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Considerazioni sulla riforma costituzionale in
24 DICEMBRE 2014
Considerazioni sulla riforma
costituzionale in progress,
tra Governo, Senato e
Camera dei deputati
di Simone Pajno
Professore straordinario di Diritto costituzionale
Università di Sassari
Considerazioni sulla riforma
costituzionale in progress, tra Governo,
Senato e Camera dei deputati
di Simone Pajno
Professore straordinario di Diritto costituzionale
Università di Sassari
Sommario: 1. Premessa: lo studio di una riforma in progress – 2. La Relazione di accompagnamento al ddl
costituzionale presentato dal Governo – 2.1. La diagnosi – 2.2. Le affermazioni di principio e gli obiettivi
generali dell’intervento – 2.3. Le soluzioni – 3. Il testo di riforma costituzionale – 3.1. La composizione
del Senato – 3.2. Il ruolo del Senato nel procedimento legislativo – 3.2.1. I diversi procedimenti legislativi
– 3.2.2. La legislazione paritaria tra Camera e Senato – 3.2.3. La legislazione a prevalenza della Camera –
3.2.4. La legge di conversione del decreto legge e la legge di approvazione del bilancio preventivo e del
rendiconto consuntivo – 3.3. Il nuovo volto del riparto della funzione legislativa: la eliminazione della
competenza, concorrente, la individuazione di titoli espliciti di competenza regionale, le “clausole di
colegislazione” e la “clausola di supremazia” – 3.4. Le funzioni amministrative e il riassetto dell’area vasta
– 4. Una valutazione di sintesi: le competenze legislative – 4.1. Premessa – 4.2. Il riparto delle materie –
4.3. La sostituzione della competenza concorrente con altre clausole di colegislazione – 4.4. In
particolare, a proposito delle “disposizioni generali e comuni” – 4.5. La clausola di supremazia, il
recupero dell’interesse nazionale e la sorte della sussidiarietà legislativa – 5. Segue: il ruolo del Senato –
5.1. Premessa – 5.2. L’intervento nel procedimento legislativo – 5.3. Il legame con le istituzioni regionali
– 5.4. Le norme sulla rappresentanza e sul libero mandato – 6. Segue: la configurazione della Regione
come ente amministrativo e la damnatio memoriae della Provincia – 7. Cosa manca? – 8. Alcune
considerazioni conclusive.
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Il presente saggio sviluppa, aggiornandolo, approfondendolo e corredandolo di note, il testo della relazione presentata al
seminario svoltosi presso il Departament de Dret Constitucional i Ciència Política dell’Universitat de Barcelona il giorno 2 ottobre 2014,
e organizzato dal Grupo de Estudios sobre Democracia y Constitucionalismo (GEDECO), proyecto MEC DER 2012-37567.
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1. Premessa: lo studio di una riforma in progress
In questo scritto si propone una prima riflessione sulla riforma costituzionale attualmente in discussione.
L’intento è quello di dar conto di un lavoro in progress, che si sviluppa per mezzo del ruolo giocato nel
relativo procedimento dalle istituzioni fin qui coinvolte, ossia il Governo proponente, il Senato e la
Camera dei deputati. Con ciò si spera non solo di contribuire al dibattito sulle riforme mentre è ancora in
corso, ma anche di provare ad illustrare la direzione nella quale spingono le posizioni assunte da ciascuno
degli attori nelle dinamiche del processo in itinere.
In questa analisi si farà ovviamente riferimento, innanzi tutto, al documento più recente, ossia il testo
esitato lo scorso 13 dicembre dalla Commissione Affari costituzionali della Camera dei deputati. Si terrà
conto, tuttavia, anche del testo approvato dal Senato in agosto e di quello originariamente presentato dal
Governo in data 8 aprile 2014 1 , nonché delle dichiarazioni contenute nella relativa Relazione di
accompagnamento. Non è infatti di scarso interesse prendere in considerazione le finalità della riforma,
almeno come vengono esplicitate dai suoi proponenti, non solo quale ausilio interpretativo nella lettura
di alcuni punti nevralgici di quest’ultimo, ma anche per valutare la rappresentazione che del proprio
intervento riformatore il Governo ritiene di proporre all’esterno, nonché la effettiva coerenza del
secondo rispetto alla prima.
A questo ultimo riguardo, anticipando sinteticamente una conclusione che più avanti si tenterà di
sostenere con adeguati argomenti, è possibile dire che il testo proposto dal Governo sembrava
notevolmente distonico rispetto alle finalità ed ai principi ispiratori della riforma, almeno così come
solennemente enunciati nella Relazione di accompagnamento. In particolare, alla manifestazione dell’intento di
valorizzazione e approfondimento dell’autonomia – pur in un contesto di complessiva riorganizzazione
dell’assetto delle relazioni tra Stato ed altri enti territoriali – nonché alla dichiarata finalità di ottenere un
maggior grado di condivisione sistemica delle politiche pubbliche, individuando anche spazi di autentica
codecisione tra centro e periferie, faceva da contraltare un testo che a malapena nascondeva una forte
recrudescenza centralista, tale in definitiva da rappresentare – con la significativa eccezione della “riforma
tentata” del 2005 – una assoluta novità nella storia costituzionale dell’ordinamento repubblicano, che è
stata invece a lungo caratterizzata da una progressiva valorizzazione delle ragioni dell’autonomia
territoriale e della collaborazione tra i livelli di governo2, almeno fino al deflagrare della crisi economica
nei tempi recenti3.
Reperibile su www.federalismi.it, n. 8/2014.
Con ciò non si intende certo sostenere che le scelte compiute a livello legislativo si siano orientate sempre nel senso della
progressiva valorizzazione delle autonomie territoriali. Pare difficile negare però che, nel complesso, questa sia stata la linea di
tendenza, almeno a partire dal 1970 e dall’avvio dell’esperienza del regionalismo italiano, passando per i tre “grandi
trasferimenti” di funzioni del 1972, del 1977 e del 1998, fino a giungere alla legge cost. n. 3 del 2001. La “storia costituzionale”
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Solo le modifiche apportate dal Senato al testo proposto dal Governo – peraltro non osteggiate da
quest’ultimo 4 – hanno ridotto, anche se non eliminato, la stridente dissonanza con la Relazione di
accompagnamento al ddl, mentre il recente esame in Commissione a Montecitorio ha sostanzialmente
confermato l’articolato proveniente da Palazzo Madama, limitandosi a migliorarlo in alcuni punti
specifici. Per chi ritiene che anche oggi, sotto il vento battente della crisi economica, perdurino ragioni
per valorizzare le autonomie territoriali nel nostro sistema istituzionale, ed anzi, come dice la Relazione,
per inserirle stabilmente nelle sedi in cui si elaborano le scelte politiche nazionali, gli interventi operati dal
Senato sul testo governativo sono dunque da ritenere senz’altro positivi. Come si proverà a mostrare,
però, non certo sufficienti.
Un’ultima precisazione appare opportuna prima di entrare in medias res. Gli importanti interventi che la
riforma intende realizzare nel sistema istituzionale italiano sono volti ad operare soprattutto su tre
differenti fronti: a) la composizione del Senato; b) le funzioni del Senato, in particolare nei procedimenti
legislativi; c) il sistema di riparto delle funzioni legislative tra Stato e Regioni. Per quanto ciascuno di
questi ambiti possa essere sottoposto ad analisi singolarmente, cercando di mettere in luce le novità che il
ddl costituzionale è volto ad introdurre e le loro possibili implicazioni sugli specifici settori di volta in
volta interessati, appare piuttosto evidente che una valutazione degli effetti che la riforma in itinere appare
destinata ad avere sul nostro sistema delle autonomie territoriali può derivare soltanto da una valutazione
complessiva e congiunta dei tre “pilastri” sopra accennati.
successiva a tale riforma, come è noto, ha invece visto protagonista soprattutto la Corte costituzionale, che ha cercato nella
sua giurisprudenza di razionalizzarne il disegno, in coerenza con le linee di maggior valorizzazione delle ragioni dell’autonomia
rispetto all’assetto costituzionale precedente in esso contenute. Ciò a fronte, però, di un legislatore statale che è apparso sin da
subito molto restio a prendere atto della “svolta autonomistica” del 2001, che ha sovente proseguito i percorsi della propria
attività normativa come se nulla fosse cambiato, e che – ad ogni modo – si è ben guardato dal “prendere sul serio” il “nuovo”
testo costituzionale predisponendo le necessarie leggi di attuazione, fatta salva qualche significativa eccezione (sul tema della
vistosa inattuazione del Titolo V della Costituzione così come riformato dalla legge cost. n. 3 del 2001, cfr. per tutti U. De
Siervo, Il regionalismo italiano fra i limiti della riforma del Titolo V e la sua mancata attuazione, in www.issirfa.cnr.it (luglio 2007), nonché
Id., Intervento conclusivo, in S. Mangiameli, Il regionalismo italiano tra giurisprudenza costituzionale e involuzioni legislative dopo la revisione del
Titolo V, Milano, Giuffré, 2014, 215 ss., part. 220 ss.).
3 Negli ultimi anni, infatti, dinanzi alle vistose tendenze centralistiche che hanno caratterizzato la legislazione statale nel
tentativo di far fronte alla crisi economica, anche la Corte costituzionale sembra aver issato bandiera bianca, avallando con la
propria giurisprudenza molteplici “percorsi di ricentralizzazione” (così M. Belletti, Percorsi di ricentralizzazione del regionalismo
italiano nella giurisprudenza costituzionale. Tra tutela di valori fondamentali, esigenze strategiche e di coordinamento della finanza pubblica,
Roma, Aracne, 2012). Per la lettura appena accennata delle vicende istituzionali italiani attinenti al tema delle autonomie
territoriali cfr. ad es. M. Cecchetti, Corte costituzionale e unità/indivisibilità della Repubblica, in R. Balduzzi, J. Luther (a cura di), Dal
federalismo devolutivo alla spendig review. Annuario DRASD 2012, Milano, Giuffré, 2013, 117 ss. Uno studio approfondito e
analitico della evoluzione della giurisprudenza costituzionale in senso sempre più espansivo per le possibilità della legge statale
di limitare gli ambiti di autonomia regionale, nello specifico ma importantissimo campo del coordinamento della finanza
pubblica, è adesso reperibile in G. Rivosecchi, Il coordinamento della finanza pubblica: dall‟attuazione del Titolo V alla deroga al riparto
costituzionale delle competenze?, in S. Mangiameli (a cura di), Il regionalismo italiano tra giurisprudenza costituzionale e involuzioni legislative
dopo la revisione del Titolo V, cit., 147 ss., part. 169 ss.
4 Ci si riferisce, in particolare, alle modifiche introdotte all’art. 70 ampliative della sfera materiale attribuita alla legislazione
paritaria di Camera e Senato. Si veda al riguardo l’emendamento 8.1000, approvato in Commissione con il parere favorevole
del rappresentante del Governo nella seduta pomeridiana del 2 luglio scorso. Sul punto si rinvia comunque al par. 3.2.2.
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2. La Relazione di accompagnamento al ddl costituzionale presentato dal Governo
2.1. La diagnosi
La Relazione di accompagnamento al ddl Renzi-Boschi propone una diagnosi condivisibile – e del resto molto
diffusa – dei mali che affliggono il sistema di governo italiano. In un contesto, nazionale e internazionale,
che sempre di più richiede alle istituzioni repubblicane l’efficienza delle decisioni, la capacità di governare
in tempi rapidi sistemi complessi e di adottare celermente provvedimenti in grado di far fronte alle sfide
della contemporaneità, il nostro ordinamento risulta afflitto da una grave patologia che lo conduce allo
stallo decisionale, i cui sintomi più gravi sono costituiti dalla «cronica debolezza degli esecutivi
nell’attuazione del programma di governo»; dalla «lentezza» e dalla «farraginosità dei procedimenti
legislativi»; dal «ricorso eccessivo (…) alla decretazione d’urgenza», aggravata per di più dalla «prassi della
questione di fiducia su maxiemendamenti»; dalla «alterazione della gerarchia delle fonti del diritto» e dalla
«crescente entropia normativa», dalla «difficoltà di attuare una legislazione statale alluvionale e troppo
spesso instabile e confusa»; infine, dalla «altissima conflittualità tra i diversi livelli di governo»5.
Dalla Relazione, inoltre, traspare piuttosto chiaramente che – con specifico riguardo ai rapporti tra Stato
ed enti territoriali, ed in particolare tra Stato e Regioni – la responsabilità del sostanziale fallimento della
riforma del 2001, e della altissima conflittualità che caratterizza tali relazioni, è addebitata soprattutto alle
seguenti ragioni.
I. Innanzi tutto, alla «perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in
generale, dei procedimenti legislativi»6 tale da consentire la partecipazioni degli enti territoriali substatali a
questi ultimi.
II. In secondo luogo, ad alcuni “errori strategici” che sarebbero stati commessi nella redazione della legge
cost. n. 3 del 2001, ossia: IIa) la riproposizione della competenza legislativa concorrente, fonte di gravi
incertezze legate alla difficoltà di distinguere i principi dalle norme di dettaglio; IIb) la eccessiva rigidità
del riparto legislativo imperniato sul criterio materiale; IIc) la non accorta collocazione di alcuni ambiti
materiali negli elenchi dell’art. 117 Cost., causa anch’essa di incertezze e sovrapposizioni, nonché della
conseguente conflittualità; IId) un certo sbilanciamento dell’impianto complessivo della riforma in
Non è difficile individuare nei lavori del Gruppo degli esperti per le riforme costituzionali, nominato dal Presidente del Consiglio dei
ministri nel giugno del 2013, una fonte di ispirazione particolarmente qualificata delle analisi proposte dal Governo. Si veda al
riguardo soprattutto la Relazione finale presentata dal Gruppo degli esperti al Presidente del Consiglio e datata 17 settembre 2013.
Sulla Relazione finale si vedano i lavori raccolti in A. Cardone (a cura di), Le proposte di riforma della Costituzione, Napoli, Esi, 2014.
6 Si utilizzano in questa sede ormai ben note parole che la sent. n. 6 del 2004 dedica alla inattuazione dell’art. 11 della legge
cost. n. 3 del 2001, al par. 7 del Considerato in diritto. Il principio stabilito da questo noto passo della giurisprudenza
costituzionale appare particolarmente rilevante in questa sede, al fine di valutare l’impatto delle modifiche approvate in Senato
sul sistema costituzionale ad oggi vigente, come risulta a seguito degli interventi pretori della Corte costituzionale, con
particolare riguardo all’istituto della c.d. “sussidiarietà legislativa” ed alle pratiche collaborative cui esso rimanda. Sul punto si
rinvia, ad ogni modo, a quanto si osserverà infra, al par. 4.4.
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generale, ed in particolare di alcune clausole concernenti il riparto della funzione legislativa, in favore
delle ragioni delle autonomie, tale da non aver consentito allo Stato di intervenire con tempestività ed
efficacia in «ambiti essenziali», ed in particolare in quelli connessi allo «sviluppo economico».
2.2. Le affermazioni di principio e gli obiettivi generali dell’intervento
Così come non è difficile concordare con la generica illustrazione dei mali che affliggono le istituzioni
italiane, allo stesso modo per la Relazione è agevole strappare un consenso sugli obiettivi generali che
l’intervento riformatore dovrebbe porsi per curare questi mali. Da una parte, infatti, sarebbe necessario
«rafforzare l’efficienza dei processi decisionali e di attuazione delle politiche pubbliche nelle quali si
sostanzia l’indirizzo politico», al fine di favorire la necessaria «rapidità e incisività delle decisioni»;
dall’altra, invece, bisognerebbe riorganizzare le relazioni tra i diversi livelli di governo «definendo un
sistema incentrato su un nuovo modello di interlocuzione e di più intensa collaborazione interistituzionale e, in alcuni ambiti, di codecisione tra gli enti che compongono la Repubblica», in modo tale
da «favorire il protagonismo dei territori nella composizione dell’interesse generale e la compiuta
espressione del loro ruolo nel sistema istituzionale».
In sintesi, la riforma costituzionale in itinere intenderebbe ricercare «un nuovo equilibrio tra l’unità e la
indivisibilità della Repubblica, e l’esigenza di salvaguardare e promuovere le sfere di autonomia delle
Regioni e degli enti locali», nella dichiarata consapevolezza «che l’autonomia degli enti diversi dallo Stato
costituisca un insostituibile elemento di arricchimento del sistema istituzionale». Per questa ragione,
l’intervento riformatore, «lungi dal voler comprimere gli spazi di autonomia degli enti territoriali, intende
invece (…) valorizzare, declinandolo in modo nuovo, il pluralismo istituzionale e il principio
autonomistico, con l’obiettivo ultimo di incrementare complessivamente il tasso di democraticità del
nostro ordinamento».
Sul punto conviene soffermarsi un attimo. Si intende “incrementare il tasso di democraticità”
dell’ordinamento. Come si sa, tuttavia, quello di “democrazia” è annoverabile tra gli essentially contested
concepts, ossia nozioni che, pur avendo una comune base concettuale, sono caratterizzate da
interpretazioni e valutazioni che le declinano in modo diverso, senza che sia possibile sbarazzarsi
sbrigativamente di tali differenti interpretazioni7. Ebbene, qual è la concezione del concetto8 di democrazia
fatta propria dalla Relazione, almeno con specifico riferimento alla articolazione territoriale del potere
Così V. Villa, Conoscenza giuridica e concetto di diritto positivo. Lezioni di filosofia del diritto, Torino, Giappichelli, 1993, 12. La
formula “essentially contested concepts” si deve, come è noto, a W.B. Gallie, Essentially Contested Concepts, in Proceedings of the
Aristotelian Society, vol. LVI (1955-1956), 167 ss.
8 La distinzione tra concetto e concezioni è ormai classica. Cfr., ad es., J. Rawls, Una teoria della giustizia, trad. it. Milano, Feltrinelli,
1991, 23 ss.; R. Dworkin, Law‟s Empire, London, Fontana, 90 ss.
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pubblico? La risposta la troviamo qualche riga più sotto rispetto al passaggio appena citato: per il
Governo «quanto più il potere è prossimo ai cittadini, tanto più è elevata la qualità della vita democratica
e la capacità delle istituzioni di soddisfare i diritti civili e sociali ad essi riconosciuti, secondo il principio
della sussidiarietà verticale». Come si vede, i riformatori di oggi affermano di porsi in sintonia con i
riformatori di ieri – ossia quelli del 2001, e, ancor prima quelli del c.d. “federalismo amministrativo” degli
anni ’90 – rivendicando una linea di continuità rispetto a costoro sotto il segno del principio di
sussidiarietà, e della peculiare concezione del principio democratico ad esso connessa, secondo la quale le
virtù democratiche delle decisioni adottate da un livello di governo meno comprensivo sono
tendenzialmente maggiori di quelle delle decisioni adottate da un livello più comprensivo, per la ragione,
brutalmente numerica, secondo la quale il peso esercitato da ciascun cittadino nell’ambito delle procedure
democratiche di deliberazione pubblica è maggiore ove esse si svolgano in ambiti ristretti rispetto
all’eventualità in cui si svolgano in ambiti più ampi.
All’enfasi posta sul principio di sussidiarietà, inoltre, si accompagna, comprensibilmente, l’importanza
connessa alla collaborazione tra gli enti territoriali. Le esplicazioni del principio autonomistico, infatti,
devono essere collocate all’interno di «un quadro di cooperazione inter-istituzionale e di composizione
delle istanze dei territori nell’interesse generale del paese». A questo riguardo, anzi, tra gli obiettivi che la
riforma costituzionale proposta dal Governo intende perseguire, troviamo citato esplicitamente quello di
evitare la riproposizione di quelle «logiche di contrapposizione tra centro e periferia» che a lungo hanno
caratterizzato il nostro sistema istituzionale.
Si vedrà più avanti se e in che misura l’articolato oggi in discussione, nelle sue diverse versioni, sia
coerente con i principi generali e gli obiettivi appena richiamati. Come si proverà a mostrare, le ragioni
per dubitare di tale coerenza sono particolarmente robuste, soprattutto in considerazione della previsione
di una “clausola di supremazia” attivabile in ragione dell’interesse nazionale, che – in radicale
contrapposizione alla logica della sussidiarietà – implica la strutturale preminenza dell’indirizzo politico
centrale rispetto a quello che si produce a livello regionale, nonché del ruolo davvero marginale che la
rappresentanza territoriale, tramite il Senato, è in grado di svolgere in occasione della utilizzazione di tale
strumento9. Prima, però, conviene gettare uno sguardo a quelle che sono, in linea generale, le soluzioni
immaginate dalla Relazione governativa per dar corpo alle premesse sin qui illustrate.
Come la Corte costituzionale ha lucidamente posto in evidenza sin dalla ben nota sent. n. 303 del 2003, infatti, le logiche del
principio di sussidiarietà sono radicalmente incompatibili con l’idea secondo la quale le istituzioni della rappresentanza politica
nazionale possano riplasmare a loro favore il riparto di competenze tramite la mera «allegazione» di un supposto “interesse
nazionale”: ragione questa che ha portato la decisione citata ad escludere con decisione che tale clausola possa rappresentare
un limite, di merito o di legittimità, per le leggi regionali nel vigente sistema costituzionale (par. 2.2 del Considerato in diritto; tale
conclusione è stata poi più volte ribadita dalla giurisprudenza costituzionale: tra le altre si veda, ad es., la sent. n. 278 del 2010).
Ben altra invece sarebbe la situazione ove la stessa valutazione circa la sussistenza o meno di un interesse nazionale che
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2.3. Le soluzioni
Sul versante organizzativo, come è noto, il cuore dell’intervento di riforma è l’abbandono del
bicameralismo perfetto, la trasformazione del Senato in “camera delle autonomie” e la sua esclusione dal
circuito fiduciario. Come si sa, la modificazione della composizione e delle funzioni del Senato è un vero
e proprio leitmotiv della “storia infinita” delle riforme costituzionali in Italia10. E probabilmente gli unici
che dissentirebbero da una simile trasformazione sono coloro – non pochissimi, per la verità, negli ultimi
tempi – che propendono per un assetto monocamerale delle nostre istituzioni parlamentari11. Si può però
affermare con una certa serenità che se siamo d’accordo (solo) sulla necessità di trasformare il Senato in
“camera delle autonomie” siamo d’accordo davvero su poco, poiché i modi in cui questo progetto può
prendere forma sono talmente tanti e tanto differenziati tra loro da aprire a scenari anche radicalmente
diversi l’uno dall’altro12.
