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Libro assalto dei briganti_San Biase_MPT

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Libro assalto dei briganti_San Biase_MPT
Michele Tanno
Achille Porfirio
Assalto dei briganti
a San Biase e dintorni
Gli autori ringraziano per la collaborazione:
Francesco Novelli di Campobasso
Antonio Romano di Limosano
Nicola Romano di Limosano
Domenico Foligno di Sant’Angelo Limosano
D. Vladimiro Porfirio parroco di San Biase
D. Nico De Candia parroco di Sant’Angelo Limosano
P. Madanu Joseph Kiran parroco di Lucito.
Ringraziamo inoltre tutti i dirigenti e impiegati
dell’Archivio di Stato di Campobasso per la disponibilità e cortesia
avute durante il lavoro di ricerca e consultazione
degli atti e documenti vari archivistici.
In copertina
Nicola Romano, Piazza Roma - San Biase
china e acquerello su tela, 50x70, 1975
Foto
Michele Tanno
Proprietà letteraria riservata
© 2014 Michele Tanno, Achille Porfirio
L’Amministrazione comunale di San Biase da sempre ha sentito
la necessità di costruire un filo conduttore che mettesse in relazione gli usi e i costumi della nostra realtà con i trascorsi storici
che hanno coinvolto le genti e il territorio.
Infatti la comunità sanbiasese ha visssuto alcune vicende storiche che l’hanno profondamente coinvolta e plasmata fino ai giorni
nostri.
Attraverso le pagine di questo libro si evince come il fenomeno
del brigantaggio si è sviluppato e radicato in una società prettamente contadina quale è la nostra.
Scorrendo le righe di questo volume il lettore non solo conoscerà la verità storica sul fenomeno brigantaggio, con i vari risvolti sociali, culturali, economici e religiosi, ma rivivrà i tempi,
luoghi e protagonisti del paese di appartenenza.
È mio dovere ricordare che nel recente passato questa Amministrazione ha già promosso numerose iniziative sul brigantaggio
con convegni e rappresentazioni teatrali, oltre ad aver individuato
ed apposto un cippo funerario nel luogo dove per mano dei briganti fu giustiziato l’ultimo barone.
Con l’augurio che queste pagine possano far riscoprire nel lettore “un meraviglioso senso di appartenenza alla propria terra”,
l’Amministrazione consegna questo libro con la convinzione e la
speranza di aver contribuito alla conoscenza delle nostre origini
e divenire nei secoli.
Ringrazio di cuore Achille e Michele che hanno dedicato il loro
tempo alla ricerca storica e alla realizzazione del libro in forma
gratuita e il “Gal Molise verso il 2000” che, attraverso la misura
421 “Borghi rigenerati” e l’azione 5 “Scrigni della Memoria”,
ha permesso la pubblicazione di questo lavoro.
Il Sindaco
Isabella Di Florio
INTRODUZIONE
Enrico IV diceva: – Io sarò contento quando potrò ottenere che l’ultimo dei miei sudditi possa la domenica mangiare un pollo –. E noi
saremo contenti quando in Italia l’ultimo degli Italiani saprà leggere
e scrivere (…) l’onorevole che mi ha preceduto sostiene che l’istruzione popolare è quasi una difesa morale della società, che l’uomo
istrutto commette meno delitti. È vero; ma io aggiungerò: – Noi abbiamo decretato la libertà in carta – Sapete, o signori, quando questa
libertà cesserà di essere una menzogna? Quando noi avremo effettivamente uomini liberi; quando della plebe avremo fatto un popolo
libero. Chiameremo noi forse uomini liberi quei contadini ignoranti
(...) tratti a reazione, ad opere crudeli di altri tempi, la cui anima
non appartiene a loro? No, non sono uomini liberi costoro, la cui
anima appartiene al confessore, al notaio, all’uomo di legge, al proprietario, a tutti quelli che hanno interesse di volgerli, d’impadronirsene (…)1.
Il discorso di Francesco De Sanctis riguarda la situazione politica, sociale e culturale della primissima stagione del Regno d’Italia (più precisamente del Regno di Sardegna), appena all’indomani
del processo plebiscitario – 11/12 marzo 1860 – che portava le popolazioni dell’Italia centrale all’annessione al Regno di Sardegna
sotto la monarchia di casa Savoia.
La prolusione desanctisiana, tenuta nel corso dei lavori parlamentari in seno al primo Parlamento nazionale nella capitale del
Regno a Torino, riguarda il mondo oppresso dei contadini da sempre emarginati da politiche feudali di giogo soffocante e di soggezione dolorosa (in particolare nel Regno delle Due Sicilie).
1
Dal discorso di F. De Sanctis, Ministro della Pubblica Istruzione del Regno
d’Italia, il 13 aprile 1860, sotto il “nuovo” governo di Cavour, in risposta ad una
interpellanza parlamentare dei deputati Alfieri e Tommasi sull’ordinamento burocratico e amministrativo dell’istruzione secondaria – in R. Ceserani – L. De
Federicis, “Il materiale e l’immaginario”, vol. 7, Loescher Editore, To, Ia edizione, 1981, pag. 507).
5
Tuttavia, ci sono degli elementi – come quelli che attengono alla
formazione culturale dei giovani e all’educazione del popolo alla
condivisione collettiva dei problemi – che, se fossero stati concretamente avviati già dalle stagioni delle riforme volute dalla dinastia borbonica e dalle anticipazioni concettuali e ideologiche
dell’età illuministica napoletana2, probabilmente avrebbero agevolato le classi subalterne a predisporre e pianificare strategie che
non le avrebbero fatte sprofondare nel fossato dell’inefficace o
controproducente ribellismo brigantesco, alla lunga dimostratosi
esiziale per la stessa classe sociale popolare, anche a causa della
estraneità della borghesia a questa lotta.
Infatti, seguirono pesanti limitazioni delle libertà collettive e individuali tali da prefigurare condizioni di vita molto più disagiate,
per le quali l’universo contadino ribadiva con maggiore forza la
richiesta di giustizia sociale, di libertà dai bisogni, di distribuzione
delle terre signorili a quanti già le coltivavano o avevano l’intenzione di utilizzarle per costruirsi un’esistenza veramente dignitosa.
Ma la Storia non tiene conto, come è giusto che sia, dei “se” o
dei “ma”: essa si attiene alla lettura e alla interpretazione rigorosa
degli avvenimenti, che debbono apparire esemplari e tali da favorire
la costruzione di quei presupposti socio-politici da cui far scaturire
un processo di modificazione radicale dei rapporti di classe, come
pure una altrettanto grandiosa stagione di riforme con al centro le
richieste di giustizia sociale e di libertà per le classi meno abbienti.
Le vicende raccontate nell’Assalto dei briganti a San Biase e
dintorni di Michele Tanno e Achille Porfirio si svolgono sia lungo
l’anno 1809, età nella quale l’Europa è dominata dalla Francia bonapartista, sia negli anni appena successivi al 1860, confine storico
del processo unitario italiano, in cui il fenomeno del brigantaggio
esplose in tutta la sua durezza fino alla sua penosa conclusione
2
(Pensiamo, per esempio, a Giuseppe Maria Galanti, autore della Descrizione
delle Due Sicilie dove lo studioso illuminista descrive il quadro critico più completo delle sopravvivenze feudali del Regno napoletano; lui, Galanti, molto vicino ai contadini e profondamente convinto che il miglioramento delle loro
misere condizioni di vita fosse un elemento di giustizia sociale).
6
negli anni sessanta del XIX, con migliaia di morti e feriti (il capitolo Repressione del brigantaggio è molto significativo sotto questo aspetto).
Grazie ai successi militari francesi degli anni 1805/1809, che si
arrestano soltanto ai confini della Russia, tutta l’Italia, con l’esclusione delle isole, passa sotto il dominio francese e il Napoletano,
cacciati i Borboni nel 1806, viene affidato da Bonaparte al fratello
Giuseppe. I sovrani borbonici si rifugiano in Sicilia, sotto la protezione inglese, tentando da qui di suscitare un’insurrezione popolare
antifrancese, come quella sanfedista del 1799, che sarà alimentata
quasi subito da vasti sussulti di brigantaggio, che, sostenuti dagli inglesi e dalla popolazione contadina, ha dato indubbiamente molto
filo da torcere alle truppe francesi.
Un esempio di questo atteggiamento ci viene offerto fin dalle
prime pagine del saggio storico di Tanno e Porfirio, e precisamente
nel capitolo Primi briganti a San Biase, dove gli autori si soffermano sulle imprese brigantesche della banda di Fulvio Quici contro i giacobini di Trivento. In effetti, si stava verificando quello
che già molti, (sia intellettuali borghesi, di cui un numero non esiguo esprimeva condivisione con le idee giacobine, sia l’arcipelago
contadino, soffocato dalla povertà e dalle angherie dei ricchi) paventavano con sgomento e cioè la sostituzione di un ceto baronale
con un altro “padronale”, filo giacobino, entrambi, anche se con
modi differenti, antagonisti e ostili alle masse popolari.
In effetti, come già allora molti, intellettuali e non, supponevano
che l’alleanza dei cosiddetti “galantuomini” borghesi coi francesi
giacobini era determinata dalla volontà di cambiare le cose ma
solo in apparenza, e questo proprio per non cambiare nulla.
Ai vecchi oppressori feudali dell’ancien régime si stava sostituendo una nuova classe sociale, la borghesia pre-risorgimentale
e carbonara, in gran parte ostile ai progetti sociali di modificazione dei rapporti di classe e alle speranze utopiche delle masse
popolari. Ecco, dunque, la ragione per la quale la dinastia borbonica napoletana si è avvalsa delle bande brigantesche per la ripresa
del controllo sociale e politico sul territorio. Ma c’è da sempre –
e lo dobbiamo constatare con amarezza – anche un altro alleato
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tanto del ceto aristocratico/agrario, quanto dei briganti contro il
nuovo ordine rivoluzionario-giacobino, e cioè settori della Chiesa
legata da secoli ai propri privilegi sociali, non disposta a cedere
posizioni di prestigio, non propensa a rinunciare a comportamenti
chiaramente lesivi della dignità popolare o a non abdicare a quelle
forme di prepotenza verso deboli o l’universo femminile. Sotto
questo aspetto appare esemplare la vicenda dell’arciprete di Pietracupa fa ammazzare un giovane, Giovanni, fratello della ragazza
che il sacerdote tiene nella sua abitazione come addetta ai lavori
domestici, ma che tutti sapevano essere costretta a stare con lui in
casa per ben altri scopi…
Dunque, la Chiesa e il ceto feudale/notabiliare sono avversi alle
modificazioni della Storia in questa lunga stagione di sofferenze,
di soprusi, di atroci delusioni sociali.
È vero che i movimenti popolari del 1789/94 e lo sbocco repubblicano degli anni della Rivoluzione francese hanno aperto gli occhi
a tutti i sovrani illuminati. È altrettanto vero che le riforme non
avrebbero rafforzato le monarchie assolute; che i processi riformistici
avrebbero messo in moto meccanismi che i sovrani non sarebbero
stati in condizione di controllare; soprattutto l’ingresso delle masse
popolari incuteva spavento al ceto dominante. Ma è altrettanto vero
che le esasperazioni rivoluzionarie e le divisioni profonde fra i fautori del cambiamento radicale del quadro politico tradizionale hanno
favorito la reazione dei ceti passatisti, causando la sconfitta parziale
e temporanea del giacobinismo e la ripresa delle politiche oppressive
e antipopolari.
Non è un caso che il popolo minuto abbia parlato di queste vicende storiche celebrandole o criticandole aspramente nelle forme
essenziali della produzione culturale di quegli anni, assegnando
anche al canto e alla musica la testimonianza della propria delusione e della propria rabbia antiborghese e antirivoluzionaria.
Infatti, canti popolari come i seguenti sono la riprova chiarissima della delusione profonda delle masse popolari, la cui voce i
poeti e i cantori di “strada” hanno raccolto con tempestività e senza
personali manomissioni ideologiche:
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A lu suono della gran cascia
A lu suono della gran cascia
viva sempre lo populo bascio,
a lu suono de li tammurielli
so risuorte li puverielle.
A lu suono de le campane
viva viva li populane,
a lu suono di li viulini
sempre morte a’ giacobini.
oppure la canzone sempre d’impianto sanfedista e antigiacobino:
È venuto lo papa santu
È venuto lo papa santu,
ch’ha portato li cannoncini
p’ammazza li giacobini;
et voilà et voilà,
cauci in culu a li libbertà.
È venuto lo francese
co no mazzo de’ carte ‘mmano:
liberté, égalité, fraternité,
tu rubbi a me, io rubbo a te.3
A questo punto è il momento di chiederci se l’amara esperienza
del brigantaggio molisano, di cui gli autori del saggio scrivono in
modo chiaro e che attraversa i decenni fino alla conclusione dolorosa della sua esperienza “sovversiva”, ci comunichi oggi qualcosa
di rilevante e che riflessioni ci spinga necessariamente a fare.
Dobbiamo come prima cosa sottolineare e confermare che le
condizioni sociali dalle quali i briganti hanno preso le mosse per
le loro amare e violente esperienze sono quelle di estrema povertà
Canzoni anonime in a cura di Giuseppe Vettori, Canzoni italiane di protesta,
1794/1974, dalla Rivoluzione francese alla repressione cilena”, Edizioni Paperbacks poeti 26, Newton Compton, Editori, Roma, marzo 1976, pp. 54-56.
3
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e di assenza quasi totale di educazione culturale. Se alla povertà
individuale e delle proprie famiglie si aggiungono le sofferenze di
classe, se poi sono presenti condizioni di assenza di scolarizzazione anche primaria, allora in genere si possono verificare tutte
quelle condizioni che spingono i ceti non abbienti alla pratica della
sola violenza sopraffattrice.
I briganti molisani del XIX secolo – al di là delle stagioni della
loro dura protesta – sono in ogni caso accomunati dall’estrema precarietà delle loro esistenze, alla quale essi danno risposte che riguardano e coinvolgono direttamente i canali della prevaricazione, molto
spesso irrazionale e non suffragata da una lettura politica delle diversità di classe, delle sopraffazioni che i ceti dirigenti perpetrano ai
danni delle classi non abbienti. Oggi la povertà, che sta coinvolgendo
milioni e milioni di individui, in Europa e nel resto del mondo, a
causa delle politiche di austerità che il capitale internazionale e la finanza privata impongono alle comunità nazionali e ai loro organi
politici, non fa altro che acuire e aggravare sia il dislivello sociale
fra le classi sociali (gli estremamente poveri e gli abnormemente ricchi e agiati), sia le tipologie di contrasto ai ceti ricchi, fautori della
globalizzazione, che vanno dal terrorismo internazionale alle contrapposizioni di frange spesso molto aggressive e interne ai singoli
stati, dove le prevaricazioni e gli odi sono infinitamente acuiti da
queste condizioni di diseguaglianza e di ingiustizie.
Quello che è stato il brigantaggio nell’età risorgimentale oggi
si può presentare in vesti differenti ma la sua ponderosa pericolosità e il suo significato non cambiano: ai ricchi e ai soprusi assurdi
della politica istituzionale corrispondono l’odio e l’avversione
delle classi che soffrono la crisi e di cui queste non vedono la conclusione.
Come si manifesta oggi il disagio sociale? Questo si rivela attraverso la rivolta degli immigrati (ricordiamoci della loro atroce
sofferenza e della loro penosa emarginazione, ridotti in condizione
di schiavitù e ribellatisi nella città di Rosarno), emarginati e additati come estranei, che potrebbero concorrere alla distruzione del
tessuto sociale nazionale. Inoltre, esso si rivela anche attraverso
una aggregazione più consistentemente matura che spinge gli
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stessi italiani ad azioni di protesta energica e costante contro il potere, cieco e egoista nella difesa dei propri privilegi e della propria
arroganza di classe.
La rabbia e la violenza – atteggiamenti contigui alla prepotenza e
alle angherie dei briganti “non politicizzati”, che sono stati percentualmente in numero chiaramente maggiore negli anni che hanno
preceduto il 1860/1870 – possono essere regolate dalla educazione
culturale di cui le popolazioni debbono riappropriarsi per un cammino comune e condiviso che tralasci la rude esplosione di una pur
legittima avversione.
Oggi, in epoca postmoderna, con l’affermazione del neoliberismo, con gli attacchi pervicaci di gruppi di speculatori finanziari
alle autonomie nazionali dei paesi della UE, alle condizioni di vita
delle popolazioni europee, di cui ampi settori scivolano lentamente
nella povertà, la rivoluzione consiste nel rispetto e nella quotidiana
applicazione della Costituzione, il cui impianto politico e concettuale raffigura e contiene quanto può servire per ridefinire i termini della solidarietà, della eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi
alla legge, della partecipazione responsabile alle dinamiche sociali
del paese.
Di qui, la magistrale lezione dei nostri Maestri torna ad arricchire la Storia e ad essere di stimolo per le popolazioni di ciascun
paese.
Franco Novelli
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Omnes qui gaudetis de pace, modo rectus iudicate
(Sant’Agostino)
1983: Achille Porfirio e Michele Tanno sul percorso dei briganti
SVILUPPO DEL BRIGANTAGGIO
Nascita del banditismo
Nelle contrade di San Biase e dintorni i primi episodi di brigantaggio, attestati con documenti storici, risalgono agli anni antecedenti alla Rivoluzione Francese. Tuttavia, essi si possono far
ricondurre a semplici atti di malandrinaggio come furti di bestiame, ruberie di oggetti o utensili agricoli, derrate o altro genere,
con sporadiche azioni sanguinarie, non già a stragi o ad atti terroristici premeditati su persone.
Con riferimento ai soli paesi del circondario, ci risulta che intorno al 1792, era attivo a Trivento e nei paraggi il figlio del capitano Landi, un certo Francesco, il quale, alla testa di un gruppo di
congiunti, combinava ogni sorta di violenza a carico delle famiglie
benestanti locali che, per timore di ricatto e di scandalo, tenevano
celati tutti gli abusi subiti.
Più o meno nello stesso periodo, un tale Fulvio Quici, giovane
furfante triventino cresciuto in un ambiente familiare di ladri e malfattori, compiva le prime sortite sulle strade e nei boschi. Nella
notte del 31 luglio del 1792, appena sedicenne, in contrada Castagna del luogo assaltò un Procaccia1, detto da noi Cavallaro della
Posta – ovvero un messo pubblico a cavallo che aveva il compito
Lunedì 31 luglio 1792, sul luogo detto La Castagna, lungo la strada regia,
la banda attese il Carraggio del Procaccia, formato da 8 muli e scortato da 4
gendarmi. Il convoglio fu fermato da Samuele Quici che, con l’aiuto del nipote
e degli altri, fece sdraiare faccia a terra tutta la scorta e poi saccheggiò i muli
carichi di corrispondenza e valuta.
Il gruppo era composto, oltre che di Fulvio Quici e dello zio Samuele, dagli
affini Vincenzo Scarano alias Marrano, Saverio Berardinelli, Policarpo Scarano.
Inoltre ne facevano parte Giovanni Giribaldi, Giovanni della Vecchia, Girolamo
Muccilli, Benedetto Giribaldi e Cipriano Giribaldi di Spinete e Pasquale Centrella di Casalciprano.
Alla taverna della Cercogliola di Ripalimosani si unirono a loro altri dodici
fuorilegge detti tagliole di Campobasso.
1
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di consegnare a domicilio messaggi, lettere, documenti e valute –
mentre da Campobasso si recava scortato in direzione di Napoli.
Quici e lo zio Samuele lo attesero al varco e, mediante l’aiuto di
altri complici, con un blitz lo derubarono.
Il rischio dell’assalto ai Procaccia e ai tanti mercanti e viandanti, che erano costretti a passare per le vie mal sicure del Contado di Molise, costituiva in quel tempo un freno alla circolazione
assai grave e frequente. Spesso il commercio delle merci e il traffico dei prodotti e degli animali erano ostacolati o, in ogni modo,
condizionati da queste aggressioni.
Il fenomeno del brigantaggio, in forma organizzata e diffusa,
composto di comitive al cui vertice era eletto un capo più abile e
spietato, nelle nostre parti nasce con la Rivoluzione Napoletana
del 1799. A spingere, almeno inizialmente, alcuni soggetti ribelli
a darsi alla vita clandestina era perlopiù lo spirito di rivolta contro
le iniquità e i tanti torti patiti. Ma non mancavano, poi, casi di delinquenti comuni, di disertori delle guardie civiche o di semplici
contadini e pastori che, per sfuggire alla giustizia, si camuffavano
da briganti. In ogni caso, questi, una volta entrati in comitive,
erano costretti a rimanerci, pena la loro soppressione fisica.
Il territorio circostante, che ognuno di questi individui conosceva molto bene, per la presenza di scorciatoie, guadi, anfratti,
rocce, caverne, boschi fitti e siti elevati di osservazione, costituiva
per le loro imprese criminose un luogo sicuro per operare e un labirinto per quelli che dovevano inseguirli e catturarli.
Oltretutto, coperti dall’omertà di buona parte della popolazione
o, addirittura, dal tacito consenso di diversi protettori, e riforniti
di notizie e di viveri dai propri familiari e parenti, essi si trovavano
nelle condizioni più favorevoli per sferrare attacchi a sorpresa e
ritirate precipitose dopo ogni loro misfatto.
La massa del popolo di ogni località, non avendo alcuna protezione da parte delle forze di potere e atterrita dalle minacce dei
briganti, si rinchiudeva nel silenzio e, quindi, era restia a qualsiasi
forma di collaborazione con le autorità costituite. La rete di spionaggio e d’informatori era talmente ramificata tra la gente che ogni
minima segnalazione agli organi pubblici a scapito dei briganti su16
bito giungeva all’orecchio di costoro… e la vendetta scattava inesorabile sul traditore!
Il governo cercò d’intervenire alla meglio con leggi e prammatiche a difesa della gente per proteggere la sicurezza delle strade e
del commercio. Ma a dispetto di ogni costrizione su congiunti e
parenti, sotto minaccia di pene, patibolo o promesse di sostanziose
offerte di taglie a chi forniva notizie o semplici indizi sul conto del
ricercato, i vari delegati e organi di comando non riuscirono minimamente a incidere sul muro della reticenza generale.
Essi potevano solo avvertire chi si metteva in viaggio per affari
urgenti di munirsi di armi e di spostarsi uniti e sotto scorta.
Anche alcuni preti e monaci si prestavano al manutengolismo e
molte volte offrivano asilo ai briganti nelle chiese e nei conventi.
Altri, fedeli alla Corona, e in particolare al cardinale Ruffo che
si mise a capo dei realisti, si limitavano a predicare ai parrocchiani,
dal pulpito delle chiese, l’odio e la vendetta contro il solo invasore
giacobino anticlericale.
La plebe, immersa nella miseria, nell’ignoranza e nella superstizione, schiacciata altresì dal lungo dominio feudale e bistrattata
dal nascente avido ceto borghese, oltre che incompresa dall’ordine
sacerdotale secolare, conservatore e sottomesso al regime, vedeva
Rudere Forno dei Briganti, Bosco Pietravalle - Salcito
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in qualche modo nella figura del brigante il vendicatore dei torti e
delle angustie lungamente subiti. Essa, perciò, stava tacitamente
dalla loro parte.
Primi briganti di San Biase
A San Biase le prime notizie attendibili sugli individui che si
diedero “alla macchia” o che, comunque, stabilirono stretti rapporti di connivenza con le comitive brigantesche agenti nei paraggi
e aventi i covi principali nei boschi vicini di Pietravalle e di Trivento, rimontano anch’esse al 1799.
I primi sanbiasesi coinvolti nelle azioni banditesche furono Modestino Marchetta, Francesco Marchetta, Giuseppe Mattiacci, Gesualdo Giagnacovo, Costanzo Perrino e Giuseppe Ziccardi.
Chi erano costoro e perché vollero o furono costretti a seguire
questa vita spericolata e vagabonda? I documenti d’archivio consultati ci attestano che Modestino Marchetta esercitava l’attività
di viaticale2, vale a dire di mulattiere e postiglione e, perciò, recandosi di continuo con le sue “vetture” animali nei paesi vicini e
lontani per il trasporto di merce e di vari oggetti o per le ambasciate, onde avere le spalle coperte, doveva mantenere per forza
con i briganti buone relazioni, rifornendo loro spesso viveri e notizie utili. Francesco Marchetta, Giuseppe Mattiacci e Costanzo
Perrino erano semplici bracciali e si spostavano da una località
all’altra, anche lontane da San Biase, per lavorare in campagna,
nel bosco o per altri affari.
Questi, essendo nullatenenti e non avendo quindi niente da perdere, erano spesso in giro in cerca di ventura e di espedienti.
Durante questi movimenti senza dubbio avevano avuto modo
di conoscere, prendere contatto e fare breccia in qualche maniera
con le compagnie di banditi costituite e operanti nei dintorni.
Gesualdo Giagnacovo era stato fornaio e aveva svolto anche
L’ultimo viaticale di San Biase è stato Antonio Di Luco, scomparso nel
1966.
2
18
Veduta contrada Codacchio - Trivento
l’incarico di caporale del corpo di Guardia Civica della corte baronale e, pertanto, particolarmente esperto nel maneggiare le armi
e nell’arte militare.
Per queste sue attitudini ed esperienze doveva essere assai richiesto dai gruppi eversivi organizzati in loco.
Giuseppe Ziccardi era boscaiolo e vetturale e, quindi, occupato
al taglio, trasporto di legna e carbone tra le varie contrade e paesi.
Anche lui, per questo mestiere, era in stretta relazione con i briganti.
Costoro erano stati tra i primi a rivendicare e occupare le terre
disboscate indebitamente dal barone per metterle a coltura.
Le loro azioni malavitose, da quanto si evince dagli atti giudiziari,
non erano rivolte tanto al ladrocinio puro e semplice ma ispirate
piuttosto a contrastare le recenti malversazioni degli speculatori locali e a contrapporsi alle antiche e nuove usurpazioni e angherie baronali.
Gli ultimi avvenimenti militari e sociali avevano accentuato ancora di più in loro la diffidenza nei riguardi di questi opportunisti,
votati ormai tutti insieme, per spudorata convenienza, ai nuovi orientamenti politici. Questi soggetti ribelli, infatti, durante la Rivoluzione
Napoletana del 1799, erano stati a capo del movimento di reazione
popolare contro il giacobinismo più sfrenato dei Francesi.
“Giacobino” dicevano a tutti “è chi tiene pane e vino”!
Essi avevano avuto subito il sospetto che le Armi transalpine
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fossero entrate nel Regno di Napoli per appoggiare i cosiddetti
“galantuomini” e i più abbienti al fine di formare, a loro discapito,
una nuova classe di dominatori.
Un tale presentimento era stato confermato dal voltafaccia avvenuto, di fatto, in alcune persone del posto più agiate, come il
medico Nicola De Paola, il chirurgo Pasquale Giagnacovo, l’erario di corte Eduardo Continelli, lo speziale Modesto Marini, il
Orrido sul Quirino - Guardiaregia
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luogotenente Michelangelo Marino e altre a queste più vicine.
Questi notabili, che durante le precedenti lotte antifeudali per il
riscatto sociale e per la conquista delle terre erano stati a loro fianco
a rivendicare i comuni diritti, ora avevano tradito la loro fiducia,
passando dall’altra parte della barricata e appoggiando addirittura
il “partito” del barone il quale era stato il primo a convertirsi al giacobinismo.
Quando questi esponenti più avveduti e risentiti del popolino si
resero conto fino in fondo di essere stati ingannati proprio dalle famiglie “dabbene”, si congiunsero a quei focolai d’insorgenti o di
bande armate che, accesi da un misto di spirito di patriottismo e
d’avventura o da semplici istinti di fuorilegge, sorgevano e si moltiplicavano in molte località protette e impervie del Contado di Molise. Questa comitiva di sediziosi paesani, sfiduciata anche nei
confronti del governo borbonico che non era stato in grado di venire incontro alle loro urgenti aspettative, si era mossa di propria
iniziativa e unita alle altre compagini già formate del posto per farsi
giustizia da sé, secondo un principio più che altro anarcoide allora
nascente, mentre il resto della popolazione era rimasta leale alla
monarchia borbonica.
Durante i disordini della Rivoluzione essi avevano partecipato
a molte imprese criminose, assaltando e saccheggiando diverse
case di possidenti dei paesi vicini.
Nella pubblica accusa mossa, poi, contro di loro dal giudice Micheletti, così è trascritto:
Nel mille settecento novantanove foste gli autori di tutt’i mali di
quel Paese. Dopo l’entrata delle armi Francesi, voi tutti uniti principiaste a spargere notizie allarmanti contro lo Stato, machinavate
la uccisione de’ Galantuomini, ed il saccheggio delle loro case. Le
vostre proposizioni crebbero dopo il dì ventinove Maggio, che ci
fu l’attacco tra la Guardia Civica di Triventi, ed una comitiva di
Briganti. Perché morirono molti della Guardia civica, voi apertamente sparlavate, e minacciavate, gloriandovi dell’eccidio. Avreste
mandato in effetto le vostre machinazioni, se non fosse venuta a
tempo la truppa francese.
Vi portavate ben due volte al giorno nel bosco di Triventi detto di
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Pietravalle colà confabulavate co’ briganti, e quindi ritornando al
paese spargevate delle notizie allarmanti; e tra l’altro un giorno nel
ritirarvi dalla campagna, diceste in pubblico, che i briganti volevano
invadere la Terra di San Biase, ed andavate persuadendo la gente,
che l’avessero ubbiditi; ed altre cose, che si ravvisano da un processo verbale formato contro di voi.
La loro partecipazione ai tumulti nel maggio 1799 contro i giacobini di Trivento, tra le file della banda capeggiata da Fulvio Quici,
è provata da alcune testimonianze rilasciate negli atti giudiziari e
nelle cronache del giornale repubblicano dell’epoca, il Monitore.
In seguito a questi eccessi, i patrioti triventini chiesero aiuto al
comandante delle milizie Valiante e al commissario di Dipartimento
Neri. Questi incaricati, che erano in continuo movimento con le
forze repubblicane per inseguire e ridurre a partito i rivoltosi di molti
paesi, insorti contro il nuovo stato delle cose, organizzarono una
spedizione armata da portarsi verso Trivento e dintorni a sedare la
reazione fomentata dai realisti e dai briganti.
Neri partì da Campobasso il 7 maggio di quell’anno con una
truppa di circa 200 soldati francesi e polacchi e con 20 cavalli.
A Limosano, dove fecero sosta, si unirono altri 700 volontari che
accorsero da diverse parti. Il plotone che si formò fu diviso dal Neri
in due corpi: uno di questi, guidato dal transalpino Perruset, si diresse verso San Biase, e l’altro sotto il comando dello stesso Neri,
prese per Civita con l’intesa che ciascun raggruppamento, nella
mattina del 10, si sarebbe mosso in pari tempo per Trivento.
Il corpo militare che giunse a San Biase, composto di circa 150
unità, si fermò nella vicina località di S. Leonardo dove rimase accampato per due giorni e tre notti. Qui i ribelli al governo francese
erano tutti scappati o uniti a quelli che infuriavano a Trivento,
mentre i pochi pacati repubblicani si fecero avanti e si misero a
disposizione dei nuovi arrivati.
Nel tardo pomeriggio del 9 fu mandato colà, su comando del
capo della truppa, un messo, tale Germano Ciccarella, giovane di
ventuno anni di San Biase, con l’urgente ambasciata di far cessare
subito ogni eccesso e rimettersi all’ordine costituito.
La stessa sera giunse a Trivento anche un altro giovane di Acquaviva partito da Civita con lo stesso ordine.
I due sventurati, capitati proprio al culmine della reazione, non
solo non furono ascoltati ma, senza alcuna colpa, barbaramente
fucilati al momento dalla cieca furia degli insorti.
I miseri corpi furono buttati e ricoperti in una fossa scavata nel
luogo detto lo Piano.
La mattina del 10, dopo aver atteso invano tutta la notte il ritorno
dei due poveretti, le truppe, come d’accordo, si mossero in contemporanea per Trivento. Prima di giungere a destinazione, Neri
mandò un ultimatum ai sovversivi con l’ordine immediato d’arrendersi e deporre le armi. Questi, che già avevano condotto altri patrioti al Piano per l’esecuzione, tra cui tre fratelli, Francesco,
Nazario e Giovanni Porfilio (il cui cognome nel 1824 fu cambiato
in Porfirio), nello scorgere l’avvicinarsi della colonna della forza
armata francese, si diedero alla fuga giù per il dirupo della Torretta.
L’intera soldatesca poté così entrare a Trivento accolta da una
processione di gente che, secondo la descrizione del Monitore
Sajettere nella Torre dei Briganti - Contrada La Torre San Biase
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avanzava “preceduta dal Clero, col Sacramento e le statue dei suoi
Santi”. Neri, che si trattenne poco sul posto per correre altrove a
difendere altri assalti, con il consenso dei capi della municipalità,
fece condannare lo stesso giorno alla fucilazione, previa confessione, due briganti che, intrappolati e accusati dalla folla furibonda,
nonostante avessero volontariamente ceduto le armi, non riuscirono
a salvare la pelle: tale Pietrantonio Coletta di Trivento e un certo
Carmine di Michele Fiore di San Biase.
Ma l’impresa più temeraria concertata da Modestino Marchetta
e compagni fu il rapimento del barone Francesco.
