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Che cosa abbiamo imparato sul piano della progettazione didattica

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Che cosa abbiamo imparato sul piano della progettazione didattica
Che cosa abbiamo imparato sul piano della progettazione didattica
dalle critiche al costruttivismo in ambito pedagogico?
Michele Pellerey - Università Pontificia Salesiana - [email protected]
What we learned about instructional design from pedagogical
critics to constructivism
Recent researches in the fields of education,
of cognitive science, and of philosophy
stress a reexamination of the complexity of
the learning process that occurs in the school and of the teaching methods intended to
support it. In order to take into account
such contributions we suggest a less dogmatic and more pluralistic approach to teaching design. In this way we can respond
more flexibly to the student characteristics
and to the nature of the pedagogical content; and that in the frame of the more recent findings of the cognitive
constructionism.
Parole chiave: Progettazione didattica, insegnamento esplicito o diretto, costruttivismo,
carico cognitivo, nuovo realismo.
Keywords: Instructional design, explicit or
direct teaching, constructivism, cognitive load, new realism.
Giornale Italiano della Ricerca Educativa – Italian Journal of Educational Research
© Pensa MultiMedia Editore srl – ISSN 2038-9736 (print) – ISSN 2038-9744 (on line)
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studi
Il contributo intende esaminare alcuni dei
più significativi apporti di recenti ricerche
realizzate nell’ambito della didattica, della
scienza cognitiva e della filosofia della conoscenza. Tali apporti sollecitano una rilettura
della complessità dei reali processi di apprendimento degli studenti e delle metodologie di insegnamento che li promuovono.
Ne deriva un atteggiamento meno dogmatico e più aperto alla valorizzazione di una
pluralità di metodi didattici nel progettare
percorsi formativi, che intendono tener conto sia della caratteristiche peculiari dei singoli studenti, sia della natura dei contenuti
da apprendere; e ciò, valorizzando le istanze
del costruttivismo cognitivo più consolidato.
Che cosa abbiamo imparato sul piano della progettazione didattica dalle critiche al costruttivismo in ambito pedagogico?
1. La questione
260
In questi ultimi cinque anni sono riemerse accese discussioni relative a quali modalità di insegnamento favoriscano risultati effettivi di apprendimento da parte
degli studenti. Un numero dell’American Educator (Spring, 2012) è stato dedicato
alla questione che divide pedagogisti e docenti circa le forme più valide e produttive di impostare le lezioni scolastiche: favorire metodi di insegnamento espliciti
e diretti o privilegiare modalità ispirate a forme di costruttivismo sociale, di ricerca
personale o di gruppo, di scoperta, nei quali si lascia agli studenti molta libertà di
organizzazione e di lavoro. Una eco di tale dibattito si può cogliere in un recente
volume di Norberto Bottani (2013, pp.140-141), il quale afferma che lo scontro
tra pedagogisti e insegnanti, che fanno riferimento alle teorie costruttiviste, e coloro che vengono definiti, spesso in modo dispregiativo, come tradizionalisti “è
reso più acuto dall’irruzione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ossia dalla diffusione di nuovi mezzi che possono servire per potenziare una corrente o l’altra”. Poco dopo afferma che: “Resta il fatto che nemmeno
le pedagogie costruttiviste hanno migliorato le disuguaglianze scolastiche.” Anche
da quest’ultimo punto di vista nel contesto della contesa viene fatto notare come
da un’analisi di circa 70 studi si abbiano conferme di quanto osservato da Bottani.
Tali studi hanno preso in considerazione gruppi di studenti, che vanno dai più
lenti ai più pronti, mettendoli a confronto con forme di insegnamento sia che seguono da vicino e in maniera esplicita il loro cammino di apprendimento, sia con
forme di insegnamento che lasciano molta iniziativa e modalità di lavoro aperte.
Da essi sono stati ottenuti risultati positivi a favore dei più svegli e risultati assai
problematici, in qualche caso drammatici, per i più lenti e difficoltosi. In qualche
modo i metodi meno direttivi favoriscono i migliori, mentre danneggiano i più
deboli (Clark, Kirschner & Sweller, 2012, p. 8).
In questo dibattito emerge un giudizio critico circa l’impostazione didattica
genericamente definita “costruttivista”: un’impostazione che da una parte evoca
metodologie di tipo attivo, nelle quali lo studente è impegnato, anche fisicamente,
nell’esplorare ambienti di apprendimento e a sviluppare rappresentazioni e spiegazioni, che possano portare alla comprensione di fenomeni e alla costruzione di
conoscenze e abilità specifiche; e, dall’altra, si appoggia a teorie psicologiche, che
spesso fanno riferimento a L.S.Vygotsky, ma che si sono sviluppate secondo prospettive in gran parte autonome e definite post-vygotskyane. Molte di esse si appoggiano nella loro interpretazione sulla teoria dell’attività. Maurizio Lichtner
(2013) ha messo in luce come, partendo dal pensiero di Vygotsky, sia stata sviluppata un’interpretazione socioculturale dello sviluppo conoscitivo, che va oltre se
non in contrasto con il suo pensiero, per la quale le attività e i discorsi che si svolgono intorno al soggetto, ovvero le pratiche sociali nelle quali egli è iscritto, siano
causa diretta dell’acquisizione delle sue conoscenze e delle sue competenze. Una
forma di determinismo sociale che non tiene conto di una possibile consapevolezza e mediazione del soggetto nel processo di interiorizzazione di quanto espe-
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rito. Si giunge così a non tener conto dei processi cognitivi individuali che stanno
alla base sia della comprensione concettuale, sia dello sviluppo intellettuale.