La scelta di fondo che il Governo ritiene debba essere compiuta circa la composizione del Senato è quella
di rinunciare alla elezione diretta, in favore di strumenti di designazione indiretta tramite le istituzioni
territoriali. Si tratta di una strada che è stata fortemente osteggiata, anche da una parte dello stesso partito
cui appartiene il Presidente del Consiglio. Tuttavia, come si vedrà più avanti, ha buone ragioni a proprio
sostegno, anche se il concreto modo in cui tale disegno ha preso corpo nel testo esitato in prima lettura,
sia dal punto di vista organizzativo che da quello funzionale, rischia di disperdere le virtù di cui tale
modello è potenzialmente portatore.
Quanto alla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, l’idea che la Relazione pare
suggerire è quella di un trade-off tra competenze e partecipazione. Il «presupposto fondamentale» alla base
della riforma sarebbe infatti «l’integrazione delle Autonomie territoriali nelle politiche legislative, resa
possibile dalla nuova composizione del Senato e (…) dalla nuova disciplina costituzionale del
procedimento legislativo»: vale a dire, l’incremento della partecipazione delle autonomie territoriali nella
richiede una regolazione unitaria a livello statale fosse oggetto di una valutazione collaborativa, dialogica, con le istituzioni della
rappresentanza politica regionale, coerentemente, del resto, con spunti ancora una volta reperibili proprio nella sent. n. 303 del
2003 (cfr. in part. i parr. 2.2 e 4.1 del Considerato in diritto). Solo calibrando adeguatamente composizione e ruolo del Senato
nella “attivazione” della clausola dell’interesse nazionale, dunque, questa ipotesi può essere resa compatibile con l’ispirazione
autonomista manifestata nella Relazione di accompagnamento al disegno di legge costituzionale e con le logiche del principio di
sussidiarietà evocate nella medesima.
10 M. Olivetti, Il referendum costituzionale del 2006 e la storia infinita (e incompiuta) delle riforme costituzionali in Italia, in Cuestiones
Constitucionales. Revista Mexicana de Derecho Constitucional, 2008, 107 ss.
11 I. Ruggiu, Contro la camera delle Regioni. Istituzioni e prassi della rappresentanza territoriale, Napoli, Jovene, 2006; R. Bin, I. Ruggiu,
La rappresentanza territoriale in Italia. Una proposta di riforma del sistema delle conferenze, passando per il definitivo abbandono del modello
Camera delle Regioni, in Le istituzioni del federalismo, 2006, 903 ss.; P. Ciarlo, G. Pitruzzella, Monocameralismo: unificare le due camere in
un unico Parlamento della Repubblica, in AIC-Osservatorio, 2013; G. Azzariti, Riforma del Senato. Questioni di metodo e di merito, in
www.astrid-online.it. In senso contrario, efficacemente, si veda di recente ad es. M. Luciani, La riforma del bicameralismo, oggi, in
RivistaAIC, n. 2/2014, 5-6.
12 Una sintetica ma efficace illustrazioni delle diverse opzioni ipoteticamente percorribili sul punto è reperibile nella Relazione
finale del Gruppo degli esperti per le riforme costituzionali, cit., 9.
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adozione delle decisioni politiche adottate al centro. Si vorrebbe dunque finalmente dar seguito a quella
“promessa”13 contenuta nell’art. 11 della legge cost. n. 3 del 2001. A questo si affianca però un’ampia
revisione e razionalizzazione delle competenze legislative che intende rimuovere le incertezze e gli eccessi
di conflittualità, ricalibrando, nel complesso, in favore dello Stato l’equilibrio ad oggi incorporato dalle
vigenti disposizioni costituzionali.
L’idea di perseguire una maggiore funzionalità del sistema senza rinunciare ad un ruolo significativo delle
autonomia territoriali tramite una sorta di trade-off tra competenze e partecipazione è tutt’altro che
peregrina. Il modello più noto, e più riuscito, può infatti probabilmente essere reperito nel dinamiche del
“compensatory federalism” di matrice tedesca14. Come si proverà a mostrare in quanto segue, tuttavia, sia le
disposizioni proposte dal Governo che quelle approvate dall’Assemblea di Palazzo Madama, ove
entrassero in vigore, comporterebbero un forte arretramento delle competenze legislative regionali a
beneficio di quelle statali, almeno rispetto all’immagine che di esse si ha leggendo il testo costituzionale
oggi vigente 15 . Stando così le cose, appare evidente che il buon esito del progetto più sopra
sommariamente descritto – ossia l’idea di determinare, nonostante il “dimagrimento” delle competenze
regionali, l’effetto di «valorizzare (…) il pluralismo istituzionale e il principio autonomistico, con
l’obiettivo ultimo di incrementare complessivamente il tasso di democraticità del nostro ordinamento» –
dipende soprattutto dalla idoneità dell’assetto organizzativo del Senato, nonché dallo stock di funzioni che
al medesimo vengono riconosciute, di realizzare una autentica ed efficace partecipazione delle istituzioni regionali
all‟esercizio della funzione legislativa statale, almeno con particolare riferimento ai settori che più interessano le
comunità regionali. Come si vedrà, però, ci sono forti dubbi che il testo di riforma costituzionale riesca in
una operazione siffatta. Vediamo perché, cominciando dall’analisi delle disposizioni concernenti la
composizione della nuova assemblea di Palazzo Madama e il nuovo Titolo V della Costituzione.
3. Il testo di riforma costituzionale
3.1. La composizione del Senato
Come si accennava più sopra – e come del resto è ben noto – la scelta di fondo, circa la composizione
del nuovo Senato, è quella della designazione indiretta dei suoi membri. Quanto alla concretizzazione di
questo disegno, però, si deve segnalare un significativo mutamento di rotta rispetto alla proposta
R. Bifulco, In attesa della seconda camera federale, in T. Groppi, M. Olivetti (a cura di), La Repubblica delle autonomie, Giappichelli,
Torino, 2001, 211 ss.
14 Cfr., ad es., M. Kotzur M., Federalism and Bicameralism - The German «Bundesrat» (Federal Council) as an Atypical Model, in J.
Luther, P. Passaglia, R. Tarchi (a cura di), A World of Second Chambers. Handbook for Constitutional Studies on Bicameralism, Milano,
Giuffrè, 2006, 257 ss.
15 Altra questione è se si possa giungere alla medesima conclusione facendo riferimento non al testo costituzionale, ma alla
prassi legislativa e alla giurisprudenza costituzionale degli ultimi anni, che, come si è già osservato, ha rimodulato in senso
decisamente centralista il riparto di competenze desumibile dal primo.
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governativa. Quest’ultima, infatti, immaginava una assemblea composta dai Presidenti delle Regioni (o
delle Province autonome), dai sindaci di Comuni capoluogo di Regione o Provincia autonoma, da 2
membri per ciascuna Regione, eletti da ciascun Consiglio regionale tra i propri componenti, nonché da 2
sindaci eletti dai loro “colleghi” della Regione di appartenenza. Ai senatori di origine “territoriale”
andavano inoltre aggiunti quelli di nomina presidenziale, nel numero massimo di (ben) 21, la cui durata in
carica era fissata in 7 anni16, nonché gli ex Presidenti della Repubblica.
Il testo esitato dalla Commissione Affari costituzionali della Camera, confermando in gran parte le
modifiche già introdotte in Senato, prevede invece che la nuova assemblea di Palazzo Madama sia
composta da 100 membri «rappresentativi delle istituzioni territoriali»17. Viene comprensibilmente abbandonata
l’idea dell’uguale composizione della delegazione di ciascuna Regione, in favore di un riparto che tenga
conto della diversa consistenza della popolazione di ognuna di essa. I 100 membri, infatti, devono essere
ripartiti tra le Regioni «in proporzione della loro popolazione, quale risulta dall‟ultimo censimento generale, sulla base
dei quozienti interi e dei più alti resti». Tale attribuzione, però, deve essere effettuata tenendo conto che alle
Province autonome di Trento e Bolzano spettano di diritto 2 senatori, e che, in ogni caso, nessuna
Regione può scendere al di sotto del medesimo numero di senatori18.
Si trattava di uno degli aspetti più criticati di quel progetto, anche se non è mancata qualche difesa, volta ad evidenziare
l’importanza di assicurare la presenza di una sorta di “élite intellettuale” all’interno delle camere. Così G. Demuro, Niente
cultura, niente riforme, in il Sole 24 Ore, 10 febbraio 2014; A. Massarenti, Senato delle competenze e del “saper fare”, in il Sole 24 Ore, 5
gennaio 2014. Per una limpida critica si veda M. Luciani, La riforma del bicameralismo, cit., 6-7.
17 Il testo approvato al Senato prevedeva invece che i senatori di “origine territoriale” fossero 95, cui si si potevano aggiungere
fino a 5 membri di nomina presidenziale. Si noti inoltre che il numero di 100 di cui si discorreva nel testo potrebbe essere solo
tendenziale, poiché l’art. 38, comma 2, del ddl prevede che «quando, in base all‟ultimo censimento generale della popolazione, il numero
dei senatori spettanti a una Regione (…) è diverso da quello risultante in base al censimento precedente», alla Regione spettano componenti
dell’assemblea «nel numero corrispondente all‟ultimo censimento», e ciò «anche in deroga» al primo comma dell’art. 57 Cost., così come
risultante dalla modifica costituzionale. La disposizione è davvero oscura, e pare frutto di un errore di redazione. Visto che la
norma generale contenuta nel nuovo testo dell’art. 57 Cost. imporrebbe di prendere in considerazione i dati dell’ultimo
censimento, per stabilire il numero di senatori di ciascuna Regione, non ha molto senso prevedere che, ove in base al censimento
precedente i risultati fossero differenti, bisognerebbe basarsi… sull’ultimo censimento! Ciò che probabilmente gli odierni
riformatori intendono è che, ove in base al penultimo censimento i senatori spettanti ad una Regione fossero maggiori di quelli
spettanti alla medesima Regione in base all’ultimo, bisognerebbe prendere in considerazione il primo anziché il secondo
numero, anche quando in tal modo si determinasse uno “sforamento” rispetto al numero complessivo di 100. Sul punto può
essere infine evidenziato che la disposizione in questa sede commentata, nonostante sia collocata tra quelle “transitorie”,
sembra esprimere piuttosto un precetto generale, applicabile ad ogni futura designazione dei membri del (nuovo) Senato.
18 Applicando tali criteri ai risultati ottenuti nell’ultimo censimento generale della popolazione si ottengono il seguente riparto
dei 100 seggi senatoriali tra le Regioni: Lombardia 15; Campania e Lazio 9; Veneto e Sicilia 8, Piemonte ed Emilia-Romagna 7;
Puglia e Toscana 6; Calabria 3; tutte le altre Regioni 2. In tema (anche se con riferimento al testo esitato dal Senato) si veda B.
Caravita, Questioni di metodo e questioni di contenuto nelle riforme costituzionali ed elettorali, in www.federalismi.it, n. 22/2014, 3, il quale
suggerisce di modificare i criteri di calcolo per ridurre la differenza di senatori tra la Regione più grande e quelle più piccole.
Deve essere segnalato un aspetto che suscita perplessità, concernente la Regione Trentino-Alto Adige. Essa, in base al tenore
testuale dei nuovi commi 2 e 3 dell’art. 57 Cost., dovrebbe essere assegnataria di un numero di senatori “propri”, calcolati in
base alla popolazione ivi residente, che si dovrebbero sommare ai senatori delle Province autonome di Trento e Bolzano: ciò
che evidentemente porterebbe ad una sovrarappresentazione dei cittadini di questa Regione del tutto immotivata. Si noti,
inoltre, che la medesima ambiguità era reperibile nel testo presentato dal Governo, nel quale la Regione TTAA pareva ricevere
un trattamento identico a quello delle altre Regioni (in quanto non differenziata da queste ultime nelle disposizioni di carattere
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Quanto alle modalità di designazione, si prevede che i Senatori vengano eletti dai Consigli regionali, con
metodo proporzionale e tra i loro componenti, fatta eccezione per un senatore per Regione che deve essere
eletto, sempre da parte del Consiglio, tra i sindaci dei Comuni del proprio territorio. Come si vede, per
effetto di tali modifiche il Presidente della Regione non sarebbe più membro necessario del Senato. La possibilità
di designarlo a tale carica dipenderà dunque dalla sua appartenenza al Consiglio. A sua volta, la possibilità
per il Presidente di appartenere al Consiglio dipenderà dalle scelte operate da ciascuna Regione in sede di
adozione del proprio statuto.
A differenza di ciò che accadeva nel testo diffuso dal Governo prima della formale presentazione19, la
riforma prova inoltre a strutturare un legame tra i senatori e le istituzioni di cui sono espressione. Il
nuovo testo dell’art. 57 prevederebbe infatti che «la durata del mandato dei senatori coincid(a) con quella degli
organi delle istituzioni territoriali nelle quali sono stati eletti»20. Vi è dunque una derivazione diretta tra la qualifica
di origine e la carica di senatore, come è confermato anche dal “nuovo” art. 66, secondo comma. In base
al testo appena approvato in Commissione, infatti, l’Assemblea di Palazzo Madama si limita a “prendere
atto” «della cessazione dalla carica elettiva regionale o locale e della conseguente decadenza da senatore».
Se lo status di senatore a vita per gli ex Presidenti della Repubblica è mantenuto sia dal Senato che dalla
Commissione della Camera, rilevanti interventi sono invece da segnalare in relazione ai senatori di
nomina presidenziale. Questi ultimi, infatti, erano stati ridotti a 5 dal Senato, mentre nel testo del 13
dicembre la relativa previsione viene “eliminata” del tutto dall’art. 57 Cost. Si noti tuttavia che Senatori
“presidenziali” continuano ad essere contemplati nel successivo art. 59, nonché nell’art. 39, comma 5,
dell’articolato di riforma, ai sensi del quale essi «non possono eccedere, in ogni caso, il numero complessivo di cinque,
tenuto conto della permanenza in carica dei senatori a vita già nominati alla data di entrata in vigore della presente legge
costituzionale»21.
generale), nonostante l’esplicita assegnazione di senatori alle due Province autonome. Per un rilievo critico su questo punto
cfr. già B. Caravita, Glosse scorrendo il testo della proposta Renzi, in www.federalismi.it, n. 8/2014, 2.
19 Cfr. il testo disponibile in www.regioni.it, n. 2457 del 13 marzo 2014.
20 La disposizione si presentava identica anche nel testo proposto dal Governo, nel cui ambito però appariva di difficile
applicazione ai membri eletti dalla assemblea dei sindaci di ciascuna Regione. Il problema, oggi, ha perso di attualità, essendo
“scomparsa” dal testo di riforma questa categoria di senatori.
21 La situazione descritta è frutto della approvazione di un emendamento (Lauricella 2.46) nella seduta del 10 dicembre volto a
sostituire nel senso accennato il testo dell’art. 57 Cost., in ragione della incoerenza della previsione di senatori di nomina
presidenziale nell’ambito di un “Senato delle autonomie”, e della bocciatura, nella successiva seduta del 13 dicembre, di un
emendamento (Dieni 3.1) volto a trarre le conseguenze necessarie da tale presupposto e ad eliminare conseguentemente la
previsione della possibilità della nomina presidenziale di senatori dall’art. 59 Cost. È evidente che in assemblea sarà necessario
tornare sul punto.
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3.2. Il ruolo del Senato nel procedimento legislativo
3.2.1. I diversi procedimenti legislativi
Come si vedrà meglio tra un attimo, il testo esitato dalla Commissione, confermando in questo sia la
proposta governativa che l’articolato approvato in Senato, immagina che la legge dello Stato possa venire
approvata principalmente tramite tre differenti procedimenti legislativi, che si differenziano
essenzialmente in ragione del ruolo che in essi è chiamato a svolgere il Senato. Si distingue infatti un
procedimento legislativo bicamerale paritario (d’ora in poi, LP), in cui il Senato continua a svolgere il
ruolo di colegislatore che oggi lo contraddistingue, da un procedimento legislativo in cui invece è
interventore solo eventuale, e nell’ambito del quale le proposte senatoriali contrastanti con le
deliberazioni della Camera sono comunque superabili da quest’ultima. A sua volta, in questa categoria
bisogna distinguere i casi in cui la posizione del Senato è superabile dalla Camera solo a maggioranza
assoluta (d’ora in poi LMA), da quelli in cui è invece sufficiente una deliberazione della Camera adottata a
maggioranza semplice (LMS).
Ai tre differenti procedimenti legislativi fin qui elencati ne deve inoltre essere aggiunto un quarto, che il
testo di riforma costituzionale individua specificamente per le leggi di cui all’art. 81, quarto comma, Cost.
In tali casi, infatti, la lettura senatoriale del progetto di legge è costituzionalmente necessaria, e le
proposte di modificazione dell’assemblea di Palazzo Madama che vertono su determinate materie e che
siano state approvate a maggioranza dei due terzi22 sono superabili dalla Camera solo con la medesima
maggioranza. Anche l’art. 77, in caso di esito positivo della riforma in itinere, prevederebbe norme di
procedura specifiche per l’approvazione della legge di conversione, disponendo (tra l’altro) termini
abbreviati per l’intervento senatoriale. Infine, merita di essere ricordata l’interessante previsione, che si
intende introdurre nell’art. 72, Cost., di una “corsia preferenziale” alla Camera dei deputati per i disegni
di legge indicati «come essenzial(i) per l‟attuazione del programma di governo».
Il quadro dei procedimenti legislativi è dunque molto complesso e articolato. Per questa ragione,
comprensibilmente, il recente esame in Commissione ha aggiunto un sesto comma all’art. 70 Cost. in
base al quale «il procedimento per l‟esame dei disegni di legge (…) è predeterminato dai presidenti delle Camere, d‟intesa
tra loro»23. Proviamo a osservare più da vicino le disposizioni in questione, con particolare riguardo al
ruolo che esse attribuiscono a ciascuna delle due camere.
Al riguardo l’esame in Commissione alla Camera ha introdotto una significativa modifica, visto che il testo approvato in
Senato prevedeva invece la maggioranza assoluta.
23 Con specifico riferimento al progetto di riforma qui in discussione, l’introduzione un meccanismo di tal genere era auspicato
da B. Caravita, Questioni di metodo e questioni di contenuto nelle riforme costituzionali ed elettorali, cit., 6. Anche la “riforma tentata” del
2005, del resto, si poneva il problema, prevedendo, in quello che sarebbe dovuto essere il nuovo art. 70, quinto comma, Cost.,
che i Presidenti delle camere, «d‟intesa fra di loro, decidono le eventuali questioni di competenza fra le due Camere in ordine all‟esercizio della
funzione legislativa», e disponendo altresì che i Presidenti avrebbero potuto «deferire la decisione ad un Comitato paritetico, composto da
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3.2.2. La legislazione paritaria tra Camera e Senato
In base al progetto governativo, la funzione legislativa sarebbe stata esercitata collettivamente dalle due
camere (LP) soltanto per le leggi costituzionali e di revisione costituzionale (art. 70 Cost.). In tutti gli altri
casi – quindi, in ogni caso, per la legislazione ordinaria – il ruolo del Senato sarebbe stato di radicale
subalternità rispetto alla Camera dei deputati. Utilizzando le categorie classiche del diritto pubblico, si
può senz’altro dire che si sarebbe limitato a fornire pareri non vincolanti a quest’ultima.
Con scelte poi in gran parte confermate in Commissione alla Camera, l’Assemblea di Palazzo Madama ha
inciso significativamente su questo assetto, portando in dote alla “legislazione paritaria” tra Camera e
Senato, ulteriori ambiti di esplicazione. Ai sensi del novellato art. 70 Cost. spetterebbero a tale
procedimento legislativo, infatti, le seguenti materie:
a) le norme di attuazione di disposizioni costituzionali in materia di tutela delle minoranze linguistiche24;
b) le norme di attuazione di disposizioni costituzionali in materia di referendum popolare;
c) le norme in materia di «ordinamento», «legislazione elettorale», «organi di governo» e sulla «individuazione delle
funzioni fondamentali» 25 di Comuni e Città metropolitane, nonché le «disposizioni di principio sulle forme
associative dei Comuni»;
d) le norme di cui all’art. 122, primo comma, Cost., ossia quelle che riguardano il sistema di elezione, i
casi di ineleggibilità e incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della giunta regionale
nonché del Consiglio, cui si affiancherebbe ora la individuazione dei relativi emolumenti;
f) la legge con cui si procede alla attuazione della previsione costituzionale dei referendum propositivi e di
indirizzo, «nonché di altre forme di consultazione, anche delle formazioni sociali» ( cfr. art. 71);
g) la legge di autorizzazione alla ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea
(art. 80 Cost.);
A questo elenco vanno inoltre aggiunte, in base ad altre disposizioni costituzionali:
quattro deputati e da quattro senatori», da loro designati per la parte di rispettiva competenza. In argomento si veda B. Caravita,
Lineamenti di diritto costituzionale federale e regionale, Giappichelli, Torino, 2009, 291.
24 Non, tuttavia, quelle concernenti la «rappresentanza in delle minoranze linguistiche», che l’art. 117, terzo comma, affiderebbe alla
competenza legislativa regionale.
25 Il riferimento alla mera «individuazione» delle funzioni fondamentali – frutto dell’esame in Commissione alla Camera –
potrebbe essere letto come l’accoglimento della tesi interpretativa dell’attuale art. 117, secondo comma, lett. p), Cost.,
anticipata in dottrina da F. Merloni, Una «new entry» tra i titoli di legittimazione di discipline statali in materie regionali: le «funzioni
fondamentali» degli enti locali, in Le Regioni, 2010, 794 ss., part. 800 ss., e fatta propria dalla Corte costituzionale nella sent. n. 22
del 2014. Secondo tale decisione, infatti, allo Stato compete «l‟individuazione delle funzioni fondamentali dei Comuni tra quelle che
vengono a comporre l‟intelaiatura essenziale dell‟ente locale, cui, però, anche storicamente, non sono estranee le funzioni che attengono ai servizi
pubblici locali; sicché l‟elencazione di cui alla norma denunciata non si discosta da siffatto criterio elettivo». Viceversa, «la disciplina di dette
funzioni è (…) nella potestà di chi – Stato o Regione – è intestatario della materia cui la funzione stessa si riferisce». Si noti tuttavia che il
riferimento alla sola «individuazione» non è stato introdotto dalla Commissione anche nell’art. 117, secondo comma, lett. p): si
tratta di un intervento che, alla luce di quanto sopra osservato, sarebbe decisamente opportuno.