Appena dopo la caduta della “sedicente” Repubblica Napoletana, nel giugno del 1799, al culmine della sollevazione e della
presa di potere popolare, questo gruppo, in collaborazione con una
banda locale di ribelli e in una circostanza che non ci è nota, riuscì
a catturare Francesco e ad arrestarlo.
A riferirci dell’accaduto è il fratello del barone, Carlo De Bla-
Morgia dei Briganti - Salcito
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siis, il quale nel “Foglio dei Lumi” compilato e presentato ai giudici del processo – che sarà poi svolto nel 1809 per l’uccisione di
Francesco – riportò che “il Conte di S. Biase come uomo attaccato
al Governo Francese fin dal 1799 fu perseguitato dagli Anarchisti
di quel luogo, avendolo fin carcerato e condotto in Triventi in quell’epoca funesta delle popolari carcerazioni”.
Gli “Anarchisti di quel luogo” erano proprio Modestino Marchetta e compagni! Il barone, a ogni buon conto, quella volta si
salvò dalla forca, perché fu subito soccorso dal cugino Cardone
che, versando un riscatto agli aguzzini, riuscì a liberarlo e a riportarlo al sicuro tra le mura del suo castello di Castelbottaccio.
Fatti avvenuti di seguito
Con il ritorno al trono del re Ferdinando IV e la restaurazione
della monarchia borbonica seguì ovunque una sanguinosa repressione a carico dei repubblicani e in generale di quella classe di galantuomini che si era messa a capo del movimento riformatore,
con arresti, confische dei beni, esili e condanne alla decapitazione.
Il barone di San Biase, benché avesse sobillato il popolo a innalzare l’Albero della Libertà3 in piazza e costretto gli amministratori comunali a riconoscere il nuovo Stato repubblicano, riuscì
a scampare per puro caso ogni pena e rimase perciò indisturbato
nel palazzo del cugino Cardone. Anche quei pochi notabili del
luogo che si erano votati al nuovo governo, per quanto ne sappiamo, non subirono alcuna conseguenza.
I briganti di San Biase, delusi come gli altri delle località limitrofe per non essere stati in qualche modo ricambiati dai Borboni
per l’azione di resistenza svolta a loro favore, tornarono alle proprie
case. La maggioranza degli abitanti li accolse come veri paladini.
Molte turbe brigantesche rimasero comunque nei paraggi a continuare, anzi, inasprire le loro azioni nefande per solo istinto bruto
L’Albero della Libertà era un comune albero di quercia o di pioppo che si
piantava nella piazza principale del paese. Esso, adornato di fiori e fettucce tricolori, denotava il potere libero del popolo.
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di predoni e violentatori piuttosto che come difensori del sovrano
legittimo.
Nel 1805, e precisamente la sera del 26 luglio, un disastroso terremoto, avvenuto nella parte centrale del Contado, distrusse molte
case di San Biase.
Ma quell’anno, oltre che per il terribile sisma, deve essere ricordato anche per un grave fatto di violenza successo a San Biase.
Il 18 dicembre, infatti, una banda di briganti, sicuramente con
la complicità di qualche spia del posto, uscì dai boschi vicini e
fece irruzione nel borgo, assaltando alcune case di possidenti del
luogo tra cui quella di Michelangelo Marino, allora cancelliere e
archiviario di documenti amministrativi dell’Università.
L’azione aveva, presumibilmente, il solo scopo di derubare o
d’estorcere denaro ai più facoltosi come Nicola De Paola, Eduardo
Continelli e altri.
Marino, che reagì con le armi, anche in qualità di ufficiale Luogotenente della corte locale, fu freddato dai banditi con più colpi
di scoppette.
I briganti, com’erano soliti comportarsi con chi ardiva e ordiva
contro di loro, non appagati dall’assassinio e saccheggio compiuti,
infierirono sulla povera vittima e appiccarono il fuoco alla sua abitazione.
Le fiamme, oltre che distruggere i suppellettili e gli oggetti personali, bruciarono buona parte degli atti, registri e carte varie delle
deliberazioni del parlamento, custoditi presso l’archivio di casa.
Con questo attentato iniziò una nuova fase di gravi turbamenti
e oltraggi ai galantuomini che, di conseguenza, disturbò anche la
quiete pubblica del posto.
La perdita di una persona stimata che si era battuta contro i soprusi baronali e che aveva sostenuta la causa del popolo, come Michelangelo Marino, lasciò buona parte della cittadinanza in una
profonda costernazione.
Nel rogo andarono in fumo tante documentazioni e decreti ricevuti dal sovrano Consiglio, di capitale importanza ai fini del prosieguo della causa in corso con il barone.
La distruzione di questi importanti carteggi comportò all’Am26
ministrazione comunale di San Biase, oltre che maggiori oneri finanziari, ulteriori ritardi per la risoluzione dei capi di gravami contestati dalla popolazione.
Nella primavera del 1807, a un anno dalla riconquista del Regno
di Napoli da parte dell’esercito di Napoleone, Francesco, forte della
nomina di “Incaricato di Polizia” appena ricevuta dalla costituenda
Intendenza di Campobasso e in più con il dente avvelenato del vecchio cane di casa ferito, accompagnato da alcuni fedeli armigeri,
ritornò a San Biase. Nel suo palazzo, anche se spogliato dei beni
feudali e del titolo baronale, l’ex signore del borgo mise in pratica
la vendetta da lungo tempo covata, facendo subito arrestare quei
facinorosi anarchici locali che lo avevano preso di mira e fatto prigioniero nel 1799. Aveva in quei giorni predisposto, d’accordo con
le autorità giudiziarie di Trivento e Campobasso, le operazioni di
arresto e traduzione in galera dei singoli ribelli: l’accusa sarebbe
stata per ciascuno di delitti di brigantaggio e di altri reati.
Una sera del mese di giugno di quell’anno, all’ora della cena,
un corpo di guardia civica composto di gendarmi di San Biase e
Sant’Angelo fece irruzione simultaneamente nelle abitazioni di
Gesualdo Giagnacovo, Francesco Marchetta e Giuseppe Ziccardi,
i quali furono ammanettati e condotti direttamente nelle carceri di
Veduta valle del Rio - San Biase - Trivento
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Campobasso. Questa retata di catture eseguita dalla forza pubblica
fu subito avvertita dai cittadini come una rappresaglia orchestrata
dall’ex barone. Il successivo 27 luglio, nel tardo pomeriggio, Francesco in persona, ormai uscito allo scoperto quale incaricato di
pubblica sicurezza, con due gendarmi al fianco entrò di forza nella
casa di Costanzo Perrino facendolo imprigionare. Per una notte lo
trattenne nel carcere del palazzo e il giorno dopo lo fece trasportare
in quello di Trivento. Il 29 dello stesso mese, alla stessa ora e con
la stessa guardia civica, s’introdusse nell’abitazione di Giuseppe
Mattiacci e condusse anche lui nella cella del carcere. Poi seguì la
stessa sorte degli altri.
Infine, nel mese di agosto, riuscì a catturare l’inafferrabile viaticale Modestino Marchetta. Costui sorpreso a mezzogiorno nella
propria abitazione, fu prima trattenuto nel carcere locale e successivamente tradotto in quello di Campobasso.
Con l’arresto del Marchetta si completò il piano di ripulitura
messo in atto da Francesco contro quegli individui tacciati dallo
stesso e dal ceto benestante come “cervelli torbidi” della comunità.
La cattura e la prigionia di tali soggetti oppositori al regime, considerati al contrario dal popolo meschino i “beniamini” del paese,
provocò in seno alle famiglie e ai parenti degli stessi una forte indignazione e avversione contro l’ex barone, autore sfacciato della
spietata reazione.
Ma ancora più indignazione e avversione questi provarono contro l’ex feudatario, quando appresero la lunga pena detentiva comminata ai loro cari, emessa dopo un processo sommario da
scontarsi ai rigori dei “ferri”.
Gli incriminati furono sottoposti al truglio4 e trasferiti prima alle
galere di Lucera e poi a quelle di Foggia. Infine, dopo qualche
tempo, in quelle di massima sicurezza di Trani.
I detenuti si dichiararono tutti innocenti ed estranei alle accuse
formulate contro di loro.
Il truglio era un procedimento penale per mezzo del quale tra il tribunale e
il reo confesso o presunto si pattuiva la condanna penale o pecuniaria.
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In un successivo interrogatorio fatto a Foggia il 16 dicembre del
1807 dal giudice del tribunale di Puglia, Biagio Micheletti, ognuno
depose che la cagione della carcerazione era derivata
solamente per l’astio che il Barone di San Biase ha coi Cittadini
per causa del terraggio5; e che aveva esso Barone cercato addossare
a taluni altri che si mostravano più risentiti nel difendere il diritto
della Cittadinanza dalle calunnie di brigantaggio.
In più, a un ulteriore capo d’imputazione mosso contro Francesco Marchetta – ritenuto responsabile insieme con Francesco Angelocola dell’omicidio di Orazio di Nunzio d’Astolfo nel marzo
del 1803 in contrada Licadicilli di Trivento, mentre costui era intento a “pascere pecore e capre” – egli rispose:
Di questo fatto non so niente, giacché non ho fatta mai unione con
Francesco Angelocola, e mi figuro, che sia stato un abbaglio di
nome, giacché nel mio paese vi esiste un altro Francesco Marchetti.
Per le famiglie colpite da questa pesante e disonorante punizione, l’indignazione del momento, si trasformò presto in un disegno comune di ritorsione contro l’ex barone Francesco da
mettere in pratica a tempo e nei modi opportuni.
Atto di violenza e di sangue su Brigida
Brigida De Paola nel 1809 era una ragazza che si affacciava alle
soglie della vita con i suoi quindici anni e la voglia di sognare, saltare e cantare come una calandrella6 che si alza in volo al sorgere
del primo sole di primavera.
Il terraggio è l’antenato dell’affitto che ogni colono doveva consegnare alla
corte baronale. Esso consisteva di una parte, di solito un decimo – detta perciò
decima – del prodotto seminato e raccolto.
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La calandrella è un’allodola che una volta, più di oggi, veniva a nidificare
nelle nostre alture.
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Bosco Maccavillo - San Biase
Venutale a mancare la madre alcuni anni prima era rimasta sola
con il padre che, nonostante le ristrettezze e le circostanze infelici
in cui viveva, aveva compiuto ogni sacrificio per farla crescere e
educarla secondo i buoni costumi dei tempi.
Divenuta così giovinetta e ricolma di tutte quelle grazie che la
natura le aveva donate era stata presa di mira da un tale di nome
Nicola Marchetta “giovine disutile, disturbatore della publica Pace
de’ suoi paesani, iracondo, e capace di qualsivoglia iniquità, e dissolutezza volendo forse seguire, ed imitare le orme, ed i nefandi
delitti commessi dal famoso Brigante carcerato Francesco Marchetta di lui germano Fratello”.
Costui, cresciuto nella melma della delinquenza di quegli anni, girava sempre munito di baionetta e d’altre armi, pronto a minacciare
e a offendere chiunque. Oltre che cattivo d’animo era brutto
d’aspetto per la testa quasi depilata, la barba a ciuffi rossicci, la faccia
paonazza e per una profonda cicatrice in piena fronte.
Una sera si presentò a casa della ragazza e, con modi spudorati
e minacciosi, pretese dal padre di averla presto in moglie.
Crescenzo, da buon padre di famiglia, chiese tempo, almeno tre
anni – “tanto perché si sarebbe resa di età più confacente, quanto
perché” – avrebbe – “avuto poi respiro di farle tra detto tempo quel
corredo necessario in casi simili, ed al suo stato, giacché allora
l’avea quasi nuda, attesa la sua povertà”. Ma il furente giovane lo
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incalzò imponendogli che – “non poteva attendere e che perciò
avesse veduto come sollecitare la di lei situazione”.
Il povero genitore, messo alle strette, gli diede parola che si sarebbe – “industriato di agevolare l’affare colla vendita di certo
vino che teneva riposto e col ritratto” – avrebbe – “comprata qualche cosa più necessaria al corredo”. E con questa promessa il pretendente sembrò mettersi la testa un po’ in pace.
Intanto, non smise di ronzarle intorno, anzi, cercò in tutte le maniere di pedinare perfidamente la candida giovane che, sebbene
avesse vagheggiato un destino diverso, alla fine accettò, malgrado
tutto, la sua asfissiante pretensione. E non poteva fare diversamente:
la sua sorte, ormai, era segnata perché, essendole costui sempre alle
costole, nessun altro si sarebbe azzardato ad avvicinarla.
In ogni caso Brigida badava bene a stargli alla larga.
E così quando doveva recarsi in campagna o altrove, per “non
cadere nelle di lui mani disonoratamente” era costretta a seguire
sempre il padre o cercarsi qualcuna per andare insieme o unirsi a
un gruppo di persone per stare più sicura. Ad accompagnarla, di
solito, si prestava Saveria D’Andrea, sua amica e dirimpettaia,
poco più grande di lei.
Un giorno di gennaio si avventurò ad andare da sola alla sua
masseria, situata nella contrada Grotte, per portare da mangiare al
padre. In questa occasione, così ci rivela Francesco Perrino:
Camminando io innanzi di costei, intesi chiamarmi dalla medesima
gridando ad alta voce acciò l’avessi aspettata, perché il sudetto Nicola Marchetta […] voleva batterla, per cui accorsi verso di lui, ed
avendolo rimproverato, se ne andiede via, e la detta Brigida proseguì il camino in mia unione sinché giunse nel suo territorio.
Anche quando rimaneva sola in casa – il padre, contadino, era
quasi sempre nei campi – doveva rinserrarsi per non essere sorpresa dal suo focoso e infido spasimante. Alla sera, quando rientrava il padre, secondo le consuetudini dell’epoca, Nicola si
presentava, sempre armato, a casa di lei al momento della cena e,
intrattenendosi intorno alla tavola e al focolare fino a tarda ora,
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costringeva il povero Crescenzo, stanco e assonnato, a fare lunghe
e penose veglie. Di giorno, come riferisce il padre,
allorché io era in campagna, faceva chiamarla dalle genti del vicinato di lui parenti [...] e quivi discorrevano tra loro; qual cosa penetratasi da me, avvertii detta mia figlia che più non fosse uscita di
casa, e che avesse evitata l’indole cattiva di Nicola, che poteva offenderla nell’onore.
Per circa un anno questa pesante situazione si trascinò avanti
così, ma in seguito il comportamento di Nicola mutò di male in
peggio; e come ebbe a dire la stessa Saveria
d’allora in poi sono stati disonesti i suoi pensieri, giacché ha avuto
di continuo in mente di disonorarla, per cui detta Brigida, avendo
ciò penetrato, è stata molto accorta nella difesa della di lei propria
stima, tuttoché il Marchetta intimorita l’avesse più volte di volerla
uccidere se non annuisse a’ suoi pravi disegni.
Eppure Brigida, nonostante queste intimidazioni e prepotenze
subite – “con costanza, e fermezza” – seppe resistergli.
Negli ultimi tempi recapitandosi più volte alla sua masseria in
compagnia di un’altra amica, la “zitella” Domenica Leone, secondo
la testimonianza rilasciata da costei,
ha ardito detto Nicola uscire d’avanti in mezzo della publica strada
colla baionetta in mano, ed ha cercato quattro, o cinque volte violarla
nella stima […] minacciandola di volerla uccidere se non acconsentiva alle sue voglie; e tanto vero, che io una volta mi feci coraggio di
strappargli l’armatura, che ruppi con viva forza sul ginocchio, e buttai
dentro una siepe, e l’avrebbe sicuramente disonorata se non avess’io
difeso da quando in quando la di lei stima.
La mattina del 16 aprile 1809, giorno di domenica, Brigida andava ben presto con altre donne verso il bosco di Pietravalle, in
agro di Salcito, “a rilevare taluni fasci di spini” rimasti a terra dopo
il taglio degli alberi. Nicola, che non si dava mai pace, la seguì
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come un cane da caccia. Al gruppo, come testimoniò una fanciulla
di dodici anni di nome Rosanna D’Andrea, “in atto, che le altre
donne camminavano più innanzi, ed essa rimasta era più indietro
in unione di detta Brigida”, si avvicinò Nicola “ed intese dire dallo
stesso verso la medesima le seguenti parole: Oggi avemo da fare
‘na bella cosa a quattr’occhi a me, e te, e se tu non la fai io ti uccido”. L’ingenua Brigida, non afferrando il truce disegno che egli
aveva in testa, gli rispose “che s’era cosa buona l’avrebbe fatta”.
Raccolti gli sterpi spinosi e caricatiseli sul capo, Brigida unita
alle altre, s’incamminò presto lungo la strada del ritorno a casa;
passando vicino alla sua masseria vide il padre andarle incontro
per dire di portagli una fune, che aveva dimentico a casa, prima di
sera perché gli occorreva per legare la legna da caricare sull’asino.
Proseguirono le donne per la strada Vignale e, appena arrivate al
paese, stanche e sudate, ognuna depose il proprio gravoso e pungente fascio accanto al camino della propria abitazione. Brigida
fece altrettanto, chiudendosi subito dietro la porta e in fretta si preparò per andare con le sue amiche a messa.
Nel primo pomeriggio di quel giorno, dopo essersi rinfrancata con
un parco pasto e un breve riposo, Brigida chiamò dalla finestra Saveria e, insieme, si incamminarono alla svelta verso la masseria della
Grotte per portare la fune sul posto. Arrivate, come riferì la compa-
Bestie da Soma - Opera realizzata da Teofilo Patini
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gna, “ad un tiro di schioppo” dalla destinazione, nella contrada denominata la Vicenna “da dove non vedevasi detta Masseria per causa
di una siepe, e collina, che vi si frappongono tra quella strada” spuntò
furibondo da un cespuglio a lato Nicola che, con la baionetta sfoderata, impose, sotto minacce di morte, a Saveria di allontanarsi. Poi,
come disse costei, “diede sopra senza perdita di tempo a Brigida, che
coricò a terra stando lui sopra, forse per toglierli l’onore, siccome
vidi, battendola nel medesimo tempo con pugni, e tenendola sospesa
per i capelli attese le ricuse, che quella faceva”.
“Stimai”, continua l’amica, “accorrere verso detta Masseria dove
stava detto Crescenzo, lo chiamai ad alta voce, e tutta sbigottita, acciò
fosse colà venuto, e gli dissi che il detto Marchetta batteva, ed uccideva sua figlia”. Ai suoi richiami, dichiarò il padre, “accorsi, benché
vecchio, per quanto potei, per vendicarmi i torti” con un’accetta in
mano, ansimando e gridando con tutte le sue forze; ma arrivò tardi:
la tragedia era già consumata! Egli poté solo assistere impotente agli
estremi strapazzi e alle sevizie subite dalla figlia sotto gli ultimi colpi
di baionetta che Marchetta, inferocito ancor più dalla strenua resistenza della giovane, infieriva sul suo misero corpo esangue.
Alle imprecazioni del padre di fermarsi, Nicola, con l’arma insanguinata in mano puntatagli contro, rispose per due volte: Vieni
qua ca’ te voglio accidere pure a te e, abbandonando a terra la
sventurata, aggiunse: Vieni a pigliartela morta a figliate.
Detto questo si diede alla fuga verso il bosco di Pietravalle.
“Lo percorrei d’appresso con detta accetta in mano per arrestarlo”,
dichiarò l’avvilito Crescenzo, “ma non potei raggiungerlo” e, tornato
subito sui suoi passi, si gettò sconsolato in ginocchio sul corpo straziato di Brigida, macchiato di sangue e d’impudicizia, a piangere e
a disperarsi ad alta voce con Saveria.
Nell’udire gli acuti lamenti dei due accorsero varie persone che
lavoravano nelle campagne dintorno, ma non poterono fare altro
che unirsi a loro e compiangere la povera vittima.
L’assassino si precipitò a valle e, in preda alla furia sanguinaria,
si avvicinò a una giovane donna, tale Stella Leone, che si trovava
in quel momento davanti alla propria masseria, in contrada Marraone. La stessa raccontò:
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Vidi fuggendo verso di me Nicola, con una baionetta sfoderata in
mano tutta intrisa di sangue, come lo era nel volto, e nella camicia,
e mi disse, che l’avessi dato un bacio; ed essendomi negata ciò fare,
costui mi baciò in faccia a viva forza.
Poi scappò come un dannato che era a rifugiarsi nel bosco.
Prima di sera Crescenzo, facendosi coraggio, si sollevò dal mi-
Grotte della Morgia dei Briganti - Salcito
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sero corpo ancora caldo della figlia e si portò a San Biase per denunciare il fatto criminoso al sindaco De Paola Nicola. Gli altri rimasero ad aspettare in rispettoso silenzio intorno alla defunta.
Il Sindaco mandò subito quattro persone con una bara per provvedere al trasporto al paese. La salma fu sistemata nella Casa comunale ove, per ordine del tenente Carlo de Blasiis, fratello del barone
Francesco, fu sorvegliata dalla Guardia Civica, nell’attesa di disposizioni del giudice di Pace di Trivento. Questi, avvertito nella stessa
sera da De Paola per mezzo di un corriere, dispose l’immediata visita
del medico fiscale. A tale scopo fu incaricato il chirurgo del Circondario di Trivento, Vincenzo de Lellis che si recò il giorno dopo a San
Biase e, insieme a quello locale Pasquale Giagnacovo e alla presenza
del cancelliere Antonio De Feo e dello stesso sindaco – nonché medico condottato – eseguì l’autopsia del cadavere.
Il rapporto medico emesso riportò ben dodici pugnalate inferte,
di cui tre mortali. I funerali si svolsero con grande partecipazione
e commozione della popolazione.
Il giudice di Pace Nicolangelo Mastroiacovo fece chiamare subito a Trivento il padre Crescenzo, il quale riferì i moventi e le circostanze della tragedia. Egli chiese “di querelare detto Nicola
Marchetta pel delitto sudetto, e cerco, che lo stesso non ne venghi
Morgia Pietra Fenda - Trivento
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assoluto senza mia intelligenza”. Inoltre, dichiarò al giudice i nominativi dei testimoni tutti di San Biase che potevano esaminarsi,
e cioè: Saveria D’Andrea, Domenica De Paola, Domenica Leone,
Stella Leone, Rosanna D’Andrea, Rosa Marino, Francesco Perrino
e Raffaele Marino. Questi testi furono sentiti presso la sede del Giudicato il 20 aprile e tutti, e soprattutto Saveria, che aveva assistito
alla tragica scena, affermarono e confermarono la stessa cosa.
Domenica Leone, oltre a riferire i vari tentativi di aggressione
compiuti da Nicola, così testimoniò al giudice:
Stando io nella Vigna del mio Paesano Giuseppe Continelli, non
molto distante dalla Masseria del Crescenzo, ad oggetto di raccogliere taluni tralci di viti, vidi venire da me tutto sbigottito, e furioso
il nominato Nicola Marchetta colla baionetta in mano, che forse
avea fatta riaccomodare, o fosse altra simile, tutta intrisa di sangue,
come era in volto, e nella camicia.
Alla domanda di “come stava sì intinto di sangue, mi rispose di
essersi fatto male con una Suglia, che portava in atto di accomodare le sue scarpe”.
Il giudice Mastroiacovo, per essere informato meglio sui precedenti di Nicola, volle sentire contestualmente anche altre testimonianze di San Biase “le più dabbene, che non sappiano mentire la
Verità”, che il Sindaco individuò nelle persone “probe, ed oneste”
del chirurgo Pasquale Giagnacovo, dell’erario di corte Eduardo
Continelli, dell’ufficiale provinciale delle milizie Carlo De Blasiis
e fratello sacerdote Michele e del parroco Gioacchino D’Andrea.
Costoro asserirono unanimemente di conoscere fin troppo bene
la malvagità e la pericolosità di quel soggetto e che essi “credettero
tosto ciò vero, verissimo […] perché questo va armato sempre di
bajonetta, ed altri armi, è stato solito a delinquere, ed a commettere
de’ molti eccessi”. Furono trasmessi gli avvisi e la filiazione del
Marchetta alle sedi comunali vicine (Fossalto, Pietracupa, Bagnoli,
Salcito, Castelguidone e Guardiabruna) perché i sindaci e gli Aggiunti di pace potessero “usare tutti i mezzi onde conseguire il di
lui arresto”, purtroppo senza esito favorevole.
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Mastroiacovo, appena terminata l’indagine e compilata la stesura
del processo, il 26 aprile mandò, “per l’uopo di giustizia”, i 27 fogli
scritti al regio Procuratore del tribunale criminale di Molise.
Questi, dopo una seduta interlocutoria del 17 maggio, il 30 dello
stesso mese dispose “di procedersi alla Istruzione regolare degli
atti, e di distribuirsi gli ordini di carcerazione contro l’imputato
Nicola di Costanzo Marchetta”.
Ma Nicola è “uccello di bosco” e, pertanto, inafferrabile.
Infatti, non ebbe difficoltà, essendo già conosciuto come valida
“spalla” del fratello recluso Francesco, a essere accolto tra le varie
bande dei briganti che imperversavano nella zona. Per disperdere
le sue tracce seguì per qualche tempo una compagnia di banditi
che agiva nei paraggi di Guglionesi.
Arrivata la segnalazione al giudice di Trivento questi spedì subito
al corrispondente di quel “Comune la filiazione acciò di accordo
co’ Colleghi degli altri limitrofi ne procuri colla sollecitudine possibile l’arresto del sudetto”. L’obiettivo, però, non fu raggiunto.
Lo stesso Mastroiacovo ammise: “I mezzi da me presi per la di lui
sollecita cattura sono rimasti per ora con mio sensibile rincrescimento infruttuosi”.
Atto di morte di Brigida De Paola - Archivio parrocchiale San Biase
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Sappiamo che Nicola si unì, poi, alla comitiva che faceva capo al
triventino Francesco Brindesi con il quale commise altre imprese delittuose e rapine a danno delle famiglie più abbienti del circondario.
L’ultima, però, gli fu fatale!
Infatti, partecipando ad un assalto, compiuto ai principi di agosto dello stesso anno 1809 all’abitazione del sacerdote benestante
Melchise d’Elisa del comune di Roccavivara, rimase intrappolato
e bruciato vivo nello stesso incendio che aveva appiccato.
La notizia giunse rapida a San Biase e, dalla maggior parte degli
abitanti, fu accolta con gran sollievo, mentre da Crescenzo, come
un giusto castigo di Dio.
Il giudice di Pace chiamò, poi, a testificare alcuni di quel paese
i quali dichiararono l’accaduto e così egli comunicò la nuova alla
corte criminale di Campobasso. Questa sospese subito l’istruzione
giudiziaria in corso e restituì gli atti presso il regio tribunale di
Molise. Il giudice del tribunale, De Cesare, appose in calce la sua
firma e il caso fu così archiviato.
Ripresa del brigantaggio
Con l’abolizione del feudalesimo, disposto dal nuovo regime
napoleonico del 1806, i contadini e bracciali di San Biase e di tutte
le parti del regno si attendevano dal governo francese la risoluzione di tutte le controversie ancora esistenti tra il popolo e il feudatario.
In particolare essi, dalle nuove leggi riformatrici, si aspettavano
la messa a disposizione delle terre demaniali usurpate a loro discapito dal barone o, comunque, l’esenzione del terraggio sui
corpi fondiari ex feudali. Invece, la maggior parte di questi, soprattutto i fondi migliori, andarono a finire in mano a quei pochi
agiati del posto che, disponendo di capitali e di mezzi, avevano
potuto sottrarli ai più bisognosi, cioè a quelli che più erano nel diritto di usufruirli.
Per giunta, poi, con lo scioglimento degli usi civici, i coloni e i
pastori persero anche questo diritto di godimento sui terreni demaniali destinati a pascolo e alla raccolta della legna morta, delle
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ghiande e delle fronde. E così si scagliarono contro questa nascente
classe di borghesi rurali che, sebbene fosse stata nel recente passato a loro fianco per reclamare i comuni diritti, li aveva abbandonati per pensare solo a se stessa, appropriandosi delle terre più
comode e fertili resesi disponibili con la riforma accordata dal
nuovo governo. Negli animi di questi “cafoni”, ingannati e disprezzati, si faceva sempre più strada l’auspicio del ritorno del re
Ferdinando che, almeno, aveva tentato di appoggiare alcune rivendicazioni delle masse contadine. Tanto che molti di questi individui, in particolare quelle “teste calde” che non avevano nulla
da perdere, quando si resero conto fino in fondo del tradimento
dei “galantuomini”, scelsero l’unico modo in cui era possibile contrastarli e farsi giustizia: si diedero cioè al brigantaggio.
Fu questa la molla, dunque, che scattò nella mente ardente di
quegli individui disperati e truffati e che spinse diversi di loro a
darsi “alla campagna” e molti altri ad appoggiare tacitamente le
loro azioni malavitose.
Ad assecondare i briganti si attivarono ancora una volta i fuggiaschi Borboni che, mettendo da parte ogni scrupolo morale e civile, si servirono di loro, fino a investirli di incarichi ufficiali, allo
scopo di ribaltare la situazione politica e far restaurare la vecchia
monarchia partenopea.
Morgia Pietra Martno - Salcito
40
Ma il “galantuomo” principale, contro il quale questi reazionari
sanbiasesi avevano tutte le ragioni di sfogare la loro collera, era
proprio l’ex barone Francesco. Egli, infatti, secondo loro si era
schierato apertamente con i francesi unicamente per trarne vantaggio personale e avvalersi delle loro armi per far scontare alla
povera gente le conseguenze delle lotte antifeudali.
I primi che si mossero e agirono di soppiatto per preparare un
piano di rappresaglia furono i familiari e, soprattutto, le consorti
dei sei uomini fatti rapire e condannare proprio dall’ex barone.
Tra queste ultime, particolarmente risentita e battagliera, era –
come meglio si preciserà più avanti – Nicolina Angelocola, moglie
di Modestino Marchetta, referente locale dei briganti, la quale si
era legata a questi mediante continui colloqui segreti e stretti rapporti di collaborazione.
A questi incontri prendeva parte spesso anche un certo Quirino
Giagnacovo, boscaiolo, fratello di Gesualdo (altro carcerato di Lucera), che, per il suo mestiere, era in continuo contatto con le diverse comitive dei luoghi limitrofi.
I risultati di questi convegni appartati, cominciarono a notarsi
in estate con sempre più frequenti assalti e furti fatti dai briganti a
danno delle case dei possidenti di San Biase e delle loro masserie.
In verità, fin dalla primavera del 1809, c’era stata qualche scorreria nel borgo e in campagna, seminando sgomento e angoscia
tra i padronali degli animali e altri massari del paese.
In una delle ultime sortite, avvenuta in pubblica piazza nell’agosto del 1809, una grossa compagnia intimò ai benestanti locali il
pagamento di una pesante contribuzione di denari sonanti. Non
contenti della taglia ricevuta, gli assalitori attaccarono e derubarono alcune famiglie più abbienti, tra cui l’erario Eduardo Continelli, al quale tentarono anche d’incendiargli l’abitazione.
Il barone e i fratelli, in questa circostanza, se la cavarono con
una ritirata precipitosa. Spronati dal successo di questo clamoroso
e spericolato colpo si unirono a questi anche altri tre ribelli di San
Biase: Francesco Marino, Saverio Marino e Francesco Leone.
Ormai l’audacia e prepotenza di queste orde di assalitori avevano preso il sopravvento un po’ ovunque. Gravi fatti di rapine,
41
eccidi e violenze inaudite accadevano sempre più frequentemente
per le strade e per i paesi di tutta la neo Provincia di Campobasso.
Sembrava che i briganti fossero padroni incontrastati delle comunità e del territorio circostante perché lo Stato, almeno per il
momento, era quasi assente o, comunque, impotente.
In questo clima d’incursioni, vendette e disordini civili, a San
Biase e nei luoghi circostanti, si compirono le azioni tracotanti
delle bande capeggiate da Brindesi, Perazzelli, Cipriani, Mattiacci
e maturarono i fermi propositi messi in atto da Nicolina.
In appresso diamo un maggior ragguaglio di alcuni di questi avvenimenti e dei principali protagonisti.
Vincenzo Cipriani: da servo a brigante
Negli anni successivi al 1775, quando il secolo XVIII volgeva
ormai al termine, il nucleo abitativo di Sant’Angelo si trovava abbarbicato ad un rilievo naturale di terra e pietrisco detto la Motta,
testimoniata anche da una via urbana attuale di modeste dimensioni, indicata come Vico Motta.
La torre principale dell’antico mastio Normanno si poneva a difesa di questa superba Terra e la corte fortificata, costruita ad arte
con pietra fossilifera locale, era abitata dal possessore del feudo,
il barone De Attellis. Poteva, quindi, considerarsi un fortilizio
posto a protezione d’attacchi e razzie. La roccaforte venne abbandonata dal suo signore nella seconda metà del XVIII secolo,
quando fu terminata la costruzione di un sontuoso palazzo sorto
accanto alla chiesa matrice iniziata a fine secolo XVI.
In questa Terra, nel XIII secolo, in Tempore Abbatis Petri7, mostrava la sua imponenza il Castrum Sancti Angeli. Altre abitazioni
erano situate nella contrada San Pietro, nei vichi e nelle rue sotto
la chiesa matrice, nota col nome di Santa Maria Assunta in Cielo.
