Jean Nero) e una Pia infermiera (Attrice: Melanie Laurent) che si
oppose, rischiando la sua stessa vita, alla folle causa nazista.
L’intento del film è quello di MOSTRARE e RICORDARE come la
follia nazista abbia contaminato e fatto suoi complici tutti, nessun
escluso, portando al paradosso francesi che deportano altri francesi,
restando impassibili di fronte alla loro FAME, al loro DOLORE, alla
strazio di veder STRAPPARE UN FIGLIO DALLE BRACCIA DELLA
MADRE.
In quel momento una famiglia viene
separata …
Il dolore presente negli occhi di una
madre è lo stesso negli occhi dei figli
ma sapevano che il loro destino sarebbe
stato non rivedersi mai più …
E’ impensabile che degli uomini possano
essere così crudeli, privi di sentimenti e non
avere un minimo di sensibilità specialmente
verso i bambini e vedere lo strazio, il
dolore, la paura e la sofferenza negli occhi
di quella madre che vedeva il proprio figlio
separato da lei …
Rimanere sbalorditi
nel
vedere dei bambini che
prima di salire sul treno
dovevano identificarsi ma…
… la cosa che rende triste le persone era vedere dei
bambini rispondere alle domande sul Nome e Cognome
dei loro genitori con un punto interrogativo dipinto sul
volto.
Questi bambini che sono sopravvissuti sono riusciti a superare qualcosa
che all’inizio sembrava impossibile e che non avrebbero retto la
separazione e la scomparsa dei genitori, ma in quel momento è stato
molto importante avere un pizzico di speranza senza mai lasciarsi morire.
Scarcella Federica 4^L
Film Tratto da una storia vera
.
Testimonianza Giacomo Belloni
Giacomo Belloni riusci a sopravvivere alla strage dell’ olocausto,fu ricoverato per circa una
quindicina d'anni all’ opera pia Luigi Mazza di Pizzighettone,in provincia di Cremona e scrisse un
diario narrando ciò che fu costretto a patire poiche’ non appartenente alla “razza pura”.
“Cos'è la famiglia?
Famiglia è amore,sicurezza,protezione,è tutto cio che chi non ha,desidererebbe.
Ricordo come se fosse ieri,io e la mia famiglia,schierati davanti alle SS,che gridavano i nostri nomi e
cognomi … Quella fu l ultima volta che vidi mia madre,poiché le donne e gli uomini avevano lager
diversi.
Tutto ciò che la mia mamma m aveva insegnato lo dovevo mettere in pratica da solo,senza di lei,io
ero prigioniero in un lager di soli uomini con il mio migliore amico e mio fratello,che morirono
dopo poco tempo. Ero solo,abbandonato a me stesso..nella mia mente vivevano solo ricordi.
Non avevo più una famiglia,non avevo più nessuno, perchè tutto questo doveva essermi negato?
La sola forza che mi permetteva di affrontare ogni singolo giorno e istante della mia vita era la
speranza di poter riabbracciare la mia mamma.. Non desideravo altro.
Casati Giada 4^L
CONDIZIONI IGIENICHE
NEI LAGER
Cause principali delle epidemie e delle malattie infettive
imperversanti ad Auschwitz
servizi igienici
inadeguati
perenne mancanza di
proibitive condizioni abitative mancanza servizi
acqua
sanitari
diverse a seconda del
periodo e differenti in ogni
parte del complesso
diviso in tre parti
concetrazionario
ristrette
dimensioni dei
fabbricati
(m.43,38 x 17,75)
centinaia di
prigionieri
1940
20 edifici dell’ex caserma furono destinati a locali abitativi per i
prigionieri
lavori di ingrandimento
fino al 1943
trasferimento dei prigionieri in
altri blocchi
i vermi imperversavano e i
ratti attaccavano morti e
vivi
ulteriore
peggioramento
delle condizioni
abitative in tutto il
campo
Ma come dormivano i prigionieri?
Nei primi quindici mesi circa, dormivano gli uni accanto agli
altri su pagliericci che al mattino, dopo la sveglia, andavano
raccolti e sistemati in un angolo della camerata.
operazione che avveniva ogni giorno
di notte era vietato
aprire le porte per far si sbriciolava rapidamente la
paglia e provocava vere e proprie
entrare l’aria
nubi di polvere
i detenuti giacevano su
erano larghe cinque
umidità, acqua
tre file di pagliericci,
metri
sgocciolante dai tetti, costretti a dormire su
pagliericci imbrattati di di un fianco e pigiati
feci
all’inverosimile per far
posto a quanti non ne
avevano
I primi letti di legno a tre piani furono forniti alla fine del
febbraio del 1941 e vennero gradualmente installati nei
blocchi nei mesi successivi
ogni letto era provvisto di tre giacigli,
era pertanto destinato ad accogliere tre
prigionieri, ma su ogni giaciglio
dormivano due o più persone
sui letti di legno vi erano
giacigli di carta imbottiti di
trucioli
a causa del
sovraffollamento furono
poi installate (in modo
temporaneo) delle
baracche di legno, simili a
delle stalle, e vennero
utilizzate anche le soffitte
e le cantine
I blocchi in muratura
gradualmente muniti
di:
i locali dormitorio
• stufe a carbone
avevano una
• una quindicina di
cubatura di 2900
armadi
metri quadrati,
diviso per 1200
• alcuni tavoli di legno
persone e vi erano
• alcune decine di
2,5 metri quadrati
rudimentali sgabelli
circa di aria per
ogni blocco a un piano del campo base era
detenuto
diviso in due parti
primo
pian terreno
piano
locali sanitari
comuni
diviso in camerate più
due grandi
piccole
Elena Manzoni 4^L
sale
ALIMENTAZIONE NEI LAGER
“La fame nei Lager era onnipresente. La fame era l’incubo
degli incubi”
• La fame nel lager era onnipresente.
"Da mangiare, spiega Vanzini - un ex
deportato -ci davano una sbobba
simile ad un pastone per galline. Alla
sera una fettina di pane nero,
trasparente. Se sono sopravvissuto lo
devo al fatto che ero giovane e in
buona salute". "Nel fine settimana prosegue - andavamo a raccattare
qualcosa dietro le baracche delle
cucine per gli ufficiali. Si rovistava
nei bidoni, sperando in qualche
avanzo, un pezzo di osso...". E
bastava a sfamarsi? "Oh, un osso risponde - basta tenerlo per bene in
bocca, e qualcosa si riesce a
sentire...".