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e) le modalità di attribuzione dei seggi e di elezione dei membri del Senato tra i consiglieri e i sindaci,
nonché le modalità della sostituzione dei senatori in caso di cessazione della carica elettiva regionale o
locale (art. 57)26;
h) la legge con cui si riconoscono particolari condizioni di autonomia alle Regioni ordinarie (art. 116).
Certamente, rispetto alla previsione contenuta nel disegno governativo, il peso dell’assemblea di Palazzo
Madama nella definizione dell’indirizzo politico centrale fa un balzo in avanti da non sottovalutare. Al
riguardo però si può rilevare, rinviando a dopo ulteriori approfondimenti, come in alcuni casi la maggiore
incisività del ruolo del Senato corrisponda ad una vistosa ed evidente “sottrazione” di competenze
legislative alle Regioni: così è, ad esempio, per l’ordinamento degli enti locali, per le disposizioni di
principio sulle forme associative dei Comuni e per la individuazione degli emolumenti del Presidente, dei
membri della Giunta e dei consiglieri regionali.
3.2.3. La legislazione a prevalenza della Camera
Per tutto ciò che non è compreso nell’elenco richiamato nel paragrafo precedente, la legislazione
diverrebbe invece monocamerale: l’art. 70, secondo comma, stabilisce che «le altre leggi sono approvate dalla
Camera dei deputati». Si tratta, però, di un monocameralismo solo tendenziale, perché è previsto un potere di
richiamo da parte del Senato, da esercitare entro dieci giorni. Sul punto, la regola generale è quella secondo
la quale entro i successivi trenta giorni il Senato può elaborare proposte di modificazione del testo, sulle
quali la Camera di pronuncia in via definitiva, anche a maggioranza semplice (LMS) 27 .
Solo per alcune materie, ritenute evidentemente di particolare interesse regionale, anche se oggetto
qualificato di esplicazione dell’indirizzo politico di maggioranza a livello statale, si prevede che la Camera
possa superare le modificazioni proposte dal Senato pronunciandosi, nella votazione finale, a maggioranza
assoluta dei suoi componenti (LMA).
I casi interessati da questa procedura sono i seguenti:
a) la legge per l’ordinamento di Roma capitale;
Al riguardo sarebbe importante capire se la legge possa (o debba) prevedere meccanismi di elezione tali da coinvolgere
anche le minoranze (come ad esempio la adozione di maggioranze qualificate): si tratta di un punto importante, in grado di
incidere significativamente sulle logiche di funzionamento dell’assemblea di Palazzo Madama, e che per questo meriterebbe di
essere disciplinato direttamente dalla Costituzione. In tema cfr. B. Caravita, Questioni di metodo e questioni di contenuto, cit., 6,
secondo cui sarebbe necessario che la legge elettorale del Senato “depurasse” la composizione di quest’ultimo «dall’effetto
maggioritario derivante da leggi elettorale regionali e comunali».
27 Si tratta di un meccanismo già presente nel testo proposto dal Governo. L’unica differenza di una qualche importanza è che,
in quel testo, la Camera aveva a sua volta un termine di 20 giorni per pronunciarsi sulle modifiche deliberate dal Senato. Ora
quel termine è scomparso, e francamente non se ne sente la mancanza, poiché non era affatto chiara la sua natura (perentoria
o ordinatoria), né lo erano, più in generale, gli effetti del suo trascorrere invano.
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b) le disposizioni generali e comuni in tema di governo del territorio e di sistema nazionale e
coordinamento della protezione civile;
c) l’attivazione della c.d. “clausola di supremazia”, disciplinata dall’art. 117, quarto comma, Cost., come
risultante dalla riforma;
d) la legge dello Stato per l’esercizio del potere sostitutivo ai sensi degli artt. 117, quinto comma, e 120,
secondo comma, Cost.;
e) la legge che regola l’esercizio del c.d. “potere estero” delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, nono comma,
Cost.;
f) la legge che disciplina le forme di coordinamento tra Stato e Regioni in materia di immigrazione e
rapporti tra la Repubblica e le confessioni religiose;
g) la legge che disciplina forme di intese e di coordinamento in materia di tutela dei beni culturali e
paesaggistici;
h) la legge che disciplina alcuni aspetti dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali substatali (in
particolare si tratta del fondo perequativo, degli indicatori di riferimento per il costo delle funzioni
pubbliche, delle «risorse aggiuntive» e degli «interventi speciali» di cui all’art. 119, quinto coma, Cost., nonché
del patrimonio degli enti territoriali);
i) la legge «che stabilisce le forme e i termini per l‟adempimento degli obblighi derivanti dall‟appartenenza dell‟Italia
all‟Unione europea»;
l) la legge di distacco-aggregazione dei Comuni da una Regione ad un’altra ai sensi dell’art. 132 secondo
comma, Cost.
m) la legge c.d. “organica”28 di attuazione dell’art. 81, sesto comma, Cost.
Come si può vedere, LP, LMA e LMS rappresentano tre procedimenti legislativi che incorporano, via via,
una minore importanza del Senato nella determinazione dei contenuti dai medesimi veicolati, e dunque
(in tesi) via via un sempre minore coinvolgimento delle ragioni delle autonomie. Al riguardo è possibile
notare che l’esame in Senato ha avuto un indubbio effetto sulla ripartizione delle materie tra i diversi
procedimenti legislativi: da un lato alcune materie prima attribuite alla LMA, ora risultano attribuite alla
LP (elezione del Senato; ordinamento, organi di governo, funzioni fondamentali e legislazione elettorale
di Comuni e Città metropolitane, forme associative dei Comuni, ordinamento degli enti di area vasta;
principi fondamentali sulla elezione dei consigli regionali). D’altro canto, vengono attratte dalla LMS alla
Così la definisce, ad es., N. Lupo, Il nuovo art. 81 della Costituzione e la legge “rinforzata” o “organica”, in AA.VV., Dalla crisi
economica al pareggio di bilancio: prospettive, percorsi e responsabilità, Milano, Giuffrè, 2013, 425 ss.
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LMA alcune importanti materie, come quello della legge organica di attuazione dell’art. 81 Cost. 29 e delle
leggi comunitarie. Da questo punto di vista, è possibile dire che il Senato ha difeso le ragioni
dell’autonomia nell’esaminare e modificare le proposte governative. Altro problema – in relazione al
quale però dobbiamo rinviare a dopo – è se tale difesa sia risultata in grado di determinare il
“mantenimento” delle “promesse” compiute dalla Relazione governativa su cui ci si è soffermati più sopra,
anche in considerazione del fatto che l’intervento dello scorso 13 dicembre ha invece indebolito il ruolo
della Camera alta, visto che la Commissione Affari costituzionali di Montecitorio ha previsto che il
“veto” senatoriale nei procedimenti a prevalenza della Camera debba esercitarsi necessariamente con la
maggioranza assoluta.
3.2.4. La legge di conversione del decreto legge e la legge di approvazione del bilancio
preventivo e del rendiconto consuntivo
Come si accennava, il quadro dei procedimenti legislativi previsto dal testo approvato in Senato è
ulteriormente complicato dalle previsioni concernenti la legge di conversione del decreto legge e le leggi
di cui all’art. 81, quarto comma, Cost.
Quanto alla prima, quello che potrebbe essere il nuovo testo dell’art. 77, secondo comma, Cost., prevede
che il Governo debba presentare la legge di conversione del decreto legge non più, genericamente, alle
Camere, ma «alla Camera dei deputati, anche quando la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due
Camere». Si tratta di una previsione condivisibile, visto che il ruolo del Senato nei procedimenti legislativi
è spesso solo eventuale. L’art. 77, comma sesto, disporrebbe inoltre che «l‟esame, a norma dell‟art. 70, terzo e
quarto comma, dei disegni di legge di conversione dei decreti, è disposto dal Senato della Repubblica entro trenta giorni dalla
loro presentazione alla Camera dei deputati e le proposte di modificazione possono essere deliberate entro dieci giorni dalla
data di trasmissione del testo». La finalità di questa norma è evidentemente quella di sveltire il più possibile la
procedura di approvazione della legge di conversione. E anche in questo caso pare difficile non
concordare sulla ratio che sottende30. Si noti, peraltro, che il riferimento al «terzo e quarto comma» dell’art. 70
vale a delimitare la portata della disposizione citata ai procedimenti legislativi a prevalenza della Camera:
il che è certamente da salutare con favore, visto che non avrebbe senso prevedere per alcuni settori
materiali il procedimento legislativo bicamerale paritario, e però comprimere fortemente il ruolo del
In effetti nel testo originariamente proposto dal Governo la legge rinforzata di cui all’art. 81, sesto comma, Cost., non era
inclusa nell’art. 70 tra quelle da approvare a maggioranza assoluta in caso di dissenso del Senato. Tuttavia la prima delle
disposizioni citate, sia nella versione del Governo che di quella agostana del Senato, prevederebbe comunque la regola della
approvazione a maggioranza assoluta da parte della Camera dei deputati. Da questo punto di vista si può dire che la modifica
apportata a Palazzo Madama ha sanato un difetto di coordinamento formale ma non incide sul regime giuridico dell’atto
normativo in questione.
30 Sul punto le modifiche recentemente approvate dalla Commissione affari costituzionali della Camera sono decisamente
migliorative.
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Senato quando, nelle medesime materie, si trova ad intervenire a seguito della adozione di un decreto
legge31.
Particolare previsioni sono infine dedicate ai disegni di legge in materia di bilancio di cui all’art. 81, quarto
comma, Cost. (approvazione del bilancio e del rendiconto): essi sono esaminati di default anche dal
Senato, che può deliberare proposte di modificazione entro 15 giorni dalla trasmissione. Al riguardo
l’articolato in discussione prevede inoltre che le disposizioni di cui all’art. 70, comma quarto – ossia
quelle che disciplinano la superabilità delle proposte senatoriali solo con delibera adottata a maggioranza
assoluta da parte della Camera – si applichino «nelle medesime materie e solo qualora il Senato della Repubblica
abbia deliberato a maggioranza dei due terzi»32. Come si vede, non si tratta di una formulazione che brilla per
chiarezza. La sua interpretazione più plausibile – per quanto non certo soddisfacente quanto agli esiti –
parrebbe alludere alla possibilità di bilanci e rendiconti approvati per parti diverse con subprocedimenti
diversi a seconda della materia. Il che, per documenti contabili che devono essere dotati di una loro
unitarietà e coerenza, non pare la migliore delle scelte possibili.
3.3. Il nuovo volto del riparto della funzione legislativa: la eliminazione della competenza
concorrente, la individuazione di titoli espliciti di competenza regionale, le “clausole di
colegislazione” e la “clausola di supremazia”
Il nuovo riparto della funzione legislativa tra Stato e Regioni è l’altro dato particolarmente importante di
cui si deve tener conto al fine di una valutazione “sintetica” della riforma, oltre alla composizione del
Senato e al ruolo di quest’ultimo nei diversi procedimenti legislativi. In tema, i cultori delle vicende
istituzionali della nostra Repubblica non faticheranno a ravvisare una forte assonanza delle scelte del
testo approvato ad agosto con quelle compiute dalla c.d. “riforma della riforma” nel 200333. Volendo
sintetizzare al massimo, si può dire che le novità principali sono le seguenti: la eliminazione della
competenza concorrente dal testo costituzionale 34 , salvo quella prevista dall’art. 122, primo comma,
Si noti che il testo approvato ad agosto non prevedeva la suddetta limitazione, di talché la norma citata nel testo avrebbe potuto
essere interpretata anche come riferita ai decreti legge adottati nelle materie di legislazione paritaria. Da questo punto di vista,
l’intervento della Camera è stato fino ad ora decisamente migliorativo.
32 Anche in questo caso, come in quello del paragrafo precedente, nel testo esitato dalla Commissione il 13 dicembre risulta
più difficile per il Senato esercitare il suo ruolo interdittivo, dal momento che la disposizione in questione priva richiedeva
soltanto la maggioranza assoluta.
33 Si tratta del testo approvato dal Consiglio dei ministri in data 11 aprile 2003 e reperibile al sito
http://www.riforme.net/devolution/ModificheNuovoTitoloV.htm. Sui suoi profili generali si possono vedere, tra gli altri, G.C. De
Martin, Conati di riforma della riforma (costituzionale) tra ambiguità e neocentrralismi, in Le istituzioni del federalismo, 2003, 667 ss.; R.
Tosi, Riforma della riforma, potestà ripartita, interesse nazionale, in Le Regioni, 2003, 457 ss.
34 La dottrina ha rilevato sin da subito come tale eliminazione potrebbe essere solo “apparente”, venendo riproposta in altre
vesti dal testo di riforma: così, ad es., F. Bilancia, Oltre il bicameralismo paritario. Osservazioni a margine del ddl Renzi, in
www.articolo21.org; B. Caravita, Glosse scorrendo il testo della proposta Renzi, cit., 5-6; Id., Questioni di metodo e questioni di contenuto, 8..
Per una lettura diversa si vedano invece P. Caretti, La riforma del Titolo V Cost., in RivistaAIC n. 2/2014, 2; G. Scaccia, Prime note
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Cost., con conseguente “redistribuzione” delle relative materie tra legge statale e legge regionale; la
attribuzione alla legge regionale di espliciti titoli di competenza nell’ambito prima lasciato alla
competenza legislativa residuale, pur mantenendosi a favore delle Regioni il principio di residualità; la
previsione di numerose “clausole di colegislazione” tra Stato e Regioni; infine, la istituzione di una vera e
propria “clausola di supremazia” della legge statale su quella regionale basata sull’interesse nazionale 35.
Ebbene, sia pure modulate in modo differente, tutte queste caratteristiche si riscontravano anche nella
c.d. “riforma della riforma” 36 , che, sul riparto delle funzioni legislative rappresenta quindi la vera e
propria “fonte ispiratrice” del ddl Renzi-Boschi37.
Conviene affrontare singolarmente ciascuno degli aspetti sopra richiamati.
I. La prima novità del “nuovo” riparto della competenza legislativa sul quale conviene soffermarsi è
come si è visto, uno dei “fiori all’occhiello” esibiti dalla presente riforma costituzionale. Si tratta della
abolizione della competenza concorrente, ritenuta (non da pochi…) uno dei “mali storici” del diritto
regionale italiano38. Ciò in quanto la distinzione principio-dettaglio sarebbe eccessivamente vaga e non
potrebbe che comportare, per questa ragione, un cospicuo contenzioso costituzionale. Come afferma la
stessa Relazione di accompagnamento al ddl costituzionale, sarebbe dunque necessario distinguere con più
chiarezza le competenze statali e regionali: da qui l’abrogazione del terzo comma dell’art. 117 e il suo
“spacchettamento”, con conseguente attribuzione alla competenza esclusiva dello Stato di molte materie
ivi contenute: così è per il coordinamento della protezione civile, l’ordinamento scolastico e l’istruzione
universitaria; per la programmazione della ricerca scientifica e tecnologica, la previdenza complementare
sull‟assetto delle competenze legislative statali e regionali nella proposta di revisione costituzionale del Governo Renzi, in www.astrid-online.it, 16
aprile 2014, 5 ss., G. Rivosecchi, Riparto legislativo tra Stato e Regioni: le c.d. “disposizioni generali e comuni”, paper di introduzione al
Seminario di discussione dell’associazione “Gruppo di Pisa” svoltosi a Roma il 24 novembre 2014, reperibile sul sito
www.gruppodipisa.it. Sul tema sarà comunque necessario soffermarsi più approfonditamente al par. 4.4.
35 A quelle di seguito elencate, nel testo originariamente proposto dal Governo si sommava un’altra novità: la legislazione
esclusiva dello Stato veniva individuata dall’art. 117, secondo comma, Cost., mediante un elenco di titoli di intervento definiti
non solo materie, ma anche funzioni. Quali novità sarebbero derivate dalla approvazione di quel testo? Secondo G. Scaccia,
Prime note sull‟assetto delle competenze legislative statali e regionali nella proposta di revisione costituzionale del Governo Renzi, cit., 3-4, si
trattava di una mera registrazione dell’esperienza delle materie trasversali ormai fatta propria dalla giurisprudenza
costituzionale. L’opinione è da condividere. Da questo punto di vista non ci sarebbero state, presumibilmente, grosse novità
nella prassi giurisprudenziale.
36 L’aspetto sui cui il nuovo testo si discosta maggiormente dal vecchio è quello della “clausola di supremazia”, assente nella
“riforma della riforma”. In essa, però, la preminenza dell’indirizzo politico statale era comunque ripristinata, dal momento che
si faceva ampio ricorso alla clausola dell’interesse nazionale quale limite delle competenze regionali, avvicinando così anche da
questo punto di vista i due testi in discussione. Su questo aspetto della “riforma della riforma” e sulle sue ambiguità cfr. N.
Zanon, Prime note sulle “norme generali” statali, sul rispetto dell‟interesse nazionale e sulla legislazione di “rilievo (o di “ambito”, o di “interesse”)
regionale” nel progetto di riforma dell‟art. 117 Cost., in www.federalismi.it, 29/5/2003.
37 Significative assonanze peraltro sono riscontrabili anche con la riforma costituzionale approvata nella XIV legislatura e
sottoposta a referendum popolare con esito negativo nel 2005. Per uno sguardo d’insieme su quella riforma cfr., per tutti, B.
Caravita, Lineamenti di diritto costituzionale federale e regionale, cit., 282 ss.
38 Un bilancio dell’esperienza italiana della competenza concorrente è adesso contenuto in M. Salvago, La potestà legislativa
concorrente tra modelli teorici ed evoluzione delle pratiche interpretative, Roma, Aracne, 2014, cui si rinvia per approfondite indicazioni
giurisprudenziali e dottrinali.
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e integrativa, il commercio con l’estero e l’ordinamento delle professioni intellettuali; per l’ordinamento
della comunicazione, il governo del territorio, e il coordinamento della protezione civile; per la
produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’energia; per le grandi reti di trasporto e di
navigazione d’interesse nazionale, i porti e gli aeroporti civili e l’ordinamento sportivo; ancora, per (la
tutela e) la valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici e per la tutela e sicurezza del lavoro. Vengono
inoltre riconosciuti allo Stato espliciti titoli di competenza legislativa in settori prima in larga parte affidati
alla residualità regionale, come le norme sul procedimento amministrativo e sul lavoro presso le
pubbliche amministrazioni anche ove esorbitante dall’«ordinamento civile»; l’ordinamento dei Comuni e le
disposizioni di principio sulle loro forme associative, l’ordinamento degli enti di area vasta; ancora, le
attività culturali e turismo.
II. Come è stato prontamente rilevato in dottrina, tuttavia, il testo di riforma non mantiene le promesse
della relazione introduttiva. Sparisce il “tipo” della potestà legislativa concorrente, e tuttavia vengono
introdotte, in relazione a non poche tra le competenze asseritamente “esclusive” dello Stato, numerose
“clausole di colegislazione”39. Numerose clausole, cioè, che valgono ad aprire, in vari e non sempre chiari
modi, ad un concorso del legislatore statale e di quelli regionali su determinate materie. Ecco un rapido
elenco:
a) le «disposizioni generali e comuni» (in materia di: tutela della salute, sicurezza alimentare, istruzione, attività
culturali e turismo, governo del territorio);
b) le «disposizioni di principio» (in materia di forme associative dei Comuni);
c) i «profili ordinamentali generali» (concernenti gli enti di area vasta, ai sensi dell’art. 39, comma 4, del ddl) e
non generali (concernenti invece Comuni e Città metropolitane, ai sensi del nuovo art. 117, secondo
comma, lett. p, Cost.);
d) le norme «tese ad assicurarne l‟uniformità sul territorio nazionale», in tema di «procedimento amministrativo» e di
«rapporto di lavoro presso le pubbliche amministrazione»;
e) la “strategicità” della «programmazione» (in riferimento alla ricerca scientifica e tecnologica), o delle
infrastrutture;
f) il mero «coordinamento» (della finanza pubblica e della protezione civile);
g) infine, viene riproposto il livello (nazionale o regionale) dell‟interesse quale criterio per la distribuzione della
competenza legislativa su determinati settori materiali (in riferimento alle grandi reti di trasporto e di
navigazione, ai porti e aeroporti civili, ed alle attività culturali).
Per una convincente critica della utilizzazione di questa tecnica da parte della c.d. “riforma della riforma” cfr. R. Tosi,
Riforma della riforma, potestà ripartita, interesse nazionale, cit., 549-560.
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III. Un’altra novità che è opportuno segnalare riguarda l’attribuzione esplicita alla competenza regionale
di alcuni titoli di intervento, destinati a sommarsi alla clausola di residualità che invece resterebbe in
quello che pare destinato a diventare il terzo comma dell’art. 117 Cost. (visto che l’attuale terzo,
concernente la competenza concorrente, risulterebbe abrogato). In tal modo verrebbero certamente
attribuiti alla competenza legislativa regionale la disciplina della rappresentanza delle minoranze linguistiche40, la
pianificazione del territorio regionale e della mobilità al suo interno, la dotazione infrastrutturale, di
programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, la promozione dello sviluppo economico
locale e l’organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese; «salva l’autonomia delle istituzioni
scolastiche», la materia dei servizi scolastici, di istruzione e formazione professionale, di promozione del
diritto allo studio, anche universitario; «per quanto di interesse» delle Regioni, spetterebbero inoltre alla
potestà legislativa di queste ultime le attività culturali, la promozione dei beni ambientali, culturali e
paesaggistici, la valorizzazione e l’organizzazione regionale del turismo, nonché la regolazione, sulla base di
apposite intese concluse in ambito regionale, delle relazioni finanziarie tra gli enti territoriali della Regione
per il rispetto degli obiettivi programmatici regionali e locali di finanza pubblica.