Intorno alla fortezza trovavano luogo gli abituri delle famiglie
degli umili, formate per lo più di malagiati, coloni, segatori, gar7
San Pietro Celestino (1209-1294) era originario di Sant’Angelo Limosano.
42
Atto di battesimo di Vincenzo Cipriani - Arch. parrocchiale di Sant’Angelo L.
zoni, massari, pastori, guardiani e qualche artiere, cioè quelli che
in epoca moderna sono stati definiti e vilipesi col termine spregiativo di cafoni. I più agiati e possidenti, invece, abitavano lungo la
strada tra la chiesa dell’Assunta e quella di San Pietro Celestino8
(trasformata in granaio dal cardinale Orsini nel 1695, poiché non
restaurata secondo le sue direttive), a ridosso dell’attuale municipio. Non c’era ancora alcun segno di quel complesso architettonico
denominato La Rampa, la cui costruzione in muratura è avvenuta
molto più tardi, tra il 1906 e il 1912.
Nei dintorni del vecchio castello e precisamente nella via detta
La Portella muove i primi passi Vincenzo Cipriani, nato il 14 febbraio 1780 da Domenico e Maria Di Iacovo, genitori dediti ai lavori dei campi. Essi gli verranno a mancare entrambi nel 1791 a
distanza di due mesi, il padre in settembre, la madre in novembre.
Poco o niente sappiamo dell’infanzia di Vincenzo, ma sicuramente, come tutti i ragazzi del tempo, nella buona stagione aiutava
i genitori in campagna, mentre d’inverno e nei momenti liberi si
esercitava nel suo paese in combriccole con i suoi pari coi quali
combinava già qualche malaffare.
Egli, pur acuto d’ingegno, era però analfabeta perché in quell’epoca non esisteva ancora la scuola primaria pubblica.
All’età di circa venti anni, quando il secolo XIX era alle porte,
come apprendiamo dal sindaco dell’epoca Michelangelo Marrone,
8
Attualmente Via Municipio.
43
Vincenzo lasciò la sua “Padria di Sant’Angelo e si portò nella vicina Università di Limosani, distante dalla sua abitazione due miglia”. Qui trovò lavoro come inserviente da una signora del luogo,
tale Michelina D’Amico, presso la quale rimase per diverso tempo.
Nel 1808 il “Reggente civile e Luogotenente” di Limosano, Teodosio Poce, lo accusò di aver rubato in casa della padrona, varie
cose e a nulla valsero le giustificazioni addotte a sua discolpa. Egli,
infatti, depose che al Poce gli svelai i Rei, ma questo rivoltò la colata sopra di me come forestiero, ed i veri Rei lo pose per testimoni, apponendomi ancora altri delitti, che al mondo nemmeno
ho sognato di farli9.
Dal medesimo Luogotenente, Cipriani fu arrestato e trasportato
al carcere di Montagano, dove rimase diverso tempo, accusando i
morsi della fame e i rigori dell’inverno, poiché in tale epoca il detenuto doveva provvedere al proprio sostentamento e vestiario.
Non avendo alcuna possibilità di soccorso per la sua miserabile
condizione umana, un giorno, con mezzi di fortuna, appiccò il
fuoco alla porta della cella e si allontanò furtivamente dal carcere,
dandosi poi a precipitosa fuga.
A causa di tal fatto, per alcuni giorni fu inseguito e ricercato.
Fuggiasco per i territori di Lucito, riuscì tuttavia ad avere asilo e
lavoro, ma poi scoperto, scappò raggiungendo i dintorni di Guglionesi, dove riuscì a trovare un’occupazione nella campagna di
Don Luigi Marchetti, proprietario di una grande tenuta.
Marchetti lo mise a lavorare nella propria vigna e negli altri possedimenti terrieri di Petacciato.
La vita però gli doveva riservare ancora sorprese.
Nei boschi di quel luogo si era nascosta la “massa” brigantesca
di Passarelli, il quale, con modi intimidatori costrinse Cipriani ed
altri braccianti a seguirlo. E così Vincenzo con altri lavoranti, per
timore di essere passati per le armi, lasciarono immediatamente il
tenimento, unendosi alla banda di Passarelli. Gli venne dato in
9
Il 7 giugno 1809 Vincenzo Cipriani depone le armi nelle mani del sindaco
di Limosano e nel verbale vengono trascritte le sue deposizioni.
44
Veduta Bosco Maccavillo - San Biase
consegna uno schioppo e una patroncina piena di cartucce e in
questo modo, appena otto giorni dopo, fu messo a sentinella.
Fu in questa occasione che Cipriani, una sera, abbandonò il posto
di guardia e, così armato, si diresse alla contrada di Cascapere,
dove arrivò mercoledì 29 marzo della Settimana Santa del 1809.
Il 2 aprile successivo, giorno di Pasqua, Cipriani vide arrivare in
quella boscaglia Clemente Durante e Pasquale Pingue di Limosano,
i quali andavano a caccia. Pingue chiese a Vincenzo se a Petacciato
stazionasse qualche truppa armata e questi gli ripose che il paese
era pieno di briganti. Cipriani non volle unirsi a loro, aggirandosi
tra gli ”sterpari” del posto, fino a sabato 27 maggio, giorno dedicato
a Sant’Agostino, in cui fece ritorno Pasquale Pingue, questa volta
con Francesco Minicucci, alias Ominicchio. Anche quest’ultimo gli
chiese se a Petacciato vi fosse soldataglia. Vincenzo gli rispose che
mancava da quella zona da molti giorni, cioè da prima di Pasqua,
ma, se avesse voluto notizie fresche, avrebbe potute chiederle al disertore Giuseppe Matteo, che era tornato da quelle parti due giorni
fa, proprio per guidare Pasquale Pingue e compagni nelle boscaglie
di Petacciato e aggregarli alla compagnia di Passarelli e Antonelli,
originari di Fossaceca in Provincia di Chieti.
Il giorno appresso, domenica 28 maggio, Pingue e Minicucci
tornarono e chiesero a Cipriani di guidare tutta la compagnia nelle
terre di Petacciato, ma lui si rifiutò perché non era in condizione
di partire a causa di un “oscuro morbo” che lo aveva colpito.
La stessa sera, Pingue fece ritorno a Cascapera con Alessandro
Gravina e Palmerino Fatturino i quali poi rientrarono tutti a Limo45
sano per cambiarsi i panni. A questi si aggiunsero subito Domenico
Fracassi e Luigi Frosolone e, poco dopo, Luigi Ricciuto e tanti
altri provenienti da strade diverse.
Pasquale Pingue, rivolgendosi alla banda, chiese chi volesse seguirlo fino al territorio di Petacciato, a patto di un preciso impegno,
ma la banda, indecisa, temporeggiò vagabondando per due o tre
giorni nel territorio di Limosano in attesa di unirsi ad altri compagni. Questi però non sopraggiunsero, ignorandosi il vero motivo.
Allora Pingue, che rimase con i compagni, scrisse un biglietto ad
un certo Domenico Pietrunti, chiedendogli munizioni e altro, ma
Cipriani, essendo analfabeta, non poté sapere mai cos’era riportato
realmente in quel foglio.
Il gruppo brigantesco, che si aggirava nella località di Cascapera nel maggio 1809, era composto, oltre che di Vincenzo Cipriani, Pasquale Pingue, Vincenzo Matteo e suo fratello Giuseppe,
di Luigi Frosolone, Domenico Fracassi di Tomasino, Giacomo Sabetta, Giovanni Ricciuto, Francesco Minicucci, Pasquale Lattanzio, Cosimo Giancola e Giorgio Formicone.
Il 31 maggio caporal Cipriani, dal bosco Defenza di Sant’Angelo, inviò un “viglietto” minaccioso ai possidenti Clemente Di
Paolo e Michele Ciccone ai quali chiedeva “amichevolmente” 100
ducati per l’obbligazione della brigata, una chitarra per il divertimento della compagnia e due schioppi funzionanti poiché gli mancavano, sottolineando, inoltre che, se avessero richiesto
l’intervento dei legionari egli sarebbe stato costretto ad alzare la
voce e l’obbligazione.
Il foglio terminava con la postilla “Servo vostro e servo tutti!”10.
Il lettore, senz’altro attento, ha ben compreso che Cipriani, essendo illetterato, fu costretto ad avvalersi della competenza del
brigante Pingue per compilare il foglietto.
Pasquale Pingue, figlio di Eligio e Teresa Di Blasio, nativo di
Saluti che il Cipriani rivolge a Clemente Di Paolo e Michele Ciccone nel
biglietto inviatoli dal bosco di Sant’Angelo.
Archivio di Stato di Campobasso (d’ora in poi ASC) - b. 30, f. 30/8 pag. 8 Processi Politici - 31 maggio 1809.
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46
Guardia di Cerreto Sanframonti di Terra di Lavoro, di professione
casaro, ma in realtà scansafatiche e giramondo, era dedito alle armi
e ad ogni sorta di vizio. Egli, sposatosi a Limosano, sapeva leggere
e scrivere, delle quali capacità, allora assai rare, abbiamo notizie sicure dalle fonti che siamo riusciti a confrontare.
Il pezzo di carta, anziché essere consegnato ai due interessati,
fu affidato al sindaco Michelangelo Marrone, capo del Decurionato del Comune di Sant’Angelo.
Marrone, tergiversò alla richiesta, e intanto il 6 giugno 1809 inviò
una missiva all’Intendente di Molise, Biase Zurlo, nella sede di
Campobasso, con la quale gli comunicò ciò che già in precedenza
aveva fatto al Giudice di Pace del circondario di Ripalimosani, segnalandogli anche che il gruppo banditesco era composto di undici
individui limosanesi al comando di Vincenzo Cipriani, oriundo di
Sant’Angelo ma residente da circa otto anni a Limosano11.
Nello stesso tempo trasmise all’Intendente il biglietto originale
fattogli pervenire dai briganti, sottolineando che a quelle richieste
non si era data alcuna attenzione e tantomeno una risposta.
Inoltre, informò l’Intendente che quei banditi il 31 maggio erano
stati respinti dalla Guardia Civica del luogo e poi, inseguiti fino
alla contrada della Montagna, furono assaliti dal Corpo delle guardie. Infine, gli fece sapere che la Guardia Civica e il popolo tutto
vigilavano sempre per difendersi dalle numerose scorribande che
incutevano forti inquietudini e tensioni in quel periodo.
Nell’estate del 1809, esattamente il 24 agosto, tempo in cui le
scorrerie dei briganti sgomentavano Sant’Angelo e dintorni, il sindaco Marrone si recò personalmente a Campobasso, chiedendo vivamente all’Intendente Zurlo la presenza e l’intervento sul posto
delle milizie.
Dopo queste pressanti richieste Zurlo inviò sul luogo un gruppo
di venti militari per sbaragliare le diverse comitive che infestavano
il territorio e quelli del circondario. Tale assalto produsse senz’alLettera del sindaco di Sant’Angelo Michelangelo Marrone al sovrintendente
di Molise.
ASC - b. 30, f. 30/8 pag. 7 - Processi Politici - 6 giugno 1809.
11
47
Tipica masseria del Molise
tro uno scompiglio nelle bande dei paraggi. E ciò lo rileviamo dal
messaggio mandato da Cipriani al sindaco di Limosano, Giuseppe
Fracassi, di tutt’altro tenore rispetto a quello fatto recapitare qualche giorno prima al sindaco di Sant’Angelo:
Vingenzo Cipriani dalla Terra di S. Angelo [avendo] inteso che voi
volete gli omini che si presentono a voi senza timore di cosa alcuna
lui si contenta di presentarsi con dieci omini se pur che voi pigliate
tutti il giuramento e fede di voler bene a tutti e dieci e vogliono fare
loro la guardia nel paese e vogliono la patente dal Intendente e vogliono la paga dieci persone, le armi noi l’abbiamo. Vogliamo stare
bene armato e voi non dubitate di cosa alcuna che noi saremo tutti
fedele a voi onde che facci la risposta di quel che risolvete altrimenti noi abbiamo risoluto di venire omini trecento bene armati se
voi ci abbracciate e bene [...] altrimenti noi faremo come si fece a
Casacalenda perche lui se ci volete, vuole rimandare tutta la sua
compagnia ogni uno nel loro paese altrimenti noi al 13 giugno ci
vedremo, fateci subito la risposta12 Vostro Servo Cipriani.
Lettera inviata nel giugno 1809 al sindaco di Limosano dal bosco di Sant’Angelo.
ASC - b. 30, f. 30/8 pag. 6 - Processi Politici.
12
48
Lo stesso giorno il sindaco Fracassi scrisse all’Intendente di
Campobasso:
Eccellenza
Mi affretto, come questa mane ad ore sedici mi è pervenuta una lettera di un Capo di Comitiva, come dalla qui annessa copia, che da
molti giorni si rattrovano scorrendo il Bosco Fiorano, questi scompigliati mostrano il vero pentimento, e desiderano restituirsi alle
loro famiglie, cercando sicurtà di non essere molestati da chicchesia, forza ordine di Guardia Civica di più ho rilevato dalle spie che
la comitiva che girava il Bosco Fiorano di più di trenta individui è
ridotta a dodeci, che sono questi che cercano il perdono13.
All’indomani della ricezione della lettera, alla quale Fracassi non
diede alcun seguito, transitava per Limosano il Maggior Generale
Henry Compère14 con la truppa composta di soldati corsi e francesi.
Il Generale, nell’incontro avuto con il Sindaco, lo raccomandò
di usare ogni mezzo in suo potere, perché i banditi avessero depositate le armi assicurando loro il condono dei reati.
Dietro tali promesse e indicazioni operative si affissero nel
paese avvisi con la massima sollecitudine.
A seguito di questi annunci il sindaco Fracassi poté trasmettere
all’Intendente il seguente comunicato:
Oggi che sono li sette di giugno dell’anno milleottocento e nove in
Limosani in mani del sindaco della stessa, incaricato dal generale
Compère per la presentazione di briganti di detta comune, sono
comparsi nella nostra presenza Pasquale Pingue della Guardia di
Cerreti casato in Limosani di anni ventotto circa, Vincenzo Cipriani
di Santangelo di anni ventotto circa, Domenico Fracassi di Limosani casato di anni ventuno, Giovanni Ricciuto di anni trentadue
Il sindaco di Limosano invia all’Intendente copia della lettera di Cipriani
ricevuta dal bosco di Sant’Angelo Limosano.
ASC - b. 30, f. 30/8, pag. 5 - Processi Politici.
14
Fursy Louis Henry Compère, nato a Peronne il 16 gennaio 1768, era nel
1807 Generale di Divisione e, per qualche tempo, Governatore di Napoli.
13
49
casato, Pasquale Lattanzio giovine di ventidue anni, quali han prima
presentato le loro armi consistente in due schioppi, una carabina, e
un pistone, e quindi poi han fatto le loro deposizioni uno separatamente dall’altro, in presenza di Saverio Colavecchia, e Saverio Di
Gregorio di Limosani15.
Sugli avvenimenti successi in quei giorni, riferiti in particolare
alle imprese banditesche di Vincenzo Cipriani nel territorio di Cascapera, si riporta integralmente il processo verbale a carico di
Pasquale Pingue reso davanti al sindaco Fracassi il 7 giugno 1809.
Signore, essendomi stato detto essersi preso informazione dal Giudice di Pace per un ricorso fattomi di esser andato a caccia, e fenisce
di essere arrestato alli 28 del p.p. maggio cercai di allontanarmi da
questa comune, e mi seguirono Vincenzo Matteo, Luigi Frosolone,
Francesco Minicucci, Pasquale Lattanzio, Giovanni Ricciuto, Giacomo Sabetta, Domenico Fracassi di Tomasino, Giorgio Formicone, Donato Luciano di Cristofaro, Cosmo Giancola e Luigi
Ricciuto che diverse strade ci portammo a Cascapere dove ritrovammo Vincenzo Cipriano di Santangelo, e Giuseppe Matteo disertore di questa comune. Ivi dovevano altre persone seguire
ancora, facendo la nota che vi ho presentato in presenza di due testimoni, e facendo la nota fatta dallo studente Domenico Petrunti
di Campobasso, oggi in Limosani. Della nota del Petrunti fra gli
altri vi erano Nicolangelo Gabriele, Domenico di Saverio D’Amico,
ed altri; ma questi allora si sarebbero mossi, quante volte ci arriva
un certo Pasquale Varone di Campobasso con trecento Campobassani, il quale ci avrebbe portato la paga e monizione, che da tre anni
indietro l’aveva preparato per quegli istessi. Il corriere che ci servivamo pel carteggio da qui a Campobasso era Bonaventura D’Addario, che spesso si recava dal detto Varone, portando e riportando
notizie sul noto affare; il medesimo Bonaventura era uno dell’assemblea. Di noi soli se eravamo armati, ma nel dì di Corpus Domini
Il 7 giugno 1809 Vincenzo Cipriani, Domenico Fracassi, Giovanni Ricciuto,
Pasquale Lattanzio, Saverio Colavecchia, Saverio Gregorio e Pasquale Pingue
deposero le armi negli uffici del sindaco di Limosano Giuseppe Fracassi.
ASC. - b. 30, f. 30/8 pag. 11 - Processi Politici.
15
50
essendo stati inseguiti dalla Guardia ci posimo a fuggire ed uno che
restò indietro per timore di esser preso, gettò dentro un campo di
grano la sua carabina, e si pose a fuggire per salvarsi la vita, quale
fu ritrovato da Daston di Lucito, gli altri poi stavano disarmati, alle
poche non ancora se l’avevano procorati. Le nostre armi consistevano in tre schioppi, due carabine, e un pistone compresovi la carabina perduta nel fuggire. La munizione consisteva in tre Patrone,
una di sedeci cartucci, un’altra di otto, e l’altra con uno, portandosi
per intimorire che per far fronte; gli altri avevano gli schioppi solamente carichi; e vedendo il pericolo in cui eravamo pentiti del
fatto commesso ci siamo venuti a presentare oggi predetto in virtù
delle insinuazioni ricevute da voi, secondo a voce vi parlò il Generale Compère16.
Dopo la consegna delle armi e la concessione del perdono, il
gruppo di briganti, capeggiato da Cipriani, si concesse una brevissima pausa di riflessione.
Ai primi di giugno di quell’anno il caldo non era ancora cocente,
ma intorno alla metà del mese, il sole faceva sentire i suoi effetti
nelle campagne e da San Biase, Sant’Angelo, Limosano e altri luoghi elevati vicini, per le mulattiere, carraie e viottoli fino al tratturo, squadre di braccianti animati da buoni propositi e armati
soltanto di falci, cannelle, maniconi e mandere, indispensabili attrezzi del mestiere, si avviavano verso le terre arse della Puglia a
falciare le messi già mature nella speranza di “vedere qualche lira”.
La moneta era necessaria per l’acquisto di panni e altre cose utili,
specialmente del porco, alla fiera di Santa Pia, il 12 settembre17 e
di altre della zona, senza le quali provviste la loro vita sarebbe
stata ancora più grama nelle fredde terre montane.
Mentre i giovani bracciali erano ricurvi a mietere i desolati
Deposizione di Pasquale Pingue.
ASC - b. n. 30, f, 30/8 pag. - Processi Politici.
17
La fiera di Santa Pia fu istituita dal Barone Prosdocimo de Blasiis dopo il
1751 per il comodo della popolazione, ricadente il 12 e 13 Settembre. Solo in
seguito fu ridotta al solo giorno del 12 dello stesso mese.
M. Tanno - San Biase - Il barone e i contadini - Ed. Enne, Campobasso 2005.
16
51
campi della Capitanata, i briganti, all’interno dei boschi di Fiorano,
Pietravalle e Trivento18, località fresche e riparate, ripresero le loro
attività malavitose, stringendo accordi di amicizia con altre bande
e accrescendo così la loro famiglia in attesa del rientro di quei giovani bracciali per “arruolarli e coccardarli” di rosso19.
Voci molto informate riferivano che Cipriani, in libertà vigilata,
pur avendo apparentemente una condotta corretta e rispettosa di
giorno, di notte era celatamente in contatto con la banda di Francesco Brindesi di Trivento.
Questa relazione gli fu fatale perché lo spinse di nuovo a darsi,
come vedremo, “alla campagna”.
Comitiva di Brindesi
Francesco Brindesi era uno dei numerosi figli di Emanuele e
Vincenza Serricchio di Trivento. Il padre insieme ad alcuni figli
partecipò alle vicende insurrezionali del 1799 nel suo paese, cedendo poi alle tentazioni di razzie e alle promesse fatte dai seguaci
del re fuggiasco Ferdinando IV di Borbone. I germani Brindesi,
Francesco, Carlo e Pietro, militavano nella “formazione della
massa” di Michelangelo e Amadio Lozzi (quest’ultimo fu promosso tenente per i suoi servigi resi al re) insieme ai fratelli Francesco e Michelangelo Porfilio nonché al malfamato Paolantonio
Vasile20 cognato di Lozzi. Costoro si comportavano da malfattori
per difendere e accrescere la loro posizione di dominio conquistata
con soprusi e violenze.
Alla dissociazione della banda, avvenuta dopo l’arresto di vari
briganti, Francesco, detto Ciccio, e Carlo Brindesi nel 1809 costi18
Il bosco di Fiorano si trova nel territorio di Limosano; quello di Pietravalle
nel tenimento di Salcito.
19
La coccarda rossa posta sulla sommità del cappello era il simbolo di appartenenza allo Stato Borbonico.
20
Paolantonio Vasile, figlio di Pietro e Anna Iocca, nacque a Trivento nel
1768. Sposò Colomba Lozzi la quale morì il 9 gennaio 1811, alle ore 8, nel carcere di Campobasso dove era detenuta.
52
Fasci di legna accatastati nel bosco
tuirono un nuovo gruppo banditesco che faceva irruzioni nelle
campagne e nei paesi di San Biase, Sant’Angelo Limosano, Limosano, Lucito e altre località limitrofe.
Di questa accozzaglia di scalmanati facevano parte Anselmo
Mattiacci di Pasquale, nato nel 1786; Saverio Marino di Pietro,
classe 1787; Giuseppe Braia di Costanzo, classe 1787; Francesco
Marino di Andrea, classe 1787 e Francesco Saverio Leone di Bernardo, classe 1788, tutti di San Biase.
A questo gruppo si era unito anche Nicola Perazzelli di Lucito.
Costui nacque in questo luogo l’11 novembre 1782 da Aniello
e Vincenza Marrone. Egli aveva altri otto fratelli, cinque maschi e
tre femmine, tutti piegati al duro lavoro della campagna.
Per designare e qualificare Nicola Perrazzelli, personaggio
chiave della banda Brindesi, riportiamo una citazione contenuta
in un atto notarile.
Il padre, prima di morire, volle lasciare i pochi beni che possedeva ai suoi figlioli e alla seconda moglie Dorotea Ventresca.
Nel suo testamento, compilato nel febbraio 1808, si legge tra
l’altro: “Aniello tiene un altro figlio chiamato Nicola, oggi carcerato in Lucera per delitti infamanti.
Lo stesso, ebbe due anni dietro (1806), la temerità di mettere le
53
sue empie mani sulla persona di esso padre, e batterlo a segno, che
fu in procinto di morire, talché la processura [processo] fu fatta
dall’allora governatore Don Crescenzo Maria Casilli di Campolieto, fu carcerato, e gli riuscì a fuggire, non cessando di sempre
minacciarlo, e prendendogli anche animali dalla masseria, com’è
pubblico, e notorio. Per questi attentati intende diseredarlo ed
escluderlo da ogni benché menoma successione e niente possa pretendere dall’eredità di esso padre21.
Alla fine di luglio, allorché i falciatori, rientrati dalle terre infuocate della Puglia, ripresero la mietitura del grano nelle loro fresche colline, i briganti percorrevano le campagne in sella alle
cavalcature. Essi continuarono a saccheggiare i comuni alla sinistra del fiume Biferno, mentre Vincenzo Cipriani, che qualche
mese prima aveva consegnato le armi, rimase fermo e appartato
fino al 23 agosto, quando unitamente a Francesco Brindesi, Anselmo Mattiacci, Nicola Perazzelli e alla già ricostituita compagnia
di briganti si recò a far visita all’amico arciprete di Pietracupa, don
Giuseppe Nicola Carnevale, detto Don Peppo.
Di costui, soggetto truce e di animo nero come il colore della
sua zimarra, si riporta una citazione tratta dal fascicolo “Brigantaggio” dell’Archivo di Stato di Campobasso:
Chi accorda favore, e protezione ai perturbatori dell’ordine pubblico; chi col mezzo di quelli sfoga la propria vendetta, facendo
spogliare i pacifici cittadini delle lor sostanze; chi col braccio di
quegl’istessi ha attentato, ed eseguito un barbaro omicidio: Egli
non è altri che questo arciprete Carnevale22.
Don Peppo appurando che nel mese di agosto si era riunita nel
bosco di Pietravalle la comitiva di Brindesi, notizia ventilata dai
naturali di Pietracupa che si portavano spesso a raccogliere sterpi
ASC - Prococolli notarili - Atto n. 13 rogato il 2 febbraio 1808 dal notaio
Rocco Oliviero di Lucito.
22
ASC- Lumi per l’arciprete Carnevale di Pietracupa, b. 23, f. 23/c e d, Processi Politici.
21
54
e legna in quella selva, colse di sobbalzo l’occasione per mettere
in atto i suoi pravi disegni. Presto incaricò alcuni suoi seguaci a
contattare i capi per invitarli da lui.
La comitiva accettò, raggiungendo Pietracupa il giorno 23 agosto, guidata da un garzone del prete, suo parzenaule, di nome Gregorio Santillo. Giunta al paese, la banda di scellerati si diresse alla
casa dell’arciprete che l’accolse come fratelli, complimentandosi
per le loro malfatte.
Nel corso dell’incontro il “buon pastore” invitò il gruppo ad intraprendere altre azioni punitive nei confronti di alcuni cittadini; poi,
rivoltosi a Nicola Perazzelli, che aveva un ceffo orrendo e alterato,
e con il quale in particolare aveva concordato il misfatto, gli disse:
Nicola, ti raccomando l’affare, che sai; ti sia a cuore. Il brigante gli
rispose: Parroco, lasciati servire; è a carico mio, non occorre altro.
Questa azione criminosa, caldeggiata anche dalle pressioni incalzanti del garzone, s’intentò presto.
Uscita dall’abitazione dell’arciprete, la comitiva assalì la casa
dell’esattore fondiario, il quale fu derubato e spogliato di tutto.
La masnada, appena giunta fuori del paese, fu raggiunta dal garzone dell’arciprete, il quale, dopo aver parlato sottovoce con Nicola
Perazzelli e Francesco Brindesi, li condusse alla casa di Domenico
Simone23. Qui, con le armi impugnate, bussarono alla sua porta.
Il padrone di casa appena aprì fu legato e minacciato di consegnare prontamente mille ducati che teneva ben conservati – di cui
in paese si sapeva dell’esistenza – altrimenti sarebbe stato fucilato.
Alle insistenti richieste lo sventurato consegnò ducati 220, i soli
che teneva da parte, ma ebbe salva la vita allontanandosi subito
dopo.
Il parroco, quando seppe di questa incursione, non rimase del
tutto soddisfatto perché avrebbe voluto l’eliminazione fisica di Simone. Per perseguire questo ed altri suoi intenti riprese la corriDomenico Simone, cittadino di Pietracupa, fu calunniato dall’arciprete Carnevale insieme a Giuseppe D’Alessandro per delitti commessi contro il governo
dell’epoca.
23
55
Veduta territorio San Biase e Sant’Angelo Limosano
spondenza con i briganti che nel frattempo si erano rifugiati nel
bosco vicino di Pietravalle. Concordato poi l’assassinio di Simone
nella notte del 28 agosto, una dozzina di briganti assaltò la casa di
Domenico che, colto di sorpresa e pur cercando di resistere, alla
fine cedé ai rapinatori. Questi, lasciando due di loro per piantoni
dietro la porta, subito entrarono mettendo a soqquadro ogni cosa e
rubando oro, argento, panni e biancheria. Non soddisfatti del bottino corsero poi a saccheggiare altre case di benestanti locali.
A conclusione della scellerata impresa, i malviventi si portarono
appresso Simone con il fermo proposito di fucilarlo nel loro covo
di Pietravalle. Alla fine, però, i capi, per un motivo che ignoriamo
o, forse, mossi a pietà dalle suppliche dell’ostaggio, si ravvidero e
lo spargimento di sangue voluto da Don Peppo non ci fu. E così
l’incredulo Domenico, lasciato libero, fece subito ritorno a casa.
Il 26 agosto del 1809 giunse a Lucito una ventina di gendarmi
ausiliari per arrestare alcuni disertori, tra cui tre militi appartenenti
al corpo scelto dei Veliti, tali Nicola De Blasiis, Ottavio Minicucci
e Luigi De Rubertis. I primi due furono presi e incarcerati, invece
l’ultimo, avvertito in tempo dell’incombente retata, si allontanò
velocemente dalla casa dello zio Michele De Rubertis, dove aveva
trovato ricovero, prendendo la direzione del bosco di Trivento in
cerca della comitiva di Fulvio Quici24.
Fulvio Quici, noto esponente del brigantaggio molisano, nacque a Trivento
nel 1776 da Saverio e Feliciana di Lazzaro. Sua moglie era Maria Scarano.
24
56
Il mattino appresso, di buonora, Quici avanzò puntuale verso
Lucito con la sua brigata, composta di 40 briganti e si fece indicare l’alloggio degli agenti. Questi erano rimasti solo in quattro
perché gli altri erano stati inviati a Campobasso a scortare altri
due militi catturati.
Una parte dei componenti della banda circondò subito la casa,
altri, circa la metà, si disposero fuori dell’abitato a presidiare le
varie uscite, mentre alcuni attesero che Michele De Rubertis si recasse al convento dei Padri Missionari di S. Antonio, per indurre
il parroco a suonare la messa “mattutina” prima del solito in modo
da radunare la gente nella chiesa del convento (quella matrice,
posta al centro dell’abitato, era inagibile perché lesionata dal terremoto del 1805) e spopolare così il paese.
Riuniti che furono tutti in chiesa, e approfittando della distrazione
dei fedeli assorti nel canto della messa festiva, il gruppo poté con
calma assaltare l’alloggio dei militi, i quali, obbligati a depositare
le armi, vennero legati dietro le cavalcature con funi e trascinati al
bosco di Triventi. Qui, senza indugio, furono fucilati e poi fatti a
pezzi con le baionette. Due delle loro teste si appesero agli alberi
quasi come orrido trofeo per monito alle forze dell’ordine.
I briganti, tornati al paese dopo la cruda esecuzione, andarono
in casa del fratello di Michele, don Domenico De Rubertis, il quale
regalò al capobanda Quici un cannocchiale in segno di riconoscenza e per rinsaldare la loro amicizia. Ad un altro bandito, un
tale Francesco Sforza di Pietrabbondante detto Rossignolo, invece,
offrì un occhialone.
Il sindaco Giuseppe De Leo fu poi costretto a fornire vettovaglie
a tutti, trasportate e servite sul posto da tre inservienti di Lucito,
perché Quici aveva dato ordine di voler mangiare fuori dell’abitato.
Questo massacro fu istigato da un certo Giovanbatista D’Astolfo
di Civitacampomarano, delinquente anche lui, che preparò tutto
l’agguato. Nel gruppo di quegli individui armati furono riconosciuti
Carlo Brindesi di Trivento e Nicola Perazzelli di Lucito.
Qualche ora dopo, il popolo, sgomento per l’eccidio, scese in
piazza, facendo capannello e commentando l’accaduto.
Alle numerose persone raccolte, Ermenegildo Scarano di Tri57
vento, che si trovava a Lucito ad apprendere l’arte di armaiolo,
raccontò di avere scorto la madre dei briganti Carlo, Francesco e
Pietro Brindesi, una certa Vincenza Serricchio, che, eludendo l’arresto a Trivento, aveva chiesto ospitalità a Lucito ai genitori del
brigante Perazzelli, Aniello e Vincenza Marrone. Lo stesso Scarano riferì ancora che, nel 1807, un altro capo della comitiva, Paolo
Vasile, volendosi rifugiare per un po’ di tempo in questo comune,
appena arrivato trovò ad attenderlo Michele De Rubertis, principale benestante del posto, che gli si parò avanti in mezzo alla
piazza scambiando con lui cordiali pacche di amicizia sulle spalle.
Il 27 agosto, giorno di domenica, la stessa banda capeggiata da
Quici e appoggiata da Vasile e Sforza25 assaltò il comune di Limosano. In tale occasione, i briganti che avevano goduto del provvedimento di clemenza del generale Compère, si unirono a questa.
E così si rivide Vincenzo Cipriani che, ripresa ormai la strada del
brigantaggio, dal covo del bosco di Fiorano si affrettò a richiedere
al sindaco Fracassi quelle armi deposte nelle sue mani quando gli
era stato concesso il condono alle sue malefatte.
Il biglietto gli fu recapitato il 28 agosto 1809, di sera, per mano
di un certo Nicola Amorosi dello stesso paese.
Il testo, nella sua forma integrale, è questo:
Al Sig. sindaco
Caporal Vingenzo Cipriani di S. Angelo dell’Immosani, che mi rimmannasse la mia armature, e con altri due fucili bene guarniti, e in
faccia al sig. Don Donato, che mi mantasse docati cinquanta, e rotola
tre di munizione, altrimenti io vi pianterò sacco anche le masserie e
mi metterò alla posta per ammazzarti. Direte al sig. med. Elio, che
mi mantasse docati cento per tutto mercoledì di tempo. Il sig. Igino,
che mantasse altri rotola tre di munizione, con altri docati quaranta
ed il sig. Igino se nò mi mandate quanto vi ho cercato, io vi ins…
[illeggibile]26.
