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A CURA DI FRANCESCA DE CAROLIS
URLA A BASSA VOCE
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Francesca de Carolis è nata a S. Maria Capua Vetere (Caserta). È giornalista Rai, a Roma. Ha finora pubblicato un diario di viaggio e tre romanzi brevi, l’ultimo dei quali, Angela, angelo, angelo mio io non sapevo, con
Stampa Alternativa.
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Prefazione
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Urla a bassa voce, con le sue voci dal buio, è un libro importante e necessario. Ci costringe ad aprire gli occhi di fronte a una realtà che non ci
piace. Ci obbliga a conoscere ciò che non vorremmo sapere, realtà che
vorremmo tenere distanti dalla nostra vita e che – di fatto – ci riguardano.
Urla a bassa voce è anche un libro di non facile lettura perché documenta e informa anche su che cosa significa – per il nostro ordinamento
– “ergastolo ostativo”. Il termine, di per sé duro e respingente, significa che
qualsiasi riduzione di pena decisa dalla legge per chi è in carcere, è negata a chi vive la condizione dell’ergastolo. Per chi è condannato all’ergastolo – detto in altri termini – non ci sono benefici di legge possibili sulla
pena. Vale a dire che l’ergastolo è totale, effettivo e senza termine.
Non è “una” facile lettura perché in contesti di reati, di delitti, di difesa sociale e di torti subiti…, non è possibile attivare il pensiero semplice.
Le ragioni (sacrosante e legittime) di chi dal delitto è stato ferito nella vita e negli affetti non possono essere negate, così come non può essere dimenticato che ci è chiesto di muoverci nella direzione di una giustizia che
sappia riparare, essendo in realtà impossibilitata a risarcire davvero,
poiché alla perdita di un bene supremo qual è la vita non c’è rimedio
possibile.
Impedire alla giustizia di diventare vendetta è la vera sfida a cui siamo chiamati. Impedire che la giustizia “chiuda” chi ha sbagliato nel suo
errore (e gli neghi le possibilità del cambiamento) è l’altra faccia della
stessa medaglia.
Per questi motivi la Corte Costituzionale aveva sentenziato che la pena dell’ergastolo era da considerarsi legittima solo in quanto effettivamente non perpetua, potendo il condannato fruire di benefici e misure
che la trasformavano in pena a termine. In questo caso la Corte affer-
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mava che si poteva essere condannati al “fine pena mai”, purché quel
“mai” non fosse davvero tale. Una decisione salomonica, tesa a scongiurare l’abolizione per via legislativa di questa pena che, a differenza dell’Italia, molti Paesi hanno eliminato dal proprio codice penale, ritenendola incivile e inumana.
Nel clima attuale può sembrare incredibile, ma, per la verità, il Parlamento provò egualmente ad abolire l’ergastolo: nell’aprile 1998 il Senato approvò un disegno di legge in tal senso con 107 voti a favore, 51 contrari e otto astenuti, ma la riforma si arenò poi alla Camera. Si trattò di
un tentativo controcorrente e di un atto di coraggio non frequente da
parte dei partiti politici; eppure erano passati solo pochi anni dalle terribili stragi di mafia di Capaci e di Palermo.
Oggi la situazione è decisamente peggiorata da molti punti di vista. Vari
e successivi interventi legislativi hanno irrigidito il sistema delle pene; la
situazione penitenziaria è costantemente al limite del tracollo, con un
sovraffollamento record e con condizioni interne insostenibili, sia per
quanto riguarda la vita dei reclusi sia per il lavoro degli operatori e degli
agenti. Soprattutto sono cambiati il clima sociale e la cultura generale, assai poco inclini a considerare la necessità di riforme e di aperture.
Anche per queste ragioni il libro risulta opportuno: un piccolo contributo a provare a cambiare una cultura della pena che, come ebbe a dire
nell’anno del Giubileo papa Giovanni Paolo II, somiglia troppo spesso
alla ritorsione sociale.
Urla a bassa voce costringe a delle domande scomode, che consuetamente si cercano di evitare poiché non lasciano tranquilli e poiché le risposte non sono a portata di mano, comportando approfondimento e un
coinvolgimento anche emotivo.
Provo a porne qualcuna.