La razione giornaliera
• Il prigioniero riceveva da mangiare tre volte al giorno
• Per la colazione del mattino riceveva circa mezzo litro di surrogato di caffé e di
infuso di erbe, con 5 grammi di zucchero
• Per pranzo veniva preparata una zuppa calda che consisteva in patate, rape o
cavoli, con un minimo di carne o grasso.
• La cena consisteva in un mezzo litro di surrogato di caffé o di infuso di erbe, in
300-350 grammi di pane e in diversi supplementi: 20 grammi di salame, 30
grammi di margarina, un cucchiaio da minestra di marmellata o 30 grammi di
giuncata. I supplementi variavano ogni giorno. Qualche volta di venerdì davano 56 patate di media grandezza, cotte con la buccia.
• Il contenuto di calorie nel nutrimento giornaliero era di 1300-1700 kcal, dunque
inferiore a quello che occorre normalmente per un organismo umano a riposo.
Canevari Giulia 4^L
I SERVIZI IGIENICI NEI LAGER
INTRODUZIONE
Le condizioni igienico-sanitarie nei campi di concentramento e
soprattutto in quello di Auschwitz erano pessime.
I prigionieri vivevano tutti ammassati nella sporcizia, fatto che
portava spesso a malattie infettive
Appena arrivati
Appena arrivati i prigionieri erano sottoposti a un periodo di quarantena per
cercare di prevenire lo sviluppo di malattie infettive all'interno dei lager.
I luoghi di quarantena erano baracche o tende.
I nuovi arrivati dovevano anche passare per un edificio chiamato “sauna”
nel quale erano installate delle camere a vapore dove i vestiti dei
prigionieri venivano “disinfettati” per poi essere rivenduti
La pulizia personale

I luoghi adibiti alla pulizia personale non erano mai puliti al
quale va aggiunto che l'acqua per lavarsi non era quasi mai
presente.
In quei rari casi nei quali ai prigionieri era permesso lavarsi,
essi erano controllati dalle guardie e l'utilizzo dell'acqua era
limitato.
I gabinetti

I gabinetti erano posizionati in fila
all'interno di grosse stanze dove
spesso si stava ammassati.
L'utilizzo era anch'esso strettamente
controllato da degli addetti.
I detenuti potevano utilizzare i
gabinetti sono in determinate ore
del giorno e per un periodo limitato.
Malattie infettive e parassitarie più diffuse
• Dissenteria: causata dai parassiti intestinali, dai batteri coliformi dovuti alla scarsa
igiene e dalla promiscuità
• Tifo addominale: causato dai batteri che si insediavano nell’acqua densa e sporca
dei lavatoi che ovviamente non era potabile
• Tifo petecchiale: causato dai pidocchi che si insediavano nei vestiti dei detenuti
perché privati di qualsiasi pelo corporeo
• La scabbia, la difterite e la scarlattina erano anch’esse molto pericolose: di solito
non venivano assunte medicine ed era difficile per i tedeschi “sprecarle” per dei
prigionieri che consideravano sub-umani
Malnutrizione (denutrizione)
• Di malnutrizione si moriva: la
razione giornaliera era di circa
800 calorie; un corpo a riposo
invece ne necessita almeno
2000 al giorno. Di
conseguenza un detenuto con
un fisico deabilitato e
denutrito faceva molta fatica
ed era maggiormente esposto
a malattie, alcune delle quali
sfortunatamente portavano
alla morte
Dicke fusse (piedi gonfi)
• Le piaghe dei piedi: ciò era
causato dal fatto che i detenuti
camminavano con scarpe di
legno e cuoio. Le scarpe si
potevano cambiare solamente
una volta e dopo averle estratte
dal mucchio di quelle usate
c’era da sperare che andassero
bene. In caso contrario si
formavano delle piaghe che si
infettavano subito e guarivano
molto difficilmente
Grossi Gabriele 4^L
IL PARTO AD AUSCHWITZ
CONDIZIONI
Neonati
 Pessimo stato di salute
 Scarsa nutrizione (nel caso le mamme non avessero l'opportunità di allattarli davano loro
una miscela di latte e semola)
 Scarsa speranza di vita (la maggioranza moriva prima di aver raggiunto i 3 mesi)
 Uccisi per annegamento o strangolamento

Mamme
 Soggette a infezioni o malattie
 Rischi dovuti all'aborto e morte per parto
 Dolori laceranti

LUOGHI
“Sale parto”: baracche prive di qualsiasi mezzo sanitario utile per
il parto della donna

Struttura: vi era un camino posto al centro della stanza
attorno al quale vi erano numerose brande dove le donne
dovevano partorire

ASSISTENZA
Ostetriche deportate avevano il compito di “assistere” le
donne durante il parto, che a loro volta, erano costrette dai nazisti a
sopprimere i neonati, facendoli annegare o strangolandoli

SITUAZIONI PARTO

Le donne incinte erano costrette ad abortire senza l'uso di anestesie
In caso riuscissero a tenere nascosta la gravidanza:
 Parto in condizioni disumane
 Rischio di incontrare infezioni
 I neonati raramente sopravvivevano dopo la nascita

Piubelli Lucrezia 4^L
LE CONDIZIONI IN TRENO
I PASSEGGERI
Molte persone di entrambi i sessi erano ammassati
anche neonati
il più piccolo era un lattante di 3 mesi
gruppi numerosi di invalidi, bambini e anziani
ammalati
la maggior parte morì sul treno
LA STRUTTURA DEL
TRENO :
composto da soli carri bestiame
con
pavimenti sempre bagnati
in ciascuno vi erano più di 50 persone
chiusi dall’esterno
poco spazio
poiché
portavano con se le loro valigie
a causa
dei discorsi fatti dai marescialli
IL VIAGGIO
o molto lungo
durava alcuni giorni
o penoso a causa del freddo
al mattino le tubature metalliche erano coperte di ghiaccio
o tormento della sete
si placava grazie alla neve raccolta durante l’unica fermata
quotidiana
sorveglianza dei soldati sempre
pronti al fuoco in caso di fuga
Durante esse si procedeva
Alla distribuzione dei viveri
o
MAI acqua
non c’era possibilità di dormire o riposarsi poiché vi era poco spazio
ALLA FINE DEL VIAGGIO
I deportati dovevano lasciare gli effetti personali e le valigie a bordo
venivano successivamente divisi
ma
spesso e volentieri anziani e invalidi venivano subito portati alle
cosidette camere gas
LA
TESTIMONIANZA
Quella che è riportata qui sotto è la seconda deposizione, resa
da Primo Levi il 3 maggio 1971, davanti al pubblico
ministero tedesco al processo contro Friedrich Bosshammer,
l’ex delle SS a capo dell’Ufficio antiebraico della Gestapo in
Italia, accusato di deportazione e strage:
‘ […]Il mattino del 21 febbraio alcuni di noi chiesero ai soldati
delle SS se avremmo dovuto o potuto portare con noi le nostre
cose. Ci risposero che saremmo stati trattati bene, ma che il
paese di destinazione era freddo; perciò ci consigliarono di
portare via tutto quanto possedevamo, denaro, oro, gioielli,
valute e particolarmente pellicce, coperte ecc.