Francesco Sforza, benestante, nativo del comune di Pietrabbondante e soprannominato Ruscigniuolo per il colore rossiccio della pelle e dei capelli, apparteneva alla banda di Fulvio Quici.
26
Biglietto fatto recapitare da Cipriani al sindaco Fracassi di Limosano.
25
58
Il 1° di settembre Cipriani si trovava a Limosano con un gruppo
di trenta briganti. Il pomeriggio dello stesso giorno si spostò a San
Biase, con Francesco Brindesi, Nicola Perazzelli, Anselmo Mattiacci e altri della banda. Da qui, dopo aver assassinato il barone
Francesco De Blasiis, come di dirà meglio più avanti27, fece ritorno
con tutto il seguito a Limosano.
Il giorno seguente Cipriani arruolò altri limosanesi e forestieri
nella sua compagnia.
Il 3 settembre, giorno di domenica, a Limosano si respirava aria
di festa per la ricorrenza del ventitreesimo anno dell’arrivo da Napoli delle spoglie di San Cristiano Martire.
Ma se il popolo in giubilo e col vestito cerimoniale inneggiava
con preghiere al santo, il sindaco, malandato e preoccupato per la
presenza minacciosa dei briganti in piazza, quel giorno si rinchiuse
in casa per scrivere all’Intendente della Provincia Biase Zurlo questa lettera:
Signore,
Domenica di giorno, essendo tornato malato da cotesta capitale,
trovai nella comune i briganti, quali si erano portati a cagione della
festa di San Cristiano. Essi si portaro nella vicina comune di Sant’Angelo a prendere più centinai di botte e ordinarono di non sonarsi vespro se non al loro ritorno. Nuovamente emanarono i bandi,
che niuno ardisse esigere, ne pagare fondiaria sotto pena della vita.
Io cercai di persuadere à medesimi di non far emanare il bando,
come negl’altri paesi a noccardarsi rossi e mi riuscì colle buone
persuasioni. Han disarmati tutta la gente sana, per cui si teme la
vita di molti. Fra nuovi arrollati vi è Ippolito Di Gregorio Legionario, Francesco Minicucci Legionario e Luigi Iammarino, entrambi
casari e artieri, ed altri pochi che non so chi siano.
In punto che scrivo, son giunti ma di passaggio, per S. Angelo si
son diretti; han detto doversi domani portare in Petrella, Montagano
e Ripalimosani; di Montagano ve n’erano tre, di Ripa sette, che
ASC - b. 30, f. 30/8 pag. 48 – Processi Politici.
ASC - Assassinio del Conte di San Biase Francesco de Blasiis - b. 31, f. 1
e 2 - Processi Politici.
27
59
nuovamente si son partiti per la loro padria, ed arrollava altri individui, che di giorno in giorno da tutti i paesi corrono ad unirsi.
Signore, questa è quella congiura che tante volte ho riferito al passato signor Intendente sapendosene allora un semplice indizio, ma
ora si è fatta palese, per cui dovete essere tutt’occhio per non farlo
scoppiare in cotesta capitale secondo il sospetto d’allora. Cercherò
di seguitare la carica, prendendoli sempre con quella prudenza necessaria, quantunque i malevoli dicono tutt’altro, ma se vedrò minacciata la vita cercherò scampo altrove. Qui non si è tenuto
opportuno far resistenza, temendo dell’incendio, che han minacciato, avendone l’esempio di più luoghi, per cui ho cercato di quietarlo col buono dandogli tutto ciò che l’occorreva.
Signore col far continui rapporti, corre in pericolo la mia vita, ma
me lo riserbo in qualche occasione più urgente. Si vuole essersi
uniti più individui di Sant’Angelo Limosani28.
Misfatti commessi dalla banda
Perché abbiamo fatto riferimento a San Cristiano? Perché da
questo giorno ebbe inizio una tremenda scorrazzata nei paesi limitrofi con ricatti, furti e assassinio di un giovane a Pietracupa.
Dopo che la comitiva fu ricomposta e accresciuta di numero e
di audacia con gli ultimi arruolamenti, il gruppo partì proprio il
giorno di San Cristiano, 3 settembre 1809, per S. Angelo Limosano. I capi Vincenzo Cipriani, Francesco Brindesi, Anselmo Mattiacci e Nicola Perazzelli entrarono nell’abitato, mentre il resto
della compagnia rimase, per ordine dei medesimi, fuori.
Il sindaco di colà fu costretto a rifornire a tutti prosciutto, formaggio, pane e vino e, dopo saziati, alle ore 21 (ore 15 attuali),
essi partirono alla volta di Torella. Qui giunti intorno alle ore 24
(18 circa), si recarono sul momento in casa dell’ex erario baronale,
Antonio Ciamarro, che fu obbligato a procacciare subito vitto per
tutti, orzo per i cavalli e a sborsare danaro ai capi.
Ciamarro consegnò loro un voluminoso involucro di carta conLettera del sindaco di Limosano all’Intendente di Molise Biase Zurlo. ASC
- b. 30, f. 30/8 pag. 49 - Processi Politici.
28
60
Valle del Rio e feudo Vastofalcone
tenente numerosi pezzi di moneta di carlini d’argento.
Al termine dell’incasso, il gruppo passò alla casa dell’arciprete
don Nicola Ciamarro ed anche lì fece incetta di diversa biancheria,
cappotti, posate d’argento, un orologio e due fucili che furono
posti sulla groppa delle cavalcature per il trasporto. I capi briganti
si presero inoltre tre cavalli che, in fretta e furia, fecero sellare ed
imbrigliare. Due di questi appartenevano all’erario ex baronale e
il terzo invece era di proprietà dell’arciprete. I tre stalloni furono
dati in dotazione ad altrettanti briganti di Limosano.
A conclusione dell’incursione misero a sacco la casa dell’Aggiunto di Pace, Domenico Iannacone, cioè del rappresentante della
giustizia locale, quasi a voler ridicolizzare e screditare il difensore
della Legge dello Stato da loro non riconosciuto.
Dopo queste ruberie e aggressioni la masnada si diresse la stessa
notte al comune di Molise distante circa due miglia, ove giunse,
dopo una breve sosta di riposo in un capanno, all’alba della mattina
seguente. Sorprendendo l’esattore nel sonno lo fecero condurre ai
loro piedi e Brindesi gli ordinò di consegnare due pelli, una di lupo
e l’altra di pecora moscia e poi una buona somma di danaro.
A giorno fatto i masnadieri si spostarono alla casa di un benestante, nella cui stalla erano tenuti due cavalli. Perazzelli e Mattiacci li presero e li montarono cedendo quelli che avevano fino
61
ad allora cavalcato ad altri compagni che erano rimasti appiedati.
Quella stessa mattina si recarono nel vicino comune di Civitavecchia (attuale Duronia) ove, appena giunti, disposero di far portare
davanti a loro l’esattore fondiario. Dopo avergli legate le mani con
una cordella, gli ingiunsero di consegnare il danaro della cassa, ma
costui in ginocchio e in lacrime giurava di averlo già rimesso alla tesoreria di Campobasso. Alle minacce di morte intervenne don Pasquale Marsella, gentiluomo del posto, che si offrì in sua vece
consegnando ai briganti trenta ducati. E così quel povero malcapitato
grazie anche ai pianti e preghiere della moglie, fu salvo e poi liberato.
Dopo di ciò i briganti ordinarono al Sindaco viveri e bevande
per tutta la compagnia e orzo per i cavalli con la massima celerità.
Ristorati, partirono tutti alla volta di Pietracupa dove Francesco
Brindesi si vantava di avere una stretta amicizia coll’arciprete del
luogo, il predetto don Giuseppe Nicola Carnevale. Egli, infatti,
spesso diceva agli altri compagni: “Andiamo a trovare il mio caro
amico arciprete”. A questa affermazione replicava Anselmo Mattiacci con un pizzico d’orgoglio, affermando che il parroco gli era
in certo qual modo parente, siccome la sorella della madre dello
stesso aveva sposato un suo zio.
Quando i briganti giunsero a ridosso della contrada Il Casale,
distante circa due miglia da Pietracupa, si presentò un giovane disarmato che, dicendo di chiamarsi Giovanni Guglielmi di Pietracupa, chiese di unirsi a loro per levarsi un “capriccio” proprio
coll’arciprete Carnevale.
Nessuno gli rispose, ma Ciccio Brindesi gli fece segno di seguirlo fino al paese. Arrivati quel pomeriggio davanti alla casa dell’arciprete, questi corse a riceverli, rivolgendosi a Brindesi con
sommo piacere e accompagnandolo al piano superiore nel quale
fece anche accomodare il resto della banda.
Don Giuseppe, che evidentemente era stato avvisato del loro arrivo, fece imbandire subito una sontuosa tavola su cui dispose una
fragrante porchetta appena rosolata allo spiedo e contornata di cacio,
prosciutto e buon vino. La porchetta, però, fu mangiata dai soli capi
della compagnia, mentre agli altri fu offerto il resto della tavolata.
Durante il banchetto l’arciprete rivolse alcuni brindisi ai capi
62
briganti, alcuni in rima (tra i quali, siamo sicuri, non poté mancare
quello che, per assonanza, gli veniva meglio: “Un brindisi al Brindesi”), altri indecenti e indicibili, altri ancora in segno d’augurio
ai loro prossimi successi.
Due o tre briganti di Limosano, scendendo nel sottano di casa,
il cui ingresso era al piano del portone, ebbero modo di rivedere
Giovanni che li aveva seguiti, il quale si era appostato vicino ad
una catasta di legna con la baionetta alla cintola.
L’arciprete, calandosi nel cortile, notò che il giovane si era cagionata una ferita al dito da cui scorreva sangue e, avvicinandosi,
cercò di medicargliela con del tabacco, ma Giovanni si ritrasse.
Nello stesso momento apparve in alto della scala, al piano superiore della stessa casa, una giovane donna che, avendo visto tutto,
scendeva con alcune pezzuole in mano per fasciargli il taglio.
Il giovane, appena la vide, s’innervosì ancora di più e con uno
sguardo truce rivolto al prete fece un gesto come a voler sfilare la
baionetta.
Don Peppo, accortosi di questa mala parata, risalì in fretta tirandosi appresso la donna. Brindesi, dal pianerottolo, avvedutosi della
scena, e dopo che il sacerdote gli sussurrò all’orecchio qualche parola, si precipitò ad afferrare e legare Giovanni, il quale venne subito
bastonato dagli altri e costretto a riprendere la strada del ritorno.
Non soddisfatto, l’arciprete tutto infuriato con gesti impulsivi e
“parole specificamente indecenti”, diceva ai capi Cipriani, Perazzelli e Mattiacci rimasti a gozzovigliare intorno al tavolo: “Andate,
levatelo quel birbone”. I briganti gli corsero dietro ad acciuffarlo,
mentre Don Peppo, affacciato al balcone, con voce grossa infieriva: “Ammazzatelo, uccidete stù birbone”.
Mattiacci, accorrendo anche lui, fu il primo ad avventarsi sul
povero giovane – sicuramente un individuo onesto ma accecato
dall’odio verso il prete per la scandalosa convivenza che aveva
costui con la sorella – tirandogli col calcio del fucile un forte colpo
sulla tempia che gli deformò il viso e gli fece uscire anche l’occhio
fuori dall’orbita. Tramortito, lo trascinarono dinanzi la casa del
prete e proprio lì, Brindesi, Perazzelli e Cipriani con tre colpi di
schioppo lo freddarono, seviziandolo anche dopo morto.
63
Poi Cipriani gli strappò il cappello, lo squadrò, se lo mise in
testa per spavalderia e subito, gettattandolo a terra, lo calpestò con
disprezzo e disse: “È morta st’anima fottuta”29.
La ragazza, Maria Giuseppa Guglielmi, inorridita e trattenuta
con forza dal parroco, non riuscì neppure a vedere il fratello rimasto straziato a terra.
Nella piazza e in vari angoli del paese, dove si andavano formando crocchi di persone, corse subito la voce che il giovane fosse
stato ucciso perché l’arciprete si era vendicato di lui che, per il disonore e la derisione sopportati dalla famiglia a causa dell’unione
vergognosa con sua sorella, tenuta segregata in casa come concubina, aveva più volte tentato di aggredirlo.
Il corpo di Giovanni fu lasciato avanti alla stalla dell’arciprete
e i briganti rientrarono in casa. Il prete, tutto contento, ringraziò i
capi per la punizione eseguita e, nel licenziarli, volle accompagnarli fino al cortile. Dopo che tutti montarono a cavallo, proferì:
”Caporà Ciccio vi aspetto senza meno co’ lì figliuoli nella prossima festa di San Gregorio, perché volimmo fare ‘na bella parata,
mentre io farò trovare apparecchiato un buon pranzo”.
I briganti, grati per l’invito e l’ospitalità ricevuti, si avviarono
verso Fossaceca (attuale Fossalto), ma prima, passando davanti
alla casa del sindaco di Pietracupa, gl’imposero di far seppellire il
corpo del giovane con l’avvertimento che, se non avesse provveduto subito, sarebbero tornati a devastargli ed incendiargli la casa.
Verso le prime ore pomeridiane giunsero a Fossaceca. Qui, Brindesi, avendo avuto notizia che la compagnia di Fulvio Quici stazionava nel vicino bosco di Pietravalle, disse a tutti di andare colà
per unirsi a quella.
Molti lo seguirono, altri, invece, tra cui Ippolito Di Gregorio,
Luigi Iammarino, Domenico Fracassi, Vincenzo Cipriani e un sanbiasese di cui ignoriamo il nome, si opposero per tornare nelle vicinanze di Limosano.
Testimonianza del brigante Ippolito di Gregorio di Raimondo di anni 21.
di Pietracupa.
ASC- b. 23, f.3 e 4 - Processi Politici.
29
64
Crocchi in Piazza - Opera murale - Museo a cielo aperto di Casalciprano
Costoro, partiti verso quel paese, si fermarono alla masseria di
Pasquale Carrelli di Fossaceca, dove sette briganti di Ripalimosani, tenendo in ostaggio taluni garzoni, avevano mandato a richiedere armi e munizioni al padrone, minacciando in caso di
rifiuto di uccidere tutti gli animali.
I nuovi arrivati cercarono di distogliere i ripesi dal commettere
tale rappresaglia, spingendoli piuttosto a far ritorno tutti insieme
al loro paese, ma questi si mossero verso il molino di Montagano
presso il quale si unirono alla squadra guidata dai capi Intoscia e
Nicola Paolillo, anche loro di Ripalimosani, con i quali avrebbero
“battuto la campagna” intorno.
Il briganti, che si erano separati da Brindesi, una volta arrivati nei
pressi di Limosano, si divisero ancora: alcuni rimasero lì, altri, tra
cui Cipriani, raggiunsero Sant’Angelo in cui si trattennero tutta la
notte. La mattina seguente, 5 settembre, di buonora, si avviarono
per la strada detta Degli Schiavoni verso il vicino comune di San
Biase. Qui vennero a sapere che le comitive di Brindesi e Quici durante la notte si erano battute contro la Guardia Civica di Trivento.
La mattina dopo la banda di Brindesi si diresse a San Biase,
mentre quella del Quici al bosco di Trivento.
A San Biase, Brindesi, entrò con alcuni briganti del posto nel
palazzo baronale, ormai deserto e spoglio, ove comunque, come
65
si dirà in seguito, fece incendiare le carte rimaste nell’archivio e
scassare le porte del fondaco, invitando i coloni e indigenti locali
a ripulire tutto il grano e salame riposti così come aveva fatto il
giorno prima nel magazzino di Leopoldo di Trivento.
Avviata questa operazione, Brindesi ordinò ai compagni di sellare le cavalcature e tornare a Sant’Angelo per rifornirsi di pane e
companatico oltreché foraggio per i cavalli.
Mentre erano seduti a ristorarsi, furono avvertiti che il corriere
di Gabinetto transitava per Limosano e così presto rimontarono in
sella per dirigersi colà, giungendovi però quando il messo aveva
già lasciato il paese. Allora, Brindesi, per rabbia e ripicca, si rivoltò
contro il paese, con l’intenzione d’incendiarlo totalmente, ma l’ordine non fu eseguito per la mediazione dei briganti locali, le cui
famiglie risiedevano tutte lì.
Verso sera sopraggiunse la comitiva di Fulvio Quici per riscuotere, com’egli pretese, duecento ducati promessigli in precedenza
e mai consegnatigli. A tarda sera, poi, le due comitive tornarono a
Sant’Angelo per dividersi ancora: il gruppo di Brindesi prese per
San Biase, mentre molti limosanesi con Nicola Perazzelli e Vincenzo Cipriani si unirono a quella di Quici per recarsi la mattina
seguente, 6 settembre, al bosco di Trivento.
Riunita poi qui l’intera compagnia, che contava circa centocinquanta individui, si diresse a Lucito dove si aggregò un altro componente.
Era costui Domenico Colozza, originario di Busso30 ma accasato
e ritirato in questo luogo, nei cui paraggi viveva fuggiasco per sottrarsi alla cattura dei gendarmi a causa dell’assassinio di un custode di pecore commesso nei pressi di Campobasso.
A Lucito il drappello restò poche ore, il tempo cioè per riordinarsi e predisporre una spedizione a Castelbottaccio. Raggiunto
questo paese. Quici, per prima cosa, costrinse il Sindaco a provDomenico Colozza uccise il pastore Giacomantonio Catiello. A Lucito cambiò nome facendosi chiamare Vincenzo e si sposò il 23 ottobre 1806 con Angiola
de Sanctis figlia di Matteo e Caterina Ianniruberto.
ASC - b.35, f. 35/1 - Processi Politici.
30
66
vedere il vitto per sé, per i compagni e per le vetture. Mentre, però,
erano radunati a rifocillarsi, qualcuno li avvisò che il comandante
provinciale si dirigeva in quella zona con forze imponenti, avendo
unito la sua truppa a quella dei militi di Gaetano Pece31, per cui
Quici in tutta fretta avvertì l’intera compagnia di montare in sella
e tirare dritto per Civitacampomarano.
La comitiva, percorrendo le campagne del tenimento e scorgendo
quella di Brindesi che incendiava alcune masserie, si congiunse a
questa per assalire il paese. Ma l’intento non riuscì perché i briganti
vennero sorpresi dal “Gran Maggiore” comandante della Provincia,
Floristano Pepe e dalla truppa ausiliaria di Gaetano Pece che, dopo
un violento fuoco di schioppi, nel quale rimase ferito al braccio il
compagno più fedele di Quici, Paolantonio Vasile, furono costretti
a fuggire e a rintanarsi nel bosco di Trivento.
Prima dello scontro, il nuovo aggiunto Colozza, non possedendo
munizioni, fu posto come sentinella su un’altura dalla quale poté
seguire ed essere spettatore dell’avvenimento. Egli poi dichiarò
che in quell’assalto il gruppo di Nicola Perazzelli si mischiò a
quello di Quici, tanto che lui non riuscì a distinguere le due comitive in combattimento.
Da questa testimonianza abbiamo così la certezza che la banda
di Brindesi in questa circostanza era ancora unita, mentre le compagnie dei capi briganti Antonelli, Passarelli e Pronio di Vasto32
31
Gaetano Pece, di 34 anni, era sergente del gruppo degli Ausiliari di Ripalimosani. Morì a Campobasso il 15 marzo 1810.
32
La banda Passarelli scorreva lungo la costa adriatica insieme a quella di
Antonelli. Questi, originario di Fossaceca, occupava tutto il territorio di Chieti.
Il re Giuseppe Bonaparte aveva dovuto scendere a patti con Passarelli inviandogli due plenipotenziari, il generale francese Merlin e il barone abruzzese Nolli
il quale divenne poi Ministro delle Finanze.
Giuseppe Pronio nato ad introdacqua, era abate e fu tra i primi a rispondere
all’appello di Ferdinando. Il 18 dicembre 1798 si recò a Sulmona per offrire i
suoi servigi al generale de Gambs, che allora combatteva per il brigantaggio.
Nel 1808 gli venne meno il suo unico figlio perché ucciso, per ironia della sorte,
proprio dai successori di quei briganti che egli aveva arruolato 10 anni prima.
Pronio ricevette dal generale duecento fucili e due barili di cartucce, che fece
67
sostavano in quel bosco in attesa di far breccia comune.
Ricomposto e inquadrato l’intero corpo brigantesco, formato di
circa quattrocentocinquanta individui, quasi tutti a cavallo, Quici
dispose di ritornare a Civitacampomarano per battersi tutti uniti e
compatti. Dopo un breve riposo raggiunsero quell’abitato, ove, però,
trovarono la truppa dei Regolari schierata in difesa del paese e appostata sui parapetti delle case, cioè in una posizione tale che poteva
offendere senza essere offesa. E così, rinunciando all’assalto, i capi
decisero di tornare un’altra volta al bosco di Trivento incendiando
sulla via, per dispregio, una masseria non distante dal luogo.
Quando si ritirarono al sicuro i capi mandarono una ventina di
uomini armati, che si erano rifugiati nel bosco, con un biglietto indirizzato al sindaco di Roccavivara al quale s’intimava di recapitare subito viveri per il sostentamento dell’intera brigata e degli
animali.
Il Sindaco senza indugio fu costretto a consegnare loro trentasei
capre prese dal gregge dell’arciprete di Roccavivara, don Francesco Grimaldi, le quali povere bestie furono uccise e mangiate
da tutta la comitiva.
Dopo l’abbondante pasto ripartirono e, raggiunto Salcito, alcuni
andarono da un maniscalco a ferrare i cavalli, altri dal Sindaco a
provvedersi di vitto.
Nel frattempo un confidente corse ad avvertire la truppa che la
forza militare dei Corsi stava sopraggiungendo per sorprenderli. Allora rimontarono presto a cavallo e si diressero al covo di Pietravalle, ma lungo la strada furono raggiunti dagli stessi militari con i
quali si scontrarono duramente e molti briganti ci rimisero la pelle.
Sbandamento, riordino e disgregazione della comitiva
La truppa dei Corsi, non si fermò a quell’attacco ma inseguì i
pervenire ad Introdacqua, ove armò i suoi concittadini. Il 25 dicembre 1798
aveva già ai suoi ordini settecento uomini e marciava alla volta di Roccacasale.
Manhès Mc Farlan - Brigantaggio. Un’avventura dalle origini ai tempi moderni. Cap. 4°, pag. 83 - Ed. Capone.
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briganti fino al bosco di Pietravalle, decimandoli e costringendo i
superstiti ad un rovinoso sbaraglio.
Dopo questo violento conflitto più di qualcuno, in cuor proprio,
cominciò a pensare di ritirarsi da questa vita così spericolata e tormentata. Uno dei primi fu Francesco Minicucci di Limosano che,
dal bosco, prese la decisione di allontanarsi.
Non confidandosi neanche con i suoi paesani, con una scusa lasciò
i compagni, ritirandosi nottetempo al suo paese in cui rimase nascosto per qualche giorno. Per timore di essere scoperto e carcerato poi
si trasferì a Guglionesi, nascondendosi in casa di un suo parente.
In seguito, anche Iammarino e Di Gregorio, compaesani di Limosano, si ritirarono e consegnarono le armi alle autorità del loro
paese, ottenendo in cambio salva la vita. Altri furono arrestati
come Luigi Frosolone, Michelangelo Chiocchio, Giuseppe e Vincenzo Matteo.
Minicucci dal suo rifugio di Guglionesi prese poi contatto con
il sindaco di Limosano, Francesco Fracassi, a cui riferì di volersi
rendere utile alla causa pubblica locale e contribuire ai servizi del
governo francese. Intendendo dargli un segno tangibile del suo
pentimento, segnalò e fece arrestare Cosmo Del Gobbo e Saverio
Ricapito, amici briganti limosanesi. Il Sindaco per ricompensa gli
concesse pertanto l’agognato condono.
Morgia Pietra Lumanna - Trivento
69
Francesco Brindesi, scampato al massacro del bosco di Pietravalle, tese la mano all’amico arciprete di Pietracupa, che lo tenne
nascosto in una masseria della sua vigna, fornendogli viveri ed armandolo di fucile e munizionamento, poiché dopo la disfatta il caporale n’era rimasto spoglio avendo perduto tutto sul campo di
battaglia.
Ma la vicenda non finisce qui perché Don Peppo, non del tutto
appagato, con bieca cupidigia si servì ancora di lui e degli altri.
Alcuni giorni dopo, appunto, mandò un suo galoppino ad appostarsi sulla vetta di un colle di Pietracupa per scrutare e scoprire il
passaggio dell’altro capo brigante Nicola Perazzelli, rimasto a
piede libero e ancora in forza ad una comitiva di alcuni veterani,
perché aveva intenzione di depredare il casale di Civitavecchia
(oggi Duronia).
Perazzelli, infatti, dopo la disfatta di Pietravalle, si era unito al
resto della banda di Fulvio Quici per continuare a battersi perlopiù
nei territorio del basso Molise33.
L’otto settembre 1809 la banda di Quici, che si era nel frattempo
associata all’altra guidata da Tomeo Basso, alias Bassariello, scorazzante lungo il litorale adriatico, fece un’incursione nel retroterra, saccheggiando anche Sant’Angelo Limosano.
Il 5 ottobre 1809, alcuni briganti di Ripalimosani varcarono il
fiume Biferno e s’inoltrarono nel territorio di Limosano mettendo
a ferro e fuoco alcune masserie, in una delle quali rubarono anche
il fucile di un legionario. Continuando l’avanzata, s’imbatterono in
una tenuta agricola in cui si teneva al pascolo una particolare razza
autoctona di giumenti allo stato brado. Non riuscendo ad imbrigliarli
e catturarli, proseguirono lungo il tratturo per Castropignano.
Durante il percorso rapirono e presero in ostaggio la moglie e
quattro figlie nubili di un facoltoso di Sant’Angelo Limosano, Vincenzo Giuliani, che insieme facevano ritorno al paese, costringendo costui a prelevare il danaro che aveva in cassa.
Testimonianza di Francesco Minicucci Brigante di Limosano.
ASC - b. 30, f. 30/8 - Processi Politici.
33
70
La sera dell’8 ottobre, ricongiungendosi agli sbandati al seguito
di Brindesi e Cipriani, decisero di recarsi a Limosano. L’intento
era che qui, il mattino seguente, avrebbero dovuto ricompattarsi
e riprendere insieme le scorrerie, ma sul posto trovarono in agguato il Maggiore Pepe con un gran numero di militi.
Un brigante di Montagano fu preso e fucilato sul posto, gli altri
fecero appena in tempo a darsi alla fuga.
Pur inseguiti, però, lo stesso giorno riuscirono a raggiungere la
comitiva di Quici sulla strada di Civitacampomarano con la quale
affrontarono i Gendarmi Reali e un distaccamento del reggimento
Reale Corso, ma non avendo alcuna possibilità di resistere a queste
forze, si divisero in diversi gruppi ognuno dei quali prese riparo
nei vari covi del bosco di Trivento.
Il Giudice di Pace di questo Circondario fece poi un ragguaglio
sull’accaduto mettendo in risalto il successo delle milizie governative sulle torme brigantesche che avevano minacciato la quiete
pubblica dell’intera provincia e sottolineando anche che molte di
loro rubavano “finanche nella pubblica strada”.
Verso la fine di settembre, quasi tutte le bande, a questo punto
sbandate e incalzate da ogni dove dalle forze dell’ordine pubblico,
si spostarono in Capitanata.
Nel Molise, sotto la spinta e le taglie della polizia francese, sorsero un po’ dappertutto delatori e traditori che contribuirono a sgominare le varie bande rimaste in vita.
I rastrellamenti e gli arresti erano diventati tali che le carceri
traboccavano di colpevoli e innocenti. Le commissioni militari,
incaricate dai giudici, eseguivano sommariamente condanne alla
forca, senza processi e senza sosta.
Molti detenuti sopravvissuti alle fucilazioni e alle epidemie, cercavano scampo alla disperata.
La gente, almeno quella più agiata, che nei primi tempi aveva
sperato e incoraggiato una tale repressione, ora cominciava a temere che quella spirale di odio e di terrore della morte si sarebbe
potuta ritorcersi anche contro di loro.
Il rigore con cui Giuseppe Buonaparte affrontò il brigantaggio
fu, con l’arrivo di Gioacchino Murat, un po’ mitigato con vari
71
provvedimenti di clemenza a favore dei disertori, con permessi di
rientri in patria agli esiliati e con l’indulto ai condannati e inquisiti.
Ma ciò non bastò ad attenuare il brigantaggio, anzi peggiorò la situazione. Allora Murat, cambiò strategia ed emanò pene più severe
e oppressive, con cui obbligò “l’infame e vile brigante” alle più
atroci condanne. Si formarono liste di briganti e di proscritti, dette
Fuorgiudicati, che si affissero in tutti i Comuni, dando il permesso
a ognuno di ucciderli o consegnarli alle commissioni militari per
essere sottoposti alla tortura e alla gogna oltre che alla confisca
dei loro beni a beneficio dello Stato.
In seguito a queste rigorose disposizioni, molti parenti e famiglie, per semplice sospetto di connivenza con i briganti, furono
perquisiti e reclusi. Si videro così donne, bambini, vecchi, garzoni,
preti, eremiti, pezzenti e storpi trascinare nelle orride prigioni di
Campobasso, Lucera e Foggia nelle quali, senza mantenimento e
senza pietà, morivano di fame e di malattie.
Ciò nonostante nel Molise e nel resto del Regno di Napoli varie
comitive brigantesche, tra le quali quelle dei Vardarelli di Celenza
Valfortore, dei Quici-Vasile di Trivento, e quelle di Vasto Aimone,
continuarono a imperversare contro il governo francese.
Brigante Anselmo Mattiacci
Anselmo Mattiacci, penultimo di nove figli, era nato a San Biase
il 23 giugno 1786 da Pasquale e Maddalena Fagnano, la cui famiglia della madre era originaria di Trivento.
Anselmo, cresciuto come “uomo di campagna”, si era poi addestrato molto bene agli armamenti e temprato agli assalti. Per
maestro di maneggio alle armi e di manovre al brigantaggio aveva
avuto il cugino Giuseppe che, come sappiamo, era stato arrestato
dal barone il 27 di giugno del 1807.
Egli, quindi, fin dal 1799, quando il cugino era in forza nella compagnia brigantesca del circondario, aveva tenuto frequenti contatti
con questa e poi, dal 1807, era entrato in più stretta corrispondenza
con i capi banditi triventini Fulvio Quici e Paolo Vasile. Dopo la
notizia della morte di Giuseppe si arruolò nella comitiva di France72
sco Brindesi, che si era nel frattempo staccata da quella di Quici e
Vasile, avendo dimora propria, di solito nei boschi di Trivento, Pietravalle e altri limitrofi.
A indurlo fu, come testimoniò il sacerdote Gioacchino D’Andrea
al processo giudiziario contro gli autori dell’uccisione del barone di
San Biase, il tarlo della vendetta che gli rodeva in corpo per aver
“perduto un suo fratello [cugino] a causa del Conte istesso de Blasiis,
il quale l’aveva tenuto diversi anni carcerato in Lucera ed in Napoli”.
Secondo quanto ci conferma Carlo De Blasiis, fratello del barone Francesco,
nel mese di Agosto di quest’anno mille ottocento e nove, si diede
in Campagna Anselmo Mattiaccio, nativo, e domiciliato nel suddetto Comune di Sambiase mia patria. Egli si unì alle Comitive di
Briganti, e propriamente a quella di Francesco Brindesi di Triventi,
che faceva da Capo.
Egli, sposatosi il 10 febbraio 1809 con Benedetta De Rensis, si
era inserito molto bene nella comitiva partecipando in modo tracotante alla testa di varie azioni criminose.
Anselmo, nel frattempo, come in precedenza detto, prese parte
insieme a Brindesi, Perazzelli e Cipriani all’assalto e furto del sindaco di Pietracupa e ad altre imprese criminose nei paesi della zona.
Per questi meriti sul campo gli era stato concesso di indossare
la giacca blu e il cappello con la coccarda rossa, divisa che doveva
portare specialmente in occasione di imprese punitive di particolare importanza, come simbolo distintivo dell’arruolamento tra i
componenti di spicco nel corpo di combattimento borbonico.
In base a una rivelazione fatta dal sacerdote di San Biase, Biase
Leone, che nel 1809 risiedeva a Castelguidone ove prestava ufficio
di “Economo Curato in quella Chiesa Madre”, ci risulta che Anselmo
partecipò a un assalto in quel paese. Don Biase così informa:
Nel giorno quattordici del mese di Settembre, verso la mattina si
portarono in detto Comune di Castelguidone circa quattordici briganti a me ignoti, a riserba di due che io conobbi essere Anselmo
73
Mattiacci, oggi estinto – ovvero in data 10 gennaio 1810 – ed Antonio di Pietro Ciavatta miei noti paesani, i quali per appreso aver saccheggiato il Sig.r Contempo Lucente di detto Luogo, essi Mattiacci
e Ciavatta si millantavano dicendo, com’io intesi, che erano stati in
S. Biase ed avevano ucciso il Conte D. Francesco de Blasiis.
Sempre secondo quanto riferisce Carlo De Blasiis
verso la fine dello stesso mese di Agosto si portò la prima volta in
Sambiase il suddetto Brigante Anselmo Mattiaccio di unita con altri
compagni Triventini; fecero un furto nella casa di Eduardo Continelli;
vi attaccarono il fuoco, ma non arrivò ad ardere e, commessi altri eccessi, si ritirarono nel bosco di Triventi, che era il loro asilo. Ciò mi
costa per fama pubblica perché al loro arrivo io, ed i miei fratelli germani Conte fu Francesco e’l Prete D. Michele, ci salvammo colla fuga.