La tecnica di sommare clausola di residualità e competenze regionali espresse non è del tutto sconosciuta
al diritto costituzionale vigente: è quel che accade, infatti, nei casi della «polizia amministrativa e locale» e
della «istruzione e formazione professionale», ai sensi del vigente art. 117 Cost. Un tentativo di utilizzare tale
tecnica per assistere con maggiori garanzie la competenza regionale di fronte alla pervasività della
legislazione statale è reperibile peraltro anche in alcuni testi di riforma di Statuti speciali proposti dalle
Regioni (ad es. Friuli-Venezia Giulia e Sicilia), oltre che nella già menzionata “riforma della riforma” e nel
testo sottoposto a referendum nel 2005 41 . Si tratta di un tentativo comprensibile, soprattutto da parte
regionale, poiché la prassi giurisprudenziale sviluppata dal 2001 ad oggi dimostra che in assenza di
“picchetti” testuali per specifiche materie, i titoli di intervento riconosciuti allo Stato hanno manifestato
una vis estensiva davvero notevole rispetto alla competenza residuale regionale. E del resto depone in tal
senso la tendenza della giurisprudenza costituzionale a “dare nomi alle materie” anche in quest’ultimo
Si noti al riguardo che il testo approvato ad agosto prevedeva piuttosto oscuramente la competenza regionale per la
rappresentanza «in Parlamento» delle minoranze linguistiche. Tale previsione era frutto di un emendamento votato a scrutinio
segreto dal plenum dell’Assemblea di Palazzo Madama in base all’art. 113, comma 4, del Regolamento del Senato, secondo cui a
richiesta di venti senatori sono effettuate a scrutinio segreto «le deliberazioni relative alle norme sulle minoranze linguistiche di cui all‟art.
6 della Costituzione» (per una analisi più approfondita della vicenda si veda F. Biondi, Il voto segreto sulle riforme costituzionali al
Senato: una questione antica, in www.forumcostituzionale.it, 13 ottobre 2014). Ciò spiega come, probabilmente, la sua adozione non
sia stata abbastanza meditata dal Senato, essendo frutto viceversa di vicende piuttosto casuali. Anche da questo punto di vista,
dunque, non c’è dubbio che l’esame alla Camera abbia già migliorato il testo di riforma.
41 Si veda, in particolare, l’art. 39, comma 10 dell’articolato, ove peraltro la potestà “nominata” regionale veniva addirittura
qualificata “esclusiva”, con la conseguenza di rendere ipoteticamente prospettabile una interpretazione di questa disposizione
tale da configurare gli ambiti materiali in essa contemplati del tutto “impermeabili” ad interventi statali, anche a carattere
“trasversale”. Su questo punto cfr. V. Cerulli Irelli, Qualche osservazione critica sul «nuovo» Titolo V, e L. Torchia, Devolution e incubi
costituzionali, ambedue in F. Bassanini (a cura di), Costituzione: una riforma sbagliata, Firenze, Passigli, 2004, 504 ss. e 522 ss.
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ambito: ciò che ha probabilmente contribuito ad arginare, almeno in parte, la «polarizzazione» 42 del
riparto in favore dei titoli nominati statali43
IV. Infine, una importante novità, invocata sovente dalla parte della dottrina e “finalmente” consacrata in
una riforma, è quella concernente la “clausola di supremazia” attivabile dallo Stato nei confronti delle
Regioni. In base a quello che dovrebbe diventare il nuovo quarto comma dell’art. 117 Cost., «su proposta
del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la
tutela dell‟unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell‟interesse nazionale» 44 . L’importanza
sistemica di una simile previsione non sfugge a nessuno. Di essa andrà valutata l’incidenza sugli attuali
meccanismi di flessibilizzazione del riparto delle competenze, nonché, più in generale, sulle logiche su cui
quest’ultimo è, nel testo costituzionale vigente, ancora basato.
3.4. Le funzioni amministrative e il riassetto dell’area vasta
Quanto alle funzioni amministrative, le modifiche che riguardano direttamente il loro esercizio sono
poche e tutto sommato non di grande rilevanza. Il “nuovo” secondo comma dell’art. 118 Cost. si
limiterebbe infatti a prevedere che le funzioni amministrative devono essere esercitate «in modo da
assicurare la semplificazione e la trasparenza dell‟azione amministrativa, secondo criteri di efficienza e di responsabilità
degli amministratori». Francamente non sembra che tale disposizioni sia in grado di aggiungere nulla di
particolarmente significativo allo statuto costituzionale odierno dell’agire amministrativo.
Così A. Borzì, I nomina delle “materie” nella giurisprudenza costituzionale: spunti ricostruttivi, in S. Pajno, G. Verde (a cura di), Studi
sulle fonti del diritto. II. Le fonti delle autonomie territoriali, Milano, Giuffré, 2010, 17 ss., part. 57.
43 La individuazione giurisprudenziale di “materie residuali” ha infatti avuto l’indubbio effetto di individuare sinteticamente
ambiti normativi di competenza regionale, creando così una rete di precedenti giurisprudenziali che consentono –
orientativamente – di perimetrare l’area ricompresa nel quarto comma dell’art. 117. E una volta che un ambito materiale è
stato “picchettato” da una serie di precedenti giurisprudenziali che lo hanno assegnato alla competenza residuale delle Regioni,
risulterà per queste ultime molto più facile difendersi dalle incursioni statali tramite gli strumenti della giustizia costituzionale.
A mero titolo esemplificativo, possono in questa sede essere menzionate le decisioni della Corte costituzionale che hanno
assegnato all’ambito della competenza residuale regionale le materie del commercio (sentt. nn. 1 del 2004, 199 del 2006, 350
del 2008, 247 e 288 del 2010, 150 del 2011 e 299 del 2012), dell’agricoltura (sentt. nn. 12 del 2004, nonché 247 e 250 del 2009),
della organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali (sentt. nn. 274 del 2003, 2 e 380 del 2004, 233
del 2006, 95 del 2008, 219 e 229 del2013), della pesca (sent. n. 213 del 2006), dei servizi pubblici locali (sentt. nn. 272 del 2004,
325 del 2010 e 274 del 2012) e specificamente del trasporto pubblico locale (sentt. nn. 222 del 2005 e 80 del 2006), e del
turismo (sentt. nn. 197 del 2003, 90 e 214 del 2006, 88 del 2007, 94 e 412 del 2008, 76 del 2009 e 80 del 2012). Per un
approfondimento di questo tema, nonché per una analitica elencazione delle “materie residuali” e delle decisioni della Corte
costituzionale che le hanno riconosciute, si rinvia nuovamente ad A. Borzì, I nomina delle “materie” nella giurisprudenza
costituzionale, cit., 54 ss.
44 Il testo presentato dal Governo, oltre all’«unità giuridica o economica», indicava quale presupposto di attivazione dell’intervento
statale la necessità di realizzare «programmi di riforme economico-sociali di interesse nazionale». Il testo approvato dal Senato, con una
scelta ad oggi confermata anche nell’esame alla Camera, come si è visto discorre più sobriamente di “interesse nazionale”,
evitando il riferimento ad una clausola quale quella delle (grandi) «riforme economico-sociali» che non si possa dire abbia dato
buona prova di se stessa nell’esperienza delle Regioni speciali. Al netto della valutazione sul recupero dell’interesse nazionale
(su cui cfr. infra, par. 4.5) la modifica è apprezzabile, quantomeno dal punto di vista della chiarezza.
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Una interessante novità riguarda invece l’esercizio dei poteri sostitutivi straordinari del Governo ex art.
120, secondo comma, Cost., che – in base al testo di riforma – dovrebbe essere preceduto da un parere
del Senato, salvo i casi di motivata urgenza. L’intenzione, certamente apprezzabile, è quella di inserire nel
procedimento sostitutivo momenti di collaborazione non solo con il singolo ente territoriale sostituito45,
ma anche con il “sistema delle autonomie territoriali” considerato nel suo complesso 46 . Al riguardo,
tuttavia, ci si può chiedere come potrebbe essere applicata la norma in esame nei casi in cui la
sostituzione straordinaria debba esplicarsi con una complessa e articolata attività, compiuta da un
commissario straordinario nominato dal governo, piuttosto che tramite un singolo atto. L’ipotesi è
tutt’altro che infrequente: si pensi ai casi in cui è stata attivata la sostituzione straordinaria per far fronte
alle inattuazioni dei piani di rientro in materia sanitaria da parte delle Regioni 47 . Ebbene, in tali casi
ovviamente non è pensabile che il parere possa essere richiesto dal Commissario in relazione ad ogni atto
della sua gestione: risulta decisamente più plausibile ritenere che il parere si renda necessario solo per
l’atto di nomina del Commissario, magari con la relativa indicazione dei compiti48.
Gli effetti più significativi in relazione al tema in questione, piuttosto, derivano non già dagli interventi
sui profili funzionali ma da quelli concernenti gli aspetti organizzativi, ed in particolare dal complessivo
ripensamento dell’amministrazione di area vasta. Il primo dato che salta agli occhi è ovviamente
l’abolizione delle Province, e il conseguente riassetto delle funzioni amministrative, sempre sulla base del
principio di sussidiarietà, tendenzialmente su due livelli sub statali (Comune e Regione). Il riassetto è solo
tendenzialmente su due livelli, però, perché rimane comunque nel tessuto costituzionale la Città
metropolitana, cui va aggiunta la possibilità della istituzione degli enti di area vasta, nonché la possibilità
Come avviene (e dovrebbe continuare ad avvenire) ai sensi dell’art. 8, comma 1, della legge n. 131 del 2003.
Nella vigente procedura ex art. 8 della legge n. 131 del 2003, peraltro, il “sistema delle autonomie” viene preso in
considerazione in relazione ai casi di assoluta urgenza. In occasione di questi ultimi è infatti previsto l’immediato
provvedimento in via sostitutiva da parte del Governo, in assenza delle ordinarie procedure collaborative con il singolo ente,
nonché la comunicazione alla Conferenza Stato-Regioni e alla Conferenza Stato-Città e autonomie locali, che possono
richiedere il riesame dell’atto sostitutivo. Al riguardo un tema da approfondire potrebbe essere quello della sorte di una simile
previsione ove entrasse in vigore il testo dell’art. 120, secondo comma, richiamato nel testo. Da un lato, infatti, si potrebbe
senz’altro affermare la compatibilità tra le due norme, visto che il “nuovo” art. 120, secondo comma, non dispone alcun
passaggio collaborativo per i casi di assoluta urgenza di provvedere. Dall’altro, però, non si può fare a meno di notare una
certa distonia tra un testo (costituzionale) che incardinasse sul Senato la collaborazione con il sistema delle autonomie, ed uno
(legislativo) che continuasse ad affidare il ruolo di interloquire con il Governo, a nome del “sistema”, alle due Conferenze. Il
minimo che si può dire è che, sul punto, si porrà un problema di coordinamento.
47 Cfr., in tema, le sentt. nn. 2 del 2010, 78 del 2011, 131 del 2012, e 79 e 104 del 2013.
48 Altra novità dell’art. 120 secondo comma che merita di essere segnalata è quella che prevede che la relativa legge di
attuazione stabilisca «i casi di esclusione dei titolari di organi di governo regionali e locali dall‟esercizio delle rispettive funzioni quando è stato
accertato lo stato di grave dissesto finanziario dell‟ente». Al riguardo è difficile sfuggire alla sensazione che il fine dell’operazione sia
essenzialmente quello di “rispondere” alla declaratoria di incostituzionalità, pronunciata dalla sent. n. 219 del 2013, nei
confronti dell’art. 2 del d.lgs. 149 del 2011, che aveva ricondotto il «grave dissesto finanziario» nell’alveo della «grave violazione di
legge» di cui all’art. 126, disponendo che, ove si verificasse tale dissesto, sarebbe stato necessario procedere, ai sensi dell’articolo
126, comma primo, Cost., allo scioglimento del Consiglio regionale e alla rimozione del Presidente della Giunta regionale «per
responsabilità politica nel proprio mandato di amministrazione della regione, ove sia accertata dalla Corte dei conti la sussistenza delle condizioni di
cui al comma 1 e la loro riconduzione alla diretta responsabilità».
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di istituire enti associativi tra Comuni: a queste due categorie di enti, in base al testo qui in discussione,
potrebbero essere affidati compiti sia intercomunali che sovracomunali49.
4. Una valutazione di sintesi: le competenze legislative
4.1. Premessa
È ora possibile offrire qualche valutazione di sintesi del complessivo intervento di riforma così come
risultante dalla recente approvazione in Commissione Affari costituzionali alla Camera, in particolare in
relazione alle sopra richiamate “promesse” della Relazione di accompagnamento al ddl.
Sul punto giova ricordare che, a leggere la citata Relazione, le conquiste in termini di funzionalità del
sistema decisionale dovrebbero essere raggiunte senza sacrificio complessivo delle ragioni dell’autonomia
(ma anzi approfondendo le logiche di quest’ultima nel concreto funzionamento del nostro ordinamento)
recuperando sul piano della partecipazione – addirittura nella forma della codecisione, in taluni casi – ciò che
le Regioni perdono sul piano delle competenze. Per verificare se alle promesse corrispondono i fatti,
dunque, si può iniziare col provare a stimare l’impatto delle riforme sopra accennate su queste ultime, al
fine di capire se esiste, e di che portata è, l’arretramento della funzione legislativa regionale che
conseguirebbe all’entrata in vigore del testo approvato in prima lettura a Palazzo Madama.
Successivamente si tornerà sulla composizione del Senato e sul suo ruolo nel procedimento legislativo,
per verificare se per tale via si riesca a far recuperare alle ragioni dell’autonomia ciò che queste perdono
sul fronte delle competenze. Ci si dovrà inoltre chiedere se – ma le questioni sono strettamente connesse
– il “nuovo” Senato appare in grado di rispondere all’altra esigenze individuata nella Relazione: quella di
ridurre l’alto tasso di conflittualità tra Stato e Regioni che caratterizza il nostro sistema costituzionale.
4.2. Il riparto delle materie
In relazione al nuovo riparto di materie tra Stato e Regione, si può innanzi tutto agevolmente osservare
che in taluni casi si intende ricondurre allo Stato materie che, secondo una valutazione pressoché
unanime della dottrina, nel 2001 erano state attribuite alla competenza concorrente in modo un po’
frettoloso (“grandi reti di trasporto e di navigazione”, “produzione, trasporto e distribuzione nazionali
dell’energia”, “porti e aeroporti civili, ordinamento della comunicazione”). Nel complesso, però è
Per questa distinzione cfr. F. Merloni, Le funzioni sovracomunali tra Provincia e Regione, in Le istituzioni del federalismo, supp. 5,
2006, 45 ss., part. 49 ss.; Id., Sul destino delle funzioni di area vasta nella prospettiva di una riforma costituzionale del Titolo V, in Istituzioni
del federalismo, 2014, 215 ss., part. 218 ss. Le funzioni intercomunali sono quelle che procedono al coordinamento “operativo” di
funzioni rispetto al cui svolgimento è pienamente adeguato il livello comunale non richiedendo un ambito valutativo ultroneo
a quest’ultimo, e che sono volte al miglior perseguimento dell’interesse pubblico tramite la collaborazione tra Comuni vicini.
Le funzioni sovracomunali, viceversa, procedono al perseguimento dell’interesse pubblico mediante la adozione di scelte il cui
ambito valutativo è ultroneo rispetto a quello dei singoli Comuni, corrispondendo piuttosto a quello dell’area vasta.
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evidente che il fine dell’operazione sia quello di spostare decisamente l’equilibrio del riparto di
competenza a favore dello Stato rispetto a quanto non lo sia già ora negli approdi giurisprudenziali, oltre
che nel testo costituzionale vigente.
Al riguardo è da condividere l’osservazione di chi ha ritenuto che con la modifica costituzionale de qua
tornerebbe «saldamente in mani statali la disciplina delle principali leve dello sviluppo economico, che la
giurisprudenza costituzionale aveva cercato di riconoscere allo Stato attraverso percorsi argomentativi
molto originali e talora fortemente creativi rispetto alla littera Constitutionis»50. A ciò va aggiunto, inoltre, il
controllo delle amministrazioni pubbliche, anche di quelle territoriali, sia in relazione ai loro aspetti
procedimentali che a quelli organizzativi, senza tralasciare l’importantissimo fronte della prestazione del
lavoro presso le medesime.
Ancora, sembra piuttosto chiaro che anche le politiche sugli usi possibili del territorio subiscono un
significativo processo di ricentralizzazione. Ciò non solo in ragione di quelle «disposizioni generali e comuni
sul governo del territorio» (art. 117, secondo comma, lett. u), che bisognerà capire in cosa si distinguono dai
“principi fondamentali” posti dallo Stato in base al testo attualmente in vigore, ma anche, e soprattutto,
in virtù di altre competenze che incidono fortemente sugli usi possibili del suolo. Si pensi, oltre alle citate
competenze concernenti le «infrastrutture strategiche e (le) grandi reti di trasporto e di navigazione di interesse
nazionale» o i «porti e aeroporti civili, di interesse nazionale e internazionale», anche a quelle connesse in vario
modo all’ambiente51. In tema, al netto delle difficoltà che per l’interprete potranno derivare dall’incerta
utilizzazione degli strumenti definitori che emerge dalle disposizioni del testo di riforma 52, non è difficile
scorgere un intento riduttivo dell’autonomia regionale sia nella eliminazione dell’obiettivo “finalistico”
della “tutela” in relazione all’ambiente e all’ecosistema53, sia nella “centralizzazione” della competenza in
G. Scaccia, Prime note sull‟assetto delle competenze legislative statali e regionali nella proposta di revisione costituzionale del Governo Renzi,
cit., 4.
51 Cfr. A. Sterpa, Le riforme costituzionali e legislative del 2014: quale futuro per la multilevel governance dell‟ambiente?, in
www.federalismi.it, n. 22/2014, 5 ss.
52 Se infatti è evidente che il legislatore costituzionale non è vincolato dalle definizioni legislative e dottrinali, è altrettanto
evidente che sarebbe auspicabile che chi oggi si appresta a riformare la Costituzione tenga in maggior conto la densità di
significato che taluni termini hanno nelle esperienze di settore. Ciò vale certamente per le nozioni di “ambiente”,
“ecosistema”, “paesaggio”, “beni paesaggistici” e “beni ambientali”, in relazione alle quali si veda, per tutti, M. Cecchetti,
Ambiente, paesaggio e beni culturali, in G. Corso, V. Lopilato (a cura di), Il diritto amministrativo dopo le riforme costituzionali. Parte
speciale, Volume I, Milano, Giuffré, 2006, 307 ss., part. 312 ss.
53 Sul punto merita di essere ricordato che la giurisprudenza costituzionale concernente la “tutela dell’ambiente e
dell’ecosistema” ha avuto nel corso del tempo una evoluzione che ha contribuito non poco a “stemperarne” la trasversalità, e
a favorire, viceversa, processi di “materializzazione” di tale titolo di intervento. In un primo periodo la giurisprudenza
costituzionale ha avuto buon gioco nel qualificare la “tutela dell’ambiente” quale materia “trasversale”, e l’art. 117, secondo
comma, lett. s), quale disposizione in grado di legittimare l’autonomo ed esaustivo intervento del legislatore statale a tutela del
fine-valore ambientale, a prescindere dalla materia-oggetto sulla quale tale intervento era destinato ad incidere, ritenendo
inoltre che la legge regionale potesse intervenire a innalzare gli standard di tutela, (più o meno esplicitamente, in tal senso sono
orientate le seguenti pronunce della Corte costituzionale: sentt. nn. 407 del 2002, 222 del 2003, 108 del 2005, 214 del 2005,
182 del 2006, 104 del 2008, 12 del 2009) e salvo che lo standard fissato dallo Stato dovesse ritenersi espressivo anche di una
ulteriore competenza statale, magari limitata alla posizione dei soli principi fondamentali (cfr. ad es. la sent. n. 307 del 2003).
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materia di «valorizzazione dei beni (…) paesaggistici», pur a fronte dell’esplicito (ma abbastanza oscuro quanto
all’esito) riconoscimento di una competenza della legge regionale in tema di «promozione dei beni ambientali e
(…) paesaggistici».
Può inoltre essere interessante notare come in alcuni casi la riforma operi in evidente “sanatoria” rispetto
a torsioni giurisprudenziali di questi anni, ad avviso di non pochi commentatori gravemente lesive
dell’autonomia regionale così come scolpita dalla lettera della Costituzione54. Questo vale, ad esempio,
per le clausole concernenti le norme sul procedimento amministrativo55, il lavoro presso le pubbliche amministrazioni56,
nonché per l‟ordinamento degli enti locali57. In riferimento a ciò sovvengono due considerazioni: i) da un
A partire dal 2007, però, sono reperibili nella giurisprudenza costituzionale decisioni che testimoniano un approccio
sensibilmente differente alla questione. La “tutela dell’ambiente”, infatti, è sovente stata considerata non più come un finevalore costituzionale, che la legge statale poteva perseguire “trasversalmente” rispetto alle materie-oggetto di competenza
regionale, ma a sua volta come una materia-oggetto, individuata innanzi tutto e in modo generale nella tutela della «biosfera»
(sent. n. 378 del 2007). Questa indicazione generica viene poi specificata in relazione a singole «componenti» o singoli «aspetti del
bene ambiente» (sent. n. 378 del 2007): e in virtù di ciò, l’art. 117, secondo comma, lett. s), varrà come un titolo di legittimazione
dell’intervento statale in alcuni specifici campi di esperienza la cui regolazione ha tradizionalmente assunto la finalità di tutela
dell’ambiente: l’ambiente-paesaggio (sent. n. 367 del 20007) le aree protette (sent. nn. 12 del 2009, 272 del 2009, 44 del 2011, 263 del
2011), la gestione dei rifiuti (sentt. nn. 10 del 2009, 127 del 2010, 187 del 2011), le modalità generali di organizzazione del servizio idrico,
la difesa del suolo (sentt. nn. 10 del 2009, 127 del 2010, 187 del 2011), la bonifica dei siti contaminati (sent. n. 247 del 2009), e via
dicendo (sul punto, diffusamente, M. Cecchetti, La materia „Tutela dell‟ambiente e dell‟ecosistema‟ nella giurisprudenza
costituzionale: lo stato dell‟arte e i nodi ancora irrisolti, cit., 19 ss., nonché D. Porena, L‟ambiente come “materia” nella recente
giurisprudenza della Corte costituzionale: “solidificazione” del valore ed ulteriore “giro di vite” sulla competenza regionale, in www.federalismi.it, 4
febbraio 2009, 15 ss.).