Chiedemmo ai soldati delle SS qual era la nostra destinazione e
che cosa sarebbe avvenuto di noi, ma ci risposero che non lo
sapevano. […]
Dopo l’appello venimmo caricati su alcuni pullman, insieme con i nostri bagagli, e
portati dal campo alla stazione ferroviaria di Carpi.
Quando giunsi alla stazione di Carpi, mi pare di ricordare che il treno era ancora quasi
vuoto. Secondo l’intenzione dei tedeschi, i vagoni avrebbero dovuto essere occupati per
ordine alfabetico, a partire dal primo; riuscimmo però in certa misura a evitare questo
ordinamento, in modo da non separarci da alcuni amici.
Molti prigionieri che volevano ricongiungersi in altri vagoni con amici o parenti furono
percossi rudemente.
Quest’ordine dei tedeschi, di occupare il treno per ordine alfabetico, venne fatto
rispettare con grande durezza anche quando in questo modo si venivano a separare
gruppi familiari in diversi vagoni. Io venni percosso con calci e col calcio di un fucile.
Un mio collega, che tentava di cambiare vagone, venne sbattuto contro il montante del
vagone, e ferito alla fronte, tanto che giunse ad Auschwitz ferito, con la ferita ancora
aperta. Il treno era composto da dodici vagoni merci, ciascuno dei quali era occupato da
45 fino a 60 persone. Il mio vagone era il più piccolo ed era occupato da 45 persone. Un
occupante il mio vagone potè leggere un cartello appeso all’esterno del vagone stesso
che portava la scritta «Auschwitz», ma nessuno di noi sapeva il significato di questa
parola, nè dove la località si trovasse.
La nostra scorta viaggiava in un vagone particolare, non ricordo se in testa o in coda al
convoglio, e non ricordo se era un vagone merci o viaggiatori; questo vagone conteneva
anche le scorte per il viaggio. La nostra scorta era composta di uomini delle SS, almeno
in parte: infatti le nostre condizioni psicologiche durante il viaggio non erano tali da
permetterci di fare distinzioni. I vagoni contenevano soltanto un po’ di paglia sul
pavimento e nessun tipo di gabinetto e nessun secchio.
Nel nostro vagone c’erano alcuni bambini, e perciò era
disponibile qualche vaso da notte, per mezzo del quale potevamo
liberarci degli escrementi attraverso la finestrella del vagone. Era
possibile uscire dal vagone solo una volta al giorno, qualche
volta in stazioni, qualche volta in aperta campagna. In entrambi i
casi, i prigionieri dovevano adempiere ai loro bisogni personali
pubblicamente, sotto i vagoni o nelle vicinanze immediate, e
promiscuamente, uomini e donne. La scorta era sempre presente.
Alla notte c’era appena lo spazio per dormire coricati per terra,
su un fianco, e compressi l’uno contro l’altro. I vagoni erano
privi di riscaldamento, e la brina si condensava all’interno.
Alla notte faceva molto freddo, di giorno si soffriva un po’ meno
perchè ci si poteva muovere. Per quanto riguarda
l’alimentazione, ci era stato concesso di provvedere ad alcune
scorte di pane, marmellata e formaggio, e acqua; il pane e la
marmellata erano in misura sufficiente per non soffrire la fame,
ma l’acqua era molto scarsa, perchè a Fossoli non possedevamo
recipienti, perciò tutti soffrivano gravemente la sete. La scorta ci
proibiva di chiedere acqua all’esterno e di riceverne attraverso il
finestrino.
Durante tutto il viaggio non ricevemmo alcun alimento caldo;
solo durante la discesa quotidiana dal vagone, due o tre uomini
per vagone venivano condotti dalla scorta al vagone delle
provviste, per prelevarvi il pane e la marmellata per il loro
vagone. Soltanto una volta, a Vienna, ci fu concesso di rinnovare
la scorta d’acqua. Nel nostro vagone c’era un bambino ancora
lattante e una bambina di tre anni. Anche per loro non vi fu nulla
da mangiare se non la razione di pane e marmellata. Mi è stato
detto che almeno un caso di morte ebbe luogo durante il viaggio;
non ricordo se si trattasse di un uomo o di una donna. Questo
dettaglio mi è stato raccontato da un mio amico medico, che
faceva parte del trasporto. Il nostro convoglio terminò il viaggio
la sera del 26 febbraio, il treno si fermò alla stazione civile della
città di Auschwitz. Appena fummo discesi dai vagoni, ebbe
luogo una rapidissima selezione: furono formati tre gruppi. […]’
L’ISTRUZIONE NEL
PERIODO NAZISTA
Se comprendere è
impossibile, conoscere è
necessario, perché ciò
che è accaduto può
ritornare
-Primo Levi-
Secondo Hitler per la dittatura è indispensabile mantenere il
popolo quanto più possibile nell’ottusità e nell’ignoranza.
Soltanto se il popolo è ignaro, la dittatura può far trionfare le
sue menzogne.
Il “contenuto positivo” che secondo il dittatore doveva
rimpiazzare il 95% dei contenuti scolastici ritenuti superflui
sono: la fede (nel Führer, sulla cui persona il popolo non
deve sapere la verità), l’amore (per il Führer), l’ostilità (per i
“nemici della Germania), il fanatismo che alimenta le masse
e l’isterismo che la spinge innanzi.
Ciò venne messo in pratica attraverso meno ore di scuola e più
attività ginnico-sportiva, meno sapere e più azione militare, totale
e assoluta fedeltà al Führer e obbedienza ai capi, la propaganda
sostitusce la cultura
Il “vecchio” libro di testo diventa una zavorra e viene sostituito
dal “sussidiarietto”, dall’opuscolo, dal pamphlet”
propagandistico.
“E sai anche chi sono queste persone cattive?” incalza la madre.
Franz si dà delle arie. “Certo, mamma! Lo so. Sono gli ebrei. Il
nostro maestro ce lo dice spesso a scuola”.
Il Sistema Scolastico nello Stato Nazista
L'istruzione nel Terzo Reich serviva a indottrinare gli studenti e a
trasmettere loro la visione del mondo del Nazional Socialismo.