In ogni modo gli assalti non finirono qui perché, come continua
Carlo,
dietro un tal successo, essendosi uniti alla suddetta Comitiva gli
altri Sambiasesi, Francesco di Andrea Marino, Saverio di Pietro
Marino e Francesco di Bernardo Leone, tutti miei conoscenti,
spesso spesso venivano tal Comitiva nel Comune di S. Biase, commetteva de’ furti, metteva in contribuzione le Famiglie, faceva ogni
sorta di male e depredava le campagne d’intorno.
Atto di matrimonio tra Anselmo Mattiacci e Benedetta De Rensis - Archivio parrocchile San Biase
74
Tuttavia il colpo più grosso messo a segno da lui con la complicità di una tale Nicolina e di altri paesani – che riportiamo in
appresso – doveva ancora venire.
Panettiera Nicolina Angelocola
Nicolina Angelocola, energica e intraprendente donna di trentatre anni, nata a San Biase intorno al 1765 da Crescenzo e Angelica Leone, si era sposata con Modestino Marchetta di cui abbiamo
accennato prima.
Dalla loro unione nacquero tre figli, di cui due femmine morte
in tenera età, e un maschio, di nome Federico, che all’epoca dei
fatti esposti aveva appena compiuto due anni.
I coniugi abitavano “nella strada Colle della Porta [volgarmente
detta Calla Porte] dirimpetto e distante pochi passi dal fabbricato
di Pasquale Giagnacovo” il quale possedeva anche un negozio annesso di Generi & Diversi posto nei locali, oggi siti sotto il loggiato di Piazza Roma, degli eredi di Tommaso Giagnacovo e di
quelli di Biase D’Alessandro. Da questa citazione desumiamo che
la casa di Nicolina fosse situata all’angolo tra l’attuale Vico Inforzi
e Piazza Roma. Là viveva insieme al figlio, i suoceri Pietro Marchetta e Gaetana Barone e senza marito perché arrestato due anni
prima dal barone e rinchiuso nel carcere di Lucera.
A lato dell’abitazione teneva un forno che doveva gestire da
pochi anni – essendo questo ius bannale esclusivo del barone fino
all’eversione del feudalesimo del 1806 – per la vendita al pubblico
di pane e sale e un’attigua stanza in cui serviva da mangiare e bere
ai forestieri.
La suocera Gaetana, come si evince da un atto notarile34, venPietro Marchetta, in un atto notarile, dichiara che sin dalli quattordici del
corrente Agosto di questo corrente anno 1789 a circa le ore sedici, avendo esposta
querela criminale di adulterio in questa Corte locale, contro Eduardo Continelli,
e Gaetana Barone moglie di esso Costituto per la pratica tenuta in Sua, secondo
l’era stato riferito, ed insinuato dalle persone sfacendate di questa predetta Terra.
E perché appena tanto riferitoli, subito, e senza riflettere al dappiù, ed a primo
34
75
deva presso lo stesso locale, almeno dal 1789, oltre il sale, anche
tabacco e salnitro al minuto, ma non poteva cucinare ai forestieri
perché anche questo diritto era riservato al barone.
Nonostante l’esercizio di tale rivendita le condizioni di sussistenza di Nicolina e della famiglia dei suoceri, così come dichiararono i vari paesani chiamati a testimoniare al suo dibattimento
processuale, erano molto modeste.
“Il loro sostentamento” a detta di tutti “nasce solo dalla industria, e fatica delle loro braccia”. Lo smercio del pane, se escludiamo quello alle persone di passaggio, doveva essere alquanto
scarso e comunque limitato ai soli artigiani, boscaioli, pinciari35 e
moto, vi espose la querela sudetta. Indi poi fattane matura riflessione, e maggiormente a pieno informato dalla gente più sana di detta Terra, ritrovò esso Costituto, che quanto l’era stato detto, ed insinuato, era tutto falso, e lontano dal
vero. E sebbene detto Eduardo Continelli continuato avesse la casa di detto Costituto, non per altro che per puro interesse passa tra il sudetto Costituto, e’l
detto Eduardo qual è appunto di ritrarre il denaro, che quotidianamente se ne
ricava dalla vendita del Sale a minuto, che si faceva, e si fa dalla detta Gaetana
moglie di esso Costituto, per indi farne le dovute rimesse al Regio affittatore de’
Sali, presso di cui l’Eduardo sudetto si ritrova obligato; oltre di altro interesse,
che da tre in quattro anni è passato tra’l sopradetto Costituito Marchetta, e’l
cennato Eduardo, come dai Conti, e dalle Scritture si possono rilevare.
Stante ciò a circa le ore ventuno di detto giorno, detto Costituto personalmente si portò nella casa della Corte di detta Terra, ed avanti del Sig.r Governatore di detta Terra, per riclamare, e rimettere l’enunciata querela, come in
fatti voce tanto fece, e dichiarò. Ma perché detto Sig.r Governatore ad un tal
atto non volle prestar udienza, la mattina susseguente esso Costituto Marchetta
ne formò istanza in scriptis, colla quale non solo dichiarò di rimettere la querela
sudetta, perché formata su d’una falsa rappresentanza, ut supra fattoli, ma
anche quarenus stato vi fosse cosa di contrario tra’l detto Eduardo, e la detta
Gaetana; pure volendola fare da vero Cristiano, ed esser osservante de’ Divini
precetti, pur tutta volta l’escolpò, e li perdonò sì l’uno, che l’altra. Che perciò
della detta querela non se ne avesse avuto, né se ne avesse più conto, né in detta
Corte Locale, né in qualunque altro Tribunale, ma che la querela sudetta si rendesse nulla, invalsa, e cassa con non fosse stata fatta.
A.S.C - Protocolli norarili - notaio Di Iorio di Fossalto, 16 agosto 1789.
35
Il mestiere di pinciaro consisteva nel formare coppi e mattoni di terra cotta
utilizzati per la copertura dei tetti e per i pavimenti di casa. Quest’attività fino
ai primi anni ’50 del ‘900 era molto praticata da noi. L’ultimo pinciaro di San
76
Atto di matrimonio tra Nicolina Angelocola e Modestino Marchetta
a qualche pastore del posto, in quanto il resto degli abitanti, soprattutto i pochi possidenti, aveva ottenuto il beneficio del forno
in casa, mentre quasi tutti i miseri coloni si adattavano a cuocere
la pizza azzima di grano o di granone per il loro fabbisogno quotidiano sotto la coppa dei propri focolari.
Inoltre, i mercanti e agenti pubblici vari che venivano a cavallo o
i forestieri che si recavano a piedi in occasione delle fiere per la compravendita di bestiame o di altre mercanzie, secondo un antico privilegio riservato al barone, erano obbligati ad alloggiare e a ristorarsi
presso la sua taverna locale, pagando il dovuto alla corte feudale.
Anche per la vendita di vino al pubblico, così come per altre derrate,
ogni produttore era costretto a sottostare allo “ius proibitivo” del barone, secondo il quale egli, come “Primo Cittadino” del paese, aveva
il diritto di precedenza assoluta sulle vendite e sugli acquisti di questi
Biase è stato Michele Ciccone, morto a Lucito nel 1985.
77
generi venali rispetto a qualunque abitante. Pertanto il povero suddito, per poter commercializzare quel poco di frutto che ricavava
dalle proprie fatiche, oltre a pagare il nizzo e i tanti altri obblighi feudali alla corte, doveva attendere anche che l’Illustrissimo signore del
luogo avesse esaurito le scorte alimentari nel proprio fondaco.
L’esercizio di fatto di questa prelazione costituiva per tutti, e soprattutto per la nostra fornaia, contrariamente a ogni logica commerciale, in teoria valida anche a quei tempi ma in effetti poco
applicata, una concorrenza sleale, perché si traduceva in una forte
penalizzazione alla libertà del mercato.
La coraggiosa e determinata donna, per questa e per tante altre
iniquità patite a colpa del barone che, ricordiamo, le aveva strappato anche il marito, cominciò a pensare a una risoluzione rapida
e definitiva che potesse liberarla da quest’oppressa situazione e
affrancare una volta per sempre anche il paese da remoti e nuovi
gravami e soprusi.
A questo proposito aveva iniziato a tessere una trama con le
mogli degli altri arrestati per mettere in trappola il barone.
La sua panetteria era diventata, quindi, il luogo d’incontro segreto, quasi un circolo cospirativo in cui si ritrovavano le donne
più risentite e i parenti più stretti dei detenuti, tra i quali Pietro
Marino, Quirino Giagnacovo ed altri.
La via più logica e praticabile da seguire per mettere in atto il
progetto che aveva in mente Nicolina non poteva essere se non
quella di coinvolgere i briganti locali, di cui già conosceva i capi
Brindesi, Cipriani e Perazzelli.
A trascinarli nell’impresa ci avrebbe pensato lei con vari contatti
ed espedienti. E così con il pretesto di andare a rifornirsi di legna per
il forno, cominciò a recarsi nei boschi vicini di Pietravalle e di Trivento con la sua vettura da soma per incontrare di nascosto costoro
e riferire notizie fresche sulle reazioni dei notabili del paese e sulle
mosse dei gendarmi del luogo oltre che per portare loro da mangiare
e bere. A farci sapere di questi traffici è Michelangelo Jurese, pinciaro che operava nel bosco di Maccavillo e di Trivento il quale era
a conoscenza dei vari movimenti di Nicolina. Egli così riferisce:
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Colla occasione di portarmi in ogni tre o quattro giorni nella mia patria di S. Biase, sono stato solito di provvedermi di pane dalla panettiera Nicolina, la quale mi somministrava il pane a credenza; in
diverse volte che andiedi di buon mattino […] vidi che la stessa caricava sopra il suo mulo il pane e il vino, e lo trasportava ai briganti.
Costei aveva persino pensato di trovare una donna ai capibanda.
Infatti, un giorno chiamò in casa una giovane e povera donna di S.
Biase, Maria Bracone, che prestava servizio di cameriera al barone
di Sant’Angelo, Federico De Attellis, e le disse:
Maria mò è tiempe d’arricchirti, tu non devi stare sempre a padrone.
Tiengo ‘na ‘mbasciata da farti, compà Ciccio Brindesi, e Vicienze
Cipriani avrebbero piacere di conoscerti, e vonno spendere qualunque denaro.
A questo tentativo d’adescamento Maria le rispose “di esser contenta di quel pane che le somministrava il suo padrone” e, per timore di “ricevere un affronto da’ Capi della Comitiva”, stimò di
allontanarsi facendosi accompagnare a Campobasso da due persone
fidate, Giuseppe Continelli e Pasquale Giagnacovo.
Ormai Nicolina teneva in pugno i briganti trattandoli con riguardo e dimestichezza, ospitandoli altresì nella propria casa
quando erano di passaggio o venivano apposta in paese per qualche scopo o per rapinare i benestanti del posto.
Stefano Frenza, altro pinciare che aveva le fornaci nei predetti
boschi, così testimonia:
Ho veduto di continuo Nicolina trattare e discorrere segretamente
con Nicola Perazziello, Antonio di Claudio e Francesco Brindesi
noti briganti, i qual’individui diverse volte l’ho veduti pure nella
casa di detta Nicolina Angelicola, e mangiare colla medesima nel
ritorno che io ho fatto la sera nella mia patria di S. Biase.
In altre circostanze i briganti si fermavano presso di lei anche
in pieno giorno. Michele Giagnacovo, pinciare anche lui, così dice
a questo proposito:
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In una mattina di Agosto, nel passar che feci per avanti della casa
di Nicolina, vidi che la stessa stava mangiando con i briganti; e perché mi trattenni qualche minuto a guardarli, Teresa Caputo, che era
anche con essi mangiando [...] mi rimproverò, dicendomi: Che tieni
in mente?
Attraverso questi banchetti e appuntamenti segreti e palesi con
i capibanda, Nicolina riuscì a convincerli a eseguire il sequestro
e la condanna a morte dell’ex barone. Con tutta probabilità la nostra abile panettiera, per meglio mettere in pratica questo suo disegno, arrivò pure a persuadere Anselmo Mattiacci, poi Francesco
e Saverio Marino e Francesco Leone ad entrare e agire di conseguenza nella banda di Brindesi e compagni. A questo punto della
vicenda sia Anselmo sia Nicolina, che riteniamo il braccio e la
mente dell’operazione “Assalto al palazzo baronale”, si apprestarono alla manovra della cattura e uccisione di Francesco.
La mattina del giorno stabilito per il rapimento, quand’era
messo tutto a posto, Nicolina corse al bosco ad avvertire i briganti
che l’ex barone si trovava tranquillo e beato e senza guardie nella
sua residenza di San Biase.
Fucilazione del barone
Era il primo settembre 1809, tardo pomeriggio di venerdì,
quando si vide apparire al Guade capizze, passo situato all’uscita
del bosco Maccavillo, una pattuglia di briganti che si muoveva
lungo la strada mulattiera principale che conduceva a San Biase.
Alla testa della banda, formata da una trentina d’individui, si
distinguevano a cavallo, armati fino ai denti, con giubbe scure munite all’occhiello di una coccarda borbonica e con cappellacci appuntiti fasciati di un nastro rosso, tre condottieri che avevano tutta
l’aria di accingersi a un assalto importante.
Gli altri della comitiva, pure armati e “coccardati”, li seguivano,
con qualche fatica, a piedi.
I capi briganti al comando erano Francesco Brindesi, Vincenzo
Cipriani e Nicola Perazzelli. Facevano parte del resto della squa80
dra, tra i componenti riconosciuti, Antonio di Claudio, Eustacchio
e Saverio Del Castello di Trivento; Domenico Fracassi, Vincenzo
Matteo e Luigi Frosolone di Limosano e molti ribelli dei paesi vicini. Inoltre, a far parte del gruppo, in prima linea, c’era Anselmo
Mattiacci seguito dagli altri sanbiasesi Francesco Leone, Saverio
e Francesco Marino, i quali come disse il pinciare Michelangelo
Jurese, presente al momento nel bosco Maccavillo, spronavano gli
altri rimasti indietro con queste parole: “Figliù, camminate che
avemmo accidere le Conte!”.
Giunti a ridosso del borgo di San Biase irruppero spavaldamente
nella piazza antistante la chiesa.
Anfratto bosco Maccavillo - San Biase
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Quelle poche persone presenti – giacché la maggior parte si trovava in quel momento a lavorare nei campi o sulla via del ritorno al
paese e le donne occupate a preparare nelle case il pasto della sera –
temendo un ulteriore saccheggio o un’estorsione di denaro a danno
della popolazione, al grido “i briganti! i briganti!” si rinchiusero
sbigottite nelle abitazioni o fuggirono per nascondersi nei paraggi.
Qualche curioso, più temerario che coraggioso, in ogni modo
restò, e restarono soprattutto le spie e i favoreggiatori che, opportunamente appostati, funsero da “palo” all’azione che si stava per
compiere. Brindesi, incitato da Nicolina e dalla suocera di questa,
Gaetana, con segni eloquenti e frasi blasfeme diretti al signore del
palazzo, con un balzo felino scese da cavallo. Poi, dietro a Mattiacci, che conosceva bene il posto, corse anche lui verso l’ingresso
principale del castello baronale seguiti da una parte del gruppo.
Altri, nel contempo, secondo quanto previsto, andarono spediti a
cingere il palazzo e a presidiare le diverse porte di uscita del paese.
Nel cortile davanti al portone passeggiavano e discutevano tra
loro, all’oscuro di tutto, due fratelli del barone, il dirigente provinciale delle milizie Carlo e il sacerdote Michele.
Questi, sorpresi e bloccati dagli assalitori, non poterono fare altro
che prestarsi ai loro ordini. Anselmo, ben noto ai due maggiorenti,
Cattura barone Francesco De Blasiis (Foto dal web)
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pretese di sapere subito da loro dov’era il barone Francesco e, avuto
per risposta che si trovava in una stanza al piano superiore, insieme
a Brindesi, costrinsero i fratelli, sotto minaccia delle armi, a salire
precipitosamente avanti a loro onde arrivare per tempo a fermare e
agguantare il padrone di casa. Raggiunto d’un fiato costui e intimatogli di consegnare le armi, lo presero e gli legarono le mani con
una corda, così come fecero al fratello Carlo.
L’altro, il prete, fu risparmiato.
I due malcapitati, uniti e tirati per un capo della fune giù per le
scale e sospinti, con l’aiuto di altri che attendevano all’uscita, fino
alla pubblica piazza, furono qui lasciati davanti alla bottega di Pasquale Giagnacovo, nelle mani possenti e sotto i fucili spianati dei
fidi compagni.
Intorno a costoro si radunò subito il resto della comitiva e taluni
indiscreti del posto, parenti o conniventi dei briganti paesani che,
con modi e gesti scurrili, si facevano beffa delle implorazioni e
dei lamenti dei due prigionieri. Tra questi ultimi spiccava la figura
del padre del bandito Saverio, Pietro Marino che, con astuzia e destrezza, sovrintendeva alle operazioni in corso. Costui, altro referente locale della brigata brigantesca, che, con Quirino e pochi
altri aveva coadiuvato con Nicolina per mettere a puntiglio la manovra del rapimento, era assai temuto dalla popolazione, non solo
per la protezione di cui allora, ovviamente godeva, ma per il temperamento prepotente e vendicativo con il quale aveva sempre tenuto in soggezione gli altri.
A questo punto i capibanda, stanchi e affamati, avendo portato
a buon fine l’impresa e messo al sicuro la “preda cacciata”, vollero
acquietare, per così dire, lo stomaco e lo spirito, entrambi bollenti,
con un abbondante pasto e molti boccali di vino.
E così entrarono nello spaccio del Giagnacovo.
A provvedere all’occorrenza si prestarono, con gran premura,
Nicolina e sua suocera. Qualcuno fu mandato di corsa da Mattiacci
a prendere un carrafone36 di vino a casa del possidente “dottor fi36
Era un bottiglione di vetro della capacità variabile, di solito da 12 a 16 litri.
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sico” Nicola De Paola, Sindaco del paese. Altri, in giro per le case
a bussare alle porte, sotto l’occhio vigile di Marino, avevano preteso e ottenuto dell’altro.
Gaetana, intanto, si affrettò a portare un grosso cesto colmo di
pane, appositamente preparato e appena sfornato, mentre Nicolina
tornò presto con un pirette37 pieno di vino.
Poi tutte e due, come vere e solerti padrone di casa, dispensarono l’intera provvista e ogni altra cosa ai capi e primi attori, accomodati intorno a un tavolo, e poi agli altri che, richiamati nel
mentre dal profumo della tavola, erano entrati nella bottega e si
erano accalcati attorno ai primi per accaparrarsi qualche boccone
da metter sotto i denti famelici.
Per il resto, e soprattutto per il companatico, il negozio alimentare che avevano occupato di proposito si porgeva con dovizia a
tutte le bocche!
Fuori, nel frattempo, un certo Saverio Continelli, la cui famiglia
era molto vicina al barone, e non solo di casa, commosso dalle
suppliche e dalle lacrime dei sequestrati, si fece avanti e chiese a
Brindesi, il quale di tanto in tanto si affacciava per controllare che
all’esterno fosse tutto a posto, di voler riscattare la libertà dei due
per cui era disposto a offrire cinquanta ducati.
Dietro un primo diniego Saverio raddoppiò l’offerta e il brigante
accettò di sciogliere solo Carlo, mentre il barone, come seccamente rispose, “ancorché la somma fosse di mille” non poteva essere svincolato perché doveva essere condannato a ogni costo al
patibolo.
Carlo, per ordine dello stesso brigante, fu subito accompagnato
in casa di Continelli.
Pasquale Giagnacovo, mosso pure lui a compassione e dandosi
poca cura di quello che stava succedendo alla propria bottega, s’impegnò a trattare con i briganti per cercare di salvare il salvabile.
Pochi istanti dopo, mandato a chiamare per Saverio, Giagnacovo raggiunse lesto Carlo da cui ebbe “efficaci premure” di in37
Era un recipiente di latta o di vetro a forma di pera del volume di circa 15 litri.
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tercedere presso gli altri capi assicurando loro somme ben più sostanziose da parte della famiglia De Blasiis per l’affrancamento
del barone. Riferita l’ambasciata a Cipriani si sentì da questi negare con sdegno e minacce la proposta e ogni ulteriore possibilità
d’ingerenza.
Dopo qualche momento i capi briganti, satolli e rinfrancati ancor
più degli altri, uscirono e diedero ordine immediato agli estranei
di sparire. Allora Cipriani prese la corda che teneva stretto Francesco e la legò a un anello della sella, poi con un balzo vi montò
e spronò con i talloni il cavallo che, anch’esso rinfrancato con una
buona razione d’orzo misto a grandinie, fece un salto in avanti trascinandosi dietro l’affranto ostaggio.
Gli altri due, Brindesi e Perazzelli, fecero altrettanto.
I tre in testa si diressero subito, l’uno dietro l’altro e seguiti dai
soli compagni di ventura, lungo la strada principale di uscita dal
paese (odierna via Principe di Napoli), allora costeggiata da un
gruppo di case detto Borgo Sant’Angelo, per nulla toccati dai pianti
e dalle invocazioni del povero Francesco. Anzi, ai suoi lamenti,
Cipriani rintuzzava duro: Hai pure coraggio di parlà, mentre tieni
sei colonne di Santa Chiesa a marcire in carcere a Lucera e mo’
chiagni, sta vota stu fuosse ne le zumbe.
Veduta Borgo Croce e morgia Martino - San Biase
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A questa e ad altre accuse il barone rispondeva sempre più debole e accorato: ”Non sono stato io, ma la giustizia”.
Transitarono dinanzi all’abitazione del sindaco, forse lì rintanato
o, piuttosto, fuggiasco, e proseguirono verso la Croce di S. Pia
posta all’uscita del paese (detta ancora oggi la Crocetta).
Passando, anzi, quasi strisciando davanti a questa il barone, non
potendosi fare il segno della croce e ormai rassegnato ad andare
incontro a un’inesorabile e imminente condanna, forse riuscì solo,
con un fugace e supplice sguardo, a raccomandarsi l’anima alla
Compatrona, il cui Corpo Santo era stato voluto dal padre e fatto
giungere con tanta solennità da Roma poco più di mezzo secolo
prima e che lui, da bambino, aveva potuto ammirare al suo arrivo.
Arrivati poco più in là, seguendo sempre la strada mulattiera
che conduceva a Sant’Angelo Limosano – che per Francesco si
era trasformata, tra una caduta e l’altra, in una sorta di Via Crucis –
prima della biforcazione che portava al bosco Defensa, si fermarono in un largo e scelsero con accortezza l’albero al quale doveva
affidarsi l’ostaggio.
Dopo avergli legato ben strette le braccia e le gambe intorno al
tronco presero le giuste misure e precauzioni per il tiro.
Era ormai sul calare del sole, quando giunse l’ora fatale dell’esecuzione: Cipriani, Brindesi, Perazzelli e Mattiacci si schierarono a pochi passi e fecero fuoco con gli schioppi tra il tripudio
del gruppo.
I colpi raggiunsero la gola e il fianco destro di Francesco, che
tosto si accasciò agonizzante.
Quando furono sicuri della sua morte, lo sciolsero e lo lasciarono stramazzato a terra, indi partirono trionfanti alla volta del
bosco di Limosano.
Nella quiete della sera gli echi degli spari risuonarono come
acuti rintocchi funebri di campane in ogni angolo del paese e
ognuno rinchiuso nelle proprie mura o altrove intese e capì che
quelli erano stati diretti sicuramente al barone. La maggior parte
delle persone, in cuor proprio, gioì, poche si rattristarono, mentre
le altre restarono tra l’incredulità e l’indifferenza.
La notte calò di lì a poco sul corpo di quel disgraziato e su ogni
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altra cosa, e ciascuno, in uno stato d’animo diverso e con lo stomaco
più o meno riempito, si mise a letto o su un giaciglio a riposare.
Avvenimenti dei giorni successivi
Il mattino seguente, di buonora, si sentirono sfilare i catenacci
e le barre dietro le porte e gli uomini, l’uno dietro l’altro, quasi facendosi più coraggio, misero piede fuori, chi per semplice curiosità
chi per stretta necessità, dovendo andare in campagna o in altra
parte del paese ad accudire al bestiame… e con la segreta speranza
in cuore di trovare ogni cosa a posto! Diversi, tra i più intriganti o
increduli, si spinsero fuori del paese per accertarsi dell’accaduto.
Alcuni, come Pasquale Giagnacovo, dovendo recarsi a Sant’Angelo per affari, o altri che andavano da quella parte per lavoro, furono costretti a passare proprio sul luogo dell’assassinio. Tanti,
quindi, poterono riconoscere il corpo sfigurato di Francesco che
giaceva a terra, in una chiazza di sangue, con la camicia bianca
bruciacchiata e insanguinata, esposto al pubblico vituperio dei più
o alla penosa considerazione di alcuni.
Giagnacovo, ripassando dopo alcune ore e constatando che nessuno aveva avuto la bontà (o il coraggio?) di rimuovere la salma
per trasportarla in luogo più degno, si adoperò con urgenza di
provvedere al bisogno.
Con l’aiuto di tre volenterosi, andò a prendere la bara dal falegname Ruggiero Marino, al quale Modesto Marini, in nome del
Decurionato38 comunale di cui faceva parte e, in assenza del Sindaco, la stessa mattina aveva dato disposizione di “costruire subito,
e nella miglior maniera, una cassa per far tumulare il Conte” e vi
fece collocare il cadavere. Le quattro persone, Nicola Giagnacovo,
Costanzo d’Andrea, Nazario Leone e lo stesso Pasquale, si caricarono sulle spalle la cassa e la trasportarono verso la chiesa madre
con l’intenzione di dare al defunto una decorosa sepoltura nella
Il Decurionato, istituito dalle leggi napoleoniche, corrispondeva all’attuale
Consiglio comunale.
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Rappresentazione rapimento barone - San Biase 1986
tomba gentilizia di famiglia. Ma appena giunti sul sagrato si presentò puntuale Pietro Marino che, con modi intimidatori proibì
loro di entravi sostenendo di aver ricevuto raccomandazioni severe
dai briganti di impedire ogni esequia e tumulazione.
La cassa fu lasciata così nell’atrio della chiesa in penosa attesa.
Più di qualcuno, però, nel vederla, sogghignava e con dispregio
sotto cappa se la godeva! In particolare “Nicolina Angelicola e Teresa Caputo” come disse Maria Bracone che era pure lei con loro
sotto l’Arco della Loggia, luogo che dà sulla piazza e in cui solitamente anche a quella epoca ci si intratteneva a sbirciare e a spettegolare, “nel vedere della bara, incominciarono a ridere tra loro,
compiacendosi della morte del Conte”.
Anche il giorno dopo le stesse se la ridevano e schernivano nella
panetteria. A Maria, che si era recata al forno quella mattina per
prendere il pane e che inevitabilmente si era accorta della loro palese contentezza, Nicolina così rispose: “Stiamo allegre perché si
è levato il lupo del paese, la mano mia ci voleva, altrimenti non se
ne faceva niente”. E aggiunse: Mo, che ci avemmo levato la mosca,
avemmo la speranza ca ritornano le carcerati nuosti, e nel contempo si voltò al suo bambino, dicendogli: Federico di Mamma
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Rappresentazione rapimento barone - San Biase 1986
seja statte allegramente ca compà Ciccio Brindesi, e Vicienze Cipriani t’anne da mettere la dragona – un modo di dire del tempo
per augurare al figlioletto un futuro da cavaliere.
Nel frattempo, verso sera, il sacerdote Gioacchino D’Andrea,
mosso da spirito cristiano e umano, insieme al curato Vincenzo
De Paola e con l’aiuto di una donna presente in piazza, tale Albina
Casalfiore, tentarono d’introdurre la bara nella chiesa con l’intento
di dare una rapida benedizione e sepoltura al morto, cosa che non
fu neanche allora possibile per i minacciosi avvertimenti del solito
Marino.
La mattina dopo, 3 settembre, giorno di domenica, secondo una
nota scritta, poi, dallo stesso Carlo e rilasciata al giudice, “Pietro
Marino ritrovando il Cadavere del Conte entro la Chiesa Madre
[…] mosse un allarme sul momento, ed obbligò il popolo ad
estrarlo da quel luogo”.
Allora Nazario Leone, con l’aiuto della moglie e di Nicola Giagnacovo, tra quelli che si erano prestati al commiserevole trasporto
della bara in piazza il giorno prima, la ripresero e la portarono nella
cappella di San Biase, fuori le mura, ove fu sotterrata alla meglio
in una fossa attigua.
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Dopo alcuni giorni, e precisamente il 5 settembre, la stessa comitiva di briganti, ancora più accresciuta di seguaci e in tracotanza,
fece ritorno a San Biase e assalì il palazzo baronale, ormai abbandonato, mettendolo a sacco e fuoco. Poi, prima di ritirarsi, fece mandare un bando per il paese affinché ogni colono potesse riprendersi
la quota del terraggio consegnata presso i depositi della camera baronale; ma i briganti paesani, rimasti per partecipare alla spartizione
del bottino, e per accaparrarsi il meglio, forzarono presto le porte
d’accesso al fondaco e fecero man bassa del grano e delle altre derrate ivi conservati. Costoro, come si può facilmente immaginare,
oltre che provvedere a se stessi, pensarono ad approvvigionare i propri parenti, amici e complici. Anche Nicolina, come ammise lei
stessa davanti al giudice, “si andò a ripigliare tre mezzetti di grano
appunto quanto ne aveva recati al Conte di terraggio”.
In questo modo tutte le famiglie a loro strettamente legate e
quelle dei carcerati reclusi ebbero non soltanto la quantità corrisposta ma, approfittando di tanta grazia, molto di più della loro
spettanza a scapito di tante altre che, altrettanto bisognose e in diritto di rifarsi del grano versato, essendo tenute alla larga dai più
prepotenti, trovarono il magazzino vuoto.
E così, come succede spesso tuttora, gli umili – che sono anche,
di solito, i più onesti e disagiati – rimasero ancora una volta ben
serviti e gabbati!
Una settimana dopo, ovvero il 12 settembre, proprio nel giorno
della fiera, la comitiva brigantesca ben presto si ripresentò a San
Biase a presidiare il paese e impedire che la fiera e la festa di S.
Pia si svolgessero regolarmente in piazza.
La fiera e la festa, invece, si fecero a casa di Nicolina!
Nella sua panetteria, infatti, furono accolti e ospitati tutti i briganti per un banchetto di celebrazione per la liberazione “del lupo
del paese”. A confermarci tutto è Gaetano Marino, il quale rivelò
che “la comitiva de’ briganti al numero di circa venti nel giorno de’
12 Settembre” si è “trattenuta per tutta quella giornata in S. Biase
[…]”. L’atmosfera di giubilo e di cordialità in quel giorno era tale
che, continua Gaetano, “uno de’ briganti chiamato Nicola Perazzelli di Lucito teneva nelle braccia il figlio di Nicolina, ragazzo di
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Cippo sul luogo della fucilazione del barone - San Biase
circa ventiquattro mesi, divertendosi per la piazza, mentre gli altri
briganti trattavano anche con confidenza” la padrona di casa.
Questo comportamento gioviale e quasi familiare, che in particolare Perazzelli teneva con la donna e il suo bambino, fu giudicato da alcuni maliziosi del paese come un segno di più profonda
intimità tra i due. Ad avvalorare questa indiscrezione ci sono le
reciproche accuse di malafede e i palesi e sonori insulti che Maria
e Nicolina si scambiarono durante l’acceso dibattimento avvenuto
poi nel tribunale penale. Quest’ultima disse all’altra, tacciandola
di “pubblica meretrice”, che “aveva avuto fortuna coll’essersi portata in Campobasso, dapoiché i Capi Briganti Cipriani, e Brindesi
91
[non nominando, si badi bene, Perazzelli] – volevano svergognarla, e quindi ucciderla”.
Maria non negò questa sua debolezza, ma le rispose in ogni
modo di “non averlo fatto co’ briganti” alludendo così che Nicolina lo avesse già fatto con uno di loro.
Appena il giorno dopo, proprio quello in cui si sarebbe dovuta
svolgere la celebrazione di Santa Pia, arrivò a San Biase un esercito di gendarmi napoleonici e il clima di festa e di euforia per Nicolina e compagni finì. Anzi, costei cominciò a preoccuparsi per
la sua sorte.
In tale occasione, come ci riferisce il figlio studente del sindaco
di San Biase, Luigi De Paola, “essendo arrivati da circa trecento
Francesi in San Biase del Regimento cento e uno sei Ufficiali, starono in questo giorno nella casa di esso il quale essendosi portato
in questo giorno a provvedersi di minestra bianca39 […] da Nicolina, ivi trovò la sua paesana […] la quale sapendo che nella [sua]
casa vi erano alloggiati gli Ufficiali sudetti, la detta Nicolina si
raccomandò [a lui] a non farla molestare, dapoiché ella li sarebbe
stata grata, e riconoscente”.