Alla luce di tutto ciò pare possibile affermare che la riforma in itinere procede abbastanza chiaramente nel senso indicato dalla
“svolta” giurisprudenziale del 2007, e dunque in direzione di una più esplicita “materializzazione” dell’ambiente. Anche se la
giurisprudenza costituzionale non è affatto chiara al riguardo, essendo invece reperibili indicazioni in senso inverso (cfr. ad es.
sentt. nn. 104 del 2008, 12 del 2009, 225 del 2009, 315 del 2009, 193 del 2010), a rigor di logica ciò dovrebbe corrispondere ad
una maggiore “rigidità” del riparto di competenze tra Stato e Regioni, dovendo a queste ultime risultare radicalmente inibito
l’intervento nel settore “ambiente” quand’anche migliorativo degli standard fissati dallo Stato, ed escludendo, ovviamente, gli
interventi ricadenti nella «promozione dei beni paesaggistici (…) e ambientali» di cui al “nuovo” art. 117, comma terzo, Cost.
54 Per tutti, si può qui ricordare il sintetico e tranciante giudizio recentemente espresso da Antonio Ruggeri, secondo cui il
Giudice costituzionale «tutto si è rivelato essere fuorché un “arbitro” imparziale» (A. Ruggeri, Quali insegnamenti per la riforma
costituzionale dagli sviluppi della vicenda regionale?, in RivistaAIC, n. 4/2014, 16).
55 Si vedano, sul punto, soprattutto le note sentenze concernenti la SCIA (sentt. nn. 164 e 203 del 2012, nonché 121 del 2014),
nonché quelle riguardanti altri meccanismi di semplificazione amministrativa (sentt. nn. 207 del 2012 62 del 2013), che
ritengono costituzionalmente legittimi gli interventi statali in base al titolo rappresentato dai “livelli essenziali delle
prestazioni”.
56 In tema è possibile ricordare che, dopo una prima fase in cui la giurisprudenza costituzionale aveva provato a distinguere
con un certo rigore gli aspetti di competenza regionale da quelli di competenza statale a seconda che afferissero
all’organizzazione amministrativa (ad es. sentt. nn. 380 del 2004, 233 del 2006, 189 del 2007, 95 del 2008, 100 e 235 del 2010)
ovvero all’ordinamento civile (ad es. sentt. nn. 95 e 189 del 2007, 151 del 2010), in una seconda fase si nota invece un deciso
mutamento di tendenza, caratterizzato dall’evidente espansione dell’area riconosciuta a quest’ultimo, a detrimento della
competenza legislativa regionale. Così è, ad esempio, per il conferimento di incarichi dirigenziali a soggetti esterni alla PA
(sentt. nn. 324 del 2010 e 310 del 2011), per la proroga di contratti di collaborazione, (sentt. nn. 289 del 2012 e 18 del 2013),
per la misura del ricorso ad un determinato tipo di figura contrattuale (sent. n. 130 del 2013), e per la stabilizzazione dei
precari (ricondotta all’ordinamento civile, dalle sentt. nn. 69 del 2011 e 51 del 2012 in quanto determinante una modifica alla
durata del rapporto di lavoro). Deve inoltre essere richiamato l’importante filone giurisprudenziale che ha giustificato
significativi interventi statali in tema di lavoro pubblico presso gli altri enti territoriali in ragione del “coordinamento della
finanza pubblica”, ormai vera e propria competenza omnibus: cfr., ad es., con varietà di accenti, e in relazione a norme di
differente tipo, le sentt. nn. 4 del 2004, 167 del 207, 333 del 2010, 68 e 155 del 2011, 173 del 2012.
57 Per tutte qui può essere utile richiamare la ben nota sent. n. 22 del 2014, che ha ricondotto alla materia del “coordinamento
della finanza pubblica” la complessa articolata disciplina a carattere evidentemente ordinamentale, contenuta nel d.l. n. 95 del
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primo punto di vista è possibile affermare che il testo di riforma non pare destinato a determinare grandi
mutamenti rispetto all‟assetto competenziale risultante dalla giurisprudenza costituzionale: lo Stato, negli ultimi anni,
ha infatti esercitato la funzione legislativa sugli ambiti sopra menzionati con un sostanziale avallo della
Corte costituzionale, anche se, come si è detto e come è stato rilevato da più parti in dottrina, attraverso
percorsi argomentativi spesso molto discutibili; ii) ciononostante non si può dire che un simile intervento
non avrebbe effetti significativi, in senso ri-centralizzatore, sulle odierne relazioni tra Stato e Regioni, sia
perché si stabilizzano, dotandoli di miglior fondamento normativo, gli approdi della giurisprudenza
costituzionale, che non avrà bisogno di discutibili acrobazie argomentative per “salvare” gli interventi
legislativi statali nei campi in questione, sia perché in alcuni casi si va certamente oltre gli stessi risultati
raggiunti in via pretoria dai giudici di Palazzo della Consulta nel percorso di ri-centralizzazione58.
4.3. La sostituzione della competenza concorrente con altre clausole di colegislazione
Quanto alla pretesa eliminazione della competenza concorrente – ed alle connesse “virtù di certezza” che
a tale scelta dovrebbero essere connesse – già più sopra si è visto come, secondo una opinione presente
in dottrina, sia una operazione “di mera facciata”, poiché tra le competenze “esclusive” dello Stato se ne
rinvengono non poche che sono individuate per il tramite di “clausole di colegislazione”, il cui scopo è
quello di aprire, in varia misura e con diverse tecniche, all’intervento legislativo regionale sul campo
materiale di volta in volta considerato.
Per di più, come si evidenziava più sopra, nel testo sono presenti molteplici clausole di colegislazione, che
dovrebbero (o comunque potrebbero) operare in modo anche significativamente diverso l’una rispetto
all’altra, e in modo diverso dall’attuale competenza concorrente. Si disperderebbe inevitabilmente,
dunque, quel patrimonio giurisprudenziale che con gran fatica si è formato negli ultimi anni in relazione a
quest’ultima, e che consente, soprattutto in alcuni settori, di fare previsioni di una qualche affidabilità
circa i giudizi della Corte costituzionale. Ritenere che dall’assetto competenziale immaginato nel testo di
riforma, per il solo fatto della eliminazione della competenza concorrente, possa derivare una
2012, concernente i profili organizzativi e funzionali delle unioni di Comuni, in quanto asseritamente finalizzata a determinare
risparmi di spesa. La riconduzione dell’intero ordinamento degli enti locali alla competenza esclusiva dello Stato è stata
fortemente criticata in dottrina da F. Merloni, Sul destino delle funzioni di area vasta, cit., 244 ss.
58 Quanto al lavoro presso le pubbliche amministrazioni, ad esempio, si prescinde completamente dalla distinzione tra
rapporto d’ufficio e rapporto di servizio, che in teoria dovrebbe limitare al secondo la competenza statale in base alla materia
“ordinamento civile”: in tal modo lo Stato acquisterebbe un titolo di intervento generalizzato, in grado di coprire anche gli
aspetti pubblicistici, che oggi dovrebbero essere ritenute di competenza regionale. Analogamente può ragionarsi per la
competenza concernente le norme sul procedimento amministrativo, la cui attribuzione allo Stato (sia pure limitata, come si è
visto, da una delle “clausole di colegislazione” presenti nel testo) renderà inutile il ricorso a fondamenti parecchio dubbi come
quello dei “livelli essenziali delle prestazioni” per giustificare interventi statali quali quelli sopra ricordati (nt. 49).
Particolarmente significativo, infine, è il caso della competenza in materia di ordinamento degli enti locali, che tornerebbe
stabilmente, ed integralmente, nelle mani della legislazione statale.
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diminuzione della conflittualità costituzionale è quantomeno azzardato. Come è stato prontamente
evidenziato59, infatti, non è difficile immaginare un cospicuo contenzioso concernente la individuazione
di cosa va qualificato come strategico, di quale intervento statale sia suscettibile di essere annoverato tra le
disposizioni generale e comune 60 , di quale fenomeno possa legittimamente essere qualificato di interesse
nazionale, e quale, corrispettivamente, solo di interesse regionale.
Ancora, risulta evidente che sarà molto difficile distinguere i profili ordinamentali “generali” degli enti di
area vasta, su cui è competente la legge dello Stato, da quelli “non generali”, in relazione ai quali l’art. 39,
comma 4, del progetto assegna la competenza alle Regioni 61 . Non si deve pensare, peraltro, che le
difficoltà siano legate alla abusata utilizzazione del qualificativo “generali”: neanche una previsione quale
quella dell’art. 117, secondo comma, lett. p), così come risultante dalla modifica, sarebbe esente da
problemi. Per la sua applicazione, infatti, sarebbe necessario chiedersi quali aspetti organizzativi di
Comuni e Città metropolitane le Regioni potrebbero disciplinare in quanto non attinenti a profili
“ordinamentali”, e quali invece devono senz’altro ritenersi afferenti a questi ultimi. Come si vede le
incertezze non mancano.
A scorrere l’elenco delle “clausole di colegislazione”, per di più, non è facile sfuggire all’impressione che
esse possano venire interpretate in modo tale da assegnare un ruolo privilegiato all’indirizzo politico
statale nel conformare il “riparto interno” alle materie nelle quali siano presenti tali clausole, sia pure nel
contesto di un controllo di non irragionevolezza. Così è certamente – anche alla luce dell’esperienza
costituzionale italiana precedente al 2001 – per la clausola dell’interesse nazionale. È però plausibile che
analoghi percorsi possano essere seguiti non solo per la qualificazione in termini di “strategicità” della
programmazione o delle infrastrutture, ma anche in relazione alle “disposizioni generali e comuni”, come
si è visto, diffusamente contemplate nel testo esitato dal Senato.
In sintesi, si può dunque osservare che: a) quanto all’esigenza di deflazionare il contenzioso
costituzionale, la pretesa abolizione della competenza concorrente è, da sola, incapace di raggiungere
R. Bifulco, Il Senato che verrà: Assemblea legislativa o Conferenza camuffata?, in www.confronticostituzionali.eu, 21 marzo 2014.
Parecchio istruttivo, sul punto qui in discussione, è il dibattito che si è immediatamente sviluppato, già prima
dell’approvazione in prima lettura, circa l’interpretazione della clausola di colegislazione delle “norme generali”, diffusamente
prevista dal testo proposto dal Governo, tra G. Scaccia, Prime note sull‟assetto delle competenze legislative statali e regionali nella proposta
di revisione costituzionale del Governo Renzi, cit., 5 ss., e E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), in OsservatorioAIC, maggio 2014,
7. Secondo l’opinione espressa dal primo Autore, infatti le “norme generali” non potrebbero che essere quelle «sorrette, in
relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie», e quindi «dalla volontà politica di risultare «applicabili indistintamente, al di là
dell‟ambito propriamente regionale». Il secondo Autore, invece, propende per una lettura dell’espressione in parola in grado di porre
qualche argine di carattere “oggettivo” alla forza espansiva delle libere qualificazioni dell’indirizzo politico statale. Al riguardo
è indicativo che ambedue i punti di vista richiamati fanno riferimento, e non senza ragione, a percorsi presenti nella
giurisprudenza costituzionale concernenti le “norme generali” in tema di istruzione. Sul punto cfr., ad ogni modo, quel che si
osserverà nel paragrafo seguente.
61 Sul punto cfr. anche C. Tubertini, Area vasta e non solo: il sistema locale alla prova delle riforme, in Istituzioni del federalismo, 2014, 197
ss., part. 210-211)
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l’obiettivo, anche a causa della cospicua presenza di clausole di colegislazione che appaiono
inevitabilmente destinate ad aprire dubbi interpretativi e incertezze applicative; b) le citate “clausole di
colegislazione”, peraltro, appaiono sovente in grado di portare, nella prassi legislativa e giurisprudenziale,
ad un assetto di sostanziale preminenza dell’indirizzo politico centrale su quello regionale. Da ambedue i
punti di vista, dunque, risultano di decisiva importanza le modalità tramite le quali il primo è destinato a
formarsi, con particolare riguardo al ruolo del Senato nel procedimento legislativo. Se infatti la funzione
legislativa statale nelle materie caratterizzate da una “clausola di colegislazione” fosse effettivamente
espressione di una collaborazione con una assemblea in grado di rappresentare gli indirizzi politici che si
formano nella maggior parte delle istituzioni regionali, da un lato l’obiettivo della riduzione del
contenzioso sembrerebbe molto più a portata di mano, poiché la legge statale sarebbe frutto della
partecipazione anche di soggetti che esprimono il punto di vista di chi è legittimato ad attivare il ricorso in
via principale; dall’altro, la prevalenza dell’indirizzo politico centrale espressa tramite le clausole di
colegislazione risulterebbe non lesiva delle ragioni dell’autonomia – come pretende la Relazione al disegno
di legge – in quanto espressione di un indirizzo autenticamente repubblicano, derivante anche dal
confronto con gli indirizzi politici che si producono a livello regionale, piuttosto che senz’altro dei
processi di deliberazione pubblica che si producono a livello statale.
4.4. In particolare, a proposito delle “disposizioni generali e comuni”
Tra le “clausole di colegislazione” quella di maggior rilievo (se non altro per il numero e l’importanza dei
settori materiali coinvolti) è senza subbio quella delle “disposizioni generali e comuni”. In tema, a
dimostrazione di quanto sia vano aspettarsi dalla riforma in itinere un contributo di chiarezza, si è già
sviluppato un vivace dibattito.
Preliminarmente, merita di essere presa in considerazione la tesi proposta da Nicolò Zanon in relazione
alle previsioni sulle “norme generali” contenute nella c.d. “riforma della riforma” del 2003, secondo la
quale tale clausola di colegislazione non implicherebbe affatto il riconoscimento di una implicita
attribuzione di competenza alle Regioni «per la normativa di dettaglio». Ciò in quanto in base ad essa lo
Stato potrebbe in via generale disciplinare ed allocare direttamente competenze amministrative, magari
anche agli enti locali, escludendo dunque la normativa regionale62. L’opinione pare condivisibile se con
essa ci si limita ad affermare che potrà darsi il caso di norme generali statali in grado di operare
direttamente anche in assenza di una normativa attuativa regionale. Se invece si volesse intendere nel
62
N. Zanon, Prime note sulle “norme generali” statali, cit., 2.
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senso di escludere una competenza legislativa delle Regioni nei citati ambiti, non sarebbe convincente, e ciò
per più ragioni.
Innanzi tutto nel senso appena indicato depone la considerazione secondo la quale in un sistema che
riconosca ancora la residualità della competenza regionale qualunque qualificativo dei titoli di intervento
statale vale a restringerne la portata, aprendo implicitamente ai legislatori residuali. Questi ultimi, per quel
che qui interessa, dovrebbero dunque essere ritenuti titolari della competenza in relazione alle norme
“non generali” (se non le si vuol chiamare “di dettaglio”) nelle materie considerate. Del resto, ragionando
altrimenti, non si renderebbe percettibile la differenza tra le competenze esclusive statali che includono
tali qualificativi e quelle che non li includono63.
Un importante argomento che milita contro l’accoglimento della tesi dottrinale sopra richiamata ai fini
dell’interpretazione del testo della riforma in initinere, nello specifico contesto di quest’ultima, è inoltre di
carattere testuale. È agevole infatti il rilievo secondo il quale a molte delle materie riconosciute alla
competenza esclusiva statale limitatamente alle “disposizioni generali e comuni” corrisponde una materia
esplicitamente attribuita alla competenza regionale
64
. Così è per la «tutela della salute» (a fronte
dell’«organizzazione dei servizi sanitari»), per il «governo del territorio» (a fronte della «pianificazione territoriale»),
per l’«istruzione» (a fronte dei «servizi scolastici»), per le «attività culturali» senza alcuna specificazione (a fronte
delle «attività culturali» di «interesse regionale»), e per il «turismo» senza alcuna specificazione (a fronte della
«valorizzazione e organizzazione regionale del turismo») 65 . Ebbene, in tale contesto normativo, dinanzi alla
competenza statale sulle “disposizioni generali e comuni” in uno di questi settori starà senz‟altro quella
regionale, legittimata, oltre che dalla clausola di residualità, anche dalla attribuzione esplicita di
competenza sui medesimi.
Questi rilievi inducono dunque a ritenere che la clausola di colegislazione delle “disposizioni generali e
comuni” dovrebbe avere una qualche forza limitante della competenza statale, attivabile però in ragione
della possibilità di disporre di un criterio per distinguere cosa può essere incluso nella categoria in
questione da ciò che deve esserne escluso. A questo fine non si può, innanzi tutto, fare a meno di
saggiare la possibilità di utilizzare i percorsi che la giurisprudenza costituzionale ha sviluppato in relazione
alla materia esclusiva statale prevista dal vigente testo costituzionale in tema di «norme generali
sull‟istruzione».
In termini analoghi cfr. anche A. Sterpa, Le riforme costituzionali e legislative del 2014, cit., 6; G. Rivosecchi, Riparto legislativo tra
Stato e Regioni: le c.d. “disposizioni generali e comuni”, cit., 4.
64 Lo rilevano E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), cit., 9, e G. Rivosecchi, Riparto legislativo tra Stato e Regioni: le c.d.
“disposizioni generali e comuni”, cit., 4.
65 La tecnica illustrata coinvolge anche altre clausole di colegislazione, destinate con tutta probabilità a funzionare secondo
meccanismi almeno in parte diversi da quelli delle “disposizioni generali e comuni”: si veda, ad es., la materia regionale della
«dotazione infrastrutturale» collocata a fronte di quella statale concernente le «infrastrutture strategiche».
63
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Al riguardo, la Corte inizialmente si è limitata a ritenere che le “norme generali” siano «quelle sorrette, in
relazione al loro contenuto, da esigenze unitarie e, quindi, applicabili indistintamente al di là dell‟ambito propriamente
regionale». I principi fondamentali, invece, «pur sorretti da esigenze unitarie, non esauriscono in se stessi la loro
operatività, ma informano, diversamente dalle prime, altre norme, più o meno numerose» (sent. n. 279 del 2005)66. Più
di recente, però, la giurisprudenza costituzionale ha fornito indicazioni insieme più precise e più
convincenti per distinguere “norme generali” e “principi fondamentali” in materia di istruzione. A partire
dalla sent. n. 200 del 2009, infatti, si è ritenuto che le norme generali vadano individuate in «quelle
disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere
applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta
formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio dell‟istruzione (interesse
primario di rilievo costituzionale), nonché la libertà di istituire scuole e la parità tra le scuole statali e non statali». Sono,
invece, espressione di principi fondamentali della materia dell’istruzione «quelle norme che, nel fissare criteri,
obiettivi, direttive o discipline, pur tese ad assicurare la esistenza di elementi di base comuni sul territorio nazionale in
ordine alle modalità di fruizione del servizio dell‟istruzione, da un lato, non sono riconducibili a quella struttura essenziale
del sistema d‟istruzione che caratterizza le norme generali sull‟istruzione, dall‟altra, necessitano, per la loro attuazione (e
non già per la loro semplice esecuzione) dell‟intervento del legislatore regionale»67.
Come si vede, i percorsi argomentativi seguiti dal giudice costituzionale per identificare le “norme
generali” appaiono spesso legati alle peculiarità del settore considerato – tra l’altro già da tempo
“presidiato” da funzioni regionali – nonché dalla necessità di distinguerle, nel vigente sistema
costituzionale, dalla vicina categoria dei “principi fondamentali”: circostanza questa invece non replicata
nel contesto della riforma in itinere. Tali rilievi suggeriscono di non ritenere sempre agevolmente
proiettabili su quest’ultima i criteri sopra menzionati68.
Un ausilio nel tentativo di rendere densa di contenuto la limitazione della legislazione statale alle
“disposizioni generali e comuni” potrebbe forse provenire da strumenti di esegesi testuale. In quest’ottica
si è provato a valorizzare l’aggettivo “comuni”, autentica novità del testo approvato in Senato, seguendo
Tali precisazioni, al di là della distinzione tra immediata applicabilità (delle norme generali) e non immediata applicabilità (dei
principi fondamentali), non aiutano certo gran che. Cosa è sorretto da esigenze unitarie? Se è ciò che lo Stato ritiene che sia, è
evidente che il riparto risulta rimesso alle determinazioni dell’indirizzo politico statale, salvo eventualmente un controllo di
non irragionevolezza. Se invece si ritiene che non sia così, risulta necessario un qualche criterio oggettivo per valutare la
correttezza costituzionale della scelta compiuta dall’indirizzo politico statale: ma nella citata sentenza della Corte costituzionale
non vi è traccia di questo criterio.
67 Cfr. anche le sentt. nn. 213 del 2009, 92 del 2011, 147 del 2012 e 62 del 2013.
68 Provano ad utilizzare gli approdi della giurisprudenza costituzionale citata per intendere il senso e la portata della clausola di
colegislazione qui discussa E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), cit., 11 ss., che fa riferimento alle espressioni, sopra
citate, della «struttura portante» e della «struttura essenziale» della normativa, nonché P. Caretti, La riforma, cit., 2, M. Luciani,
La riforma del bicameralismo, cit., 11, e G. Rivosecchi, Riparto legislativo tra Stato e Regioni: le c.d. “disposizioni generali e comuni”, cit., 7
ss., soprattutto in relazione alla distinzione tra norme “autoapplicative” e “non autoapplicative”.
66
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essenzialmente due strade. La prima è stata accennata da Carmela Salazar, la quale ha ritenuto che con
l’espressione in parola non si possa che fare riferimento alla «necessità della leale collaborazione tra Stato e
Regioni»69. Da questo punto di vista, dunque, le “disposizioni” in questione sarebbero “comuni” tra Stato
e Regioni, e tali in quanto destinate ad essere adottate tramite procedimenti collaborativi. La seconda strada, invece,
suggerisce di intendere quel “comuni” in riferimento ai destinatari e all’ambito di applicazione territoriale delle
disposizioni in questione70, mentre l’espressione “generali” in questo quadro dovrebbe essere riferita al
“livello di generalità” del contenuto prescrittivo della norma.
La prima delle due proposte interpretative appena accennata, anche se affascinante, non pare del tutto
convincente. Il regime di collaborazione della rappresentanza delle autonomie territoriali alla funzione
legislativa è, nell’ambito del testo in commento, rigorosamente disciplinato dalle norme concernenti le
forme di partecipazione del Senato alla funzione legislativa, senza che possano residuare ulteriori spazi71.