A questo proposito Richard Meyer (2009) ha fornito una chiarificazione concettuale assai utile. Partendo dalle ricerche psicologiche che fanno riferimento ai
processi cognitivi, egli afferma è corretto pensare al costruttivismo dal punto di
vista del processo di apprendimento della singola persona. Infatti, ciascuno di
noi costruisce le proprie conoscenze sulla base di quanto ha già acquisito in maniera significativa e stabile. Per chiarire meglio la distinzione tra la considerazione
di una teoria dell’apprendimento di natura costruttivista, considerata corretta, e
l’indicazione che nel processo istruttivo ci si debba sempre muovere con procedure pratiche di natura costruttivista, posizione quest’ultima vista come errata,
Richard Mayer ha descritto quattro possibili situazioni di apprendimento. In primo luogo viene considerato un apprendimento attivo nel quale lo studente si impegna in un appropriata attività cognitiva, a esempio selezionando informazioni
rilevanti, integrando le nuove conoscenze con quelle già possedute e organizzando in maniera coerente quanto acquisito. Un apprendimento passivo si ha quando
tale attività non ha luogo e si ha solo una forma di semplice recezione di quanto
proposto e ciò rimane non integrato nella struttura conoscitiva, quindi non compreso e non ricordato. Una didattica attiva si ha quando gli studenti sono coinvolti
in un’attività pratica, come ricerca di informazioni, di soluzioni a un problema, o
discussione in gruppo. Una didattica passiva è attuata quando non si sollecita
un’attività pratico-operativa.
Un vero apprendimento si ha quando si verifica un cambiamento sufficientemente permanente nel quadro di conoscenze dello studente. La teoria costruttivista dell’apprendimento sottolinea il fatto che lo studente per apprendere deve
impegnarsi personalmente nel rappresentare nella sua memoria di lavoro le nuove conoscenze mettendo in atto appropriati processi cognitivi. E ciò è coerente
con molte ricerche, anche di natura empirica. La questione però si pone quando
si intende trasporre tale teoria, che riguarda i processi cognitivi, a una metodologia didattica che metta in moto soprattutto i comportamenti esterni degli studenti. A un’attività di questo tipo non corrisponde necessariamente un
congruente e funzionale processo interno di costruzione concettuale. Ciò è dimostrato da numerose ricerche che l’Autore cita distesamente. Per contrasto non
poche ricerche hanno messo in evidenza la possibilità di coinvolgere un apprendimento attivo, che mette in moto appropriati processi cognitivi, attraverso forme di insegnamento che esternamente appaiono passive. L’Autore non lo cita,
ma è immediato evocare il concetto di apprendimento significativo per ricezione
di D. P. Ausubel e le condizioni da lui indicate perché ciò avvenga (Ausubel,
1978). Mayer elenca anche alcuni principi di riferimento, derivati dalle ricerche
in merito, che facilitano l’attivazione di processi di apprendimento attivo in contesti di didattica cosiddetta passiva1.
1
Si possono citare a esempio i principi: di coerenza per escludere materiali estranei; di
sottolineatura delle cose essenziali; di contiguità spaziale e temporale tra testi scritti e
immagini; ecc. (Mayer, 2009, pp. 193-194).
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2. Le ricerche sull’efficacia dei vari metodi di insegnamento
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Il confronto tra posizioni cosiddette costruttiviste, ma che più genericamente potrebbero essere definite poco direttive, e impostazioni che privilegiano un insegnamento esplicito, genericamente denominate dirette, è stato reso più
incandescente dalla pubblicazione delle ricerche di John Hattie a partire dal 2009
(Hattie, 2009; Hattie, 2012; Hattie & Yates, 2014). Queste ricerche avevano come
obiettivo fondamentale esaminare la letteratura sperimentale disponibile al fine
di verificare l’efficacia dei vari metodi di insegnamento. In generale si può dire che
sulla base dei dati raccolti molti degli approcci più sollecitati dai pedagogisti e diffusi negli ambienti innovatori non abbiano dato i risultati sperati. In particolare,
John Hattie ha evidenziato la fragilità di alcuni di essi, come a esempio i metodi
basati sulla ricerca autonoma condotta dagli allievi, l’apprendimento per problemi,
ma anche lo stesso cooperative learning, quando questi metodi sono poco guidati
e controllati dal docente; mentre l’insegnamento reciproco tra studenti, il feedback
che riceve l’insegnante dagli allievi e quello che egli loro fornisce, la valutazione
formativa, l’insegnamento diretto ed esplicito, che segue da vicino la comprensione
dei concetti e la padronanza delle abilità, evidenziano una buona validità didattica.