Oramai la caccia spietata ai briganti da parte delle truppe governative era cominciata e per Nicolina come per tutti gli altri
complici, che iniziavano anche loro a temere per la propria sicurezza, si annunciavano tempi duri da sopportare.
Lotta armata al brigantaggio
Intanto, tornando alle conseguenze dell’assalto al palazzo di
quella sera, i familiari di casa De Blasiis e i pochi notabili del
posto, in preda al terrore, si erano rifugiati nottetempo presso amici
e conoscenti di Campobasso e dei paesi vicini, provvedendo subito
a comunicare all’Intendenza di Molise l’efferato crimine.
La “minestra in bianco” doveva essere le sagne a recapate – dette poi sagne
a la ze Flemene – conciate con cipolla, peperoncino, guanciale e lardo sfritti.
Quella condita in rosso con il pomodoro, prima fresco e poi in conserva, era allora appena in uso.
39
92
La macchina della giustizia, però, si mise in moto assai a rilento,
nonostante la pressione esercitata dai familiari sul tribunale di
Campobasso e l’implorazione “umiliata” da un fratello della vittima al cospetto del re.
Il giudice di Pace di Trivento, “attesa la posizione infelice per
essere infestate le contrade da orde di briganti” solo su pressanti e
reiterate richieste della Corte criminale della nuova Provincia di
Molise, avviò i preliminari del procedimento penale.
Come prima disposizione il giudice spiccò un mandato di cattura e di traduzione in carcere alle mogli dei ribelli reclusi, tra le
quali Nicolina. Il processo giudiziario conclusivo, uno dei primi
svoltisi presso il neo tribunale di Campobasso, chiamò in causa
buona parte degli abitanti di San Biase e alcuni testimoni di Limosano.
Le varie deposizioni dei testi esaminati riconobbero e sostennero concordemente che l’esecuzione del misfatto era avvenuta
per opera di una banda di briganti guidata da Mattiacci e che erano
altresì implicati nel delitto Nicolina, sua suocera e taluni altri complici del posto. Dopo la pubblica accusa e il dibattimento nell’aula
giudiziaria dei testimoni a carico e a discarico degli imputati, la
Corte emise la sentenza: Nicolina fu condannata alla pena della
detenzione “durante la sua vita” per delitto “d’istigazione all’omicidio” che scontò nelle prigioni de L’Aquila40, sua suocera Gaetana
40
Nicolina in effetti scontò una dura pena di 28 anni in buona parte nel carcere
de L’Aquila presso il Forte Spagnolo.
Nel 1837 fu messa in libertà andando ad abitare a casa del fratello nel Borgo
Croce di San Biase dove morì il 23 marzo 1845, senza discendenti diretti, all’età
di 70 anni. Il bambino Federico dovette morire in cella nei primi anni della sua
prigionia.
Per l’anagrafe comunale Nicolina fu dichiarata morta per due volte! Cfr. p. 138.
Il sindaco Modesto Marini e il cancelliere Domenicangelo Giagnacovo, forse
a causa delle notizie caotiche e dell’esecuzione di massa dei reclusi del periodo,
il 26 luglio 1810, in qualità di funzionari degli atti dello Stato Civile di San
Biase, sottoscrissero le testimonianze congiunte di Domenico Marino e Costanzo
Leone, conoscenti della defunta, i quali dichiararono la morte di Nicolina Angelicola avvenuta nel giorno 31 marzo 1810 in Campobasso, di anni 35 domi-
93
Barone a sei anni di reclusione per “cospirazione all’omicidio”,
ma morta anzitempo nel carcere di Campobasso il 22 aprile 1810,
mentre Pietro Marino fu sottoposto alla vigilanza domiciliare “per
complicità subalterna”.
Di Quirino Giagnacovo sappiamo che fu condannato a pochi
anni di reclusione e, secondo una nota emessa dal cancelliere della
Corte criminale, il 17 maggio del 1810 ”fu destinato con altri Carcerati al Servizio Militare in forza de’ Reali Ordini”.
Tutti i briganti identificati dalla popolazione, sebbene latitanti,
furono condannati al massimo grado di pena. Tuttavia molti, a seguito di provvedimenti di clemenza emanati dal governo di Murat,
da “uccelli di bosco” si consegnarono alla Gendarmeria militare,
ove deposero le armi e usufruirono sconti di pena. Altri vennero
tradotti in vari reparti o rimessi presso la “Grande Armata” di Napoli, dalla quale furono destinati ai fronti di combattimenti se non
fucilati durante i vari tragitti.
Ai briganti paesani Anselmo Mattiacci, Francesco Leone, Francesco e Saverio Marino, che si presentarono spontaneamente al
tribunale di Campobasso per ricevere la munificenza concessa dal
governo e a quelli tenuti a Lucera o Trani, cosa successe?
Poco sappiamo.
Di Anselmo sappiamo solo che, come rispose Crescenzo Continelli ai Gendarmi Reali recatisi presso la sua casa per arrestarlo,
“si presentò a Campobasso il 29 di settembre per beneficiare dell’indulto”. Egli, quale maggiore responsabile del rapimento e uccisione del barone, nonostante le promesse riduzioni delle
sanzioni, fu ristretto nello stesso carcere in attesa di una dura pena
a ferri. Sappiamo anche che, per l’enorme affollamento delle carceri di quei tempi in tutto il Regno, durante i mesi precedenti, si
verificarono tra i reclusi molti casi di tifo petecchiale ed esantematico seguiti da numerosi decessi.
ciliante in questa Comune strada Colle della Porta, nata nella medesima, moglie
del fu Modestino Marchetta, figlia del fu Crescenzo Angelicola, agricoltore, e
della fu Angelica Leone.
94
Vittime di queste gravi malattie furono, con tutta probabilità Modestino Marchetta e altri paesani, mentre Anselmo Mattiacci e Francesco Leone, anche per ridurre il sovraffollamento delle celle,
furono condannati alla forca le cui esecuzioni ebbero luogo il 29
ottobre 1809 nella piazzetta del mercato di Campobasso.
A seguito di queste epidemie il Ministro degli Interni, con regio
decreto del 30 aprile 1810, ordinò alle Intendenze alcune misure
preventive. Con un altro dispaccio inviato alla Corte criminale di
Campobasso, al fine di “porre freno ai progressi di questi mali”, fu
disposto poi di formarsi una commissione “ad oggetto di classificare i Detenuti, di rinviare subito al loro destino coloro, che non
debbono più rimanere nelle prigioni, […] e di spedire tutti i carcerati al Deposito generale di Napoli”. Ad avvalersi di questa disposizione fu Giuseppe Ziccardi, condannato “ai ferri” di Lucera, il
quale, insieme all’arciprete Don Peppo Carnevale di Pietracupa, fu
mandato il 14 luglio dello stesso anno al “Servizio Militare”.
Essere deportati per questo “Servizio” o per la “Grande Armata”
non voleva dire, di certo, passare a una condizione di vita migliore:
quasi tutti i detenuti si destinarono ai fronti di combattimento o ai
lavori forzati o furono fucilati durante i vari trambusti, come successe ad Antonio Ciavatta e Costanzo Braia.
E gli altri briganti che presero parte all’assalto e all’esecuzione
di Francesco, che fine fecero?
Ci è nota solo la sorte di Vincenzo Cipriani di Sant’Angelo Limosano e di Saverio Del Castello di Trivento: il primo, secondo
una testimonianza del Sindaco di Limosano, fu fucilato dalla
banda di Fulvio Quici nel bosco della Castagna e il secondo, come
riferì il padre Adamantonio, si trovò morto, per un colpo di schioppettata, nella campagna di Trivento.
Atto di morte di Anselmo Mattiacci - Archivio parrocchiale San Biase
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Nel 1810 il re Gioacchino Murat concesse il mandato di repressione a un giovane ufficiale francese, Antonio Manhès che già nell’autunno dello stesso anno, aspettando che i boschi si spogliassero
delle foglie in modo da offrire una maggiore visibilità, mise in atto
un grande spiegamento di forze di polizia e di militari ausiliari per
circoscrivere e combattere il brigantaggio.
Ma, nonostante le misure coercitive adottate, insufficienti e tardivi furono i risultati conseguiti.
Buona parte dei briganti, dei disertori e dei loro protettori, a
causa della mancanza di coordinamento tra le forze competenti in
campo (Intendenza, colonne mobili e guardie civiche), sfuggì al
rastrellamento e alla disciplina del servizio militare.
Nel 1813 iniziò un’imponente operazione di perquisizione, comandata dal generale Compére, che abbracciava un vasto territorio, dal Fortore al Biferno, interessando così buona parte delle aree
interne del Molise, comprese quelle di Trivento e San Biase.
A quest’azione militare parteciparono molte squadriglie, formate da giovani reclutati sul posto sotto il comando di esperti graduati. Queste unità, in collaborazione con le autorità e le forze
comunali, dovevano impegnarsi a ricercare e a scovare i fuorilegge
o perlomeno a impedirne la fuoriuscita dalla provincia di Molise.
I renitenti o traditori erano subito deportati nei campi di punizione.
Lungo la linea del Biferno, da Guardialfiera a Ripalimosani, furono schierati 450 uomini, mentre una colonna mobile di 250 soldati circondava il bosco di Trivento, covo principale delle bande
nemiche.
Sul territorio di San Biase furono dislocate trenta unità di forze
che avevano formato un posto di blocco sul tratturo – allora passaggio obbligato di uomini e di animali – presso il Piano Molino,
proprio a ridosso del molino ex baronale. Nonostante un tale dispiegamento di uomini e di mezzi, i capi banda Fulvio Quici e
Paolo Vasile non furono nemmeno avvistati.
Il 27 agosto 1813 Quici, con una scorta di 14 individui a cavallo
e 10 a piedi, fu segnalato nel bosco di Collemeluccio, nei pressi di
Pescolanciano ove si recò immediatamente il generale Ortigoni.
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E benché costui avesse esplorato tutta la zona e ordinato ai pastori e ai carbonai del posto di radunare e vigilare il bestiame al
pascolo, per impedire il rifornimento di viveri ai briganti, questi
non furono scovati. La banda Quici, burlando tutti, era riuscita
anche allora a dileguarsi. E per giunta proprio in quel giorno in
cui la truppa di Ortigoni era impegnata nella sua ricerca, quella di
Quici assaltava un Procaccia in un’altra parte del bosco per sottrargli due sacchi di monete d’argento e uno di rame.
Quantunque fossero eseguite altre ricerche o tesi abboccamenti
e taglie o accordate munificenze dal governo Murat, Quici e Vasile
non furono catturati né si presentarono spontaneamente a consegnare le armi per godere l’indulto.
A seguito della caduta del regime napoleonico e del ritorno del
re borbonico Ferdinando IV nel 1815, il brigantaggio, o perlomeno
quello che di esso era rimasto, si spense da solo.
Con la restaurazione della monarchia borbonica sul trono di Napoli, Fulvio Quici ricevé, per i servigi resi alla stessa, un salvacondotto e una pensione a vita, e Paolo Vasile fu nominato Capo
della Guardia Civica.
Percorso e anfratti del Matese - Roccamandolfi
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Il primo morì il 1° aprile del 1839, all’età di 63 anni, il secondo
nel 1848, alla bella età di 80 anni!
Briganti sorpresi e trucidati dall’esercito Francese
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BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ D’ITALIA
Rinascita del brigantaggio
Il Molise, dopo l’unificazione e la formazione dello Stato italiano del 1861, si trovava in una situazione economica e sociale
improntata ancora a una totale ruralità, con limitato e circostanziato dinamismo commerciale e scarsa viabilità.
Permanevano fino ad allora problemi insoluti come la mancata
o parziale divisione e concessione delle terre demaniali ai contadini. Anzi, queste, per la maggior parte, erano state sottratte da
quella avida classe di nuovi dominatori locali, i cosiddetti borghesi
che, a colpi di mano e di potere, avevano raggirato ancora una
volta il ceto inferiore. Questo, tenuto sotto le loro grinfie, senza
mezzi e capitali e senza terra, era costretto a inchinarsi ai nuovi
signori proprietari per avere qualche campo da coltivare a colonia
parziaria o a mezzadria, detta in gergo locale a parzinaule.
A San Biase poche famiglie possidenti, che avevano approfittato
della vendita all’asta dei beni stabili allodiali baronali sequestrati
e della ripartizione e quotizzazione dei migliori corpi fondiari ex
feudali, tenevano in sottomissione tutto il resto del popolo.
Le nuove leggi nazionali tendevano ancora di più ad accrescere
e tutelare la proprietà e rendita capitalistica a danno dei piccoli e
diseredati contadini.
In molte parti del Molise, soprattutto a Isernia, Larino, S. Croce
di Magliano e Casacalenda i coloni insorsero e occuparono le terre
demaniali. Il malcontento si diffuse in seguito un po’ dappertutto e
la protesta sfociò presto in un conflitto di bande armate nelle campagne che andò sotto il nome di Grande Brigantaggio. Esso costituiva, secondo Citrufelli, “la prima forma di organizzazione
autonoma e autogestita della lotta di classe”.
Dotata di mezzi, armi e capacità di spostamento, questa reclutava un numero sempre più crescente di soggetti insoddisfatti del
nuovo ordine costituito. Appena dopo l’Unità d’Italia, con l’arrivo
dei piemontesi, questa guerra di classe tra galantuomini e cafoni
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diventò anche lotta politica per contrastare i nuovi invasori.
A soffiare sul fuoco rovente di rivolta e di sovversione ci si misero ancora una volta i fuggiaschi Borboni che, all’indomani dell’occupazione garibaldina del Sud, avevano sollevato i bassi e
depressi strati sociali e la Chiesa, incitandoli alla ribellione e alla
riconquista dell’antico potere regio.
L’insurrezione della massa contadina e bracciantile, rimasta
tutto sommato fedele alla vecchia monarchia, si fece più violenta
e radicata nel Matese e nelle Mainarde, dove la presenza di folti e
vasti boschi, offriva ai comuni ribelli, renitenti, soldati e sottoufficiali del disciolto esercito borbonico rifugi e mobilità di azione
in ambiti più sicuri per le loro incursioni e per i vari ripiegamenti.
A San Biase e nel circondario, come in tutta la provincia di Molise, appena dopo la formazione dello Stato unitario, si muovevano
diverse comitive brigantesche provenienti da tutte le parti, ma soprattutto da Celenza Valfortore e dalla provincia di Capitanata e
di quella di Chieti.
Il Prefetto del Molise, G. Belli, per mantenere in allerta i Sindaci, con vari dispacci li esortò a che le “forze cittadine […] di
Veduta Valle del Rio - Trivento
100
concerto colle altre Guardie de’ Comuni vicini tenessero sempre
perlustrato il proprio tenimento”.
Il 18 aprile 1862 lo stesso Prefetto poi li avvertì che
una banda di briganti, battuti ed inseguiti da tutti i punti nella Capitanata, si è ora menata in questa Provincia, parte nel bosco di Castelluccio [Castelmauro], e parte nel tenimento tra Salcito,
Caccavone [Poggio Sannita], Trivento, e bosco Pietravalle.
La banda, anche con il concorso di tutte le guardie civiche locali,
venne rintuzzata, ma altre si apprestarono a infiltrarsi.
Tra il 1862 e il 1864 il brigantaggio infuriava da ogni dove e il
delegato di Pubblica Sicurezza di Trivento, con il falso intento di
“provvedere al loro collocamento per migliorarne morale ed
ogn’altra condizione”, ma in realtà, per colpire sul nascere ogni
stirpe di fuorilegge, ordinò a tutti i Sindaci del posto, compreso
quello di San Biase, di formare e comunicare “un’elenco di tutti
gl’individui sospetti di oziosità, vagabondità, mendicità, grassazione, furti, camorra, truffe, ricettazioni, ed altro accompagnato
da propri speciali caratteri”.
Il sindaco Florindo Marini, con qualche difficoltà e notevole ritardo, come egli stesso si espresse, “dopo essersi prese le più accurate indagini […] con esattezza e verità”, il 18 marzo 1871
trasmise lo “Stato delle persone sospette per furti di campagna,
per oziosità, per pascolo abusivo e altro” qui riportato.
Cognome e Nome
1° Bracone Salvatore
2° Bracone Angelo
3° Ciccarella Giuseppe
Condizione Qualità personali
Contadino Ladro di campagna nel più avanzato modo esercitando tale mestiere più nella notte che la mena
in continui furti di qualunque natura.
“
Lo stesso come sopra
“
101
Ozioso, vagabondo. Ladro di
campagna. Fa parte con i paesi
4° Ciccarella Federico
“
5° Ciccarella Pietro
“
6° Ciccarella Nicola
“
7° Continelli Fernando
“
9° Giagnacovo Federico
“
10° Leone Raffaele
“
8° Ciavatta Federico
11° Di Luca Saverio
limitrofi della setta dei grassatori.
È capace di qualunque furto, e
proclive in omicidio. Gli scorre
nelle vene un sangue feroce, le di
cui vendette sono state cominciate dal… che cessò di vivere nel
Regno di Brindisi per omicidio. È
perniciosisimo, convivendo col
padrigno Ciavatta Federico che
l’istruiva.
Lo stessissimo come sopra e perfettamente conforme.
Ladro di campagna in tempo di
notte.
È conforme come sopra.
Ozioso, vagabondo e rissoso.
“
Ladro di campagna. Ruinoso di
albori fruttiferi. Incendiatore di
ridotti di campagna. Falso testimone. Ricettatore di ladri ed esimio concertatore di furti.
Rissoso. Di perfida indole. Fa
parte dei grassatori. Il suo abituro addetto al ritiro dei ladri ed
al concento del furto. A’ relazione
con i vicini paesi, particolarmente in Limosani ove à dei fratelli. La condotta è prava in tutto.
Meriterebbe il ritiro delle Armi.
Notturno ladro di campagna.
“
Come sopra.
102
12° Marino Luigi
“
Notturno ladro di campagna.
14° De Paola Federico
“
Notturno ladro di campagna. Fa
parte della setta dei grassatori e
dei più orribili furti. Falso testimone. Perniciosissimo in tutto.
Vagabondo.
13° Di Oto Nicola
15° Ciccarella Giuseppe
“
Lo stesso come sopra.
“
Celebre ladro notturno e per
campagna. Rissoso e feritore per
eccellenza. Dedito a commettere
omicidi. D’indole perfida e maligna. Ha un cuore brutale, ed esimio traditore capace di qualunque misfatto e delitto.
Banda Caprannunzio
Da un rapporto scritto dal giudice istruttore del tribunale di
Campobasso, si riscontra che
nell’Aprile 1862 formavasi a poco a poco una comitiva di malfattori
composta da prima dai disertori Pasquale de Felice, Lorenzo di
Iorio, ai quali si unì Antonio Carile, e dopo Basilio Panunto e Leonardo Maddalena, e quindi altri fino a 12, e poi altri ancora. Nel luglio dell’anno istesso cominciò Lorenzo Traverselli ad aver contatto
col proprio nipote Pasquale de Felice; codesto in sospetto all’Autorità siccome fornirono di viveri e molti alla comunità, dipoi in latitanza onde non farsi arrestare, e più tardi si arrolò nella comitiva.
All’inizio di ottobre 1862 questa comitiva si componeva di otto
briganti, cioè Antonio Carile di Macchiagodena, che faceva da capo,
Nicola Martella di Cantalupo, Lorenzo di Iorio di Oratino, Giuseppe
Sardella di Pietracupa, Pasquale di Felice, Leonardo Maddalena, Basilio Panunto e Lorenzo Traverselli di Castropignano. Essa agiva nei
territori del Molise centrale, tra l’alta valle del Biferno e quella del
103
medio Trigno. Il 1° ottobre, come si rileva dallo stesso rapporto,
pervenuta la comitiva ne’ poderi di Casalciprano fu sovvenuta di viveri e vino da Pasquale Picciani e da Gaetano Pollicielli di colà, i
quali indi uniti ad Antonio Mastracchio si arrolarono nel tristo sodalizio. Che il brigante Martella fece a se venire Michele Castelli di Castropignano, e dopo averci amichevolmente discorso dandogli del
Compare, gli complimentò sei o sette ducati, ed alcuni segnacoli
d’oro; di che il Castelli mostrò la sua gratitudine regalandogli del
pesce, che fu preparato nel molino di Busso, e mangiato con dei maccheroni da tutta la comitiva. Attaccata poscia la comitiva dalla forza
pubblica nel Mandamento di Trivento, ne furono catturati il Martella,
Pollicielli, Panunto, Mastracchio e Sardella. Di questi i due primi furono colpiti dall’estremo supplizio del militare, gli altri due sono in
carcere; Sardella fu inviato a servire alle bandiere nazionali. Poco
dopo Pasquale Picciani si presentò volontariamente al Sindaco di Casalciprani. Altrettanto fece Leonardo Maddalena presentandosi al Sindaco di Castropignano.
Dopo la parziale riduzione dei seguaci si unirono al resto della
compagnia il famoso brigante Nunzio di Paola di Macchiagodena,
detto Caprannunzio, suo fratello Domenico, Rocco e Alessandro
Paoliello, Domenico Barile e Filippo Prioriello di Boiano.
La rinnovata banda, capitanata da Nunzio, il 6 ottobre era pertanto composta di tredici individui.
Proprio nel tardo pomeriggio di quel giorno costoro, calandosi
dalle Macchie di Salcito, pervennero nel territorio di San Biase
per dirigersi verso la Puglia.
Passando per la contrada Piano le Vetiche scorsero in un pagliaio in mezzo alla vigna un giovane di San Biase, Vincenzo Marchetta che, come si usava a quei tempi prima della vendemmia,
guardava l’uva di giorno e di notte per tenere lontani ladruncoli e
bestiame di passaggio.
Secondo quanto espose il giudice Fagnani di Trivento, che
aveva ascoltato la testimonianza del giovane, i briganti “fermarono
tal Vincenzo Marchetti di Ascanio, naturale di detto Comune, e lo
astrinsero a seguirli”. Secondo, invece, la versione fornita dagli
104
stessi briganti, Vincenzo si unì a loro volontariamente. E poiché
era sprovvisto di fucile, indicò alla compagnia il posto dove si poteva trovarlo. E così tutti si diressero verso la masseria di Francesco Braia in località Cisterna.
Giunti nei pressi, Vincenzo riconobbe il figlio di questi, Pio
Antonio, il quale, verso il tramonto, finito di accudire al bestiame,
si era appena avviato per tornare alla propria casa di San Biase.
Rudere Torre dei Briganti - Contrada La Torre - San Biase
105
Ma lasciamo la parola allo stesso Pio Antonio che, come depose
al giudice Fagnani, riferì:
Nell’annottare del giorno sei ottobre ultimo quasi verso le ore 23 e
mezzo [le 5 e 1/2 di pomeriggio] lasciai le cure di campagna e me
ne ritornava in patria. Distante dalla masseria di mio padre in contrada Cisterna, circa un tiro di fucile, osservai una comitiva di dodici
in tredici briganti, fra quali tal Vincenzo Marchetti di Ascanio mio
conterraneo; questi nell’additare me a quei malviventi disse: eccolo,
adesso se ne va il padrone della masseria che tiene il fucile; fu allora
che tre di quei malviventi mi furono addosso, e mi obbligarono a
far ritorno nella masseria per consegnar loro il desiderato fucile; e
perché in su le prime fui renitente ad obedirli mi diedero tre schiaffi,
ed un urtone col calcio del fucile, obbligandomi ad eseguire i loro
ordini, pena la morte, così mi convenne avvicinarmi alla masseria
per vedere soddisfatte le loro voglie; ma o perché la confusione mi
avea fatto perdere la reminiscenza, o perché realmente avessi potuto
disperdere la chiave di detta casa rurale, non potei aprirla. Stante
così le cose quei mal viventi a colpi di accetta scassinarono la porta,
e mi forzarono ad entrarvi per rinvenire il fucile, del quale n’era
sprovvisto. Eseguito in tal rincontro da essi medesimi un’accurata
ricerca, ed essendo stata frustranea [a vuoto], il Marchetti insinuò
loro di minacciarmi di vita, e d’incendio se non avessi voluto consegnare il fucile. Tra la mia ostinata negativa i briganti poscia che
mi ebbero coverto di paglia, appiccarono il fuoco all’edificio, e sortirono fuora. Ad evitare il certo pericolo di vita mi sbrigai da quell’involto, e dato un salto ne uscii dalla finestra, che guardava il lato
opposto a quello ove potevano trovarsi i briganti. Ma questi avvedutosi della mia liberazione mi furono sopra, e nella colluttazione
uno di essi spianò il fucile per ammazzarmi, gli altri si allontanarono
da me per timore di qualche scambio del colpo.
Ma il moschetto s’inceppò e il colpo, per sua fortuna, non partì.
“Così rimasto solo”, continuò Pio Antonio per due volte miracolato, “mi diedi a precipitosa fuga, dopo che venne mancata la
esplosione dello schioppo a quello che mi dirigeva il colpo”.
Alla domanda del giudice intesa a sapere cosa essi indossavano,
egli rispose:
106
Greto vallone Rio - San Biase
I briganti vestivano alla Borghesa, ed uno fra questi avea mantura
da Capitano, era di statura alta, e di complessione robusto, se tornassi a rivederlo potrei riconoscerlo. Non così gli altri di costui
compagni. Tutti poi erano armati di schioppi e pistole. E quei che
vestivano alla Borghesa indossavano un cappello piuttosto basso,
con fettuccia intorno, che nel punto di congiunzione sfioccata scendeva su gli omeri, e con coccarda color rossa.
Tornato a casa, Pio Antonio andò subito a denunciare al Sindaco
l’aggressione subita e l’incendio appiccato alla sua masseria.
Il danno avuto fu denunciato dal padre, il quale dichiarò al giudice di aver perso
una quantità di fieno, paglia, ed altro strame per gli animali del valore di docati quindici. Due canne di tavole di quercia del valore di
carlini trentasei. Una rete per uso di mandria del valore di carlini
tredici. Un pajo di barili del costo di carlini dieci. Un cappotto di
lana di panno di casa del valore di carlini trentasei. E due cuoi di
pecora del costo di carlini sei; quali oggetti tutti si bruciarono con
la masseria.
107
Erano i semplici ma essenziali attrezzi, scorte e materiali agricoli di un ricovero rurale necessari a un povero pastore di pecore,
qual era Francesco Braia.
Altre malefatte commesse nella notte
Dopo una simile azione scellerata la banda si diresse subito
verso la località Codacchio di Trivento. Giunta presso l’abituro di
campagna di un certo Costanzo Gianserra, come lo stesso testimoniò davanti al giudice Tedeschi del Mandamento di Trivento,
a circa le ore sei di una notte [intorno a mezzanotte] mentre io colla
mia famiglia stava dormendo nella mia masseria alla contrada Codacchi intesi picchiarne la porta e fattomi alla finestra vidi una
quantità di persone armate che con modi minacciosi mi obbligarono
ad aprire. Compreso da timore, e privo di mezzi come far loro resistenza, mi prestai ai loro ordini, e poscia che quella gente fu entrata nella masseria, vidi ch’erano nel numero di dodici, tutti armati
di schioppi, padroncine, pistole, bajonette e stili, e vestivano quasi
tutti calzoni corti, gilè e giacche alla contadina, cappelli alla calabrese ornati di fettucce con coccarde rosse e scarpe grosse alla contadina. Dopo che mi ebbero obbligato ad accendere il fuoco
chiesero da mangiare; ma io manifestai loro di non potere offrire
cosa alcuna perché era un poverello. Allora essi cominciarono a minacciarmi di vita, ed io stretto dal timore, mostrai loro il luogo dove
teneva gli animali pecorini e fu così ch’essi stessi presero due di
quegli animali, li scannarono, li cucinarono fuori della masseria, e
dopo che li ebbero mangiato, continuarono il loro cammino sul trattojo, dicendo che si dirigevano alle Puglie.
A un’altra domanda dello stesso giudice, egli rispose:
Siccome quei malviventi mi minacciarono di vita e d’incendio in caso
che io avessi parlato di quel fatto e siccome d’altronde io abito in
aperta campagna dove aveva a temere positivamente delle loro minacce così non ho curato dar parte alla giustizia di quello avvertimento, e né ho fatto di conquistarmene con alcuno.
108
In una successiva deposizione rilasciata al giudice, Gianserra ammise, riferendosi alle pecore rubate, che “una però di esse si appartiene ad Emidio Stinziani”. Inoltre precisò che
riconoscendo meglio le fattezze de’ ladri, feci al caso di dire che ammezzo ai ladri vi era, per come riconobbi, Vincenzo Marchetti di
Ascanio di S. Biase, il quale armato di mazza, s’intratteneva tra quei
malviventi. Vero è che il medesimo confidenzialmente mi disse essere stato preso a forza, nell’atto stava in una vasca nella contrada
Pietravalle, e precisamente nel Piano delle Vetiche. I briganti, nell’allontanarsi m’ingiunsero di nulla rivelare, e mi dissero le seguenti
parole: Se tu ci rivelerai, t’incendiamo, come abbiamo incendiato
la masseria di Francesco Braja.
L’altro derubato, Emidio Stinziani, dichiarò che la stessa notte,
gli stessi briganti, gli sottrassero un agnello nella propria masseria
sita vicino al cugino Costanzo Gianserra. Egli però non si accorse
del furto, né del pasto e del frastuono avvenuti nella notte; solo
alla mattina, informato da Gianserra, poté rendersi conto del ladrocinio avvenuto anche a suo danno.
I briganti, satolli e soddisfatti, si mossero nell’oscurità della
notte verso il bosco di Trivento, portandosi sempre al seguito
l’ostaggio Vincenzo Marchetta.
Arrivati in un luogo “e propriamente in una parte sopra la cosiddetta Cusella” la comitiva, stanca e assonnata, bivaccò su un
giaciglio di foglie per riposare.
Prima di prendere sonno, però,
poiché il Marchetti vestiva calzone lungo colore bigio lo divestirono del medesimo surrogandone altro corto di panno, e togliendogli il cappello che aveva fu rimpiazzato da altro con arredamenti di
fettucce, trena di vari colori con coccarda rossa […] perché si era
fatto sapere che dovea seguirli per sempre.
Poi lo fecero coricare in mezzo a due di loro per essere più sicuri
che dormisse e non potesse darsi alla fuga.
Ma Vincenzo, che fingeva di avere gli occhi chiusi, era in allerta
109
ad aspettare che gli altri fossero caduti nel sonno più profondo per
approfittare di scappare soppiatto. Provò a un certo momento a calarsi le brache e muoversi per fare credere di andare al bagno, ma
subito fu avvertito e redarguito da quello accanto che gli disse:
“Che fai, non dormi?”.
Verso l’alba, quando si accertò che tutti russavano, si abbassò
ancora i pantaloni e, scorrendo lentamente in basso, si staccò dai
due. Poi, in punta di piedi, si spostò dietro un cespuglio… e via si
diede alla fuga verso casa.
“Pria di fare giorno si restituì in patria alle ore dodici” – cioè
alle sei di mattino – e si rinchiuse in casa per la paura.
Seguito della vicenda
Vincenzo si presentò la stessa mattina ancora scosso e trafelato
alle autorità municipali di San Biase in quel modo come era vestito
per riferire ciò che gli era successo.
Il sindaco Errico De Paola – cui consegnò il cappello banditesco1 – nel vederlo con la divisa da brigante addosso, non prestò
fede alla sua attestazione di “essere stato rapito a viva forza” e
fece subito un duro rapporto sull’accaduto che inviò espressamente
tramite un corriere al giudice del Mandamento di Trivento.
Il giorno dopo Marchetta, scortato da due guardie civiche del
Comune di San Biase, fu condotto a Trivento e, dopo un rapido
interrogatorio, fu rimesso in libertà vigilata.
Il cappello per essere esaminato fu mandato dal sindaco di San Biase al delegato di Pubblica Sicurezza il quale per mezzo del suo inserviente lo consegnò
al giudice del Mandamento di Trivento.
Il giudice, fattolo analizzare da due esperti giurati, prima di suggellarlo, riportò di “essere tale cappello di lana color nero, di forma bassa piuttosto vecchio,
e guarnito di una fettuccia di cotone ad uso di tirante nelle falde con avanzarne
quasi un palmo i due capi nel punto di congiunzione, di un altra simile fettuccia
nel giro, e più di un altra fettuccia di seta di color rosa pallida con avanzo dei
due capi nel punto di ricongiunzione. Fermata poi con cucitura esiste su tali fettucce una coccarda di panno scarlatto spezzellata intorno del diametro di una
oncia e mezzo, e di figura circolare”.
1
110
Valle del Rivolo
Seguì il processo nel tribunale circondariale di Campobasso con
sentenza finale emessa il 31 luglio 1863, nella quale si dichiarò
l’imputato colpevole di “associazione di malfattori ad oggetto di
delinquere contro persone e le proprietà, incendio ed altri reati”.
Alle ore 8 di mattina del 23 agosto 1863 i brigadieri della stazione dei carabinieri di Castropignano, muniti di mandato di cattura, si recarono a San Biase presso il domicilio di Marchetta e lo
ammanettarono per condurlo nelle carceri dello stesso Mandamento “per poscia tradurlo in quelle centrali di Campobasso”.