Gli studiosi nazisti e gli insegnanti glorificavano le razze
nordiche, in particolare quella "ariana", denigrando allo stesso
tempo gli Ebrei e altri popoli ritenuti inferiori, definendoli "razze
bastarde e parassite", incapaci di creare una vera cultura o
un'autentica civiltà. Dopo il 1933, il regime nazista eliminò dalle
scuole pubbliche tutti gli insegnanti Ebrei o quelli che venivano
ritenuti "politicamente inaffidabili". La maggior parte degli
educatori, tuttavia, rimase al proprio posto, scegliendo di entrare
nella Lega degli Insegnanti Nazional Socialisti. Entro il 1936, il
97% degli insegnanti delle scuole pubbliche era entrato nella
Lega e, in effetti, quella fu la categoria professionale che registrò
il più alto numero di adesioni al Partito Nazista.
Sia a scuola che nella Gioventù Hitleriana, l'istruzione
mirava a produrre cittadini tedeschi consapevoli delle
differenze razziali e allo stesso tempo obbedienti, pronti al
sacrificio, e disposti a morire per il "Führer e per la
Madrepatria". La devozione a Adolf Hitler era infatti una
componente essenziale dell'addestramento impartito dalla
Gioventù Hitleriana. I giovani Tedeschi ad esempio
celebravano il suo compleanno (il 20 aprile) - che era anche
festa nazionale - come cerimonia di ammissione
nell'organizzazione. Inoltre, gli adolescenti tedeschi
giuravano fedeltà a Hitler e giuravano di difendere la
nazione e il suo capo una volta che fossero entrati
nell'esercito.
Le scuole giocarono quindi un ruolo importante nel
disseminare le idee naziste tra la gioventù tedesca: mentre
i censori toglievano certe letture dalle classi, gli educatori
tedeschi introducevano nuovi testi che insegnavano agli
studenti l'amore per Hitler, l'obbedienza allo Stato, il
militarismo, il razzismo e l'antisemitismo.
Fin dai primi giorni di scuola, i bambini tedeschi
venivano imbevuti del culto di Adolf Hitler e il suo
ritratto era un oggetto comune nelle aule tedesche. I libri
di testo, inoltre, spesso contenevano storie che
descrivevano l'emozione provata da un bambino la prima
volta che aveva visto il leader tedesco.
Giochi da tavolo e altri giocattoli per l'infanzia vennero
anche usati come strumenti per diffondere la propaganda
politica e razziale tra i giovani tedeschi, nonché per
inculcare nei bambini la cultura militarista.
I BAMBINI DEL
TREZO REICH
Il progetto Lebensborn e la politica dell’
eugenetica
Lucchini Riccardo
« Lo stato razzista deve considerare il bambino come il bene più
prezioso della nazione »
Adolf Hitler, Mein Kampf
Il progetto Lebensborn
Nonostante la rassicurante affermazione di Hitler, il Nazismo mise in
pratica brutali forme di sfruttamento e soppressione dell’ infanzia.
Un’ organizzazione creata con questo scopo è il Lebensborn
(sorgente della vita),
ideata da Heinrich Himmler per
creare
una
super
razza,
risolvendo il problema del
decremento demografico, dell’
aumento del numero di aborti e
di figli illegittimi. I Lebensborn
sono una serie di cliniche di
maternità-pollai dorati concepiti
per assistere la nascità e la
crescita, in modo da permettere
parti anonimi a donne tedesche
non sposate.
.
Nel ’35, dopo l’ entrata in vigore
delle leggi di Norimberga,Himmler
incoraggia le SS ad avere bambini con
donne ariane, di cui lo stato nazista si
sarebbe occupato fornendo loro una
casa ed un sussidio economico
Nel 1939 il programma non ha
prodotto i risultati auspicati,
pertanto
l’
attivita’
del
Lebensborn viene intensificata
attraverso il rapimento di
bambini nei territori occupati e
trasferendo una parte di quelli
internati ad Auschwitz. L’
obiettivo
è
deportare
in
Germania elementi validi dal
punto
di
vista
razziale,
individuando il “buon sangue” in
tutto il territorio polacco. Si
tratta di una vera e propria
caccia ai futuri piccoli tedeschi
condotta in tutte le direzioni:
orfanotrofi, asili, scuole, ragazze
madri, famiglie adottive.
I bambini, selezionati
inizialmente in base
all’ aspetto nordico,
sono in seguito
sottoposti ad un
accurato esame
razziale e ad una
approfondita visita
medica e quelli che
non risultano idonei
vengono lasciati
morire.
L’ identità di gran parte dei bambini del Lebensborn non sarà mai
appurata perché le SS in fuga distruggono gli archivi del centro
prima dell’ arrivo degli alleati. La sorte peggiore tocca ai piccoli
nati in Norvegia: le donne che avevano avuto rapporti sessuali con
i nazisti e i figli che hanno concepito diventano oggetto del
disprezzo di parenti, amici, compagni di scuola. Molti di questi
bambini sono dichiarati ritardati e chiusi in istituti psichiatrici
Sempre nel 1939 il programma della politica eugenetica,
demografica e razziale è pronto per un salto di qualità : eliminare
chi rallenta la marcia, sopprimere vite indegne di essere vissute,
applicare l’eutanasia di stato. Ha inizio uno sterminio di massa
conosciuto come Aktion T4( T4 sta per Tiergartenstrasse numero
4, un indirizzo di Berlino).
Si comincia dai più piccoli perché è più facile, non ci sono ancora
legami, ci saranno meno opposizioni. Il 18 agosto 1939 Leonardo
Conti, ticinese, direttore sanitario del Reich, emana il
provvedimento segreto IV B/3088/391079. E’ indirizzato a reparti
maternità e pediatrie, ai medici e alle ostetriche, a cui viene fatto
obbligo di registrare e segnalare tutti i soggetti nati con
malformazioni o malattie gravi. C’ è l’obbligo di riservatezza e l’
elenco delle patologie da segnalare.
In base alla testimonianza di
Karl Brandt, medico personale
di Hitler, la prima vittima fu
un bambino nato cieco e
apparentemente idiota. Il
padre, un contadino della
Sassonia di nome Knauer, si
rivolge alla clinica infantile di
Lipsia chiedendo di
sopprimere il bambino, ma il
medico risponde che la legge
non lo permette. Il signor
Knauer indirizza una supplica
a Hitler, il quale invia il dottor
Karl Brandt con l’ incarico di
verificare le condizioni del
bambino ed eventualmente
praticare l’ eutanasia,
garantendo personalmente la
non punibilità del medico.