In questo quadro emerge come valido un insegnamento esplicito di strategie di
natura metacognitiva, come il controllo della propria comprensione, a esempio
attraverso il porsi opportune domande, oppure strategie di studio adattate ai vari
ambiti di apprendimento. La varie indagini esaminate mettono in evidenza come
le attività a finalità aperta, a esempio forme di apprendimento per scoperta, possono rendere difficile indirizzare l’attenzione su ciò che ha importanza, dal momento che gli studenti amano esplorare dettagli, aspetti irrilevanti e molto
specifici, mentre svolgono tali attività.
Tra i suggerimenti che derivano dalle indagini di Hattie i più significativi sono
stati riassunti da lui stesso nelle varie opere. L’insegnante deve puntare verso obiettivi chiari, condivisi dallo studente, mentre egli si prende cura della sua comprensione e del suo progresso, valutandone i vari passaggi e le difficoltà emergenti e
intervenendo direttamente per favorire l’efficacia della sua azione e la solidità delle
nuove acquisizioni. A questo fine egli dovrebbe usare metodologie che rispondano
a queste finalità, in particolare associando spiegazioni orali a immagini, sollecitando l’intervento dei più pronti a favore dei più deboli (l’insegnamento reciproco,
che evoca la zona di sviluppo potenziale di Vygotsky), adattando i suoi interventi
alle esigenze che via via manifestano i singoli o il gruppo.
Queste e simili ricerche ripropongono con ancor maggior forza il ruolo centrale del docente non solo nel progettare l’impianto didattico, ma soprattutto nel
condurre la sua azione di insegnamento nel contesto delle lezioni. Un docente
esperto dovrebbe saper individuare le forme principali attraverso le quali è possibile rappresentare ciò che insegna: valorizzando opportunamente quanto lo studente già possiede; collegandolo agli altri insegnamenti; graduando, ed
eventualmente modificando, il suo procedere sulla base di quanto riescono effettivamente ad apprendere gli studenti. Per questo è necessario che egli curi l’effettivo
impegno di ciascuno nel costruire attraverso i propri processi cognitivi l’impianto
concettuale e operativo che egli propone. D’altra parte tutto ciò può aver luogo
solo se si riesce a sviluppare un clima nella classe che sia favorevole a questa attività
di apprendimento.
Hattie e Yates (2014) ricordano come spesso nella formazione degli insegnanti
si insiste su un giudizio negativo nei riguardi della “trasmissione della conoscenza”,
affermando che si tratta di una nozione non valida, datata e che deve essere rim-
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piazzata dalla massima “Quello che ascolto lo dimentico, quello che faccio lo capisco”, oppure da quella attribuita a Confucio: “Quando ascolto dimentico, quando
vedo ricordo, quando faccio comprendo”. Ma come abbiamo notato evocando la
distinzione proposta da Mayer tra didattica attiva e apprendimento attivo e, come
noteremo a proposito del carico cognitivo, non è automatico apprendere quando
ci si muove fisicamente, ma non si lavora intellettualmente: il vero laboratorio
d’apprendimento è quello che si svolge nella testa. Quando l’insegnamento esplicito
è chiaro e il docente mette in luce i passaggi fondamentali e le variabili critiche di
quanto espone, evidenzia i percorsi e gli schemi mentali che debbono essere utilizzati e l’appropriato vocabolario che deve essere padroneggiato, egli rende visibile
ed esplicito quanto potrebbe rimanere nascosto e implicito, impedendo così
un’adeguata comprensione e poi una valida valorizzazione di quanto compreso.
Se lo studente, o anche il gruppo degli studenti, dovesse conquistare tutto ciò attraverso solo le risorse personali disponibili, come può raggiungere una conoscenza valida e completa? E se anche, date capacità eccezionali, potesse farlo, quanto
tempo gli occorrerebbe e quanto di quel tempo andrebbe a scapito di quello necessario per gli altri apprendimenti?