A pesare sul giudizio della Corte fu, oltre che il rapporto del
Sindaco De Paola, certamente la testimonianza rilasciata da Francesco Braia, proprietario della masseria bruciata, il quale dichiarò:
Nella notte della scorsa Domenica [21 dicembre 1862] pervennero
nel molino di Giuseppe Caputo sito in tenimento di S. Biase otto
briganti, i quali annunziandosi residuo di quella banda che nello
scorso Ottobre incendiò la mia masseria, dopo che dettero ragguagli
sulla sorte dei mancanti che dissero essere stati fucilati […] dissero
che Vincenzo Marchetta mio conterraneo volontariamente si associò loro: ch’egli li guidò alla mia masseria per far disarmare mio
111
figlio, ed a sua istigazione incendiarono la masseria in parola; cosicché se ne mostrarono dispiaciuti, e si mostrarono pure corrivi
contro del Marchetta, perché dopo di aver ottenuto il suo intento,
ebbe a lasciarli.
Vincenzo, come ci conferma una sua nipote che vive a S. Biase,
Maria Marchetta, scontò in tutto qualche mese di carcere e poi fu
liberato e riconsegnato alla sua residenza.
Solo il 9 dicembre 1864, però, egli fu dichiarato definitivamente
“assoluto […] per verdetto negativo dei Giurati” dalla Corte di Assise. Nella nota indirizzata al Sindaco era riportata, tra l’altro, la
seguente raccomandazione del delegato di Pubblica Sicurezza di
Trivento: “E siccome dalla processura risulta che il medesimo non
sia lasciato inosservato, così La interesso di sottoporlo a rigorosa
sorveglianza e di riferirmi sul di lui conto nelle occorrenze”.
E così Vincenzo fu relegato nel suo ambito domiciliare nelle
condizioni di un osservato speciale.
A questo punto della vicenda ci domandiamo: chi era, in effetti,
Vincenzo Marchetta? Si associò alla banda di propria volontà o fu
costretto?
Egli, figlio di Ascanio e Teresa D’Andrea, era nato a San Biase
il 5 maggio 1838 e, quindi, all’epoca dei fatti aveva 24 anni. Dal
suo stato civile si rileva che era “contadino, non militare, non sa
leggere né scrivere”.
Vincenzo abitava con i suoi in Via Monte Calvario.
A riguardo delle sue condizioni economiche il Sindaco di San
Biase dell’epoca, Errico De Paola, attestò: “Sebbene non abbia
beni particolari perché figlio di famiglia comune, ma pure appartiene a genitori di qualche agiatezza e comodità”.
Quanto alla sua posizione militare, lo stesso Sindaco certificò
che Vincenzo “non trovandosi ai principi di ottobre scorso tra coloro che dovevano formare il contingente delle Guardie mobili di
questo Comune” non poté far parte della “compagnia della Guardia Nazionale”. I suoi connotati al momento dell’arresto, corrispondevano a: “Statura giusta; fronte spaziosa; occhi castagno;
naso grande; bocca giusta; mento lungo; capelli castagni; soprac112
Paesaggio molisano con pecore
ciglia simili; barba presente; viso ovale; colore naturale; segni particolari: piccole cicatrici sulla nuca”.
Nei registri giudiziari della cancelleria di Trivento, sul conto
della sua fede penale, era riportata una contravvenzione relativa
alla “recisione di un arboscello di cerro del valore di ducati 1: 80,
avvenuta nel dì 29 Agosto 1858 in pregiudizio del Comune di San
Biase”. In più risultava a suo discredito un altro reato consistente
nella “recisione di sette arboscelli di cerro del valore di ducati
nove, avvenuta nel dì 27 Agosto 1858”.
Per tali trasgressioni fu condannato il 13 dicembre dello stesso
anno “alla pena di mesi quattro di prigionia, al rinfranco del danno
in pregiudizio del Comune di S. Biase, all’ammenda a pro del real
Tesoro ed alle spese del giudizio”.
La giunta municipale di San Biase, in risposta alla richiesta del
tribunale di Campobasso, attestò, forse con un occhio di riguardo,
che “Vincenzo Marchetta è di buona morale e le tendenze ed abitudini dello stesso sono quelle di un individuo che bada alle particolari cure di famiglia”.
Con questa favorevole attestazione egli ricorse alla Corte d’Appello e non scontò l’intera pena.
Secondo la testimonianza di Francesco Braia, invece, egli era
113
un attaccabrighe perché litigava spesso con la gente “per questione
di confini di terre e per dammaje di bestiame”.
Nella deposizione di Nicolina Miccio, moglie del suddetto Francesco, a questo proposito leggiamo che
fra la fine di Settembre, ed i primi giorni di Ottobre ultimi [1862]
un mio nipote a nome Giovanni Braia di Vincenzo pascolava le pe-
Sbocco vallone Porcino - San Biase
114
core appo il terreno di Ascanio Marchetta, messo in questo tenimento nella contrada Fontana poco lungi dal paese.
Sopraggiunse il di costui figlio Vincenzo, e sgridando detto mio nipote, lo inseguì fino la porta della mia casa. Nacque allora un diverbio tra me, ed il sudetto Marchetta. Questi con modi villani, e
minacce m’insultò mentre io dal mio canto gli ripeteva che quante
volte le pecore di mio nipote avessero danneggiato il suo fondo,
era pronto a rinfrancarne il danno. In frattanto venne colà mio marito, e dopo essersi collo stesso altercato il Marchetti, ambo s’avviarono nel fondo per verificare il danno, ove giunti, non
avendovelo trovato, mio marito si raccolse le pecore, e se ne andò
via, menandole al pascolo in altro luogo.
Inoltre, aggiunse che “tra detto mio marito, e Vincenzo Marchetta di Ascanio vi erano delle continue questioni per ragione di
confine di fondi”.
A dispetto di questo suo carattere un po’ rissoso e sdegnoso, non
crediamo che Vincenzo Marchetta avesse uno scopo particolare
per associarsi alla vita di brigante.
Il motivo stesso che lo spinse a scappare subito da quella compagnia prova che Marchetta non avesse alcuna intenzione di farne
parte.
Inoltre, se vogliamo dare credito a quanto dichiarò “sempre e
fino a che lo stesso è stato rinserrato nelle prigioni”, al giudice di
Trivento di essere stato “preso e ligato e dopo poco tempo sciolto”,
pensiamo che Vincenzo fosse stato in ogni modo costretto o, comunque, indotto a seguirli.
Egli, d’altro canto, non poteva di punto in bianco abbandonare
la custodia della sua vigna in un momento così delicato e prossimo
al raccolto!
La ragione per la quale indicò il posto dove recuperare un fucile
e istigò i briganti a dar fuoco alla masseria di Francesco Braia, può
essere spiegata con l’astio che nutriva verso costui e la propria famiglia.
Anche i giudici dovettero, tutto sommato, prestare fede a questa
interpretazione della vicenda, tanto che la condanna inflittagli fu
molto lieve.
115
Altri misfatti eseguiti
La compagnia dei briganti o, meglio, la parte di essa che era rimasta, sempre capeggiata da Nunzio De Paola, presto si fece rivedere dalle nostre parti. Infatti, come si legge dal rapporto giudiziario:
Non andò guari, e questa istessa comitiva alla sera dal 21 a 22 Dicembre sudetto anno, decimata com’era de’ vari componenti, penetrò
nel Molino di Antonio Scarcasale, che se ne resta nell’agro di S.
Biase alla contrada Rio, in modo irruente, e minaccioso. Obbligarono
quel mugnaio a sfarinare del grano per dar loro da che mangiare. E
posciacché ebbero depennati alcuni polli che tenevano, cucinati che
l’ebbero, sedettero al desco, e gozzovigliarono.
“In quel mentre” continua il rapporto “cominciarono a raccontare
che lo incendio della masseria del Braja – di cui si è detto sopra –
era avvenuto per opera loro, ma per insinuazione di Vincenzo Marchetta”. Inoltre, dissero “che costui si era associato volontariamente
ad essi per seguirli in tutte le loro infami imprese. E poiché era
sprovvisto di moschetto, rivelò loro che potevasi trovare nella masseria del Braja”.
Il molino di cui si fa menzione era situato in contrada Piano
Molino, allo sbocco del torrente Porcino sul Rio. Esso funzionava
ad acqua corrente e perciò solo nella stagione autunno-invernale
e aveva due macine, una per il grano e una per il granone.
Era detto molino di Scarcasale perché in passato veniva gestito
da questa famiglia per conto degli eredi del barone De Blasiis, antichi possessori feudali, ma intorno al 1860 ne risultava titolare
Enrico Caputo di San Biase. Questi, soprattutto nel periodo di macinatura, abitava sul posto in una casa annessa e, oltre agli animali
da cortile, possedeva una vigna, un orto e alcuni appezzamenti di
terreno per uso di casa.
Quando irruppero i briganti in quella notte del 22 dicembre
1862, quasi alla vigilia di Natale, si trovavano sul posto Antonio
Marino, Raffaele Ciccone e Antonio Giagnacovo di S. Biase e un
tale Michelangelo alias Camiscione di Salcito, i quali erano lì nella
attesa di macinare le proprie partite di cereali.
116
Per di più, come inserviente, c’era un ragazzo di nome Federico
Caputo, nipote del titolare Enrico, al quale i briganti ordinarono
di preparare “del pane azimo”, ossia una pizza sciscia da cuocere
sotto la coppa.
I briganti erano
armati di fucili e pistole a revolver e tenevano a capo uno di Macchiagodena e nel corso della notte – ebbri di vino e di fumo – parlando fecero sapere che avevano fatto nella montagna di Frosolone
un ricatto pel quale ottennero docati 500 per ciascuno.
Durante la notte istessa del 21 a 22 finiente, fuori del molino piazzarono due sentinelle per impedire l’uscita di coloro ch’erano andati
a molire onde non si fossero qui recati per darne partecipazione, e
per essere in osservazione, ed alle ore dodici e mezza italiane che
riceverono di un oriolo che indossavano se ne partirono facendo la
strada che recava al bosco di Triventi dopo avere dato una pietra al
sudetto Caputo per la consumata farina, un ducato ad Antonio Marino di Nicola, grana settanta ad Antonio Giagnacovo fu Pietro, e
grana quaranta a Raffaele Ciccone di Antonio che si trovarono.
In questa occasione tutto finì bene.
Non andò così purtroppo, in un’altra triste circostanza, a Raffaele Marino e Costanzo D’Andrea.
Raffaele, giovane di ventinove anni, coniugato con Pia Marchetta, doveva essere un erede di quel Michelangelo Marino rapinato e ucciso dai briganti nel 1805, di cui abbiamo parlato in
precedenza e che, all’epoca dell’evento che stiamo per riferire, era
Assessore e Comandante della guardia di San Biase. Egli, come
ci dice Franca Giagnacovo – sua attuale discendente – avendo subito varie rapine e, forse, per vendicare l’antenato, predispose l’attacco alla banda brigantesca che, secondo le informazioni
pervenutegli, sarebbe passata per il bosco Maccavillo e diretta a
quello di Pietravalle.
E così, il pomeriggio del 20 maggio 1864, armatosi con alcuni
altri compagni, tra cui il suddetto Costanzo, e scortati da due della
Guardia Civica comunale, avanzarono fino al luogo in cui era sita
la Torre nella quale si appostarono per sorprendere i malviventi.
117
Atto di morte Raffaele Marino - Archivio parrocchiale San Biase
Questi, infatti, usciti dal bosco di Trivento, si diressero lungo la
mulattiera che conduceva al bosco Maccavillo. Raffaele e compagni, vistisi i briganti a ridosso, cominciarono a sparare.
La truppa banditesca, capeggiata forse dal temibile e abile Nunzio di Macchiagodena, rispose subito ai colpi e sbaragliò gli avventati assalitori, i quali si diedero alla fuga verso il paese.
Raffaele e Costanzo non riuscendo a raggiungere in tempo l’abitato, il primo per la pesante mole corporea e il secondo perché anziano, si nascosero in un cespuglio nei pressi della località
Pantaniello: qui, scovati dai briganti, furono uccisi. A tradirli fu, con
tutta probabilità, il vistoso cappello a “bombetta” portato da Marino
che attirò l’attenzione degli individui rimasti in coda al gruppo.
Prima di fucilarli, come raccontò un pastorello rifugiatosi nei
pressi e che poté così scorgere l’orripilante scena, subirono le sevizie dei fumatori, i quali si presero il macabro divertimento di
spegnere sulle mani e sui volti dei due malcapitati mozziconi di
sigarette accesi. Li spogliarono, poi, delle armi e munizioni, delle
giacche e scarpe2, che presero e tennero con loro; indi proseguiLe scarpe, che un brigante portava spavaldamente sulle spalle, ben in vista
come un trofeo, quando il gruppo ripassò per S. Biase per tornare al bosco di
2
118
Atto di morte Costanzo D’Andrea - Archivio parrocchiale San Biase
rono indisturbati per la carriera che conduceva alla località S. Leonardo e, attraversate le contrade Vignale, Vicenda e Grotte, si portarono al bosco di Pietravalle e poi si rifugiarono nella Morgia
omonima.
Banda Pomponio
Nello stesso periodo si aggirava nei nostri paraggi la cosiddetta
banda Pomponio, originaria della provincia di Chieti.
Questa, rimasta in buona parte decimata per diversi attacchi subiti dalle forze governative e dalle guardie civiche comunali, resisteva ancora con un manipolo d’individui, tra cui si distingueva
Geremia Rosa e un tale Pitucco.
A guidarla strenuamente era un certo capobanda Fontana.
Il comandante della Guardia Nazionale mandamentale, Alessandro Scarano di Trivento, il 29 aprile 1864, avvertì il Sindaco
di San Biase così:
Ieri verso le ore due della notte da un mio amministrato ebbi notizie,
Trivento, furono riconosciute dalla madre di Raffaele che poté così individuare
il presunto assassino del figlio.
119
che quattro Briganti armati di tutto punto, rattrovansi in questo
bosco Comunale, e propriamente nella Contrada detta Colle della
Calcaja. Che perciò in vista della presente la prego disporre, che
un competente numero di Guardia Nazionale di sua dipendenza,
che meglio potrà essere possibile far riunire, dirigerli in detto bosco,
affinché eseguissero una esatta perlustrazione.
Scarano, nel frattempo, aveva predisposto anche il concorso di
altre forze delle quali lo informò “che per colà muoveranno militi
di questo Comune [cioè di Trivento], quello di Lucito, i Reali Carabinieri, non che un distaccamento di Linea, che facilmente verrà
da Fossalto, oppure da Campobasso”.
Veramente un dispiegamento militare esagerato per “quattro
Briganti” sui quali, alla fin fine, non giunsero neanche a mettere
le mani addosso!
I briganti, dovettero ripiegare per l’Abruzzo attraverso i boschi
di Guardiabruna e Torrebruna.
In un successivo allarme, lo stesso Scarano, scrisse al Sindaco
di San Biase in questi termini:
Resti molino di Vastofalcone - San Biase
120
Mi trovo di unito a due altri miei dipendenti nelle vicinanze di questo bosco Comunale: ivi ho da varie persone inteso che 14 briganti
sieno già penetrati nel bosco sudetto; ho partecipato ciò anche al
Maresciallo dei Carabinieri, e Guardia Nazionale di Trivento affinché si recassero nel bosco ridetto con molta forza. Lo stesso dico a
Lei, e venire alla Casetta per cordonare il bosco.
Inoltre, “trovandomi lontano dal paese” lo pregò di “partecipare
ciò al Sindaco di Lucito, e Civita […] e occorrendo, comunicare
il presente a Santangelo, Limosano […] per fare anche dalla loro
volta ciò che conviene”.
Anche stavolta, però, da quanto ci risulta, i 14 “masdanieri” benché “stanchi e trapelati” e nonostante le taglie promesse ai cittadini
in compenso di utili indizi, riuscirono a farla franca dirigendosi
verso il bosco di Sprondasino di Pietrabbondante.
Dietro tale disguido e, quale ammonimento alle forze schierate
in campo, il Prefetto di Molise mandò il seguente messaggio
scritto ai Sindaci locali:
Avviene bene spesso che nella persecuzione del brigantaggio, i Sindaci, i Capitani della Guardia Nazionale, l’Arma dei Carabinieri, e
le altre forze destinate a quel Servizio, non procedano di accordo.
Ciò profitta ai briganti che sapendo di essere pedinati cangiano immediatamente di luogo.
Un fatto di tal genere avveniva il giorno 8 in tenimento di Trivento
dove essendo comparsa una comitiva di briganti, mentre i Carabinieri accorrevano da una parte, la Guardia Nazionale di Montefalcone, senza prima avvertire la forza di Trivento, e quelle di altri
Comuni vicini, accorreva per vie tutte opposte. Si ha ragione a credere che se si fosse proceduto di accordo, quei malfattori sarebbero
caduti nelle mani della forza.
Il Gabinetto della Prefettura, allo scopo di rimediare a tale mancato coordinamento, con una “urgentissima” del 9 giugno 1869
comunicò ai Sindaci di S. Biase, Pietracupa, Fossalto, Torella, Molise e Trivento la decisione di mobilitare e concertare meglio le
Guardie Nazionali. E intanto fece il seguente comunicato:
121
Da pochi giorni la banda Pomponio forte di quattro malfattori proveniente dal Chietino, rifiutando l’estremo limbo di confine del Circondario di Isernia, si è gittata in questa Provincia, perpetrando
rappresaglie e grassazioni. Inseguita alacremente dalla truppa, la
medesima fu vista jeri l’altro aggirarsi per codeste contrade e propriamente nel bosco Pietravalle in tenimento di Salcito […].
Per una migliore e più incisiva azione di controllo e di appostamento la stessa Prefettura di Campobasso, distaccò il “Delegato
di Pubblica Sicurezza” Giovanni de Candia a Salcito. Da qui il delegato ordinò al Sindaco di San Biase, come agli altri, di “disporre,
usando tutta la sua energia, e solerzia, che codesta Guardia Nazionale esca in giornaliera perlustrazione nel proprio territorio, guardando sempre gli sbocchi dalla parte del Circondario di Larino”.
Vincenzo Tanno, in qualità di Sindaco, assolse con gran dinamismo al suo compito, sorvegliando e tenendo continuamente in pattugliamento il corpo di Guardia Civica nei punti critici di passaggio
delle bande, in particolar modo presso il Piano Molino, Torre e
Contrada Vasto. Inoltre, egli coadiuvò con le altre truppe operanti
nella zona e, nello stesso tempo, secondo le istruzioni ricevute dal
Delegato, si adoperò anche a “trovare persone che mercé un lauto
compenso, seconda del fatto compiuto, si cooperà, per la presa o
anche presentazione della banda Pomponio”.
Di questa sua attiva collaborazione il Prefetto Cammarota prese
atto e, con una specifica, lo ringraziò “distintamente per la somma
intelligenza e buon volere che ha dimostrato nella persecuzione
della banda Pomponio”.
Ma nonostante la diligenza e la premura del Sindaco, la banda
di malfattori non venne catturata.
Tuttavia, essa fu scacciata dal territorio. È lo stesso Delegato a
comunicarlo ai vari Sindaci dei comuni del circondario con una
nota datata 17 giugno 1869, nella quale riferì che “per notizie Ufficiali avute stasera la banda brigantesca Pomponio, perseguitata
ed incalzata […] è giunta ai confini della Capitanata”.
In ogni modo lo stesso ordinò ai vari reparti di non mollare la
guardia perché “potrebb’essere che di là riconosciuta volesse ritor122
San Biase visto dalle Macchie di Salcito
nare in questi luoghi. Una vigile ed accurata perlustrazione, osservando luoghi sospetti e raccogliendo analoghe notizie potrebbe ciò
impedire”.
La compagnia, in ogni caso, non si fece più rivedere e de Candia
fu richiamato alla sua sede operativa centrale di Campobasso.
Prima di lasciare il territorio, egli mandò un appunto di riconoscenza al Sindaco di San Biase. “Non saprei dipartirmi da Salcito”,
egli ammise, “senza ringraziare la S.V. della grata accoglienza fatta
alle mie preghiere per il servizio del brigantaggio in questi luoghi”
e nel contempo aggiunse:
Facendomi poi interprete dei nobili desideri dell’Ill.mo Signor Prefetto della Provincia, il quale vorrebbe vedere liberi del tutto, e per
sempre questi luoghi dall’orrenda piaga del brigantaggio, pregiami
rivolgere alla S.V. un’ultima preghiera, interessandola, unitamente
a cotesta Milizia Cittadina a voler mantenere sempre desto lo zelo
e l’attività rispettiva, acciò qualora i quattro schifosi ladroni della
banda Pomponio, o altri simili, ricomparissero in questi luoghi, fossero tosto perseguitati e distrutti.
Di tanto pienamente fiducioso con sentimenti la stimo.
Partirò domani.
123
Repressione del brigantaggio
Dal 1862 il brigantaggio in generale, venendo anche meno l’appoggio borbonico, mutò in parte strategia e divenne di carattere
più sociale e meno politico.
Per le carestie e la conseguente crisi alimentare di quegli anni,
l’azione brigantesca, ormai diventata endemica, tendeva a colpire
più che le istituzioni, i benestanti con saccheggi, furti, incendi e
razzie varie alle loro case, fondi, depositi di derrate e a tutti i beni
indebitamente sottratti alla povera gente.
Il nuovo regime governativo, per contrastare il fenomeno, come
abbiamo già riferito, mobilitò l’intero esercito e la Guardia Nazionale. Fu una vera e propria guerra civile a scatenarsi tra le parti
che provocò numerosi morti e dispersi sull’uno e sull’altro fronte.
Vittime della sanguinosa rappresaglia militare furono, però,
contadini e pastori, ritenuti il più delle volte a torto i protettori
dei briganti, i quali, sottoposti a processi sommari o senza alcun
procedimento, scontarono con la morte la reazione feroce e cieca
dei piemontesi.
Una disposizione dello Stato, per sorvegliare le persone sospette, nel 1865 istituì in tutti i Comuni un registro che teneva aggiornato le denunce dei “pessimi soggetti” alla Pretura.
Quello formato a San Biase dal sindaco D’Andrea è riportato
in appendice.
Tra il 1861 e il 1863, dunque, la maggior parte del Meridione
d’Italia fu interessata da una grande sollevazione popolare. La repressione, che mobilitò 120.000 uomini, fu condotta con molta ferocia. Per fare terra bruciata attorno ai ribelli che ricevevano
l’appoggio della popolazione locale, lo Stato agì secondo la logica
del terrore fucilando sul posto i briganti catturati, esponendone i
cadaveri nelle piazze come monito o, meglio, come trofei, ricattando e incarcerando le famiglie dei sospettati. Gli stessi contadini,
che avevano in gran parte appoggiato inizialmente l’intervento garibaldino riversando sul progetto unitario aspettative concrete di
riforma, dovettero poi rapidamente ricredersi, rimanendo profondamente delusi e depressi. È da questa frustrazione e dalla consapevolezza che i rapporti di potere non erano stati modificati che
124
nacque l’insurrezione di massa nel Sud Italia. L’assenza di una
conduzione politica cosciente e organizzata determinò il prevalere
della direzione reazionaria dei moti e, in ultimo, fu la causa della
loro sconfitta. Nel 1865 questa guerriglia condotta dalle bande
contadine era di fatto domata con 7000 morti in combattimento,
2000 fucilati e 20.000 prigionieri.
I cronici problemi del Mezzogiorno che avevano originato la rivolta, imperniati in gran parte sulla discriminazione di classe, non
furono mai affrontati in modo organico, generando un drammatico
alternarsi di insurrezioni contadine e repressioni. E così verso la fine
del tremendo decennio, il brigantaggio, decimato e circoscritto,
andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le ultime
bande rimaste si diedero, ancora di più, ad atti di malavita, spinte
anche dalla condizione di estrema povertà nella quale il Molise e le
regioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, che
toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa.
Da quel momento la repressione piemontese prese il sopravvento:
il brigantaggio fu debellato alla radice e i sanbiasesi, come tutti i
molisani e la gente del Sud, andarono a cercare una nuova vita oltreoceano, nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto sconosciuto fino allora nel Regno delle Due Sicilie: l’emigrazione.
Museo dell’Emigrazione - Vinchiaturo
125
APPENDICE DOCUMENTARIA
Michele De Rubertis, un protettore dei briganti*
Giuseppe De Leo, quale Sindaco di Lucito, il 15 settembre 1809 fu invitato a conferirsi innanzi all’Intendente di Molise, Matteo Galdi, per essere
ascoltato sui fatti dell’assassinio dei quattro militi.
Nella sua deposizione attestò che il 26 agosto, venti gendarmi ausiliari si
portarono nel suo comune per arrestare tre Veliti1 che avevano disertato il
reggimento della Guardia del re, e cioè Nicola De Blasiis, Ottavio Minicucci
e Luigi De Rubertis. I primi due furono arrestati, il terzo invece, de Rubertis,
venuto a conoscenza della sorte toccata agli ex commilitoni riuscì a fuggire
verso il bosco di Triventi ed unirsi alla banda di Fulvio Quici. Attesa la notte,
molti briganti si recarono in paese circondando la residenza del Comune,
nelle cui stanze avevano trovato alloggio i restanti quattro militi, perché gli
altri furono impiegati di scorta ai due arrestati diretti a Campobasso. I gendarmi rimasti in Lucito, attendevano l’arrivo in paese del Regio Procaccio2
ed il suo convoglio proveniente dalla città del Vasto, per unirsi al carriaggio
e scortarlo fino al capoluogo. Alle prime luci dell’alba, Michele de Rubertis,
manutengolo dei masnadieri del Quici, si portò al convento dei missionari a
far suonare mattutino prima delle ore canoniche, affinché il popolo assorbito
dalla liturgia eucaristica non si avvedesse di quanto stava per accadere. Mentre in quella chiesa di S. Antonio i frati cantavano l’exsultet, i briganti assaltarono la casa del Comune e posero le mani sui gendarmi. I militi, costretti a
gettare le armi dalla finestra, furono immobilizzati e trascinati nella boscaglia,
ed in quella macchia spietatamente uccisi. Le loro teste infilzate su picche,
furono trovate tra i rami degli alberi. Tornando poi in paese per pregiarsi
dell’opera, chiesero al Sindaco già rientrato dal capoluogo, i viveri per il loro
*ASC - Un protettore dei briganti Michele de Ruberti.- Processi Politici, b. 33, f. 33/1.
1
Nel 1805 fu creata un’unità di forze armate terrestri. Un Reggimento di fanteria chiamato
“Veliti Cacciatori” e un corpo di cavalleria detto “Veliti a Cavallo”. Detta unità formò la Guardia
speciale del Re. Coloro che ne fecero parte, furono estratti a sorte, i loro nomi inseriti in un
bussolotto, identico a quello che si usa per l’estrazione del lotto.
ASC - Formazione dei Veliti.
2
Il Regio Procaccio, più che un funzionario statale, a quei tempi era un affittuario del servizio postale, a favore dei privati, e qualche volta dei municipi. Da Vasto passando per Civitampomarano, Lucito e Campobasso univa il Molise a Napoli, trasportando spesso pacchi,
danaro e cesti di roba.
U. D’Andrea, Spirito pubblico brigantaggio ed operazioni militari in Provincia di Aquila e
nel Contado di Molise durante il periodo 1791-1806, Stampato nell’Abazia di Casamari, pag. 227.
127
sostentamento, pasteggiando lautamente fuori dell’abitato. Nazario Molinaro,
testimoniò, invece, di essere stato sequestrato dalla banda del Quici il 22 luglio 1809, ed il giorno dell’eccidio fu costretto a seguire il gruppo di briganti
nell’impresa. Dichiarò altresì che l’assalto fu istigato dal brigante d’Astolfo
di Civitacampomarano e nel gruppo di tagliagole era attivissimo Nicola Perazzelli di Lucito. Al duca di Nevano, Francesco Capecelatro, ex feudatario
di Lucito, fu chiesto invece perché il paese non aveva opposto nessuna resistenza agli aggressori. Egli asserì che nel Comune non c’era la Guardia Civica
e nessuno possedeva armi e munizionamento e, soprattutto, perché l’assalto
avvenne di notte.
Il 16 settembre, giorno dopo dell’udienza di Campobasso, il Maggiore
Pepe, Comandante militare della Provincia, transitò per Lucito con un reparto di Milizia Reale, quale inviato sul territorio alla repressione del brigantaggio.
Qui giunto, fu invitato a pranzo unitamente ad i suoi ufficiali nella casa
di Michele de Rubertis, invito distinto per l’occasione anche all’amico di
famiglia, il medico chirurgo Alfonso Palombo. Dopo un frugale pasto dettato
dall’urgenza di riprendere il viaggio, il comandante scese nella piazza in
compagnia dei suoi ospiti e fece trarre in arresto alcuni maggiorenti del
paese, dandone immediata notizia all’Intendente Galdi in previsione della
loro carcerazione.
Don Vincenzo e don Francesco Lombardi, don Pasquale Caroscia, don
Gennaro prete secolare e don Giuseppe de Rubertis (dei quali fu ospite)3,
don Beniamino Minicucci, Michele de Rubertis (padre di Giuseppe e Gennaro), il chirurgo Alfonso Palombo e il calzolaio Michele de Rubertis; furono
sospettati di aver dato asilo e assicurato viveri ai briganti, comunque ritenute
colpevoli di indifferenza, per non aver impedito il massacro dei quattro gendarmi. Questi galantuomini furono ristretti nelle carceri di Campobasso.
L’esposizione dettagliata dei fatti, ci informa che il chirurgo Alfonso Palombo, figlio di un notaio di Castellino, fu arrestato per le cure prestate al
brigante Paolo Vasile, ferito nello scontro a fuoco con i gendarmi nell’assalto
di Civitacampomarano del giorno 7 settembre. Michele de Rubertis, invece,
dopo 36 giorni in carcere, fece pervenire una supplica al Ministro della Polizia, ottenendo il suo rilascio dietro versamento di una cauzione di mille
ducati.
Egli fu quindi posto in libertà vigilata con l’obbligo di risiedere nella città
3
Al tempo della Repubblica il Legale Giuseppe de Rubertis figlio di Michele, in qualità di
Comandante della Guardia Civica espose la bandiera Repubblicana sul loggiato del suo palazzo.
Testimonianza del chirurgo Domenicangelo Lombardi di Lucito; Busta 33 fascicolo 33/1 dei
processi politici. Archivio di Stato di Campobasso.
128
capoluogo. Tutti i lucitesi imprigionati, furono poi posti in libertà provvisoria
il 17 gennaio 1810, in attesa del processo che si protrasse fino al 30 novembre 1814, quando la Corte Speciale di Molise, visti gli atti di imputazione
di complicità nell’incesso armato per la campagna dei briganti Fulvio
Quici, Paolo Vasile e compagni, ed altro deliberò la cancellazione del processo a carico di tutti gli imputati.
Reato caduto in prescrizione?
Prima di trarre conclusioni affrettate, ci sentiamo in dovere di far conoscere al lettore l’esito delle indagini predisposte dal Presidente della Commissione Militare, sul personaggio de Rubertis, per inquadrarlo nella sua
giusta dimensione. Il Presidente nell’attenta analisi, annotò che Michele De
Rubertis, figlio di Nicola, trent’anni addietro non possedeva che pochi beni
di fortuna. La sua professione era quella di laido bottegaio e rivendigliuolo
con cui si occupava tra l’altro di terre e riparazione di armi da fuoco. Vista
la sua scarsa liquidità di danaro, unitamente al fratello sacerdote don Domenico, pensò bene di impinguare le tasche volgendo gli occhi sulla Pubblica Amministrazione, mentre il reverendo posava le mani sui luoghi Pii,
divenendo in breve tempo due pratici curatori. Non ci fu Governatore o pubblico ufficiale che non fosse stato incluso nella loro rubrica, o non fosse dipeso dai loro voleri. Di contro, non ricoprirono mai cariche pubbliche,
evitando così di rispondere delle loro azioni e naturalmente darne conto. Il
prete, in qualità di Procuratore, gestì la florida amministrazione della Chiesa
per oltre 40 anni, senza risponderne al Comune e tanto meno alla Curia Arcivescovile a cui doveva obbedienza. Il grano ed il grano d’India dovuti al
Comune, per il pagamento della fondiaria, il cui ammontare rasentava mille
tomoli, venne ammassato nei magazzini da Michele, che lo acquistava al
prezzo di sette-otto carlini, rivendendolo poi ai cittadini bisognosi, a tre o
quattro ducati il tomolo. Anche le tasse civiche, ascesero a circa due o tremila ducati l’anno e finirono immancabilmente nelle sue capaci tasche. Diverse somme di danaro invece, donate dal popolo devoto alle cappelle del
Santissimo Rosario e dell’Ospedale, furono distorte dal sacerdote e date in
prestito con interessi esosi ai cittadini meno abbienti, vessandoli poi con
varie richieste, sequestri di beni e sottoscrizioni di scritture di addebito. Allo
stesso modo si dissolsero i floridi Monti Frumentari4.
Inoltre, avendo in cantiere l’edificazione di una nuova casa, i fratelli,
oltre ad appropriarsi di laterizi di proprietà comunale, acquisirono un ingente
quantitativo di legname da costruzione facendo abbattere alberi ad alto fusto
4
I Monti Frumentari (detti anche granatici o di soccorso) erano un’istituzione benefica nata
alla fine del XV secolo per prestare ai contadini più poveri il grano per la semina, che poi restituivano aumentato di un tanto per l’interesse, al momento del raccolto.