La prima: se lo scopo prevalente della pena detentiva è la rieducazione come può farlo quella perpetua?
La seconda: questo “fine pena mai” aggravato (come a dire: anche il
peggio può essere peggiorato in una rincorsa senza fine verso l’annichilimento della speranza), questa «pena di morte viva», come la definisce
la curatrice del volume, ha fondamento e legittimità costituzionale?
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Tra i tanti altri possibili, vi è poi un interrogativo ulteriore, forse il più
scomodo di tutti: possiamo rimanere indifferenti e inerti di fronte a questi uomini sepolti nel buio, dopo avere qui letto le loro storie, percepito le
loro sofferenze e osservato il loro cambiamento?
Le pagine che seguono possono e debbono aiutare a trovare risposte,
ma non servirebbe leggerle se non si è disponibili a esserne interpellati e
scossi, se non si è capaci di abbandonare facili giudizi e stereotipi correnti, perché mai come in questo caso puntare il dito equivale a rinunciare preventivamente all’ascolto.
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Questo libro curato dalla giornalista Francesca de Carolis può essere letto in tanti modi diversi: come spaccato di vita e di problematiche carcerarie, come trattato critico di criminologia, come rassegna di delitti e di
pene, come stimolo all’impegno civile. Per me è, anzitutto, una raccolta
di testimonianze che “gridano” la loro fatica e la loro sofferenza.
Le prime pagine, con le note autobiografiche degli autori, dicono già
gran parte di quel che c’è da sapere. Vite bruciate dal carcere e nel carcere. E prima dal e nel delitto. O almeno così si è portati, quasi istintivamente, a ritenere. Perché uno dei tanti meriti di questo libro è di ricordarci che di fronte a un uomo incarcerato, tanto più se condannato all’ergastolo, occorre sempre aprirsi al dubbio, oltre che all’ascolto: «E se
fosse innocente?». Non per sfiducia nell’operato dei giudici, ma per la
consapevolezza che l’errore è umano. E quando quell’errore può portare
a tanta sofferenza non riuscire a riparare all’errore è, obiettivamente, disumano.
Il carcere, e questo libro lo dimostra ancora una volta e con più forza,
però può anche essere recupero dell’umano. E con esso, grazie a esso, del
rispetto per sé e per l’altro e per le regole che consentono alla relazione
tra sé e l’altro di essere improntata alle necessità comuni, dunque alla costruzione e alla manutenzione della comunità.
“Bene comune”, un concetto oggi giustamente diffuso, è anche questo:
senso della regola e della sua osservanza da parte di tutti. Tutti, naturalmente, vuol dire anche e forse prima chi le regole è tenuto a definirle (il
legislatore e il potere politico) e ad amministrarle (l’ordine giudiziario,
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le istituzioni in generale e, in questo particolare, quelle preposte all’esecuzione della pena).
Occorre infatti dire ad alta voce – non lo si fa abbastanza, anzi, spesso non lo si fa per nulla – che il carcere assume paradossalmente tratti di
illegalità. Non è legale il sovraffollamento, non è legale la mancata applicazione del Regolamento penitenziario, varato nel 2000 e rimasto per
lo più lettera morta. Non sono legali la mancanza di cure, l’insufficienza dell’assistenza o la lunghezza dei processi. Le Corti europee hanno
censurato l’Italia numerose volte per queste e altre croniche mancanze.
Eppure, nulla sembra cambiare, nonostante l’impegno degli operatori.
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Si tratta di interrogativi le cui risposte, però, non sono scontate. Ma da
qui occorre cominciare: dal coraggio civile di porsi e porre domande. Dal
non dare per scontato che il carcere e la pena – e tanto più quelli senza
fine e senza speranza – siano sempre la risposta giusta e necessaria. Dal
provare almeno a immaginare alternative, e poi provare a liberarsi dalla necessità del carcere, come invitava a fare un movimento di illuminati riformatori (Mario Tommasini e Franco Rotelli tra i primi) negli anni Ottanta del secolo scorso. E come, in tempi più recenti, ci ha invitato
a fare il cardinal Carlo Maria Martini, secondo il quale non ci si può limitare a pensare a “pene alternative” (peraltro, di questi tempi, concesse con il contagocce) ma è necessario immaginare “alternative alle pene”.