La seconda ipotesi, all’inverso, può senz’altro candidarsi per dotare di contenuto specifico l’espressione
“comuni”. Non sembra però in grado di offrire limiti significativi alla legislazione dello Stato, riuscendo
soltanto ad escludere la possibilità, per quest’ultimo, di dettare norme circoscritte a parti del territorio
nazionale 72 . Pare però davvero difficile aspettarsi dall’aggettivo “generali” una chiara indicazione per
discriminare ciò che è di competenza dello Stato da ciò che invece non lo è. In assenza di ulteriori
riferimenti, il “livello di generalità” cui dovrebbe arrestarsi la legislazione statale appare affidato
all’arbitrio interpretativo del Giudice costituzionale, da cui – almeno se si osserva l’esperienza
concernente i “principi fondamentali” – non pare lecito attendersi contributi convintamente orientati nel
senso della garanzia degli enti territoriali. Alla luce di tali considerazioni, sembra nel complesso da
condividere l’opinione di chi ha ritenuto che la “clausola di colegislazione” in parola non sia in grado di
rappresentare un valido presidio dell’autonomia normativa regionale, dal momento che il legislatore
statale «in tutte le materie in cui è autorizzato a porre norme generali» si ritroverebbe «in condizione di
definire pressoché liberamente l’area di estensione della disciplina regionale», restando assoggettato nella
sostanza ad un mero controllo di non irragionevolezza73.
C. Salazar, Il procedimento legislativo e il ruolo del nuovo Senato, in http://www.issirfa.cnr.it/7575,908.html.
Uno spunto in tal senso è reperibile in A. Sterpa, Le riforme costituzionali e legislative del 2014, cit., 6;
71 La stessa C. Salazar, Il procedimento legislativo, cit., par. 4, suggerisce di modificare le disposizioni approvate al riguardo ad
agosto per valorizzare il ruolo del Senato delle autonomie sul fronte della iniziativa legislativa in riferimento alle disposizioni
generali e comuni, proprio perché ritiene che l’ipotesi richiamata nel testo ben «potrebbe essere smentita nella prassi
applicativa».
72 Applicando un criterio simile (del resto costruito sulla esplicita previsione dell’art. 117, secondo comma, lett. l) la sent. n.
232 del 2011 ha ritenuto costituzionalmente illegittima la previsione delle c.d. “zone a burocrazia zero”, non qualificabile
“livello essenziale delle prestazioni”.
73 G. Scaccia, Prime note sull‟assetto delle competenze legislative statali e regionali, cit., 6.
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Ove si voglia provare a delineare sinteticamente le differenze tra il regime giuridico delle materie di
competenza esclusiva limitate dal riferimento alle “disposizioni generali e comuni” e quelle affidate alla
attuale competenza concorrente, è forse possibile attirare l’attenzione sui seguenti profili: a) nell’un caso
come nell’altro dovrebbe essere individuato un limite alla competenza statale 74 : solo che quello delle
“disposizioni generali e comuni” ha tutta l’aria di essere ancor più indefinibile di quello dei “principi
fondamentali”, con ciò che questo comporta in relazione alla difficoltà di “arginare” giurisdizionalmente
la vis espansiva del legislatore statale; b) se è molto difficile ritenere che l’espressione “disposizioni
generali e comuni” valga a contenere la competenza statale nella prassi, si deve comunque osservare che,
soprattutto negli ultimi tempi e in alcune materie (per tutte, il coordinamento della finanza pubblica), neanche
il vigente art. 117, terzo comma, Cost., è efficacemente servito allo scopo; c) non è detto che la norma
“generale” richieda necessariamente una normativa regionale di dettaglio per la sua attuazione e
specificazione, ben potendo esaurire in se stessa la propria operatività75; d) un significativo elemento in
direzione diversa potrebbe derivare invece dalla tesi secondo la quale la “disposizioni generali e comuni”
non potrebbero mai essere desunte dalla legislazione vigente ma dovrebbero invece sempre essere
espresse76; e) infine, una differenza della quale non pare lecito dubitare è rappresentata dalla possibilità, per
lo Stato, di dettare “disposizioni generali e comuni” anche con fonte regolamentare, ai sensi dell’art. 117,
sesto comma, Cost.
4.5. La clausola di supremazia, il recupero dell’interesse nazionale e la sorte della “sussidiarietà
legislativa”
Il recupero dell’idea della preminenza dell’indirizzo politico centrale su quello regionale, che, come si è
visto, sembra stare alla base di più d’una delle “clausole di colegislazione”, è assolutamente evidente nella
“clausola di supremazia” di cui all’art. 117, quarto comma, Cost., imperniata proprio sull’interesse
nazionale. Tale titolo di legittimazione dell’intervento statale, infatti, risulta assolutamente assorbente
Per questa ragione è senz’altro condivisibile l’opinione di chi ha ritenuto «meramente linguistica», e dunque irrilevante,
l’assonanza dell’espressione in commento con quella dell’art. 17 della legge n. 400 del 1988 in tema di delegificazione, ambito
nel quale, come è noto, alcun limite è posto alla legge statale, che, al contrario, deve porre le “norme generali regolatrici della
materia” per rispettare le riserve relative di legge (A. Ruggeri, Quali insegnamenti, cit., 20, nt. 40).
75 Questo spunto è desumibile, come si è visto, dalla citata sent. n. 200 del 2009, in tema di istruzione. È però ben noto che in
altre materie nelle quali la Corte non ha il problema di distinguere i “principi fondamentali” dalle “norme generali”, ai primi
sono state ricondotte senza troppi problemi previsioni indubbiamente specifiche ed autoapplicative. Per tutte, si veda ad
esempio la sent. n. 151 del 2012, che ha respinto le censure regionali nei confronti della norma che vieta di corrispondere
qualunque emolumento agli amministratori di formazioni associative di enti locali, restando consentito soltanto un gettone, al
più, di 30 euro a presenza, discorrendo, al riguardo, del “principio di gratuità” delle cariche.
76 Così G. Rivosecchi, Riparto legislativo, cit., 8. In effetti l’inedita utilizzazione del termine “disposizione” potrebbe deporre in
tal senso: posto che il titolo di intervento in questione riguarda ovviamente sempre norme, si potrebbe ritenere che esso non
giustifichi norme statali senza disposizione, ossia norme generali ricavate induttivamente da disposizioni in grado di porre (in prima
battuta) solo norme particolari. Viceversa, sarebbe necessario che la norma generale avesse a proprio sostegno una disposizione
immediatamente in grado di esprimerla.
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rispetto all’altro, pur contemplato dalla disposizione in questione, nell’unità giuridica ed economica.
L’esperienza tedesca, cui gli odierni riformatori si sono evidentemente inspirati, mostra del resto con
chiarezza che le clausole di limitazione inserite nell’art. 72 GG per “contenere” la vis espansiva degli
interventi del Bund, non sono state in grado di porre significativi ostacoli ad un uso molto pervasivo di
questa clausola, nonostante le riforme che sul punto si sono succedute.
Deve ad ogni modo essere notato che tramite quello che si candida ad essere il nuovo art. 117, quarto
comma, Cost., potrebbe essere del tutto smantellato il “paradigma collaborativo” della c.d. “sussidiarietà
legislativa”, messo a punto dalla Corte costituzionale a partire dalle ben note sentt. nn. 303 del 2003 e 6
del 2004. Come è noto, in tali circostanze la giurisprudenza costituzionale ammette la avocazione da
parte dello Stato di una funzione amministrativa in una materia regionale a patto che la Regione sia
inadeguata allo svolgimento di detta funzione, e che il procedimento amministrativo disciplinato dalla
legge statale preveda la acquisizione di una intesa c.d. “forte” con la Regione interessata 77. Ebbene, non
pare peregrino che la legge adottata dallo Stato ex art. 117, quarto comma, Cost. (nel “nuovo” testo)
potrebbe non dover necessariamente contenere previsioni siffatte. Ciò per diverse ma concorrenti
ragioni.
I. In primo luogo, il titolo di intervento costituito dall’interesse nazionale (e dall’unità giuridica ed
economica) è in grado senza problemi di soppiantare quello rappresentato dalla inadeguatezza del livello
regionale allo svolgimento di una funzione amministrativa che, ad oggi, rappresenta ex art. 118, primo
comma, Cost. il presupposto per l’attivazione della “sussidiarietà legislativa” dello Stato78. E ad un nuovo,
diverso, ed esplicito presupposto giustificativo dell’intervento ben potrebbe corrispondere un diverso
regime giuridico di quest’ultimo, tanto più che per definire tale regime giuridico andrebbe considerato
che il “nuovo” testo costituzionale predisporrebbe, per la collaborazione con il sistema delle autonomie,
la possibilità del Senato di intervenire nel procedimento legislativo.
II. In secondo luogo, appare evidente che le potenzialità della “clausola di supremazia” sono molto più
vaste di quelle dell’istituto di matrice giurisprudenziale. Il meccanismo messo a punto dalla Corte
costituzionale tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, infatti, può operare solo in presenza e in ragione
della necessità di avocare al centro una specifica funzione amministrativa, non essendo invocabile per norme
Si ricordi tuttavia che, a partire dal 2010, la giurisprudenza costituzionale ha gradualmente ammesso la possibilità che il
legislatore statale, sia pure nel rispetto di congrue garanzie procedimentali a beneficio della Regione, possa prevedere
meccanismi di superamento dello stallo dovuto alla mancata acquisizione dell’intesa. Si vedano, al riguardo, le sentt. nn. 278
del 2010, 33 e 165 del 2011, nonché 39, 62 e 239 del 2013.
78 Attira convincentemente l’attenzione su questi aspetti P. Bilancia, Regioni, enti locali e riordino del sistema delle funzioni pubbliche
territoriali, in RivistaAIC n. 4/2014, 6.
77
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aventi un mero fine regolativo, di attività di privati o di funzioni amministrative regionali o locali 79 .
L’intervento in supremazia, invece, appare integralmente costruito sul versante della funzione legislativa,
giustificandosi in tal modo incursioni statali su materie regionali che prescindono dalla “ascensione” di
una funzione amministrativa. In tali circostanze mancherebbe dunque la stessa attività amministrativa
statale in relazione alla quale prevedere la necessarietà dell’intesa con la Regione interessata.
III. Infine, ove si volesse in ogni caso applicare il paradigma giurisprudenziale della sussidiarietà
legislativa alla legge contenente una “clausola di supremazia”, si scoprirebbe che, comunque, non sarebbe
necessario che tale legge prevedesse una intesa “forte”. In base ad una delle due sentenze-capostipite,
infatti, la legge statale che avoca funzioni in sussidiarietà in materie diverse da quelle di competenza
esclusiva debba prevedere una intesa sull’esercizio di tale funzione soltanto «nella perdurante assenza di
una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi» 80: ove
andasse in porto la riforma costituzionale de qua, la auspicata “trasformazione delle istituzioni
parlamentari e dei procedimenti legislativi” finalmente vi sarebbe. Anche restando nell’ambito del
paradigma della sussidiarietà legislativa, dunque, stando alla giurisprudenza costituzionale, verrebbe meno
la necessità di prevedere quelle forme collaborative, anche particolarmente intense, che ad oggi la legge
statale deve contenere per superare il vaglio di legittimità costituzionale. Che poi la “trasformazione” di
istituzioni parlamentari e procedimento legislativo sia effettivamente idonea a veicolare meccanismi
collaborativi adeguati, è ovviamente tutt’altro discorso: non si dimentichi, al riguardo, che ai sensi dell’art.
70, nel nuovo testo, la clausola di supremazia sarebbe attivabile tramite un procedimento legislativo a
maggioranza assoluta (LMA): senza, dunque, che il Senato possa opporre veti non superabili da quella
che, ordinariamente, è la maggioranza di governo.
Come si vede, non pare che le deboli istituzioni giurisprudenziali della leale collaborazione, basate sulle
logiche del principio di sussidiarietà, possano offrire argini in grado di resistere alla forza dirompente
dell’interesse nazionale. E non è certo un caso che sia così. Sottesa alla qualificazione di un fenomeno
come di “interesse nazionale”, infatti, sta inevitabilmente la supremazia dell’indirizzo politico portato da
chi opera quella qualificazione rispetto a quello di chi tale qualificazione subisce, e che subisce anche la
conseguente “espropriazione” di competenze. Il recupero della clausola dell’interesse nazionale, sia quale
criterio di riparto della funzione legislativa in determinate materie, sia, soprattutto, quale presupposto
generale e straordinario di intervento della legge dello Stato, è dunque in grado di ribaltare del tutto la
La giurisprudenza costituzionale si è nel complesso mantenuta fedele a questa linea: salvo errore, le uniche eccezioni in cui
si legittima la “sussidiarietà legislativa” in assenza della corrispondente avocazione di una funzione amministrativa sono le
sentt. nn. 151 del 2005 (in tema di contributo per l’acquisto di un decoder), 347 del 2007 (in tema di camere di commercio), 88
del 2007 e 76 del 2009 (ambedue in materia di turismo).
80 Sent. n. 6 del 2004, par. 7 del Considerato in diritto.
79
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logica della riforma del 2001 e del principio di sussidiarietà come criterio ordinatore dei rapporti tra gli
enti territoriali, nel cui solco tuttavia gli odierni riformatori affermano di volersi porre. Il che rende
decisamente condivisibile l’opinione di Raffaele Bifulco, secondo cui dalla disposizione in esame «appare
evidente l’intenzione di permettere allo Stato di comprimere, sostanzialmente a suo piacimento, la
potestà legislativa delle Regioni»81.
Solo un aspetto della “nuova” clausola di supremazia sembra porre allo Stato vincoli più stringenti di
quanto non faccia la “vecchia” sussidiarietà legislativa: dal testo di quello che potrebbe essere il futuro
art. 117, quarto comma, Cost., pare agevolmente desumibile una riserva di legge formale, discorrendosi di
“legge dello Stato” adottata “su proposta del Governo”. Manca, dunque, la possibilità di attivare questa
clausola tramite atti normativi primari dell’esecutivo: ipotesi invece senz’altro ammessa dalla
giurisprudenza costituzionale per la sussidiarietà legislativa82.
5. Segue: il ruolo del Senato
5.1. Premessa
Come si è visto, sul versante del riparto delle competenze il saldo è complessivamente molto
penalizzante per le Regioni, sia per il riassetto delle materie derivante dallo “spacchettamento” della
competenza legislativa concorrente, sia – e forse soprattutto – per la riacquisita preminenza dell’indirizzo
politico statale sottesa a molte clausole di colegislazione e, ancor di più, alla c.d. “clausola di supremazia”
di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. Le ragioni dell’autonomia, da questo punto di vista, appaiono
davvero sacrificate. Il ruolo del Senato nel procedimento legislativo riesce, almeno in parte, a riequilibrare
tale sacrifico? Riesce a realizzare quel trade-off tra competenze e partecipazione auspicato dalla Relazione
governativa? E riesce, come promesso nella stessa Relazione, a ridurre la conflittualità costituzionale?
R. Bifulco, Il Senato che verrà: Assemblea legislativa o Conferenza camuffata?, in www.confronticostituzionali.eu, 21 marzo 2014. In senso
analogo, anche alla luce del mantenimento nel sistema dei poteri sostitutivi straordinari ex art. 120, secondo comma, Cost., P.
Bilancia, Regioni, enti locali e riordino del sistema delle funzioni pubbliche territoriali, cit., 6.
82 Sul tema può essere utile un’ultima notazione. Come si diceva, perché si possa utilizzare la clausola di supremazia il testo
ritiene necessaria una “proposta” governativa. Ma sarà necessaria una proposta esplicita in tale senso, nella quale il Governo
renda palese preventivamente la volontà di utilizzare tale clausola, oppure dovrà ritenersi sufficiente anche una proposta implicita,
contenuta in un qualsiasi disegno di legge, o magari anche solo in un emendamento di origine governativa, senza particolare
legame con tale disposizione costituzionale? Tale problema è stato sollevato da B. Caravita, Glosse scorrendo il testo della proposta
Renzi, cit., 6.
Anche se (forse) le intenzioni dei proponenti sono nel primo senso, mi pare probabile che la giurisprudenza costituzionale si
possa attestare nel secondo senso: ma il risultato, allora, è quello di aver costruito l’ennesimo meccanismo di giustificazione ex
post di invasioni di competenze operate dallo Stato a danno delle Regioni, disinnescando lo strumento di assunzione pubblica di
responsabilità da parte del Governo e la corrispettiva “vigilanza” senatoriale. Basta che la legge nella quale la norma è inserita abbia
seguito il procedimento “a maggioranza assoluta” (anche se poi in concreto il Senato non ha disposto il richiamo), perché il
requisito procedimentale di cui si tratta possa ritenersi rispettato, senza che ci sia stata in alcun modo la preventiva assunzione di
responsabilità da parte del Governo ed il relativo dibattito pubblico cui la disposizione di riforma parrebbe a prima vista
alludere.
81
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Per rispondere a quest’ultima domanda vanno considerati sia gli aspetti funzionali che quelli organizzativi
della nuova assemblea di Palazzo Madama. Se ci aspettiamo che il nuovo Senato contribuisca a
deflazionare il contenzioso costituzionale, a realizzare una maggiore “saldatura” tra l’indirizzo politico
statale e quello che matura nei contesti regionali, rappresentando una sede “collocata” al centro, e in
grado di evitare che le scelte politiche della Repubblica siano una mera imposizione dell’indirizzo politico
statale su quelli delle Regioni, ci sono delle condizioni che è necessario rispettare affinché questi obiettivi
siano raggiunti.
Quanto agli aspetti funzionali, bisognerebbe accettare l’idea che su una parte delle scelte politiche centrali
il sistema dei territori rappresenti un autentico veto player, e che dunque l’indirizzo politico centrale non
possa essere, in quei settori, semplicemente “statale”, quanto piuttosto indirizzo politico della Repubblica
nel suo complesso. Ovviamente è necessario evitare che la concessione di eccessivi poteri di veto al
Senato determini il rischio del blocco del sistema decisionale centrale. D’altro canto, il Senato dovrebbe
comunque avere poteri significativi, in grado di incidere realmente nei processi di deliberazione pubblica:
se così non fosse, esso non potrebbe costituire nulla di più che una efficace cassa di risonanza dei punti
di vista delle Regioni. Certamente non contribuirebbe a formare un indirizzo politico centrale
autenticamente condiviso con le periferie, e non riuscirebbe, pertanto, a fornire le prestazioni sopra
accennate. Deve, dunque, essere ricercato un equilibrio perché possa essere guadagnata la “lealtà
federale” delle Regioni, senza sacrificare la funzionalità del sistema di governo centrale. I poteri del
Senato dovrebbero essere incisivi, ma circoscritti quanto ad estensione. Con una formula presa in
prestito da Giancarlo Doria, si può dire che il Senato dovrebbe avere deep powers, ma few powers: poteri
profondi per incidere, ma non tanto estesi da bloccare83.
Quanto al profilo strutturale, che caratteristiche deve avere una seconda camera per rispondere a queste
attese? Certamente non può essere frutto di una elezione diretta. Per raggiungere gli obiettivi accennati
abbiamo bisogno di optare per modalità organizzative che consentano di connettere in modo certo ed
indissolubile l’indirizzo politico che si forma nel raccordo Consiglio-Presidente al livello regionale e i
senatori espressi dalla Regione considerata.
Vediamo quanto le scelte compiute dagli odierni riformatori sono in grado di rispondere a queste
esigenze.
83
G. Doria, The Paradox of Federal Bicameralism, in www.eurac.edu/edap, 2006.
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5.2. L’intervento nel procedimento legislativo
In relazione agli strumenti di intervento del nuovo Senato nel procedimento legislativo, risulta evidente
come essi siano, nella maggior parte dei casi, e soprattutto nei casi più importanti, davvero delle armi
spuntate. Considerando la esiguità e il tipo di materie affidate alla legislazione paritetica tra Camera e
Senato (LP), si può senza problemi affermare che il Senato viene relegato ad un ruolo sostanzialmente
consultivo, con pareri sempre superabili, anche in numerose materie ad alta “incidenza regionale”. Per di più
lo svolgimento di questo ruolo interdittivo è stato reso più difficile dal recente esame in Commissione a
Montecitorio, che, come si è visto più sopra, ha elevato le maggioranze necessarie per esercitarlo. Il fatto
che in alcuni significativi casi sarà necessaria la maggioranza assoluta alla Camera per superare le proposta
senatoriale non rappresenta un valido elemento in contrario, visto che si tratta evidentemente di un
obiettivo non troppo difficile da raggiungere per la maggioranza di governo, soprattutto se la riforma
costituzionale facesse corpo, secondo il progetto politico attualmente in essere, con una legge elettorale
che puntasse a garantire ex lege l’esistenza di una maggioranza precostituita alla Camera, sul modello del
cd. Italicum84.
Certamente, come si è già avuto modo di notare, rispetto alla proposta governativa sono aumentati in
modo significativo gli ambiti in cui è richiesta la LP, che nella proposta governativa erano limitati alle
leggi costituzionali e di revisione costituzionale. Di particolare rilievo appaiono soprattutto le previsioni
che attribuiscono alla legislazione condivisa tra Camera e Senato le norme concernenti l’art. 117, secondo
comma, lett. p), Cost., e quelle riguardanti l’art. 122, primo comma, Cost. Si tratta di materie di grande
importanza per le autonomie territoriali, che si potrebbero definire a carattere “ordinamentale”, anche se,
negli ultimi anni, gli interventi sull’ordinamento degli enti locali hanno spesso avuto un carattere
piuttosto “congiunturale”, volto a rispondere alle difficoltà della crisi economica.
La gestione ordinaria di politiche in grado di incidere anche molto profondamente sugli interessi e le
funzioni regionali viene invece affidata senz’altro alla legislazione a prevalenza della Camera, in molti e
significativi casi anche tramite la LMS: senza che, dunque, per superare i voti contrari del Senato sia
necessaria la maggioranza assoluta. Così è, ad esempio, per le norme di «coordinamento della finanza pubblica
e del sistema tributario», nonché quelle, strettamente connesse, di «armonizzazione dei bilanci pubblici»; per le
disposizioni generali e comuni in tema di «tutela della salute», «istruzione» e «turismo»; per la legislazione,
davvero potenzialmente pervasiva, in materia di «procedimento amministrativo» e «rapporto di lavoro presso le
pubbliche amministrazioni». Ancora, anche interventi di grandissima incidenza sulle realtà regionali come
quelli delle «infrastrutture strategiche» potranno essere adottati seguendo tale procedimento legislativo.
84
In senso analogo, ad es., anche R. Bifulco, Il Senato che verrà: Assemblea legislativa o Conferenza camuffata?, cit.