Ad Auschwitz i gemelli o i bambini con deformazioni furono
utilizzati da Josef Mengele per “esperimenti medici”, che il dottore,
fanatico sostenitore di teorie di antropologia razziale, iniziò non
appena arrivò nel Lagher nel maggio 1943. Nel campo degli zingari
furono realizzati esperimenti sul noma, una lesione ulcerante che
colpisce le popolazioni più povere, alcune bambine rom furono
sottoposte a un bombardamento di raggi X che provocò ustioni e
atroci sofferenze.
Quasi il 90% di tutti i bambini ebrei deportati dall’ Italia,
precisamente 776, giunse ad Auschwitz. Altri undici furono internati a
Ravensbruck, dove vissero e morirono molte centinaia di bambini
provenienti da tutta Europa.
All’ interno dei campi i bambini erano sottoposti alle stesse regole
che valevano per gli adulti: partecipavano all’ appello alle cinque del
mattino ed erano costretti a stare in piedi, spesso per ore, al freddo e
sotto la pioggia; avevano le stesse razioni e dopo i dodici anni
svolgevano gli stessi turni degli adulti; subivano inoltre le stesse
angherie dalle guardie. Durante la giornata, i più piccoli non potevano
uscire dalle baracche e non avevano alcun tipo di gioco.
Nel campo di Ravensbruck le norme che
regolavano la sorte dei neonati e dei
bambini cambiavano continuamente. Fin
quando nel lagher vi furono solo donne
tedesche, i neonati venivano sottratti alle
madri per essere formati ed educati nello
spirito nazista all’ interno del progetto
Lebensborn. Dal 1942 le prigioniere
furono costrette ad abortire, poi nel 1943
il dottor Percival Treite -ginecologo e
direttore sanitario del campo- decise che
I bambini ebrei italiani deportati a
la gravidanza doveva essere portata a
termine ma ordinò che i neonati
Ravensbruck provenivano da Fossoli e
venissero immediatamente soppressi,
da Bolzano. Cinque di loro
facendoli strangolare o annegare in un
sopravvissero e, negli ultimi mesi di
secchio d’ acqua davanti alla madre.
guerra, furono trasferiti a Bergen
Sempre nel 1943 fu stabilito che i neonati
Belsen, creato nel 1942 come “campo di
fossero lasciati in vita, ma che alla madre
non venisse fornito alcun aiuto in vestiti attesa”, nel quale detenere ebrei da
scambiare con cittadini tedeschi
o cibo.
prigionieri degli alleati oppure con
merci e valuta pregiata.
Bruno Maida nel libro “La Shoah dei bambini.
La persecuzione dell’ infanzia ebraica in Italia
1938-1945”) racconta la storia di un bambino
ebreo italiano, Sergio De Simone .
Sergio era un bambino di sette anni, uno dei
trecento bambini detenuti senza cure ad
Auschwitz nella baracca 11. Un giorno di
novembre del 1944 entra nella baracca un
medico, secondo alcuni Menghele, chiedendo
chi voleva riabbracciare la mamma. Molti fanno
un passo avanti, ma vengono scelti dieci maschi
e dieci femmine. Sergio è tra questi. E’
fiducioso perché riconosce quel medico che lo
ha già visitato alla gola il 14 maggio 1944,
come testimonia il referto compilato a Birkenau
e firmato da Menghele, referto nel quale viene
giudicato idoneo per gli esperimenti.
I venti bambini si sentono fortunati. Vengono fatti salire su un
treno, accompagnati dalla dottoressa Paulina Trocki e da tre
infermiere. Due giorni dopo arrivano nel campo di Neuengamme.
Il loro destino è legato alla volontà del dottor Kurt Heissmeyer,
che giunge a Neuengamme il 7 gennaio 1945 dopo aver svolto
sui prigionieri russi e serbi esperimenti sulla tubercolosi. La gran
parte di loro era morta, ma Heissmeyer considerava necessario
continuare l’ esperimento sui bambini per valutarne gli effetti. A
tutti e venti viene inoculato il germe della tubercolosi, che si
diffonde rapidamente, causando febbri alte e un profondo
malessere. Dopo qualche tempo gli viene asportata una ghiandola
sotto l’ ascella e messa in formalina per osservare l’ eventuale
sviluppo degli anticorpi. Venti fotografie raccontano quel
momento: una sequenza terribile di bambini rasati a zero, a torso
nudo e macilenti, sofferenti, con il braccio destro tenuto alzato a
mostrare l’ incisione dell’ ascella. Il tentativo fallisce
completamente.
La sera del 20 aprile 1945, mentre Hitler festeggia il
suo cinquantaseiesimo e ultimo compleanno nel bunker
della cancelleria, arriva da Berlino un ordine al
comandante del campo di Neuengamme, Max Pauly, nel
quale si sottolinea la necessità di eliminare subito i
bambini con il gas o con il veleno perché gli americani si
stanno avvicinando e bisogna eliminare tutte le prove dei
crimini. I bambini vengono fatti vestire e gli viene detto
che sarebbero stati condotti a Terezine, dove avrebbero
potuto incontrare la mamma, come gli era stato
promesso. La direzione del camion sul quale vengono
fatti salire è invece Amburgo. Nel centro della città sorge
un edificio che per sessant’ anni è stato una scuola
elementare, la Bullenhuser Damm: nei suoi sotterranei,
dalle 23 inizia il massacro. Ai bambini viene fatta una
puntura di morfina per farli addormentare, poi vengono
impiccati con le corde che pendevano dai ganci alle
pareti. I loro corpi furono riportati a Neuengamme e
bruciati. La madre che Sergio avrebbe dovuto
riabbracciare, saprà della sorte di suo figlio soltanto
quarant’anni dopo.
TESTIMONIANZE DI
DONNE NEI LAGER
«Ho perdonato tutto quello che ho
passato. E forse parlo anche con
una certa serenità proprio per
questa ragione. Perché
perdonando io ho la pace dentro
di me. Non ho odio! Non ho
vendetta. Ormai il tempo è
passato. Anche se odio a cosa può
portare l’odio. Sto male io e
nient’altro».
- Ines Figini
Rossi Laura
INES FIGINI
L’odissea di Ines ebbe inizio il 6 marzo del
1944 quando, in occasione di uno sciopero
proclamato nella ditta in cui lavorava,
assunse la difesa della maestranza, mossa da
un atto impulsivo caratteristico della
giovane età. Nel corso della notte, intorno
alle ore 24.00, fu prelevata da casa da un
gruppo di fascisti armati che la portarono in
questura.