3. L’apporto delle teorie cognitive per una riconsiderazione del costruttivismo
Nella critica alle metodologie didattiche che insistono su attività ispirate al costruttivismo e a metodi di ricerca ed esplorativi spesso si fa riferimento alla cosiddetta teoria del carico cognitivo. Tale teoria è stata sviluppata dalla fine degli
anni ottanta del secolo passato da John Sweller (1988). Le basi scientifiche di riferimento risalgono agli inizi dell’introduzione del modello di elaborazione delle
informazioni proprio della psicologia cognitiva. Nel 1956 era stato pubblicato lo
studio fondamentale di G.A. Miller (1956) che evidenziava i limiti della cosiddetta
memoria e breve temine, o memoria di lavoro, sia dal punto di vista quantitativo,
sia da quello temporale. Per capire e ricordare occorre attivare e coordinare processi cognitivi che integrano informazioni provenienti dall’esterno (memoria sensoriale) e informazioni e schemi interpretativi che provengono dall’interno
(memoria a lungo termine o permanente). Ma la capacità elaborativa presenta non
pochi limiti, per cui quando ciò che deve essere elaborato è troppo complesso, si
può verificare un carico eccessivo della memoria di lavoro e la prestazione ne può
soffrire anche drammaticamente, con riflessi anche sul piano emozionale. Il merito
di Sweller è stato quello di promuovere uno studio sistematico delle correlazioni
tra quanto proposto nelle attività istruttive e le esigenze di elaborazione cognitiva
che ne derivano, evidenziando le condizioni sia soggettive, sia oggettive perché il
soggetto possa acquisire le conoscenze e le abilità in maniera significativa, stabile
e fruibile. La teoria del carico cognitivo tende a descrivere proprio tali condizioni
di apprendimento.
Negli anni novanta del secolo passato, e in quelli successivi del nuovo secolo,
molti studi sono stati realizzati per approfondire tale teoria e per considerarne le
conseguenze sul piano progettuale delle attività didattiche. In particolare sono stati
distinti tre tipi fondamentali di carico cognitivo. Il primo, ineliminabile, riguarda
le esigenze di elaborazione cognitiva che certe conoscenze sia dichiarative, sia procedurali implicano. Si tratta del cosiddetto carico cognitivo intrinseco al contenuto
da apprendere. Per intenderci, è ben differente la sfida alla comprensione e alla
valorizzazione in problemi pratici di un procedimento aritmetico elementare, rispetto a questioni di analisi infinitesimale, che implicano un’adeguata padronanza
studi
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dei concetti di funzione e di limite. Tuttavia, l’impegno cognitivo dipende anche
dal soggetto, in quanto questi può possedere già le conoscenze e la competenze
necessarie per affrontare compiti complessi. Ciò porta a due conseguenze valutative: la prima relativa alla complessità del contenuto; la seconda, allo stato di preparazione del soggetto.
L’analisi del secondo tipo di carico cognitivo, quello denominato estrinseco, è
diretta a individuare le condizioni che possono alleggerire il carico cognitivo e che
quindi non dipendono dalla complessità intrinseca del materiale da apprendere.
Esse mirano a organizzare la presentazione dei contenuti da apprendere secondo
progressioni che ne favoriscono l’assimilazione e verificare quali modalità di approccio siano più funzionali. A esempio si è trovato che vi è una maggiore facilità
di acquisizione delle conoscenze e delle abilità, se si usano esempi sviluppati in
maniera completa e adatta alla comprensione e al ricordo, rispetto a forme di
esplorazione e scoperta, soprattutto se debolmente guidate da parte del docente;
così l’uso di immagini può essere più utile di descrizioni solo verbali.
Si è anche proposto di considerare carichi cognitivi di tipo coerente (in inglese
germane), nel senso che si tratta di impegni diretti allo sviluppo di schemi concettuali o operativi funzionali alla possibilità di affrontare questioni più complesse,
in quanto la disponibilità di tali schemi nella memoria di lavoro riduce il carico
di lavoro nella memoria a breve termine2. Ciò porta a progettare forme adeguate
di progressione sistematica nel proporre i vari contenuti in modo che ogni tappa
raggiunta possa diventare la base per gli apprendimenti successivi
Dalle ricerche sul carico cognitivo sono derivate non poche indicazioni circa
la validità, sul piano della pratica didattica, di alcune indicazioni operative, spesso
considerate tradizionali e poco produttive sul piano formativo. Non solo, ma è
emerso un certo ripensamento nei riguardi di prospettive considerate innovative.