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Appena maggiore è il ruolo del Senato sulla adozione di leggi il cui impatto sugli assetti delle Regioni è in
grado di essere davvero travolgente. Si pensi non solo alle disposizioni generali e comuni in materia di
«governo del territorio», ma anche ad un importantissimo strumento della politica economico-finanziaria
dello Stato come la legge “rinforzata” di cui all’ultimo comma dell’art. 81 Cost. – la cui competenza, a
differenza di quanto accaduto fino ad ora con il “coordinamento della finanza pubblica”, «non appare in
alcun modo limitata ai principi generali»85 – nonché alla “clausola di supremazia”. In tutti questi casi le relative
leggi potranno essere adottate anche contro il voto contrario del Senato con la “sola” approvazione a
maggioranza assoluta da parte della Camera. Considerando che tramite la legge “organica” di cui all’art.
81 è possibile imporre vincoli molto stringenti e invasivi alla finanza regionale86, e che con la clausola di
supremazia si può ribaltare senza troppi problemi l’intero riparto di competenze stabilito dall’art. 117
Cost. tramite la mera allegazione “non irragionevole” dell’interesse nazionale, si deve concludere che in
tema, ove si fosse davvero voluto perseguire gli obiettivi indicati nella Relazione introduttiva, il
coinvolgimento delle autonomie territoriali tramite il Senato avrebbe dovuto essere ben maggiore.
In sintesi, ove si consideri che, nell’ambito del procedimento a maggioranza semplice (LMA) il Senato è
in grado di partecipare a tutta la legislazione statale, possiamo forse dire che gli ambiti di intervento ad
esso assegnati non sono affatto pochi, ma decisamente estesi. I poteri di cui dispone, però, alla luce di
quanto appena notato, non possono essere certo definiti profondi, posto che, nella maggior parte dei casi,
e certamente nei casi più significativi, l’ordinaria maggioranza di governo sarà in grado di disfarsi
agevolmente dei tentativi di veto provenienti da Palazzo Madama.
5.3. Il legame con le istituzioni regionali
Già questi primi sommari rilievi, dunque, suggeriscono che le forti spinte alla ricentralizzazione
provenienti dal nuovo riparto di competenze non sembrano essere controbilanciate dal ruolo che il
Senato è in grado di assumere nel procedimento legislativo. Queste conclusioni sono peraltro
ulteriormente avvalorate dalla considerazione della composizione dell’assemblea di Palazzo Madama. È utile
ricordare in proposito che quello di far sì che tale assemblea fosse in grado di esprimere un saldo legame
con le istituzioni regionali è un obiettivo asseritamente perseguito dall’intervento di riforma (almeno a
leggere la Relazione di accompagnamento). Del resto, come si evidenziava più sopra, il suo
raggiungimento è comunque indispensabile al fine di ottenere prestazioni interessanti dalla nuova Camera
Così la sent. n. 88 del 2014, al par. 7.1 del Considerato in diritto.
Per la dottrina, sul punto, cfr. M. Cecchetti, Legge costituzionale n. 1 del 2012 e Titolo V della Costituzione: profili di contro-riforma
dell‟autonomia regionale e locale, in www.federalismi.it, 24/2012; G. Rivosecchi, Il coordinamento della finanza pubblica, cit., 201 ss.; G.M.
Salerno, Dopo la norma costituzionale sul pareggio di bilancio: vincoli e limiti all‟autonomia finanziaria delle Regioni, in Quad. cost., 2012, 563
ss., part. 580 ss.; per la giurisprudenza costituzionale cfr. invece soprattutto la citata sent. n. 88 del 2014.
85
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alta. A tacer d’altro, sono le Regioni che possono impugnare le leggi statali, e che devono darvi attuazione
legislativa. Bisogna, dunque, ricercare in tutti i modi possibili la coerenza tra le deliberazioni senatoriali e
l’indirizzo politico che si forma nel raccordo Consiglio-Presidente nella maggioranza delle Regioni.
Nel testo di riforma qui in discussione, come è noto, si rinunzia alla elezione diretta, e questo è senza
dubbio un elemento positivo, poiché altrimenti si costruirebbe una assemblea del tutto slegata dalle
istituzioni regionali, incapace di esprimere un credibile legame con queste ultime (e peraltro
inspiegabilmente esclusa dal circuito fiduciario). Tuttavia non si può dire che le soluzioni accolte siano
soddisfacenti, almeno ove si condividano le considerazioni più sopra esposte. I senatori conservano
intatto il libero mandato: non è previsto alcuno strumento per legare la posizione espressa da ciascuno di
essi all’indirizzo delle istituzioni politiche della Regione da cui provengono, o almeno per rendere
probabile la corrispondenza della prima al secondo (come avrebbe potuto essere, ad esempio, la previsione
di un voto unitario di delegazione da esercitare sulla base di una deliberazione da adottare a maggioranza
all’interno di quest’ultima) 87. Come si è avuto modo di evidenziare più sopra, inoltre, i Presidenti di
Regione non solo non sono membri di diritto del Senato, ma non potrebbero neanche esservi eletti ove il
relativo statuto regionale prevedesse l’impossibilità, per i medesimi, di far parte del Consiglio. Diversi
statuti si sono orientati nel senso della necessaria appartenenza del Presidente al Consiglio. Non si tratta,
però, di una scelta obbligata. Tale situazione rappresenta senza dubbio un ulteriore fattore di
indebolimento del legame tra senatori di origine “regionale” e indirizzo politico delle istituzioni di
appartenenza. Per di più, la presenza di un senatore per delegazione di origine comunale rende ancor più
inadeguato questo assetto organizzativo a esprimere indirizzi concordanti rispetto all’indirizzo politico
che emerge nella maggioranza delle istituzioni politiche regionali, stante il noto e ormai tradizionale
conflitto di interessi che spesso sussiste tra istituzioni regionali e locali. Del resto, proprio alla luce di tale
ultima considerazione, si può osservare come sarebbe probabilmente contraddittorio prevedere
contemporaneamente la presenza di membri “comunali” e meccanismi in grado di far valere l’unitarietà
del voto di ciascuna delegazione regionale.
In sintesi, nell’assetto organizzativo disegnato dal testo approvato in agosto, il legame con le istituzioni
territoriali esiste, ma è a bassa intensità già nella componente di origine regionale a causa del libero
mandato, mentre è pressoché inesistente nei membri di origine locale, che anzi sono potenziali portatori
di interessi contrapposti con quelli regionali, nonostante l’elezione avvenga sempre ad opera dei consigli
regionali. Anche da questo punto di vista, dunque, le scelte compiute dagli odierni riformatori non
Si era provato ad avanzare una proposta di tal genere in S. Pajno, Per un nuovo bicameralismo, tra esigenze di sistema e problemi
relativi al procedimento legislativo, in ww.federalismi.it, n. 4/2014, cui sia consentito rinviare.
87
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sembrano in grado di dar seguito alle “promesse” della Relazione di accompagnamento, né, più in
generale, di rispondere alle esigenze che oggi premono.
5.4. Le norme sulla rappresentanza e sul libero mandato
Il quadro sopra accennato è scolpito in modo sintetico, ma efficace, da quelli che potrebbero essere i
nuovi artt. 55 e 67 Cost. La prima di queste due disposizioni prevederebbe che «ciascun membro della
Camera dei deputati rappresenta la Nazione», e che «il Senato della Repubblica rappresenta le autonomie territoriali».
D’altra parte – come già si accennava più sopra – viene mantenuto nell’art. 67 il divieto di mandato
imperativo per tutti «i membri del Parlamento»88.
Alla luce di queste disposizioni, che quadro emergerebbe per la rappresentanza politica e territoriale in
Italia? Certamente un quadro composito, nel quale dovrebbero trovare la propria collocazione:
i) una rappresentanza politica nazionale affidata ai deputati, nella quale trovano forma i processi di
unificazione politica generale;
ii) una rappresentanza politica regionale, che caratterizza le istituzioni territoriali, nella quale trovano corpo
i processi di unificazione politica di livello, appunto, regionale;
iii) una rappresentanza del sistema autonomistico complessivamente inteso, affidata all’AssembleaSenato, che però, come si è mostrato, non ha alcuna connessione necessaria con quella di cui al punto ii),
o comunque una connessione debolissima;
iv) infine, a livello legislativo, è verosimile che permanga la conferenza Stato-Regioni 89 , chiamata a
svolgere una funzione rappresentativa funzionalmente analoga a quella sub iii), però con quel legame
strutturato con le istituzioni territoriali che al Senato manca. E nonostante ciò continuerebbe ad avere
funzioni solo sul versante dell’amministrazione e comunque non garantite in Costituzione, venendo anzi
a perdere, per le ragioni più sopra accennate, quelle ad oggi connesse al paradigma della c.d. “sussidiarietà
legislativa”90.
L’assetto delle norme concernenti la rappresentanza costituisce una chiave davvero privilegiata per
sintetizzare il ruolo del Senato nel (possibile) nuovo sistema istituzionale, nonché i problemi ad esso
connessi. Lo scollamento (o la connessione solo eventuale ed episodica) tra il livello di rappresentanza
sub ii) e quello sub iii), ribadisce con chiarezza l’inadeguatezza del Senato rispetto alle prestazioni che dal
Così già nel testo governativo. Si tratta di un punto non modificato né dal Senato, né, fino ad ora, nell’esame alla Camera.
Cfr. A. Ruggeri, Quali insegnamenti, cit., 17.
90 In questo quadro, infine, andrebbero collocati anche i senatori di nomina presidenziale, che al momento sembrano
permanere nella composizione del Senato (come si è provato a mostrare supra, nel par. 3.1), nonché gli ex Presidenti della
Repubblica, la cui funzione rappresentativa all’interno di una assemblea chiamata a rappresentare le istituzioni territoriali
appare difficilmente spiegabile. Critico nei confronti della presenza membri di nomina presidenziale, che andrebbero piuttosto
collocati nell’ambito della Camera dei deputati, B. Caravita, Questioni di metodo, cit., 5.
88
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medesimo ci si dovrebbe attendere, e che in effetti sembrano essere prefigurate, almeno in parte, dalla
Relazione di accompagnamento al disegno di legge governativo. Così come risulta da quest’ultimo, non appare
una istituzione in grado di esprimere autorevolmente il punto di vista emergente nell’indirizzo politico
maggioritario presso le istituzioni regionali, sia a causa del libero mandato (dei membri di origine
consiliare)91 sia a causa della presenza “inquinante” dei membri di origine comunale92.
Da questo punto di vista, risulterà di particolare interesse (ove la riforma dovesse effettivamente andare
in porto), verificare se il Giudice costituzionale seguirà a ritenere costituzionalmente necessaria la
collaborazione “a valle” della decisione legislativa, secondo i paradigmi giurisprudenziali che possono
forse essere denominati il “della forte incidenza” e il “dell‟intreccio”93. Secondo il primo, quando l’intervento
dello Stato, pur indubbiamente realizzato in un ambito di competenza di quest’ultimo, ha una “forte
incidenza” sull’esercizio di funzioni regionali, il legislatore statale deve prevedere forme di collaborazione
per l’esercizio delle funzioni statali di rango sublegislativo94. In base al secondo, invece, quando si verifica
un “intreccio inestricabile” tra materie statali e materie regionali, tale per cui non è possibile, neanche
facendo uso del criterio di prevalenza, individuare l’ambito materiale nel quale ricade una determinata norma
o un certo complesso normativo, allora la legge statale è costituzionalmente legittima solo se prevede
adeguate forme di collaborazione con le Regioni95.
Lasciando da canto l’ipotesi in cui la Corte oggi ritiene necessario l’intervento collaborativo della singola
Regione specificamente interessata, rilevano maggiormente in questa sede i casi del tipo in cui i giudici di
Palazzo della Consulta affermano la necessarietà costituzionale dell’intervento collaborativo del “sistema”
La previsione del libero mandato anche per i componenti del Senato è stata criticata da una parte significativa della dottrina.
Si vedano, ad es., F. Bilancia, Oltre il bicameralismo paritario. Osservazioni a margine del ddl Renzi, cit., (che la definisce «del tutto
insensata»); G. De Vergottini, Sulla riforma radicale del Senato, in in www.federalismi.it, n. 8/2014, 2; A. Poggi, Funzioni e funzionalità
del Senato delle autonomie, in www.federalismi.it, 3; G. Puccini, La riforma del bicameralismo in Italia, in Astrid Rass., n. 6/2014, 27-28;
A. Ruggeri, Quali insegnamenti, cit., 14; C. Salazar, La riforma dello Stato regionale in Italia, cit., par. 2. Una valutazione positiva
emerge invece da B. Caravita, Glosse scorrendo il testo della proposta Renzi, cit., 2-3;
92 In dottrina è stato sostenuto che i senatori «per forza di cose non potrebbero non essere vincolati in linea di fatto dalla
realtà istituzionale locale di appartenenza» (G. De Vergottini, Sulla riforma radicale del Senato, cit., 2). Tale punto di vista pare
essere però troppo ottimista: nella fluidità dei rapporti politici i senatori non appariranno legati ai Consigli regionali da cui
provengono, che si limitano ad eleggerli (né lo saranno, ovviamente, al Governo in assenza del rapporto fiduciario e della
possibilità dello scioglimento anticipato). Il rischio, dunque, è quello di contribuire fortemente alla autoreferenzialità delle
dinamiche politiche senatoriali. Ad ogni modo, il risultato contrario non sarebbe stato garantito dalla mera eliminazione del
divieto di mandato imperativo, dal momento che sarebbe stato necessario prevedere appositi congegni istituzionali in grado di
strutturare un vincolo funzionale tra senatori e istituzioni di provenienza.
93 Sia consentito sul punto un rinvio a S. Pajno, La sussidiarietà e la collaborazione interistituzionale, in Trattato di diritto dell‟ambiente
diretto da R. Ferrara e M.A. Sandulli, vol II, I procedimenti amministrativi per la tutela dell‟ambiente, a cura di S. Grassi e M.A.
Sandulli, Milano, Giuffrè, 2013, 403 ss.
94 Si vedano, ad esempio, le sentt. nn. 88 del 2003; 250, 251 e 232 del 2009; 54 del 2012.
95 Cfr., ad es. sentt. nn. 229 del 2012, 330 del 2011, 339 del 2009, 124 del 2009, 219 del 2005, 50 del 2005, 278 del 2010 e 88
del 2009.
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delle autonomie, per il tramite delle Conferenze 96 . Ebbene, in tali circostanze, delle due l’una: o si
riterranno sufficientemente soddisfatte le esigenze collaborative del sistema delle autonomie per effetto
della sempre possibile partecipazione del Senato al procedimento legislativo, con il risultato però di
affidarne la sorte ad una assemblea, come si è visto, ben poco legata alle istituzioni territoriali; oppure si
riterrà perdurante l’esigenza costituzionale di una collaborazione “a valle” della decisione legislativa
tramite il sistema delle Conferenze, certamente più qualificato ad esprimere il punto di vista degli enti
territoriali, sancendo però così chiaramente l’inadeguatezza del Senato a svolgere tali compiti.
6. Segue: la configurazione della Regione come ente amministrativo e la damnatio memoriae
della Provincia
Quanto al sistema amministrativo, bisogna riconoscere che non è facile fare previsioni concernenti gli
effetti che al riguardo produrrà la riforma costituzionale in itinere ove entrasse effettivamente in vigore. Al
riguardo sono state proposte diverse ricostruzioni.
Secondo una prima possibile lettura, l’effetto combinato della compressione delle funzioni legislative
delle Regioni, della mancanza del loro ruolo di colegislatori a livello centrale, e della soppressione delle
Province, avrebbe l’esito di determinare la forte amministrativizzazione delle Regioni. Ove la riforma
andasse in porto, le Province non figurerebbero più tra gli enti costitutivi della Repubblica ai sensi
dell’art. 114 Cost., e di conseguenza ad esse non potrebbero più essere attribuite le funzioni
sovracomunali, che andrebbero invece allocate al livello regionale. In sintesi, si ribalterebbe
completamente l’idea propria dell’originario Titolo V, secondo la quale le Regioni dovevano invece essere
enti ad amministrazione tendenzialmente indiretta 97 , e si approfondirebbe la prassi (da sempre
considerata degenerativa) che sovente ha portato a fare di queste ultime imponenti apparati
amministrativi dalla dubbia efficienza. Tale approccio è stato accostato in dottrina alla considerazione che
delle Regioni aveva Guido Zanobini, secondo il quale esse dovevano limitarsi ad adattare le leggi statali
Così, ad esempio, in applicazione del “paradigma della forte incidenza”, la già citata sent. n. 88 del 2014, che ha ritenuto
incostituzionale l’art. 12, comma 3, della legge n. 243 del 2012 «nella parte in cui prevede che il decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri, che ripartisce il contributo di cui al medesimo articolo, sia adottato sentita la Conferenza permanente
per il coordinamento della finanza pubblica, anziché d’intesa con la Conferenza unificata». Ciò in quanto se da un lato «è
innegabile che il concorso alla sostenibilità del debito nazionale è un aspetto fondamentale della riforma», dall’altro «esso ha
una rilevante incidenza sull’autonomia finanziaria delle ricorrenti». Secondo la Corte ciò impone «l’esigenza di “contemperare
le ragioni dell’esercizio unitario di date competenze e la garanzia delle funzioni costituzionalmente attribuite” alle autonomie
(sentenze n. 139 del 2012 e n. 165 del 2011; nello stesso senso, sentenza n. 27 del 2010)», garantendo «il loro pieno
coinvolgimento» (par. 10.3 del Considerato in diritto).
97 Merita essere ricordata, in questa sede, la nota definizione gianniniana delle Regioni come enti ad «amministrazione indiretta
necessaria», che «non possono avere organizzazi9oni proprie» per lo svolgimento delle attribuzioni amministrative (così M.S.
Giannini, Il decentramento amministrativo nel quadro dell‟ordinamento regionale, in AA.VV., Atti del terzo convegno di studi giuridici sulla
Regione, Milano, Giuffré, 1962, 183 ss., part. 184-185.
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alle esigenze locali, negando alle leggi regionali la natura di leggi “in senso tecnico” 98. Altri, per descrivere
l’assetto sopra descritto, hanno evocato l’idea di una “provincializzazione” delle Regioni99.
Deve tuttavia essere notato che la situazione, ad uno sguardo più approfondito, non appare così lineare.
Il nuovo art. 114, infatti, continuerebbe ad annoverare le Città metropolitane tra gli enti costitutivi della
Repubblica, e l’art. 39, comma 4, del d.d.l. costituzionale contemplerebbe esplicitamente gli enti di area
vasta, affidandone la disciplina alla legge regionale, salvo il rispetto dei «profili ordinamentali generali»,
attribuiti alla legge statale. Tali previsioni mostrano indubbiamente come l’aver optato per la eliminazione
della Provincia non comporta la definitiva rinuncia ad un livello di governo di funzioni di area vasta100,
che potrebbe essere organizzato talvolta mediante le Città metropolitane, talvolta tramite forme
associative tra i Comuni101, talaltra, infine, per mezzo di altri non meglio specificati “enti di area vasta”.
Anzi, quanto a tale ultimo aspetto, non è affatto peregrina l’ipotesi che a tale categoria dovranno essere
ricondotte le Province nell’assetto definito dalla legge n. 56 del 2014 (c.d. “Legge Delrio”), la quale, del
resto, disciplina esplicitamente tali enti «in attesa della riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione e
delle relative norme di attuazione»102. In questo contesto il governo di area vasta avrebbe dunque ancora un
ruolo significativo nel nostro ordinamento, ma la sua concreta definizione sarebbe affidata
essenzialmente alle scelte operate dalla legge in virtù dei titoli competenziali reperibili nell’art. 117,
secondo comma, lett. p), Cost., e dell’art. 39, comma 4, del testo approvato in Senato103. In sintesi, come
è stato convincentemente notato in dottrina, la complessiva scelta operata dagli interventi riformatori di
quest’ultimo periodo, sia di rango legislativo che di livello costituzionale, sarebbe in buona sostanza
98
99
E. Gianfrancesco, Torniamo a Zanobini (?!), cit., 14.
Così A. Ferrara, Osservazioni a prima lettura sul ddl costituzionale Renzi-Boschi, in www.federalismi.it, n. 8/2014.
In questo senso già F. Fabrizzi, Supplenza, verifica dei poteri, area vasta: tre caveat per migliorare la riforma Renzi, in www.federalismi.it,
n. 8/2014, e P.L. Portaluri, Note minime sulle città metropolitane nel d.d.l. costituzionale as n. 1429 (Renzi-Boschi), in www.federalismi.it, n.
8/2014.
101 Non è infatti detto che tale strumento venga utilizzato solo per fronteggiare il fenomeno dei c.d. “Comuni-polvere”, o per
svolgere funzioni di coordinamento intercomunale (nel senso illustrato da F. Merloni, Sul destino delle funzioni di area vasta, cit., 218
ss., su cui si veda la precedente nt. 49).
102 Così il comma 51 dell’articolo unico della legge n. 56 del 2014. Nel senso indicato del testo si veda anche F. Merloni, Sul
destino delle funzioni di area vasta, cit., 243. Sul rinvio alla riforma costituzionale operato dalla “legge Delrio”, in particolare in
tema di province, si veda G.M. Salerno, Introduzione, in F. Fabrizzi, G.M. Salerno (a cura di), La riforma delle autonomie territoriali
nella legge Delrio, Napoli, Jovene, 2014, 1 ss., part. 3.
103 Un aspetto problematico potrebbe però essere quello della individuazione del legislatore competente a istituire e delimitare
territorialmente gli enti di area vasta nel “nuovo” sistema costituzionale: non è infatti detto che tale legislatore debba essere
identificato nello Stato. Questo esito può essere raggiunto abbastanza agevolmente per le Città metropolitane, dal momento
che l’art. 39, comma 4, del ddl Costituzionale affida alla «legge della Repubblica» il mutamento delle relative circoscrizioni
territoriali. Più difficile è invece giungere a conclusioni analoghe per gli altri “enti di area vasta”, posto che la disposizione da
ultimo citata limita la competenza legislativa statale alla sola definizione dei «profili ordinamentali generali», da cui,
evidentemente, bisognerebbe tener distinta la concreta istituzione dei singoli enti. In tale ottica, dunque, dovrebbero essere le
Regioni a decidere circa l’esistenza, nel loro territorio, di enti di area vasta, magari nell’ambito di criteri forniti dalla legge dello
Stato nell’esercizio della citata competenza ex art. 39, comma 4, del testo di riforma.