IL VIAGGIO DI INES
Saliti sul vagone assegnato, il convoglio fece
una sosta a Vienna per proseguire poi per
Mauthausen, dove Ines rimase per circa una
settimana in cella con sette donne. Nessuno
conosceva la destinazione di quel viaggio. Se
ne resero conto con il successivo spostamento
quando arrivarono ad Auschwitz Birkenau.
IL PERCORSO DI INES
A Ines impressero sul braccio il numero di
matricola 76.150: difficilissimo da
pronunciare in tedesco.
Poi l’inizio dei lavori nelle paludi, i terreni
venivano concimati con la cenere prodotta
bruciando gli Ebrei. Tutto si svolgeva sotto
l’occhio vigile del sorvegliante.
Era concessa una doccia al mese, un
distributore per quattro persone.
IL RITORNO A CASA DI INES
Il desiderio di tornare casa, il lungo periodo che trattenne Ines in
terra straniera ancora da giugno a ottobre del 1945, le peripezie del
viaggio e l’arrivo a Bolzano. Qui Ines scese dal treno e si rese conto
di essere in Italia. (ottobe 1945)
LUCIANA NISSIM
Prima di 3 sorelle, nasce il 20 ottobre
1919 a Biella, dove trascorrerà la sua
infanzia. Il padre è commerciante, e
nonostante la crisi di quegli anni, la
famiglia riesce a mantenere Luciana
negli studi.
Consegue la maturità classica e poi si
iscrive alla facoltà di medicina, spinta
anche dai genitori.
Nel 1938 viene varato un divieto che
vietava agli ebrei di frequentare le
università. Luciana nonostante
questo, essendosi già iscritta, riesce a
laurearsi.
A Torino, dove vive durante gli studi, si lega ai “ragazzi della
biblioteca ebraica”, un gruppo di giovani antifascisti che discutono
di ebraismo, di filosofia, di politica e di resistenza al fascismo.
Tra questi ragazzi Luciana conosce Primo Levi, Franco Momigliano
e Vanda Maestro.
La storia si complica nella notte tra il 12 e il 13 dicembre del 1943
quando i tedeschi riescono ad arrestare le milizie partigiane alle quali
Luciana aveva aderito.
Un mese nel carcere di Aosta, per poi passare al campo di Fossoli ed
infine proprio ad Auschwitz, dal 26 febbraio 1944.
Con lei in questo viaggio ci sono Primo Levi e Vanda Maestro, che
purtroppo non sopravviverà.
Grazie alla sua laurea in
medicina, Luciana viene
destinata al Revier, l’ospedale
femminile del lager di Birkenau,
per passare alla fine dell’agosto
1944 all’infermeria di Hessisch
Lichthenau.
Di qui, mentre gli americani
avanzano, nell’aprile del 1945
riesce a fuggire. Rientrerà in Italia
solo nel luglio del 1945
all’annuncio del governo Parri.
L’amica Vanda è morta,
nell’ottobre del 1944, in una delle
ultime selezioni effettuate a
Birkenau.
LE PAROLE DI LUCIANA
“Finita la cerimonia del tatuaggio la prima delle mie
compagne viene fatta sedere su uno sgabello; una
pettinatrice è accanto a lei, e le taglia i capelli. Quella povera
figlia è così terribilmente sorpresa, che non può neanche
piangere, ma noi vediamo con immensa pena cadere i suoi
riccioli uno ad uno, finché non resta che il suo povero cranio
pelato, tragicamente ridicolo nella sua nudità. Poi ella
viene completamente depilata, poi riceve una spruzzata di
un qualche disinfettante - e finalmente tocca alla successiva.
Per tutte è la stessa storia; io passo per ultima e, in omaggio
alla mia qualità di medico, i miei capelli vengono solo
accorciati, non rasati. Il soldato va e viene, ma non vede in
noi delle donne: ormai siamo delle Häftlinge. Noi siamo
disperate, quasi tutte piangono: siamo nude e fa freddo”
TESTIMONIANZA DI ETTY HILLESUM
Biografia
• Nasce a Middelburg (Olanda) nel 1914 da una
famiglia ebraica della borghesia intellettuale
•Si interessa alla letteratura e alla filosofia; nel
‘32 va ad Amsterdam, dove inizia a studiare
giurisprudenza, lingue slave e psicologia
• Diventa paziente di Julius Spier, padre della
psicochirologia, che la incoraggia a scrivere il
diario e con il quale ha una relazione amorosa
• Spier influenza il carattere di Etty,
spingendola a all’introspezione, alla ricerca di
se stessa e della fede in Dio
• Nel’42 trova lavoro come dattilografa
presso il Consiglio Ebraico, ma capisce
subito di trovarsi in una posizione ambigua,
tant’è vero che, nonappena il Consiglio
decide di affidare parte del personale al
campo di transito di Westerbork, Etty, non
volendosi sottrarre alla triste condizione
vissuta dal suo popolo, chiede ed ottiene di
esservi trasferita, in qualità di assistente
verso gli altri detenuti
• Il 10 settembre del ’43, dopo che il
Consiglio perde ogni privilegio, Etty, che
ormai si trova in una condizione di detenuta
comune, viene deportata insieme alla sua
famiglia ad Auschwitz, dove muore il 30
novembre successivo
• L’anno dopo vicino ai binari viene ritrovata
una cartolina con un messaggio di Etty:
“Abbiamo lasciato il campo cantando”.
Crescita spirituale e etica dell’amore
• Etty fa un viaggio all’interno di se stessa chela
porta a scoprire una dimensione spirituale
personale, al di là di ogni credo formale:
“Dentro di me c’è una sorgente. E in quella
sorgente c’è Dio. A volte riesco a raggiungerla, più
sovente essa è coperta da pietre e sabbia: allora
dio è sepolto. Allora bisogna dissotterrarlo di
nuovo”.
• Col tempo per Etty Dio diventa anche una specie
di scintilla immanente nel mondo stesso; si sente
spinta a cercare Dio dappertutto e ad avere fiducia
nell’altro e nell’umanità
• Il Dio di Etty non ha alcuna responsabilità nei
confronti degli uomini, ma sono gli uomini che
semmai sono responsabili nei confronti di Dio
quando si allontanano da lui commettendo tali
atrocità
• Questa forte spiritualità la porta ad agire
sempre con l’etica dell’amore (la sua forma di
resistenza interiore), e mai con l’odio:
“Trovo bella la vita, e mi sento libera. I cieli si
stendono dentro di me come sopra di me. Credo
in Dio e negli uomini e oso dirlo senza falso
pudore. La vita è difficile ma non è grave:
dobbiamo cominciare a prendere sul serio il
nostro lato serio, il resto verrà da sé. Una pace
futura potrà essere veramente tale solo se prima
sarà stata trovata da ognuno in se stesso - se
ogni uomo si sarà liberato dall'odio contro il
prossimo, di qualunque razza o popolo, se avrà
superato quest'odio e l'avrà trasformato in
qualcosa di diverso, forse alla lunga in amore,
se non è chiedere troppo. E' l'unica soluzione
possibile. È quel pezzettino d'eternità che ci
portiamo dentro. Sono una persona felice e lodo
questa vita, nell'anno del Signore 1942,
l'ennesimo anno di guerra”.