La discussione che ne è seguita è stata documentata in un volume a cura di S. Tobias e T.D. Duffy nel 2009 (Tobias & Duffy, 2009). Tenendo conto delle differenti
posizioni emerse si è cercato di elaborare un bilancio delle ricerche sull’efficacia
dei metodi cosiddetti di “insegnamento indiretto”, rispetto a quelli definiti come
forme di “insegnamento diretto”. John Sweller (2009) è intervenuto in tale contesto
affermando: ”Le procedure derivanti dalla teoria del carico cognitivo sottolineano
il ruolo più efficace dell’insegnamento esplicito, rispetto a quelli basati su forme
di apprendimento per scoperta oppure di tipo costruttivistico”. Egli ha osservato
come i metodi didattici basati su forme di quest’ultimo tipo erano stati proposti
prima di avere a disposizione i risultati degli studi sull’architettura della cognizione
umana e sul suo funzionamento: quindi non deve sorprendere se essi non hanno
dato i risultati sperati quanto alla loro efficacia. Sweller ha valorizzato alcuni studi
che distinguono tra acquisizione di conoscenze e abilità in contesti informali, capacità che derivano da una lunga esperienza umana codificata anche nel proprio
patrimonio genetico, come imparare a parlare e a comunicare oralmente in un
lingua particolare, ma anche come risolvere problemi pratici della vita quotidiana,
e acquisizioni relative a conoscenze e abilità sviluppate dall’uomo più recentemente
e più artificiali, come leggere, scrivere testi in scrittura alfabetica e fare matematica
2
In questo contesto viene confermata la validità non solo dell’automazione di alcuni processi elementari, ma anche dello sviluppo di quelli che nella terminologia aristotelica
sono definiti “abiti”, cioè disposizioni stabili ad agire in maniera adatta alle diverse situazioni. Così si può parlare di abiti operativi, abiti di studio, abiti di lavoro.
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astratta, ecc. Per questo ambito di sviluppo si ha bisogno di ambienti strutturati e
di forme di insegnamento diretto e sistematico (Geary, 2005). Ricorrere a metodi
di natura esplorativa e di soluzione di problemi da una parte richiede tempo e notevole dose di creatività e di possibilità di gestione del carico cognitivo; dall’altra,
occorre ricordare che non esistono metodi di problem solving generali che vadano
bene in ogni caso, bensì metodi legati a specifici ambiti di conoscenza, che comunque richiedono notevoli basi informative adeguatamente organizzate3.
4. La posizione filosofica ispirata al nuovo realismo
Negli ultimi anni il costruttivismo, soprattutto quello radicale, è stato sottoposto
a osservazioni critiche anche sul piano filosofico sulla base delle istanze del cosiddetto “nuovo realismo”. Questo movimento teorico ha messo in luce alcune
problematiche irrisolte della filosofia della conoscenza (epistemologia), quando
questa tende a ignorare la cosiddetta “resistenza della realtà”, cioè il doversi confrontare con l’esperienza diretta delle cose, degli eventi, delle istituzioni che tendono a limitare le nostre assunzioni interpretative. “Robusto, indipendente,
ostinato, il mondo degli oggetti che ci circondano, ma anche dei soggetti con cui
interagiamo, non si limita a dire no, a opporre resistenza come per dire «ci sono,
sono qui». Con lo stesso gesto con cui resiste, ci offre l’acceso alla massima, e unica,
positività a nostra disposizione, allo sfondo tutt’altro che amorfo, ma anzi ricco e
strutturato, da cui prendono avvio la sensazione, l’immaginazione, il pensiero, il
ricordo, l’attesa, il timore e la speranza. E soprattutto dispiega lo spazio delle possibilità…” (Feraris, 2013, p. 9).
«Ribadire alcuni “limiti” (in tutte le accezioni del termine) del costruttivismo
non equivale a contestarlo tout court, con una mossa che sarebbe solo il rovescio
di quello stigma affibbiato al “realismo” da cui si è preso l’abbrivio. Senza disconoscerne i meriti, si tratta di smorzare le pretese del costruttivismo, di sorvegliarne
gli scantonamenti, di “limitarne” le oltranze e le derive […] in riferimento all’attività interpretativa e ad alcuni eccessi di decostruzionismo. […] Si deve lavorarlo
dall’interno, mantenendone alcune conquiste innegabili e rintuzzandone, però, le
semplificazioni. Infatti, spesso le ipotesi costruttiviste sono tanto più “viabili” ed
efficaci quanto più vengono innervate di un elemento realista» (Corbi & Oliverio,
2013, pp. 21-22). In altre parole si critica la posizione del cosiddetto “costruttivismo radicale”, per prospettare una visione più integrata in cui si ritrovi una rapporto valido e fecondo tra pensiero e percezione della realtà, dando a questa un
ruolo decisivo soprattutto di fronte alle scelte di natura educativa.
Pier Giuseppe Rossi nota come nelle tendenze post-costruttiviste attuali si rivisitano le teorie aristoteliche relative all’acquisizione della conoscenza pratica con
alcune modificazioni: “il fine dell’agire del soggetto non è più un riferimento esterno che determina l’azione, ma viene ricorsivamente ridefinito nell’azione stessa e
in connessione con i mezzi; il soggetto non è autonomo, ma interno a una rete
complessa; l’agire umano non è frutto di una decisione cognitiva, ma un fare com-
3
È interessante citare a questo proposito le più recenti indagini Ocse-Pisa (2012) sulla
competenze dei quindicenni italiani. Questi manifestano non poche difficoltà sia nelle
scienze, sia in matematica, ma se si tratta di problemi di natura pratica quotidiana non
legati a conoscenze e abilità disciplinari essi si collocano a livelli assai più elevati.