100
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quello di mantenere il livello di governo di area vasta, limitandosi a decostituzionalizzare l’esistenza del
relativo ente e del suo regime giuridico104.
Secondo un diverso punto di vista, sostenuto in dottrina da Francesco Merloni, le differenze tra l’assetto
che deriverebbe dall’entrata in vigore del testo approvato ad agosto e il diritto costituzionale oggi vigente
sarebbero invece decisamente minori. In particolare, tale Autore ha sostenuto che il riconoscimento al
legislatore statale della competenza in tema di ordinamento degli enti di area vasta comporterebbe la
«affermazione, con norma di rango costituzionale, della necessità di enti locali intermedi». In tale
ricostruzione – rispetto alla quale un argomento contrario potrebbe forse essere individuato nella
espunzione non solo della Provincia, ma di qualunque ente di area vasta, salvo le Città metropolitane,
dall’art. 118 Cost. – tutto il territorio nazionale sarebbe costituzionalmente caratterizzato dalla presenza
di enti di tal genere, da individuare nelle Città metropolitane ove presenti, ovvero negli “altri” enti di area
vasta 105 . Da tale presupposto discenderebbe la conferma, in quello che potrebbe essere il nuovo testo
costituzionale, delle funzioni di area vasta, e della loro attribuzione ad enti (ovviamente) sovracomunali,
ma differenti dalle Regioni, per ragioni quali la «necessità di mantenere in vita il modello della Regione
leggera», la eccessiva ampiezza del territorio regionale o la inadeguatezza della sua struttura
amministrativa106.
Alla luce del quadro sinteticamente ricostruito possono essere svolte tre osservazioni.
I. La prima: ove si concordi con la prima delle due prospettive più sopra delineate, come ha
convincentemente notato la dottrina 107 non appare giustificato il trattamento differenziato dell’ente di
area vasta metropolitano (la Città metropolitana, dotata di un esplicito riconoscimento costituzionale), e
quello non metropolitano (privo di questo riconoscimento). La differenza tra le due situazioni sta solo
nella diversa urbanizzazione che caratterizza i territori di riferimento. Ma nell’un caso come nell’altro si
pongono problemi di governo dell’area vasta, che meritano di essere affrontati con enti appositi108.
…salvo, ovviamente, per ciò che concerne le Città metropolitane. Nel senso indicato nel testo cfr. P.L. Portaluri, Le Città
metropolitane, in F. Fabrizzi, G.M. Salerno (a cura di), La riforma delle autonomie territoriali nella legge Delrio, 15 ss., part. 20 ss.
105 Questa la tesi di F. Merloni, Sul destino delle funzioni di area vasta, cit., 241. Si noti che tale ipotesi interpretativa è stata
avanzata in relazione al testo proposto dal Governo il quale prevedeva nell’ambito della competenza esclusiva statale di cui alla
lett. p) dell’art. 117, secondo comma, Cost., anche la materia dell’«ordinamento degli enti di area vasta». Così non è, invece, per il
testo esitato da Palazzo Madama, nel quale, come si è detto, è invece prevista la competenza statale in relazione ai soli «profili
ordinamentali generali». La inferenza che porta a ritenere costituzionalmente necessari gli enti intermedi in base alla norma
sulla competenza legislativa, tuttavia, ove ritenuta valida dovrebbe poter essere riproposta anche per questa nuova previsione.
106 Ancora F. Merloni, Sul destino delle funzioni di area vasta, cit., 243-244.
104
107
B. Caravita, Glosse scorrendo il testo della proposta Renzi, cit., 5; F. Fabrizzi, Supplenza, verifica dei poteri, area
vasta, cit., 5.
Al riguardo, infatti, deve essere considerate non solo che esistono «zone ad urbanizzazione diffusa e reticolare, la cui
ricchezza economica, culturale e sociale non è di per sé inferiore alle aree metropolitane», ma anche che esistono nel Paese
zone pur decisamente meno urbanizzate che però hanno una importanza sociale ed economica non trascurabile, e un evidente
«profilo di collegamento “a rete”» (così B. Caravita di Toritto, Roma Capitale, in F. Fabrizzi, G.M. Salerno (a cura di), La riforma
delle autonomie territoriali nella legge Delrio, cit., 89 ss., part. 100).
108
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II. In secondo luogo, non si può tacere sul carattere almeno in parte ideologico della riforma accennata:
perché il riconoscimento esplicito dell’esigenza di enti di governo dell’area vasta fa apparire la proclamata
abolizione delle Province frutto più di una furia iconoclasta in accordo allo spirito dei tempi che di una
esigenza di riforma realmente sentita. Per di più, ove si ritenesse di aderire alla seconda delle letture
poc’anzi richiamate, ritenendo gli enti intermedi costituzionalmente necessari anche nel contesto della
riforma in itinere, l’aver voluto rinunciare al “nome” Provincia, determinandone la damnatio memoriae,
rischia di configurarsi come una operazione senza apprezzabili conseguenze sulla realtà dell’assetto
istituzionale.
III. Infine, si deve comunque concordare con chi ha osservato che il modo di affrontare il tema dell’area
vasta e delle Province tramite la legge costituzionale sia decisamente preferibile rispetto a quelli fino ad
oggi sperimentati: è infatti questo lo strumento da utilizzare ove si voglia incidere sul tessuto
costituzionale delle autonomie territoriali senza incorrere in illegittimità costituzionali109.
7. Cosa manca?
Infine, non è possibile tacere di quelle che, a mio avviso, sono due gravi lacune nel testo di riforma.
La prima inerisce a quello che possiamo chiamare il problema delle “dimensioni” della democrazia. Gli
enti di autonomia sono espressione di autogoverno, di democrazia: tuttavia nel nostro sistema istituzionale
non ci si può nascondere come molti di essi siano gravati da un problema legato al loro irragionevole
dimensionamento. La preferenza per la assegnazione della funzione al il livello più vicino al cittadino
espressa dal principio di sussidiarietà deve infatti fare i conti con la strutturale inadeguatezza di molti enti,
sia tra i Comuni, sia tra le Regioni che tra le Province (ma per queste, come si è visto la soluzione
proposta è radicale). Sarebbe stato necessario intervenire sia sugli artt. 131 e 132 – perché l’attuale assetto
delle Regioni, con forti distonie dimensionali tra alcune di esse, non può più essere considerato
intoccabile – che sull’art. 133, per rendere attivabile e governabile dal centro un processo di aggregazione
dei Comuni di più ridotte dimensioni110.
La seconda lacuna riguarda le Regioni speciali. L’art. 38, comma 11, del ddl Renzi-Boschi, stabilisce che
le norme sulla modifica del Titolo V «non si applicano alle Regioni speciali fino all‟adeguamento dei rispettivi statuti
sulla base di intese con le medesime Regioni e Province autonome»111. Si perpetua così come un dogma indiscutibile
A. Ruggeri, Note minime a prima lettura del disegno Renzi di riforma costituzionale, in www.federalismi.it, n. 8/2014.
In dottrina, nello stesso senso con riferimento alle Regioni, P. Bilancia, Regioni, enti locali e riordino del sistema delle funzioni
pubbliche territoriali, cit., 7. Auspicano un generale ripensamento del disegno degli enti territoriali anche B. Caravita di Toritto,
Roma Capitale, cit., 100, e P.L. Portaluri, Le Città metropolitane, cit., 28.
111 C’è un piccolo “giallo” concernente la formulazione di questa disposizione, esitata dal Consiglio dei ministri senza quel
«non» che vale ad escludere le Regioni speciali dalla applicazione della riforma. Il testo poi effettivamente presentato al Senato
109
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la perdurante diversità del trattamento costituzionale di alcuni enti. Bisognerebbe invece, giunti a questo
punto dell’esperienza repubblicana – ovviamente garantendo il rispetto degli obblighi internazionali sul
punto – ribaltare l’approccio, e attribuire a chi rivendica un trattamento costituzionale “speciale” l’onere
di fornire argomenti a sostengo di tale specialità. Va in questa direzione la provocatoria proposta di
recente avanzata da Giuseppe Verde, secondo cui bisognerebbe “imporre” alle Regioni speciali «un
ripensamento dei propri statuti», e, a questo fine, bisognerebbe «abrogare gli statuti differendo però
l’effetto dell’abrogazione nel tempo così da poter disporre di un arco temporale sufficiente perché le
cinque regioni procedano al ripensamento delle proprie competenze ed elaborino una riscrittura dei
rispettivi statuti»112.
Oltre alla scelta discutibile di tener fuori, ancora una volta, le autonomie speciali dai processi di riforma, il
citato art. 38, comma 11, rischia
di produrre un significativo effetto di complicazione del già spesso oscuro quadro normativo
costituzionale della specialità. Nel Titolo V della parte seconda della Costituzione sarebbero presenti
quattro categorie di norme, ognuna dotata di un diverso regime giuridico circa la loro applicabilità alle
Regioni speciali: a) norme (pochissime, per la verità) del testo originario, che dovrebbero essere ancora
applicabili come diritto regionale generale, ove non derogate dagli statuti; b) norme introdotte nel 2001,
applicabili attraverso i contorti meccanismi della clausola di adeguamento automatico; c) norme
introdotte dalla legge cost. n. 1 del 2012, che, secondo quanto ha ritenuto la già più volte menzionata
sent. n. 88 del 2014 si applicano tanto alle Regioni ordinarie che alle speciali, senza differenziazione
alcuna113; d) infine, norme “nuove”, non applicabili in nessun caso114.
(e successivamente approvato) è invece quello sopra riportato. Su tale vicenda cfr. A. Ruggeri, Quando il rimedio è peggiore del male
(a proposito di una inopinata, incomprensibile correzione al disegno Renzi di riforma costituzionale), in www.federalismi.it, n. 9/2014.
Peraltro, come evidenzia l’Autore appena citato, non è chiaro cosa voglia dire la disposizione in parola, posto che, una volta
che si giunga all’adeguamento degli statuti, saranno questi a doversi applicare, e non il Titolo V. A meno che non si ritenga
quest’ultimo – una volta compiutosi il detto processo di adeguamento – in grado di costituire quel diritto regionale “generale”
applicabile anche alle Regioni speciali ove non espressamente derogato dai rispettivi statuti.
112 G. Verde, Uniformità e specialità delle Regioni, in N. Antonetti, U. De Siervo (a cura di), Che fare delle Regioni?, Roma, Rodorigo,
2014, 265 ss., part. 295. Un complessivo ripensamento della specialità è richiesto, con convincenti argomenti, anche da V.
Teotonico, La specialità e la crisi del regionalismo, in RivistaAIC, n. 4/2014, cui si rinvia anche per ulteriori riferimenti bibliografici.
113 Si noti che la Corte discorre esplicitamente dell’art. 5, comma 2, lettera b), della legge cost. n. 1 del 2012, concernente il
contenuto della legge rinforzata di cui all’art. 81, sesto comma, Cost., nonché delle modifiche introdotte agli artt. 97 e 119
Cost. Le linee argomentative che sviluppa, tuttavia, sono basate sull’«esigenza di uniformità» dei «vincoli alla finanza pubblica»,
che «non possono non coinvolgere tutti i soggetti istituzionali che concorrono alla formazione» del «bilancio consolidato delle
pubbliche amministrazioni» (par. 7.2 del Considerato in diritto). Pertanto sono declinabili per tutte le disposizioni di tale legge
costituzionale, e, del resto, appaiono conformi alla ormai indiscussa applicabilità delle misure adottate dallo Stato in base al
titolo del “coordinamento della finanza pubblica” anche alle Regioni ad autonomia particolare. Evidenzia l’applicabilità della
legge cost. n. 1 del 2012 alle autonomie speciali anche la sent. n. 39 del 2014 (par. 2 del Considerato in diritto), con particolare
riguardo all’art. 2, comma 1. Nello stesso senso, peraltro, si esprimevano già la sent. n. 63 del 2013, al par. 5.2. del Considerato in
diritto, e la sent. n. 39 del 2014, al par. 2 del Considerato in diritto.
114 A. Ruggeri, Quando il rimedio è peggiore del male, cit., 3, ritenendo necessario continuare a differenziare le posizioni delle
Regioni speciali sulla base dei rispettivi statuti fino all’adeguamento di questi ultimi, ha suggerito di eliminare del tutto la
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8. Alcune considerazioni conclusive.
Al termine di questo percorso attraverso il testo di riforma appare evidente come quest’ultimo sia
portatore di un deciso progetto di penalizzazione del sistema delle autonomie. Si tratta di un aspetto del
resto prontamente sottolineato dalla dottrina più avvertita, la quale ha notato come il progetto RenziBoschi sia volto a realizzare una vera e propria «controriforma» 115, rendendo meramente «fittizio il ruolo
delle Regioni»116 e riconoscendo alle stesse, al più, una autonomia legislativa «ottriata» 117, frutto di un
riparto di competenze che porta con sé una chiara «ventata di ricentralizzazione»118.
Certamente si può condividere il giudizio negativo, largamente presente anche in dottrina, sulle
“prestazioni” dell’autonomia legislativa regionale. Ove si intenda migliorare la funzionalità del
complessivo sistema decisionale, senza determinare vistosi arretramenti dal punto di vista dell’autonomia,
bisognerebbe però accompagnare la ricentralizzazione delle competenze con una riforma del Senato
davvero in grado di realizzare quel trade off tra queste ultime e la partecipazione ai processi decisionali
centrali, cui pure allude la Relazione governativa. Per le ragioni già più volte accennate, tuttavia, ciò non
accade nella riforma in itinere119. È convincente al riguardo la icastica notazione secondo la quale in essa i
senatori «più che rappresentare, proiettano il territorio, come una pellicola che comunque si rivela un film
muto»120. Il Senato viene strutturato secondo un disegno che lo rende inadeguato ad una vera funzione di
rappresentanza delle istituzioni delle autonomie, e le funzioni riconosciutegli, scarsamente incisive,
rischiano di renderlo sostanzialmente afasico nella vita politica di ogni giorno.
Ora, è evidente che, per quanto lo si possa ritenere politicamente non desiderabile, perseguire un
progetto del genere rientra appieno nel mondo del costituzionalmente possibile. Solo che sarebbe
necessario esplicitare tale intento anche davanti all’opinione pubblica, al fine di far sì che l’eventuale buon
esito di un simile progetto riformatore fosse frutto di una adeguata riflessione e di un approfondito
dibattito nella sfera pubblica. Ciò che invece evidentemente non accade. Tutto all’opposto, come si è
visto, si cerca di accreditare l’idea secondo la quale si starebbe cercando di valorizzare il ruolo delle
disposizione in commento, sul presupposto che, in tal modo, si renderebbe applicabile anche alle “nuove” disposizioni
costituzionali il regime giuridico della clausola di maggior favore di cui all’art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. Tale
presupposto, però, non è da condividere, poiché la disposizione da ultimo citata limita esplicitamente la sua operatività alle
«disposizioni della presente legge costituzionale». Le norme introdotte tramite la riforma in itinere, in assenza di una esplicita previsione
in tal senso, non potrebbero dunque essere assoggettate al medesimo regime giuridico di quelle della legge cost. n. 3 del 2001.
115 P. Caretti, La riforma del Titolo V Cost., cit., 3.
116 S. Mangiameli, Prime considerazioni sul disegno di legge costituzionale AS/1429 sulla modifica della seconda parte della Costituzione,
15/10/2014, in www.issirfa.cnr.it/7492,908.htlm.
117 G. Scaccia, Prime note sull‟assetto delle competenze legislative, cit., 16.
118 A. Ruggeri, Quali insegnamenti, cit., 15.
119 Analogamente M. Cecchetti, I veri obiettivi della Riforma costituzionale dei rapporti Stato-Regioni e una proposta per realizzarli in modo
semplice e coerente, in www.gruppodipisa.it.
120 A. Mastromarino, Modificare, superare, abolire. Quale bicameralismo per l‟Italia delle riforme?, in www.costituzionalismo.it, 1/2014, 3.
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autonomie territoriali, rendendole stabilmente parte dei processi di decisione politica del centro, in una
maniera compatibile con la ricerca di una maggiore funzionalità di tali processi.
Per dare un po’ di credibilità alle “promesse” della Relazione, peraltro, il progetto governativo si trova a
dover dare spazio ad alcuni istituti di taglio autonomista che però rischiano, se non di compromettere la
finalità ricentralizzatrice, di aumentare le situazioni di conflittualità e confusione che pure si dice di voler
ridurre. Due esempi per tutti: i) la moltiplicazione dei procedimenti legislativi, e il riparto tra i medesimi a
seconda della materia, potrebbe dar luogo a numerose incertezze applicative, con conseguente
conflittualità costituzionale per vizio formale, specialmente ove si consideri che prassi legislativa italiana è
spesso imperniata su grandi provvedimenti omnibus: non sembra infatti che a scongiurare tale rischio basti
il meccanismo 121 della predeterminazione del procedimento da seguire per ciascun disegno di legge
d’intesa tra i Presidenti di Camera e Senato122; ii) per le ragioni viste più sopra, la eliminazione della
competenza concorrente, sommata al formale mantenimento della residualità regionale ed alla previsione
di numerose “clausole di colegislazione”, potrebbe aumentare, anziché ridurre, la confusione delle
competenze e il contenzioso a Palazzo della Consulta. Anche chi, come chi scrive, non si riconosce
nell’obiettivo di ricentralizzazione, dovrebbe comunque convenire che la sua esplicitazione
determinerebbe la possibilità di perseguirlo più coerentemente, evitando equivoci e difficoltà applicative.
In quest’ottica, ad esempio, sarebbe più coerente optare con coraggio per l’instaurazione di un assetto
monocamerale e (al più) la costituzionalizzazione del sistema delle Conferenze al fine di favorire una
collaborazione tra Stato ed enti territoriali imperniata su pareri forniti in occasione dell’attuazione
amministrativa delle politiche. O, ancora, per il ritorno ad un sistema di riparto della funzione legislativa
più simile a quello dell’originario Titolo V: di taglio certamente centralista, ma altrettanto certamente
meno conflittuale di come rischia di essere quello verso il quale si sta procedendo a tappe forzate123.
Probabilmente, oggi, rinunciare al Senato “dei territori” e ad un autonomismo (almeno) di facciata non è
una opzione politicamente sostenibile. Il che rende in certa qual maniera obbligata l’ambiguità da cui è
gravata l’operazione di riforma istituzionale della quale qui si discute. Rimanendo all’interno dello
“schema” proposto dal testo in esame, però, qualche correttivo è comunque possibile introdurlo. Si
potrebbe, ad esempio: a) prevedere la necessaria appartenenza al Senato dei Presidenti di Regione, al fine di
connettere maggiormente le deliberazioni dell’assemblea con gli indirizzi politici delle istituzioni regionali,
… introdotto nel tessuto dell’art. 70 Cost., come si è visto, dal recente esame in Commissione alla Camera (cfr. il
precedente par. 3.2.1).
122 Perché, infatti, le singole Regioni dovrebbero ritenersi “rappresentate” dal Presidente del Senato, e impegnate, anche solo
politicamente, dal consenso da questi prestato nei confronti di un procedimento legislativo a prevalenza della Camera in
relazione ad un determinato disegno di legge?
123 Questa la proposta di M. Cecchetti, I veri obiettivi della Riforma costituzionale, cit., 5, il cui punto di vista quasi “rassegnato” si
può forse sintetizzare come segue: “se si deve ricentralizzare, almeno lo si faccia con coerenza, chiarezza, e senza introdurre o
perpetuare possibili cause di confusione e conflitto”. È difficile non condividere un simile appello.
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magari facendo uso del meccanismo delle deleghe per consentire il contemporaneo esercizio del mandato
presidenziale; b) rafforzare il meccanismo di predeterminazione consensuale del procedimento legislativo,
immaginando una sorta di “comitato di conciliazione” in grado di rappresentare e impegnare
politicamente il più possibile le istituzioni regionali124; c) accettare con serenità l’idea che su alcuni temi il
concorso dei legislatori statale e regionali non è rinunciabile, e reintrodurre di conseguenza la
competenza concorrente al posto delle varie clausole di colegislazione, magari disciplinandola in modo
più preciso e dettagliato: si potrebbe, ad esempio, prendere a modello la ormai abbandonata
Rahmengesetzgebung tedesca (art. 75 GG), prevedendo che in assenza di leggi-cornice la legislazione
regionale non sia vincolata al rispetto di quella statale. Ma le ipotesi percorribili sono molteplici.
Se poi si volesse invece davvero provare a perseguire gli obiettivi manifestati nella Relazione di
accompagnamento – realizzando ciò di cui, ad avviso di chi scrive, avrebbe veramente bisogno il sistema
delle relazioni tra gli enti territoriali – le modifiche all’articolato dovrebbero ovviamente essere molto più
profonde. Bisognerebbe costruire, come si accennava più sopra, un Senato autenticamente in grado di
portare al centro il punto di vista delle istituzioni regionali, nel cui quadro il vincolo di mandato, il voto
unitario di delegazione e la estromissione della componente comunale sembrano difficilmente
rinunciabili. Sarebbe poi indispensabile coinvolgere tale assemblea nei procedimenti legislativi centrali di
maggiore interesse per le Regioni, tra i quali soprattutto quelli concernenti le scelte di finanza pubblica
direttamente incidenti sulle medesime, secondo la formula – già richiamata più sopra – dei few powers, deep
powers125. Una volta conquistata la “lealtà federale” delle Regioni i pur necessari interventi sul versante del
riparto della funzione legislativa, con un eventuale riequilibrio verso un centro autenticamente
“repubblicano”, in quanto espressione anche delle autonomie, sarebbero tutto sommato secondari, poiché
la via politica alla soluzione del conflitto sarebbe più a portata di mano. Ma, come ormai appare chiaro,
non è questa la stagione per una riforma di tal genere: la battente crisi economica e le davvero poco
commendevoli vicende giudiziarie che a più riprese, ed anche in questi giorni, coinvolgono le istituzioni
territoriali, impediscono un sereno dibattito sul ruolo e sul futuro delle autonomie. La riforma in grado di
coniugare efficacemente le prospettive dei vari livelli di governo nelle dinamiche dello “Stato composto”
italiano è ancora una volta rimandata a data da destinarsi.
Si era provato ad avanzare una proposta al riguardo in S. Pajno, Per un nuovo bicameralismo, tra esigenze di sistema e problemi
relativi al procedimento legislativo, cit., par. 6.2, cui sia consentito rinviare per approfondimenti..
125 Cfr. il precedente par. 5.1.
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