Considerazioni su guerra e olocausto
• Vivendo in tempo di guerra, Etty vede il male
come qualcosa che è sempre possibile, ma non
bisogna rassegnarsi ad esso; anzi, è necessario
l’impegno individuale per evitare che questo
tipo di istinto prenda il sopravvento sulla propria
parte “umana” e opporsi sempre al male con lo
sdegno morale e mai con l’odio
•Soprattutto, si schiera contro l’odio
“indifferenziato”, vale a dire generalizzato verso
un intero popolo: è un sentimento sbagliato,
perché include in esso anche chi non c’entra
niente (e bisogna tenere conto che Etty dice
questo quando già i nazisti avevano già
cominciato le persecuzioni, ovvero in un
momento in cui l’odio indifferenziato verso gli
ebrei e, viceversa, quello verso i tedeschi, erano
diffusissimi):
“Se anche non rimanesse che un solo tedesco
decente, quell’unico tedesco meriterebbe di
essere difeso contro quella banda di barbari”.
• Etty mostra inoltre una grande sensibilità
verso il mondo: è consapevole di tutto ciò
che il suo popolo sta vivendo e lo sente
direttamente nella propria anima:
“Secondo la radio inglese dall’aprile scorso
sono morti 700mila ebrei, in Germania e nei
territori occupati. Se rimarremo vivi queste
saranno altrettante ferite che dovremo
portarci dentro per sempre”.
“Un barlume di eternità filtra sempre più
nelle mie più piccole azioni e percezioni
quotidiane. Io non sono sola nella mia
stanchezza, malattia, tristezza o paura, ma
sono insieme con milioni di persone, di tanti
secoli: anche questo fa parte della vita che è
pur bella e ricca di significato, se la si sente
come un’unita indivisibile”.
Liliana Segre
A tredici anni nel campo di sterminio
Primi anni di discriminazione
“Avevo otto anni al momento delle leggi razziali …
… era il 1938…
… e mi ricordo come una netta cesura nella mia vita
quando mio papà cercò di spiegarmi che, poiché ero una
bambina ebrea, non avrei più potuto continuare ad andare
a scuola …
Viaggio e arrivo nel Lager
... Arrivammo ad Auschwitz in pieno inverno …
… era stato un viaggio inumano, ma inumano fu l’arrivo …
… scaricati a calci e pugni, fummo separati, uomini e donne
…
… io nei miei tredici anni spauriti, non conoscendo nessuna
lingua straniera, senza capire dove mi trovavo e che cosa mi
stava succedendo, io, senza saperlo, lasciai per sempre la
mano del mio papà.
Noi sceglievamo la vita
… noi sceglievamo la vita, anche se ci volevano uccidere ogni
minuto per la colpa di essere nate …
… eravamo schiavi senza alcun diritto che lavoravano fino
all’esaurimento delle forze …
… il mondo non si dava pensiero di quello che ci stava
succedendo …
… ma io volevo vivere. Io avevo 13 anni, e poi 14, e volevo
vivere.
La “marcia della morte”
Una gamba davanti all’altra! Devi andare avanti, devi
andare avanti!
… le nostre sentinelle implacabili finivano con un colpo di
pistola quelle che cadevano …
… io non mi voltavo, non volevo sapere, io volevo vivere e
mi sdoppiavo in un’altra personalità …
… ci buttavamo come pazze sugli immondezzai e
raccoglievamo bucce di patate, torsoli di cavolo marcio, un
osso già rosicchiato dal cane di casa, e ci disputavamo questi
orrori io e le mie compagne, le bocche sporche, scheletri
orribili. Alzavo la testa e vederle, le mie compagne, e vedevo
me stessa, la mia faccia scheletrita, ferina, bestiale …
Non morite! La guerra sta per finire. I nostri
aguzzini la stanno perdendo, arrivano i russi da una
parte e gli americani dall’altra.
… Non eravamo preparate a una gioia
grande come quella!
Quando vidi il comandante mettersi in borghese, buttare via
la sua divisa, e alla fine buttare via la sua pistola ai miei
piedi pensai “adesso io mi chino, piglio la pistola e gli
sparo”. Mi sembrava assolutamente un finale perfetto per
quella tragedia che avevo vissuto di uccidere quest’uomo
crudele …
… ma fu un attimo, io avevo sempre scelto la vita e chi
sceglie la vita non può mai toglierla a nessuno per nessun
motivo …
… da quel momento ho capito che io ero diversa dal mio
assassino …
… sono stata più fortunata ad essere vittima che carnefice.
Ritorno alla normalità
… ho passato degli anni molto tristi e molto bui …
… io ero diversa, non sapevo rimettermi in una società che mi
aveva respinta prima, ma anche dopo …
… a scuola ero più vecchia io, anche se avevo 16 anni, persino
delle mie insegnanti …
… dopo tanto orrore, tanta tristezza, tanta solitudine, ho
trovato Amore …
… ha vinto la vita!
Galazzi Sofia 4^L
VITA PRIMA DELLA RESISTENZA
• Rosa Cantoni nasce il 25 luglio 1913
in una famiglia antifascista di Udine
• Lavora come operaia in una
fabbrica tessile i cui proprietari sono ebrei
• Nel ’38, dopo le leggi razziali, la fabbrica
viene chiusa e Rosa è licenziata poiché
agli ebrei non era consentito gestire aziende
XI Congresso ANED. Convegno donne. Intervento di Rosa Cantoni
LA RESISTENZA
Le donne, a differenza degli uomini, non venivano quasi
mai perquisite per strada e passavano i posti di blocco
senza alcun controllo.