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plesso in cui l’uomo opera in modo olistico, con il suo corpo. […] In sintesi molte
critiche al costruttivismo emerse nell’ultimo decennio sembrano focalizzarsi sostanzialmente sulle derive relativiste e sull’assenza di strumenti di validazione delle
ipotesi” (Rossi, 2013, pp. 93-94). “Il post-costruttivismo indica essenzialmente
quattro percorsi: (1) l’interazione tra i processi di insegnamento e di apprendimento, (2) la centralità delle pratiche educative per la comprensione dei processi
di insegnamento-apprendimento e per la formazione degli insegnanti, (3) la rivalutazione dei prodotti dopo la centralità dei processi, (4) la rivalutazione del ruolo
del corpo nei processi di insegnamento-apprendimento (Rossi, 2013, p. 101).
In realtà occorre riconoscere che buona parte della critica di natura filosofica,
anche di tipo pedagogico, che anima le tendenze post-costruttiviste si concentra
sulla critica delle proposte provenienti dal costruttivismo radicale, nella convinzione che non è possibile far prevalere la elaborazione conoscitiva, l’epistemologia,
ripetendo che “tutto è interpretazione”, sulla realtà, ignorandone il ruolo fondamentale come costante controllo della bontà e funzionalità delle proprie costruzioni conoscitive. In qualche modo si vuole riproporre come riferimento essenziale
una dialettica, in questo caso sì costruttiva, tra oggettività ed epistemologia, tra
realtà e conoscenza, tra esperienza delle cose, delle persone, delle istituzioni, degli
eventi e loro descrizione, interpretazione e valutazione.
In ambito pedagogico si viene così sollecitando una posizione ragionevole, che
riconosce nel dialogo educativo il ruolo fondamentale dell’altro, degli altri, del
contesto, dell’ambiente culturale e sociale, di fronte a una pura deduzione di norme
per l’azione derivanti da assunzioni teoriche e/o ideologiche (Pellerey, 2014).
5. La posizione di chi sostiene un approccio all’insegnamento in forma diretta
ed esplicita
Le ricerche di J. Hattie e quelle sul carico cognitivo hanno fatto riemergere prepotentemente la posizione di chi nel tempo ha insistito sulla qualità di un insegnamento esplicito e diretto. Così è stato recentemente pubblicato un volume curato
da studiosi e formatori canadesi dal titolo “Insegnamento esplicito e riuscita degli
allievi. La gestione degli apprendimenti” (Gauthier, Bissonnette & Riochard, 2013)4.
Nella Prefazione del volume Barak Rosenshine riassume la tesi fondamentale sostenuta dall’opera. Egli richiama l’esito degli studi realizzati nel corso dei decenni passati
sulla natura delle pratiche sviluppate in classe dagli insegnanti più efficaci. Egli poi
si ricollega agli studi sull’architettura cognitiva per insistere sul fatto che l’insegnante
deve dare un sostegno appropriato a suoi studenti quando insegna un nuovo con-
4
L’espressione “insegnamento esplicito” è stata utilizzata da B. Rosenshine a partire dagli
anni ottant (cf, a es. B. Rosenshine, 1986). La sua posizione è stata sviluppata sulla base
di ricerche che tengono conto più dell’efficacia dei metodi di insegnamento che di una
loro coerenza con una particolare teoria dell’apprendimento. Recentemente ha pubblicato in inglese una sintesi del suo pensiero sulla rivista americana American Educator
che include una buona bibliografi (B. Rosenshine, 2012). La denominazione può essere
collegata ad altre espressioni come “insegnamento diretto”. Si tratta di un approccio
esplicito, strutturato, intensivo, che pone l’accento su una preparazione minuziosa delle
lezioni, la cui efficacia è verificata e da cui trae indicazioni per una più valida attuazione.
Cfr. www.nifdi.org.
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tenuto d’apprendimento, riducendo in seguito tale sostegno a mano a mano che essi
progrediscono. Ciò si realizza: distribuendo la materia in passaggi successivi in modo da evitare ogni confusione; strutturando la lezione dandone prima un’idea generale o un piano; dando poi l’opportunità a ciascun allievo di esercitarsi in ciascun
passaggio successivo in modo da favorire il trasferimento delle nuove conoscenze
nella memoria a lungo termine; fornendo esercizi supplementari per consolidare e
organizzare meglio quanto appreso al fine di facilitare gli apprendimenti successivi.
Gli studenti sviluppano in seguito attraverso la pratica la nuova abilità finché tutti
ne abbiano avuto un feedback valutativo, favorendo progressivamente il raggiungimento di una maggiore autonomia nel realizzarla.