129
nel bosco di Triventi e, con l’ausilio dei fratelli Scarano, ebbero la scelleratezza di espellere con violenza circa 20 famiglie dalle loro abitazioni, arrogandosi il diritto di proprietà col pretesto di antichi debiti contratti dai loro
antenati, diventando così titolari di masserie, terreni e macchie boschive.
Prescindendo ora dalle notizie già conosciute intorno al truce assassinio
dei quattro gendarmi, proponiamo al lettore una storiella pittoresca accaduta
in paese e riportata nel documento d’indagine del Presidente.
Cinque o più sere prima dell’eccidio dei militi, il gruppo di briganti capeggiato da Fulvio Quici, si improvvisò macellaio, ponendosi a sezionare
un vitello sottratto dalla stalla di Michele Fiore alias Panzone, la cui casa si
trovava al limite del bosco di Triventi5. Mentre si intrattenevano all’arrostitura dell’animale, verso le tre della notte udirono le voci e i passi frusciare
sull’erba secca dei tre veliti Minicucci, de Blasiis e de Rubertis, che si recavano in campagna presso la masseria di un contadino per passare la notte.
La situazione divenne critica quando, creduti spie, i briganti si disposero
armi in pugno pronti a far fuoco sui malcapitati appena giunti a tiro. Panzone,6 che conosceva bene gli ex militi, si precipitò sul gruppo placando gli
animi ed invitando gli ultimi arrivati ad assaggiare il bove rosolato al punto
giusto. Il mattino seguente, nella cantina di Michele de Rubertis, il Panzone
dispensò molte porzioni di carne arrostita a Pasquale Matteo, Rocco Ianniruberto alias Pidocchio e Gennaro Ianniruberto di Natale, questi ultimi parzenaule del de Rubertis, Giuseppe Perazzelli cognato del Panzone ed anche
ad un tal Modestino di Castellino, sottolineando che carne di quel sapore
non avrebbero potuto giammai gustare.
5
In casa di Michele Fiore aveva trovato ricetto Vincenza Serricchio, madre dei fratelli Carlo,
Francesco e Pietro Brindesi briganti di Triventi. Si allontanò dal suo domicilio per evitare l’arresto. Testimonianza di Ermenegildo Scarano di Triventi,che si trovava a Lucito per imparare
il mestiere di fucilaio. Busta 33 fascicolo 33/1 dei processi politici. Archivio di Stato di Campobasso.
6
Il 15 dicembre 1809, il Presidente della Commissione Militare Salvadori scrivendo al Procuratore della Corte Criminale, gli riscontrò che insieme ai carcerati Lucitesi si trovavano reclusi un certo Panzone e la di lui moglie.
ASC - Processi Politici b. 33, f. 33/1.
130
Registro
delle denunzie fatte alla Pretura di ladri di campagna,
e di persone sospette di pascolo abusivo
Art. della Legge 20 marzo 1865 sulla Pubblica Sicurezza
Nome, cognome e figliazione
1° Angelocola Antonio
figlio del fu Alberico e della fu Saveria Galuppo
2° Angelocola Angelo
figlio di Dionisio e di Domenico Perrino
3° Bracone Salvatore
figlio del fu Antonio e della fu Angelica Continelli
4° Ciavatta Federico
figlio del fu Pietro e della fu Stella Leone
5° Ciccarella Nicola
figlio del fu Luigi e della fu Cristina Frena
6° Continelli Federico
figlio del fu Francesco e della fu Giulia Giagnacovo
7° Continelli Angelantonio
figlio di Errico e della fu Anastasia Bozza
8° Continelli Giuseppe Nicola
figlio di Errico e della fu Anastasia Bozza
9° Continelli Giuseppe Nicola
figlio del fu Francesco e della fu Giulia Giagnacovo
10° D’Alessandro Vincenzo
figlio di Antonio e di Giacinta Giagnacovo
11° D’Andrea Luigi
figlio di Giuseppe e di Domenica Leone
12° D’Andrea Raffaele
figlio di Domenico e di Giuseppa Leone
13° Giagnacovo Emiddio
figlio del fu Querino e della fu Pia Caputo
14° Federico Giagnacovo Federico
figlio del fu Francesco e della fu Domenica Leone
15° Giagnacovo Lorenzo
figlio del fu Luca e della fu Maria Ciavatta
16° Giagnacovo Nicola
figlio del fu Giuseppe e Teresa Giagnacovo
17° Giagnacovo Pioantonio
figlio di Giovanni e di Irene Tanno
18° Leone Errico
figlio di Domenico e della fu Felicia Ciccarella
131
Professione
Contadino
“
“
“
“
“
“
“
“
“
“
“
“
“
“
“
“
“
19° Leone Raffaele
figlio del fu Francesco e della fu Desiderata Marino
20° Leone Vincenzo
figlio del fu Saverio e di Maria Angelocola
21° Marchetta Federico
figlio di Carmine e di Teresa Caputo
“
22° Scarcasale Biase
figlio di Nicola e di Rosa Portone
23° Venditti Raffaele
figlio di Antonio e di Cristina Marino
“
“
“
“
Anno 1877 - Nominativi trasmessi copia consimile, esclusi gl’individui al 12° 3 e 5
al Sig. Comandante i Reali Carabinieri in Trivento oggi 7 maggio 1877 - Il Sindaco
Continelli.
I nominativi, denunciati il 27 aprile 1877, si riferiscono tutti contadini e residenti a
San Biase.
Nome, Cognome e Figliazione Indizi
Se siano sospetti
1° Angelocola Antonio
Per notorietà
Furti campestri
fu Alberico
e pascolo abusivo
2° Angelocola Ferdinando
“
“
di Antonio
3° Ciccarella Nicola Per notorietà
Ladro in genere
fu Luigi
e reati commessi
4° Continelli Ciro
Per notorietà
Boscaiuolo
fu Pasquale
5° Continelli Ferdinando
“
Ozioso
fu Francesco
6° D’Alessandro Vincenzo
“
Ladro in genere
di Antonio
7° Angelocola Biase
“
Furti campestri
fu Vincenzo
8° Giagnacovo Lorenzo
“
“
fu Luca
9° Angelocola Angelo
“
Ladro in genere
di Dionisio
10° D’Andrea Raffaele
“
Furti campestri
di Domenico
11° Leone Nicolamaria
“
“
fu Raffaele
12° Leone Vincenzo
“
“
fu Saverio
13° D’Andrea Antonio
“
“
132
fu Egidio
14° Leone Antonio
“
Ladro in genere
fu Giuseppe alis Laroia
15° Marino Carmine Per notorietà e
di Saverio
per condanne sofferte Ladro in genere
16° Di Marzio Giuseppenicola “
“
fu Antonio
Nota di Melchise Corvinelli di Limosano
Si nota, come alli 17 aprile 1807, alle ore quattro della notte, giorno di
venerdì fù assalito da diversi briganti in cavallo della Brigante Committiva
di Sardelli di S. Elia, e di Giovanni Furia di Montagano per […] odio, e
manovre de nemici paesani. E doppo cassazione del portone a colpi di accetta, non appena entrati fùi a colpo di bainetta con pericolo di vita ferito
nell’occhio destro, e con puntonate di schioppo in diverse pareti della persona; al pari seguì in persona di mio figlio arciprete Emiliano. Contemporaneamente da’ medesimi fù saccheggiata non solo questa casa, che quella
di mia cognata Arcangela Bonadie, e di mio fratello D. Amedeo, spogliandovi in del contante da sopra docati cinquecento, dell’oro, ed argento lavorato, del prezioso tutto, di tutti gli abiti, biancheria, e delle doti di due mie
figlie nubili, Marta, e Caterina, delle biancherie di tavola, di due spade con
impugnatura d’argento, e limi oro, di cinque gran fucili, di cartucce in circa
cento, di sella, briglia, stivali, bottiglie di stagno, e bottiglie di cristallo di
Tosolj; di quattro nuovi cappelli finissimi, castorini, di scarpe, di calzette
di seta, e ventinelle finissime, e di quanto mai vi trovarono in casa. Qual
saccheggio durò dalle ore quattro, sino alle ore otto passate, ascendente
alla summa de sopra 3300 docati, non altro lasciandovi, che le sole mura,
e la camisa addosso. Non consumandosi gli prosciutti, casciocavalli, cascio,
e pane; per cui si ringrazia il Sommo Signore, che non ci tolsero la vita. Ciò
si nota per futura memoria.
E Iddio sempre ci liberi, e salvi da altri assalti.
ASC, Protocolli Notarili, notaio Melchise Corvinelli, Limosano, 1807.
Memoria scritta dal sindaco di Limosano e trasmessa all’Intendente di
Molise
Si sa benissimo, che le attuali illuminate leggi non danno luogo a memorie, e a ricorsi anonimi. Ma chi scrive la presente lo fa solo, a ciò nell’informazione, e nell’esame de’ testimoni contro de’ briganti Limosanesi, e
negl’interrogatori di questi si sviluppino tutti i lumi necessari, per scoprir
133
fin dall’ingresso delle armi francesi, all’infuori di pochi, niun Limosanese,
si è mostrato non attaccato, ma almeno rispettoso delle leggi urgenti, e del
governo, perché da tutti si teneva per certa, che poco avrebbe durato, e sarebbe traballato al primo soffio di vento. Per la sudetta ragione si è conservato sempre da quei cittadini un sordo allarme. I pesi fiscali si son sempre
pagati con la forza, e a stenti non per mancanza di contante, e per bisogno,
ma assolutamente per opinione contraria. L’esattore fondiario può addurne
tanti fatti, e ne può dire la verità. Essendo così in quella comune le leggi
mal osservate, e obbliate, si è sempre permesso di parlare pubblicamente
contro del governo, e fare delle riunioni, e complotti sediziosi. È cosa risaputissima, che un tal maestro funaro Salvio Minicucci, ed altri suoi partigiani de Limosani sono andati predicando una vicina rivolta, e un breve
ritorno di Re Ferdinando, fino a sentirsi arrivato già in Calabria, in Puglia.
Se i principali individui del luogo avessero conservato un’ombra di buon
senso per l’attuale governo Minicucci, e i suoi satelliti aderenti non avrebbero così operato, e detto. Il Decurione Zingarelli non avrebbe altrimenti
rimproverato con maniera villana al garzone di Luigi Marrone, ed altri campagnoli di San Angelo le procedure di quella comune, cui era ben meritevole, di tutti i mali che i briganti Limosanesi le minacciavano, e dovevano
necessariamente farle per non esser del loro partito. Al primo di giugno
prossimo passato non si sarebbero opposti alla persecuzione del capo comitiva Limosanese Vincenzo Cipriani. Allora se non giungeva in provincia
il Generale Compère, quel popolo era quasi vicino a rivoltarsi tutto, come
lo dimostrò una lettera di quel sindaco, fatta al comandante civico di Santangelo, che gli richiedeva la forza per l’esterminio della comitiva sudetta.
Il predetto Minicucci e di lui figlio sono stati già ultimamente, sulle mosse
di uscire in campagna con circa duecento uomini. Tutto ciò è risaputissimo
da tutti; e i 24 individui già sortiti, tra quali il proprio nipote Francesco,
sono stati animati, ingannati, e sedotti dal Minicucci, ed altri capi a operare
con quel furore, e barbarie, che dopo han dimostrato col fatto. Da ciò si
vede benissimo che lo stendardo della rivolta è stato vicino ad alzarsi nella
comune di Limosani, e se non l’hanno eseguito finora, è stato forse il timore
della dubbia riuscita. Seguito però a dire quel popolo malintenzionato, che
all’esempio della Spagna ne daranno il segnale della sommossa nel giorno
della soppressione, e uscita de’ monaci da quel monistero.
Il sindaco, e fratello Don Luigi Fracassi lo hanno pure rapportato all’intendente, e comandante della provincia per le opportune provvidenze. Nelle
diverse gite de’ briganti in quella comune, Limosanese, si è veduto fuggire
per il timore, anzi tutti si sono preggiati andarli incontro, proteggerli, e favorirli nelle loro voglie. Ognuno sa la maniera festosa, onde a 26 agosto
furono specialmente ricevuti Rossignuolo, e Quici, come se fossero stati i
134
loro liberatori. Minacce di morte, e persecuzione a quell’esattore banni, che
non più si pagasse la fondiaria. Niuna obbedienza alle leggi. Uccisioni, rapine, vendette, incendi, saccheggi, ecco in breve il loro piano e la loro idea.
Lo scopo principale fu quello di mettere a blocco S. Angelo, la di cui difesa
e salvezza deve ripetersi fortunatamente da due colpi di fucile tirati a dette
comitive, che vice versa scagliarono contro di quella Civica un diluvio di
palle senza offesa di alcuno. In seguito si è veduto con scandalo universale,
che il grano, farina, prosciutti, ed altre robe saccheggiate da quei briganti,
e loro famiglie in S. Angelo, San Biase, Pietracupa ed altrove si sono pubblicamente portate in Limosani e se n’è fatto specialmente il trasporto dal
brigante Battilana, ed intanto ciò vi operava, tutti quei magnati vi beffavano
e ridevano delle disgrazie altrui.
Si è avverato e vi vede ancora, che un tal Francesco Greco di colà aggisce a man salva, spia tutto, corrisponde con briganti, e forse ne detta le operazioni. A 2 settembre da quel popolo indegno finanche celebrate feste di
allegrezza in mezzo de’ briganti, e non giova qui il dire, che la forza li obbligava a tanto, poiché poteva benissimo quel clero fuggirsene la notte, se
voleva, dalla comune, e se si era celebrato il primo vespro non si sarebbe
solennizzata la festa con tanto sparo, fatto da’ briganti, di polvere, e batterie,
presi da essi dall’arciprete di S. Angelo. Se detti assassini han commesso
poi de’ ricatti, e saccheggi in Limosani medesimo, ciò deve ripetersi da vendette private e dal non essersi ai traviati briganti attesa finora la parola
nell’esecuzione del piano ordito contro dello stato, e della pubblica tranquillità. Eppure tanti scelerati vivono ancora, e meditano sedizioni contro
del governo, che oggi ne perseguita con vigore i perturbatori. I capi autori,
ed eccitatori di sommosse popolari, per riacquistarsi la pace, è necessario,
che siano esterminati con tutte le loro famiglie, ed averi, acciò serva di
esempio agli altri malintenzionati. Altrimenti il Governo de’ Napoleoni sarà
sempre agitato, le leggi mal adempite, e la vita de’ buoni niente si cura.
La commissione militare de’ Molise può molto bene punirne i malvaggi
con farne per mezzo del di lei Relatore verificarne il tutto, e quindi procedere
alla dovuta condanna de’ Rei.
Oltre de’ documenti, e testimoni detti di sopra, potranno esaminarsi
l’Esattore Fondiario Attanasio Perrocco, Clemente Durante, signor Quirino
Fracassi, Luigi Maria Sebbastiani, Vincenzo Tata, Giuseppe Lucito, Don
Vincenzo Bussi, tutti uomini onesti, ed altri individui di Limosani istesso.
Nonché interrogarsene di tutto i briganti che sono nelle forze detenuti.
ASC - Processi Politici, b. 30, f. 30/8 pag. 39.
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Interrogatorio fatto dall’Intendente della Provincia di Molise al sindaco di Lucito Giovanni De Leo. 15 settembre 1809
Domandato sull’assassinio commessovi da’ briganti in persona di quattro
gendarmi ausiliari nella notte de’ 26 agosto prossimo scaduto; ha deposto
nel seguente modo.
Signore il giorno 26 agosto prossimo scorso vennero a Lucito circa 20
gendarmi ausiliari per arrestare tre militi disertori, Nicola De Blasiis, Ottavio Minicucci, e Luigi De Rubertis.
I due primi furono carcerati, ma il terzo De Rubertis avendo saputo la
sorte de’ compagni, fuggì dalla casa di suo zio Michele De Rubertis dove
stava ricoverato, e prese la direzione del bosco di Trivento per trovare la
comitiva di Quici, Vasile e Rossignuolo, e condurli in seguito in Lucito per
massacrare i suddetti gendarmi ausiliari – Infatti verso le sei ore e mezza
d’Italia della stessa notte vennero 22 briganti, domandarono a Giuseppe
De Letis la casa dell’Unità dove i gendarmi alloggiavano al numero non
più di quattro, perché gli altri erano venuti a Campobasso per accompagnare i due militi presi, e circondarono la casa sudetta, attesero che il signor
Michele De Rubertis, già nominato di sopra andasse al convento de’ missionari, facesse sonare matutino a più buon ora del solito, e riunita la gente
in chiesa ad ascoltare la messa, come giorno festivo, avessero potuto con
più agio assaltare la casa sudetta ed ammazzare, i gendarmi, che vi erano
rinchiusi. – Questo fu puntualmente eseguito. – I gendarmi furono obbligati
a depositare le armi, poi da’ briganti condotti al bosco di Triventi e fucilati.
– Tornarono al paese, aggiunge che don Domenico De Rubertis fratello del
detto don Michele richiesto, regalò al brigante Quici un cannocchiale che
aveva, per complimentarli; e dopo reciproche cerimonie, fatte tra il De Rubertis, ed il Vasile, questi disse, che avessero scusato, che egli non poteva
andare in casa di nessuno: allora il brigante Lusignuolo si portò in casa
del De Rubertis, ove si prese un occhialone. Finalmente il sindaco signor
Giuseppe De Leo, fece fornire ai briganti tra quali vi era il detto Vasile, de’
viveri, che egli medesimo gli mandò per un tal Lacessullo, Leo Di Ninno, e
Rocco Pizzuto, tutti di Lucito perché, i briganti sudetti vollero mangiare
fuori dell’abitato. Io Nazario di Costanzo Molinaro depongo che essendo
stato arrestato nel giorno ventidue luglio da Fulvio Quici, Paolo Vasile, ed
altri briganti di questa comune, e dai medesimi costodito per circa un mese,
con questa occasione, mi trovai colla comitiva sudetta nel bosco di questa
comune, in quel giorno che la medesima si portò ad arrestare i quattro gendarmi ausiliari, che erano in Lucito. Questa operazione fu fatta ad istigazione di un tal Giovanbattista di Astolfo di Civitacampomarano, brigante
istesso fu quello che condusse i briganti in Lucito, da dove riforniti con i
gendarmi nel bosco, due di questi furono massacrati in mia presenza.
136
Della comitiva facevano parte Nicola Di Pinto di Triventi; Rossignuolo
di Pietrabbondante, Cajatano di Terra di Lavoro, Carlo Masiotti di Schiavi
Provincia di Chieti, Carlo Brindesi anche di Triventi, e Nicola Perrazziello
di Lucito.
Fine della banda Cipriani
Sulla storia di Vincenzo Cipriani, di cui abbiamo esposto non una biografia ma una semplice raccolta di documenti che siamo riusciti a rinvenire,
occorre aggiungere qualche considerazione.
Pensiamo che la sua ribellione non fosse dovuta solo a un mero idealismo
o fanatismo politico, ma a una necessità, non voluta da alcuno e tuttavia
creata e imposta da uno Stato inesistente per la classe misera e votato solo
al ceto più abbiente e asservito.
Questo, di conseguenza, si frapponeva come un nemico e ostacolo ad ogni
diritto umano e civile, come quello di possedere una casa e un pezzo di terra,
che per ognuno costituiva una legge naturale e sacrosanta al di fuori di ogni
regola. Questi diritti, invece, venivano negati alla gente misera perché sottratti dagli speculatori locali che non erano altro che veri usurpatori del bene
pubblico e privato.
Il governo francese, che sventagliava l’Albero della libertà, dell’uguaglianza e fratellanza dei popoli, in pratica non era riuscito a sradicare gli antichi privilegi e soprusi, anzi, appoggiando la nascente borghesia, li aveva
accentuati.
Il povero bracciale Cipriani, deluso come tanti da queste promesse non
mantenute, diede allora sfogo al suo odio, sempre represso nel passato, contro i feudatari e le classi privilegiate, con atti atroci di delinquenza e di vendetta personale. E quest’odio si accrebbe ancora di più in lui allorché fu
disposta la coscrizione obbligatoria.
Per sfuggire a questa leva servile in favore dell’occupatore straniero, una
schiera di giovani si rifugiò sulle montagne e nei boschi, venendo così meno
anche tante braccia di lavoro nei campi.
I disertori catturati venivano incatenati e convogliati nei posti di smistamento per essere destinati al fronte di combattimento.
Vincenzo non accettò di servire questo Stato e questa borghesia, ma si
diede “alla campagna” per combatterli.
Le vicende banditesche di Cipriani lumeggiano assai bene il momento
storico perché ci riportano al pensiero rivoluzionario, all’opposizione sdegnosa nei confronti di coloro che con più favore avevano accolto le novità
importate dalla dominazione francese.
Egli sentì la necessità di adoperare le armi in difesa soltanto delle sue ra137
gioni. In questo stato di cose il brigantaggio, come atto di ribellione, costituiva la sola e unica forma di rivalsa per quanti denunciavano il carattere intollerabile e oppressivo di una condizione di subalternità, che si avvicinava
alla schiavitù. Per questa ragione il brigantaggio non è stato solo un’esperienza di semplice delinquenza o di atteggiamenti provocatori ex lege, ma
anche una violenta contrapposizione alle nuove frontiere politiche (il Regno
d’Italia) che, comunque, stavano perpetrando le stesse condizioni di infelice
miseria per le classi sociali subalterne.
La banda di caporal Vincenzo Cipriani, che aveva formato e trascinato
per combattere l’invasore francese, era composta da Vincenzo Matteo e suo
fratello Giuseppe (disertore); Luigi Frosolone; Ippolito Di Gregorio; Luigi
Iammarino; Domenico di Tomasino Fracassi; Giacomo Sabetta; Giovanni
Ricciuto; Pasquale Pingue; Francesco Minicucci (alias Ominicchio); Pasquale Lattanzio, Cosimo Giancola e Giorgio Formicone.
A questi si devono aggiungere Anselmo Mattiacci, Francesco Marino, Saverio Marino, Pietro Ciavatta, Francesco Leone di San Biase, Francesco
Brindesi di Trivento e Nicola Perazzelli di Lucito.
Molti furono arrestati e tradotti nelle carceri di San Francesco a Campobasso. che si trovava nei pressi della attuale Via Ziccardi, fuori le mura Murattiane. Via mercato potrebbe essere l’attuale via Cannavina che immetteva
nella Piazza Mercato, oggi Piazza Gabriele Pepe.
Sul destino di questi briganti abbiamo ricavato le seguenti notizie:
Giuseppe Matteo (disertore), fratello di Vincenzo, di anni 24, bracciale
di Limosano fu “afforcato” a Campobasso in via Mercato il 26 settembre
1809 alle ore 22 e mezzo.
Luigi Frosolone, di anni 21, Michelangelo Chiocchia, di 23 anni, e Vincenzo Matteo di 30 anni, tutti bracciali di Limosano, vengono afforcati a
Campobasso in via Mercato il 1° ottobre 1809.
Domenico di Tomasino Fracassi, di anni 22, muore il 28 luglio 1810 nel
carcere di Campobasso dove era detenuto.
Pasquale Pingue, di anni 30, viene arrestato dalla Guardia Civica di Limosani il 5 ottobre 1809. Recluso nelle carceri di Campobasso qui muore il
7 febbraio 1810.
Anzelmo Mattiacci fu giustiziato il 29 ottobre 1809 insieme al compagno
Francesco Leone di San Biase.
Su Francesco Marino sappiano solo che il 20 dicembre 1809 un maresciallo con due della Gendarmeria Reale di Trivento fecero irruzione nel domicilio di San Biase per arrestarlo, ma non lo trovarono. La sorella Primitiva
riferì ai gendarmi che Francesco “era assente dal mese di settembre anno
138
1809 e che il 29 settembre […] si presentò in Campobasso per godere della
Reale Munificenza, e da quell’epoca non se ne ha avuto notizia”.
Su Saverio Marino conosciamo anche che il 20 dicembre 1809 la stessa
Gendarmeria si presentò al suo domicilio trovando solo la moglie Rosa
Leone. Questa disse che Saverio era assente dal mese di settembre e che “il
29 settembre si presentò in Campobasso per godere della Reale Munificenza.
Da quel giorno non si sono avute più sue notizie”.
Su Pietro Ciavatta abbiamo notizia che la stessa Gendarmeria il 13 marzo
1810 si portò nella casa del fratello Antonio per avere informazioni di lui. Il
fratello rispose che Pietro era assente dal 1° di ottobre 1809, epoca in cui si
presentò a Campobasso a godere dell’indulto e da allora non si era più visto.
Saverio Battilana, morì nel carcere di Campobasso per ”febbre epidemica
di Tifo Putrido” il 26 marzo 1810. Secondo gli accertamenti eseguiti dai medici l’epidemia fu causata da mucchi di letame e da altre sporcizie accumulate nei cortili del carcere.
Domenico Venere, di anni 30, morì il l7 febbraio 1810.
Saverio Tata, di 37 anni, morì il 16 dicembre 1810.
Di Francesco Brindesi, non conosciamo la sorte.
La sera del 19 dicembre 1809 si presentarono al suo domicilio un maresciallo e due gendarmi di Trivento per eseguire il suo mandato di arresto. Ai
militi fu risposto che mancava da Trivento dal luglio 1809 e non si sapeva
nulla di lui. Sappiamo però che, dopo l’uccisione del fratello da parte di Fulvio Quici, Francesco visse nel terrore che il capo brigante potesse riservargli
la stessa fine.
Di Nicola Perazzelli abbiamo poche notizie. Sappiamo che la sera del 19
dicembre 1809 un maresciallo e due agenti della Gendarmeria di Trivento
si portarono al suo domicilio di Lucito per arrestarlo. La matrigna Dorotea
Ventresca asserì che Nicola era assente dal settembre 1809 e da quell’epoca
non si sapeva nulla di lui.
Si sapeva però che era stato ucciso dai suoi compagni.
Ippolito Di Gregorio, Luigi Iammarino e Francesco Minicucci dopo il
loro tradimento, accolti nella loro patria ebbero il beneficio dell’amnistia.
Giuseppe Sforza, alias Rosignuolo, di 34 anni, possidente di Pietrabbondante, fu preso e “afforcato” a fine gennaio 1810.
Domenico Colozza di Busso ma domiciliato a Lucito, morì anche lui “afforcato” in via Mercato il 14 dicembre 1810.
Fulvio Quici di Saverio si spense cristianamente nel suo letto alle ore 5 della
notte del 1° aprile 1839 e fu sepolto nella chiesa di Santa Croce di Trivento.
Paolantonio Vasile morì anche lui confortato dell’Estrema Unzione il 30
luglio 1848. Don Giuseppe Nicola Carnevale, alias Don Peppo arciprete di
Pietracupa, fu processato per cospirazione “tendente a rovesciare l’ordine
139
pubblico colle forze interne dello Stato” quale “mandante dell’omicidio
commesso con violenza pubblica, provisione e sopraffazione in persona di
Giovanni Guglielmi nonché volontaria somministrazione di viveri, e di asilo
dato ai briganti”.
Per questi capi d’accusa il 16 marzo1810 fu condannato alla pena dei ferri
“per lo spazio di anni venti”.
Domenico Cipriani, di 36 anni, aggregato alla banda di Vincenzo Ciprianina fine di agosto 1809 morì il 28 gennaio 1809 nelle carceri di S. Francesco
di Campobasso dove si trovava detenuto. Fu accusato, arrestato e tradotto
in prigione a causa di vari delitti di brigantaggio.
Di Vincenzo Cipriani si sa che il 5 dicembre 1809 il brigadiere e alcuni
gendarmi di Castropignano andarono a cercarlo, ma invano, a Limosano. Il
Sindaco, cui comunicarono il mandato di cattura, disse che “Cipriani era assente dal paese dal mese di agosto e non se ne aveva notizia, ma si diceva
essere stato ammazzato dalla stessa compagnia di Fulvio Quici nel bosco
della Castagna in Triventi”.
E più di qualcuno ebbe a dire che sulla sua ombra passeggiasse l’imprendibile Quici, vecchio re dei boschi!
Testo della Bolla emessa a Napoli il 4 ottobre 1788
Si noti a perpetua memoria, come essendo trasportata dalla città di Napoli
il Corpo di San Cristiano fino nella città di Benevento, e da colà giunse in
questa terra di Limusani nel dì 6 del mese di giugno 1786, e situatili in questa
ven.le Chiesa Arcipretale di Santa Maria Maggiore, ove attualmente si ritrova, per odio, ma la volontà ed invidia di alcuni Preti di detta Chiesa, e
d’alcuni altri di quella di Santo Stefano, e de’ Capi religiosi di questo Convento di San Francesco fecero fare un scelerato ricorso dalli Governanti di
quel tempo, Michele di Nicola Fracasso, Saverio di Nicola Fioruccio, e compagni, e rappresentarono a sua Maestà nostro Sig.re, che detto Corpo di San
Cristiano non sta bene in detta Chiesa Arcipretale situato, perché angusta, e
nel giorno della sua festività poteva detta chiesa sfondarsi e che in detto
giorno per il gran concorso di Forastieri e Cittadini erano morti per la folla
delle genti molte Persone, aggiungendo di vantaggio che molte donne gravide, con l’entrare ed uscire dalle porte di detta chiesa erano sgravidate con
l’abbortimento; Ma che dissero, e supplicano di vantaggio alla detta Maestà,
che in questa terra vi erano altre due chiese magnifiche, grande, e capace di
potersi mettere e situare detto Corpo di S. Cristiano: cioè le chiese di S. Stefano, e quella di detto Convento, chiesa magnifica, e che ivi si fosse fatto trasportare il detto Corpo di Santo Cristiano. Il Re, dopo aver fatto indagare su
questi fatti, fece trasmettere il seguente dispaccio:
140
In vista di quanto ci ha rappresentato su le domande del Procuratore di
codesta Università circa il potersi trasferire in altra più comoda Chiesa il
Corpo di San Cristiano Martire, Sua Maestà mi ha comandato [...], che è
rimasto inteso e vuole che niente s’innovi per il particolare.
ASC - Protocolli notarili - Atto notaio Corvinelli di Limosano.
La nota è stata tratta dal documento “Arrivo del Corpo di San Cristiano a Limosano”
gentilmente concessoci dall’avvocato Antonio Romano di Limosano.
Morte di Nicolina Angelocola. Archivio parrocchiale di S. Maria dell’Acquabona di San Biase
Morte presunta di Nicolina Angelocola. Portale degli Antenati a cura della Direzione Generale degli Archivi di Stato. Registro degli Atti di Morte del Comune di San Biase
141
BIBLIOGRAFIA
Fonti archivistiche
Archivio di Stato di Campobasso.
Archivio parrocchia Santa Maria dell’Assunta di Sant’Angelo Limosano.
Archivio parrocchia San Nicola di Lucito.
Archivio parrocchia Santa Maria dell’Acquabona di San Biase.
Archivio vescovile di Trivento.
Fonti bibliografiche
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2007.
Conte Carmen e Wanda, Frammenti di passato di comunità molisane,
Campobasso, Edizioni Enne, 1999.
Bucci Sergio, Feudi, classi sociali, lotte contadine nel Molise in età
moderna e contemporanea, Campobasso 2007, Palladino Editore.
Gramegna Mario, Briganti molisani, Campobasso, Editrice Casa Molisana del Libro, 1969.
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tempi moderni, Ed. Capone.
Perrella Alfonso, L’anno 1799 nella Provincia di Campobasso, Caserta, Tipografia Vincenzo Magone1900.
Piedimonte Gennaro, Storia di Lucito, ristampa anastatica, Campobasso, Tipolitografia Foto Lampo, 1998.
Scarano Nicola, La storia del brigantaggio di Trivento nel periodo
murattiano, Matrice, Tipolitografico La Rapida Grafedit, 1977.
Tanno Michele, San Biase. Il barone e i contadini, Ferrazzano, Edizioni Enne, 2005.
143
INDICE
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INTRODUZIONE
Franco Novelli
SVILUPPO DEL BRIGANTAGGIO
Nascita del banditismo
Primi briganti di San Biase
Fatti avvenuti di seguito
Atto di violenza e di sangue su Brigida
Ripresa del brigantaggio
Vincenzo Cipriani: da servo a brigante
Comitiva di Brindesi
Misfatti commessi dalla banda
Sbandamento, riordino e disgregazione della comitiva
Brigante Anselmo Mattiacci
Panettiera Nicolina Angelocola
Fucilazione del barone
Avvenimenti dei giorni successivi
Lotta armata al brigantaggio
BRIGANTAGGIO DOPO L’UNITÀ D’ITALIA
Rinascita del brigantaggio
Banda Caprannunzio
Altre malefatte commesse nella notte
Seguito della vicenda
Altri misfatti eseguiti
Banda Pomponio
Repressione del brigantaggio
APPENDICE DOCUMENTARIA
Michele De Rubertis, un protettore dei briganti
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Registro delle denunzie fatte dalla Pretura...
Nota di Melchise Corvinelli di Limosano
Memoria scritta dal sindaco di Limosano...
Interrogatorio fatto dall’Intendente di Molise...
Fine della Banda Cipriani
Testo della Bolla emessa a Napoli il 4 ottobre 1788
BIBLIOGRAFIA
Finito di stampare nel mese di aprile 2015
presso la TIPOLITOGRAFIA FOTOLAMPO srl - Campobasso
[123-15]
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