• Porta vestiti, pane, carta e talvolta anche armi ai
partigiani
• Presta aiuto ai feriti
• Si fa chiamare Julia per non essere rintracciata
XI Congresso ANED. Convegno donne. Intervento di Rosa Cantoni
LA SCOPERTA E LA DEPORTAZIONE
• All’appuntamento per lo scambio di viveri
e armi con i partigiani è attesa da 4 soldati
• E’ imprigionata nel carcere di Udine, da
dove parte con altre 20 donne per Ravensbrück
• Il primo giorno vengono vestite con gli
stracci e gli zoccoli di altre donne ormai morte
e gli vengono tagliati i capelli
• La fame era tremenda; pidocchi,
scabbia, dissenteria e avitaminosi normali
XI Congresso ANED. Convegno donne. Intervento di Rosa Cantoni
LA TENDA NERA
“..e adesso vorrei dire cos'era questa tenda nera, perché me lo
sono tanto fissato in testa che la vedo ancora sempre. Lì
vediamo un mucchio di donne tutte vestite di scuro,
probabilmente erano ebree prese in qualche paese che non so,
arrivate lì in condizioni disperate. […] In questa tenda nera
c'erano queste donne, pallidissime, facevano impressione
perché erano ormai morte, probabilmente c'era un senso
istintivo di stare assieme, ma erano ammucchiate una sopra
l'altra, e quelle sopra erano abbastanza vive, ma non avevano
nessuna espressione. Lì erano senza nutrimento chissà da
quanti giorni o settimane, senza bere, senza mangiare, un
freddo tremendo, abbandonate giorno e notte in una tenda
nera.”
XI Congresso ANED. Convegno donne. Intervento di Rosa Cantoni
Una voce della Shoah: Marta Ascoli
• La testimonianza di Marta Ascoli è raccolta nel
suo libro autobiografico “Auschwitz è di tutti”.
• Marta Ascoli viveva a Trieste quando nel marzo
1944 è stata deportata ad Auschwitz.
• Era di famiglia cattolica ma avendo un cognome
di città era di origini ebraiche.
La vita di Marta ad Auschwitz
• La selezione delle camere a gas:
“La cosa più assurda era
che non sempre si era scelte
perché ritenute inabili al
lavoro, sistema crudele ma
che aveva per i nostri
aguzzini una sua logica.
Talvolta usavano il sistema
di contarci ogni tre, ogni
quattro, a caso, e ridendo
segnavano il nostro numero
sul taccuino, decidendo la
nostra fine.”
• La punizione chiamata “sport”:
“Nel poco tempo che ci era
concesso per mangiare la zuppa,
le SS che erano di turno, donne
incluse, per ragioni insignificanti
e spesso anche senza motivo
alcuno sceglievano parecchie
persone, obbligandole a correre
senza fermarsi avanti e indietro,
o a inginocchiarsi a lungo o a
portare grosse pietre finché
cadevano sfinite. Quando
crollavano a terra, e ciò
succedeva spesso, i militi
intervenivano con bastonate e
ridevano tra di loro. Credo che
questo si possa definire con una
sola parla: sadismo.”
Il trasferimento a Bergen-Belsen
• Marta viene trasferita a Bergen-Belsen, in quegl’anni desiderava
solo la morte:
“Un pensiero mi assillava: morire prima possibile per evitare il
prolungarsi di atroci sofferenze.
Io che avevo cercato di resistere fino all’ultimo, ero ormai
distrutta. Invocavo la morte che si attardava su di me, invidiavo chi
al mio fianco aveva finito di soffrire. Mi alzai dal mio giaciglio e
scavalcai i corpi dei morti e dei vivi accanto a me; non potevo più
sopportare i loro gemiti, la loro agonia e il fetore che c’era nella
baracca;[…] Sorreggendomi a fatica mi inoltrai nella zona boscosa
e mi avvicinai al filo spinato che circondava tutto il comprensorio.
[…] Un milite che io ritenni molto giovane mi vide e avanzò verso
di me. Mi intimò di spostarmi, ma io non mi mossi, lo guardai fisso
e lo supplicai di spararmi. A questo punto egli si voltò e si allontanò
nella direzione opposta. […] Il mio gesto sta a dimostrare a che
punto fosse giunta la mia disperazione, sapendo che mi attendeva
una fine atroce assieme agli altri.”
Il ritorno a casa
• Il 6 luglio 1945 Marta venne liberata e tornò dalla madre a
Trieste, nonostante l’aiuto della famiglia ,per Marta fu difficile
riprendersi sia fisicamente e sia psicologicamente:
“Dopo le esperienze passate, per molti anni sono stata
ossessionata da incubi: il fischio dei treni, il fumo delle
ciminiere, il sentir gridare in tedesco ancor oggi mi fa
sussultare e tuttora, anche se saltuariamente, faccio sogni
attinenti a quel lager infernale. L’esperienza che ho
attraversato ha cambiato molto il mio carattere, minando la
mia volontà, una volta ferrea, e riuscendo a farmi perdere il
mio ottimismo e la fiducia nel prossimo.”
BIBLIOGRAFIA
• “Inferno delle donne” – “ Donne Viola”
• “Donne di Ravensbruck” di Lidia Beccaria Rolfi
• “Fumo di Birkenau”
• “Jona che visse nella balena”
• “Se questo è uomo” di Primo Levi
• “ Una bambina e basta” di Lia Levi
• “Ausmerzen”
• “La Shoa dei bambini”
• “Tanto tu torni sempre” di Giovanna Caldera e Marco Colombo
• Autobiografia “Auschwitz è di tutti” di Marta Ascoli
• Biografia “Lettere” e “Diario”
•“Il mio viaggio”
Sitografia
• Testimonianza Bambina nata nel Campo della Morte
• Raccolta testimonianze
• WIKIPEDIA
• Testimonianza Blanka Rothshild
• Testimonianze di più donne
• Enciclopedia dell’Olocausto
• www.deportati.it
• Sitografia: Blocco 6- Vita del Prigioniero
• Yahoo Answer
• Testomonianza di Stanislava
• www.presentepassato.it (A 13 anni nel campo)
• XI Congresso ANED-Convegno Donne-Intervento Rosa
Cantoni
Filmografia
• “Jona che visse nella balena” regia di Roberto Faenza
• “Vento di Primavera” regia di Roselyne Bosch
• Youtube: Liliana Segre – “Racconto di un sopravvissuto ai
campi di concentramento”
Canevari Giulia
Capellaro Laura
Manzoni Elena
Marchini Chiara
Masrour Wiam
Casati Giada
Cecconi Lara
Montanari Erica
Piubelli Lucrezia
Rossi Laura
Chizzoni Alessandra
Dolcetto Greta
Fasoli Lorenzo
Rossi Maximilian
Sangermani Chiara
Scarcella Federica
Toscani Serena
Favero Federica
Fiorani Barbara
Galazzi Sofia
Grossi Gabriele
Guarnieri Miriam
Karaj Alessia
Zanoni Martina
Peri Stefano
Lucchini Riccardo
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