Egli richiama quindi alcune strategie risultate valide e produttive nell’attività
degli insegnanti efficaci. Questi avviano le loro lezioni richiamando brevemente
gli apprendimenti precedenti; presentano la nuova materia per piccoli passi, seguiti
da attività pratiche, all’inizio di tali pratiche guidano da vicino gli studenti; ragionano ad alta voce per evidenziare ciascuna tappa di un procedimento; esigono e
ottengono una partecipazione attiva da parte di tutti; danno incombenze e spiegazioni chiare e dettagliate; porgono molte domande e verificano la comprensione
degli studenti; mostrano esempi di problemi completamente risolti; domandano
agli studenti di esplicitare la loro comprensione; verificavano le risposte di tutti;
presentano numerosi esempi; riprendono alcune spiegazioni quando necessario;
preparano gli studenti a sviluppare pratiche di lavoro autonomo e all’inizio li seguono in tale impegno.
La tesi fondamentale sostenuta dai fautori di un insegnamento esplicito e diretto
può essere così riassunta: più uno studente è all’inizio di una nuovo contenuto d’apprendimento, più egli deve essere guidato da vicino nel comprenderne i concetti essenziali e nello svilupparne le abilità fondamentali attraverso una pratica sistematica
controllata. A mano a mano che egli riesce ad acquisirne in maniera valida e significativa gli elementi fondamentali e a conservarli ben strutturati nelle sua memoria
lungo termine, più diventa capace di approfondire l’argomento attraverso forme di
ricerca personale e di gruppo e in sempre più accentuata autonomia.
6. Per un quadro di riferimento operativo
Come precedentemente chiarito, l’approccio costruttivista ha una sua chiara denotazione positiva quando si riferisce ai processi di apprendimento interni al soggetto, mentre non appare sempre adeguato quando insiste su forme organizzative
esterne degli stessi processi: spesso, infatti, all’attivismo esterno non corrisponde
l’attività interna del soggetto. Come già osservato, l’appoggiarsi sulla tradizione
vygotskyana senza tener conto dell’attività interna del soggetto è un segno di infedeltà alle sue idee: quasi che automaticamente e in maniera deterministica quanto sollecitato dall’esterno si traduca in processi interni. A me sembra utile fornire
una specie di bussola di orientamento alla progettazione di attività didattiche tenendo conto di una osservazione di D. Jonassen (2009)5. Egli insisteva sul fatto
che non tutti i contenuti e gli obiettivi d’apprendimento sono uguali e di conseguenza anche i processi di apprendimento e di insegnamento debbono articolarsi.
5
Probabilmente questo è stato una dei suoi ultimi interventi, essendo venuto prematuramente a mancare dopo due anni di malattia il 2 dicembre 2012.
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Ciò porta a valorizzare quanto E. Eisner nel 1985 aveva indicato come aree di progettazione didattica di natura differente, che implicano anche la considerazione
di obiettivi di apprendimento diversificati e metodi didattici congruenti (Eisner,
1985; Pellerey, 1994, pp. 60-63).
La prima area concerne concetti e abilità che nella scolarità primaria e secondaria sono considerati come fondamentali e irrinunciabili; non solo, essi si presentano come strumentali rispetto ad altri apprendimenti e sono caratterizzati, o
caratterizzabili, da una organizzazione sequenziale interna. Cioè si tratta di conoscenze e competenze che costituiscono come il nucleo centrale dell’apprendimento
scolastico con il quale dobbiamo a tutti i costi confrontarci e che si presentano come
altamente concatenate tra loro. La seconda area riguarda un insieme di aperture
culturali e di competenze che non si presentano così strutturate e sequenziali, ma
costituiscono una base conoscitiva fondamentale per collocare i giovani nel contesto
culturale del proprio paese e più in generale dell’Europa e del mondo intero. Questi
apporti allargano, approfondiscono e danno senso alla prima area, costituendo spesso come il campo nel quale esercitarne le abilità fondamentali e nel quale usarne i
concetti. La terza area è costituita da attività di arricchimento di natura più espressiva: ambiti di lavoro che offrono spazi di libera esplorazione, di gioia di esprimersi,
di manifestazione spontanea dei propri sentimenti e dei propri interessi, di partecipazione a progetti vissuti come propri o di iniziative personali. Spesso una stessa
disciplina può essere presente in tutte e tre le aree e, a seconda delle sue componenti,
esige metodologie didattiche e processi di apprendimento coerenti.
Inoltre occorre tener conto della diversità dei processi cognitivi quali possono
esser messi in atto da parte dei singoli studenti. Alcuni manifestano notevoli lentezze e difficoltà di elaborazione e organizzazione mentale, mentre altri sono più
rapidi e capaci non solo di capire, ma anche di collegare le nuove conoscenze con
quelle già possedute. Nell’attività di apprendimento, poi, alcuni sono più pronti a
collaborare con gli altri, mentre altri sono più restii a lavorare in maniera cooperativa. Certo, in quest’ultimo caso occorre favorire la disponibilità a lavorare in
gruppo, ma ai fini dei risultati da ottenere nell’immediato occorre tener conto
dello stato di preparazione già raggiunto da ciascuno, non solo sul piano delle conoscenze e delle abilità già fatte proprie.
Da queste osservazioni deriva la possibilità di costruire un riferimento a due
assi (Fig. 1). Il primo asse riguarda le esigenze del contenuto da apprendere, facendo però riferimento a quanto già acquisito o meno stabilmente da parte degli
studenti come base portante per una sua acquisizione, cioè alla disponibilità o meno di conoscenze di appoggio o di ancoraggio al fine di coglierne gli elementi essenziali. Il secondo asse concerne le caratteristiche degli studenti dal punto di vista
della loro capacità di attivare e gestire i processi di apprendimento necessari per
padroneggiare i contenuti proposti in maniera più o meno lenta e difficoltosa oppure veloce e agevole. Gli assi debbono quindi essere considerati come graduati
da un minimo a massimo. Normalmente gran parte degli studenti possono essere
collocati dal punto di vista della facilità e velocità nell’apprendere in posizioni intermedie. La stessa cosa non sempre è vera per i contenuti. Come sopra si è cercato
di chiarire, alcuni permettono forme più esplorative e quindi modalità di insegnamento meno dirette, esplicite e strutturate; altri esigono una organizzazione sequenziale più attenta e interventi didattici più espliciti, diretti e progressivi.
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Massima complessità e sequenzialità dei contenuti da apprendere
Grande lentezza
e difficoltà
nell’apprendere
II
I
III
IV
Grande
velocità e facilità
di apprendimento
Minima complessità e sequenzialità dei contenuti da apprendere
Fig. 1 Quadro di riferimento progettuale
!
Nel primo quadrante, in alto a destra, si potrà procedere secondo quanto suggerito da Rosenshine, ma dando progressivamente maggiore autonomia e responsabilità ai singoli e favorendo forme di collaborazione per approfondire e applicare
quanto acquisito. Mentre in alto a sinistra, nel secondo quadrante, occorrerà seguire più da vicino e sistematicamente i singoli studenti, sostenendoli, correggendoli e adattando frequentemente quanto proposto al livello di acquisizione
raggiunto. Molte delle abilità che si ritengono essenziali per soggetti con disturbi
specifici di apprendimento possono essere considerate come riferimento al limite
per questo quadrante. I due quadranti inferiori permettono una minore strutturazione del percorso e una meno diretta ed esplicita azione didattica, inserendo
attività di ricerca, di produzione collettiva, di lavoro di gruppo, ecc. Ma se ciò può
essere un canone di riferimento per i soggetti più veloci e pronti nell’apprendere,
per gli altri spesso si tratterà solo di attività occasionali, miranti più che ad apprendimenti disciplinari, allo sviluppo di dimensioni educative più generali.
Conclusione
Da queste brevi osservazioni viene rafforzata l’importanza di una delle competenze
fondamentali del docenti: quella di progettatore di percorsi di apprendimento che
mediano tra le esigenze poste da un’acquisizione significativa, stabile fruibile di
conoscenze e abilità disciplinari e interdisciplinari e le caratteristiche peculiari degli studenti con cui deve interagire. Uno studio di Diana Laurillard (2012)6 ha
messo bene in luce l’importanza strategica di tale competenza, in particolare oggi,
a causa delle esigenze poste da una integrazione valida ed efficace della tecnologie
informatiche, soprattutto di natura mobile (tablet e smartphone). In questa attività
progettuale occorre adottare una maniera di procedere che si ispira a quella che
studi recenti definiscono “ragionevole” e che da alcuni viene riletta nella prospet-
6
La Laurillard ricorda come anche nell’ambito della ricerca didattica occorra tener conto
della complessità e fluidità delle situazioni concrete e la necessità di considerare metodologie di indagine che ne tangano conto. A questo proposito si può leggere: M.Pellerey
(2005).
studi
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tiva della saggezza pratica quale fu già definita da Aristotele. La distinzione tra ragione e ragionevolezza è stata sollecitata da J. Rawls per evidenziare come l’impatto
delle proprie ragioni ideali con la realtà delle ragioni degli altri e le situazioni di
fatto implica la ricerca di mediazioni operative che raggiungano il massimo possibile di consenso e di efficacia. Nel caso dei processi didattici da mettere in atto
ci si trova a dover mediare tra teorie dell’apprendimento provenienti da studi di
natura cognitiva o socio-cognitiva, teorie dello sviluppo delle conoscenza di natura
epistemologica e situazioni reali che spesso resistono a ogni forma di deduzionismo e sollecitano un’attività di riflessione progettuale, o anche di continua riprogettazione. Accettare i condizionamenti che provengono dalla realtà non è sempre
agevole, né gratificante. Ma è anche deleterio rimanere prigionieri di situazioni
difficili, che vengono considerate senza speranza. In questa complesso bilanciamento tra idealità e realtà si evidenzia la qualità personale di chi ha sviluppato la
capacità di prendere decisioni prudenti e responsabili attraverso un diuturno esercizio (Pellerey, 2014).
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