Il carcere, insomma, è un prodotto dell’uomo e in quanto tale ha avuto un inizio ma può dunque anche avere una fine, per lasciare il posto a
qualcosa di meno distruttivo, che sappia difendere la collettività ma senza annichilire chi da essa si è chiamato fuori attraverso il delitto. Al quale nella comunità deve però essere concesso di rientrare, avendo compreso i propri errori e avendone pagato le conseguenze; le quali, tuttavia, devono essere tali da lasciare sempre aperta la speranza.
Giudicare insensato il carcere senza fine non è, del resto, asserzione
ideologica o radicalismo astratto, ma semplice constatazione. Tenere una
persona imprigionata significa, letteralmente, tenerla in cattività. Non
c’è positività, non c’è il buono possibile nell’uomo in catene; c’è la sua
mortificazione e semmai una spinta a essere peggiore.
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Quell’alberello nel cortile della prigione, tagliato per ragioni di sicurezza, cui accenna in queste pagine uno dei condannati all’ergastolo, ci
racconta, più di tanti saggi o ricerche, come e perché il carcere non è un
rimedio ma un male ulteriore, un danno che si aggiunge al danno, un
dolore che non risarcisce altri dolori. Il cardinal Martini, richiamando le
Sacre scritture, è stato categorico: «Il cristiano non potrà mai giustificare il carcere, se non come momento di arresto di una grande violenza».
Naturalmente, talvolta il carcere appare e diviene necessario. Ma entro
limiti precisi. Scrive ancora Martini: «La carcerazione deve essere un intervento funzionale e di emergenza, quale estremo rimedio temporaneo
ma necessario per arginare una violenza gratuita e ingiusta» (Sulla giustizia, Mondadori 1999).
Rimedio estremo e temporaneo. Vale a dire che il carcere deve essere
considerato l“extrema ratio”, l’ultima possibilità, non la prima, non la
scorciatoia. E che la pena deve essere a termine, non perpetua. Invece, alla fine del 2011 il totale dei reclusi che scontavano l’ergastolo ammontava a 1.528. Oltre mille e cinquecento persone che trovano indicato nel
proprio fascicolo l’anno 9999 come fine della propria pena. Una pena infinita non può essere considerata vera giustizia.
Da questa considerazione si può e si deve ripartire per una riflessione
equilibrata a livello culturale, sociale e politico che tenga in adeguato
conto le parti lese, le vittime dei reati, ma sapendo anche che una riforma della pena perpetua ostativa è necessaria.
Non è materia che riguarda solo i giuristi e i tecnici o i diretti interessati.
Urla a bassa voce ci ricorda che siamo tutti chiamati in causa, nella
società e davanti alle nostre coscienze. Come scrive Maria dopo la morte di Aziz, un giovane suicida nel penitenziario di Spoleto: «Ogni uomo
che si toglie la vita in carcere lo fa anche per causa mia, per un qualcosa
che io non ho fatto, per un’attenzione a una sofferenza che non ho voluto o saputo vedere».
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d. Luigi Ciotti
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Il mondo considera bene il bene
Questo è il suo male (Tao-te-king)
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“Cosa mi aspetto da questo libro? Innanzitutto di far conoscere la Pena
di Morte Viva in Italia. Una morte lenta ma più criminale di qualsiasi
altra morte. Poi per far sapere al mondo dei vivi che l’uomo ombra è un
fantasma in una cella, che spesso i cattivi sanno riconoscere il bene più
dei buoni, che conoscono e puntano il dito solo sul male degli altri, e mai
su se stessi. E poi che ci sono tanti buoni fra i cattivi, come tanti cattivi
fra i buoni”.
Quando ho chiesto a Carmelo Musumeci cosa si aspettava da questo
libro, questa è stata la sua risposta. E insieme a lui queste pagine sono
state scritte da altre trentacinque persone detenute nelle carceri italiane.
“Detenuti speciali”, molti passati attraverso il regime del 41bis, che è sospensione delle normali regole di trattamento penitenziario, tutti condannati all’ergastolo, pena che si è tradotta in “ergastolo ostativo”, prodotto dell’inasprimento delle pene con le quali lo Stato ha risposto ai reati di mafia all’inizio degli anni ‘90, un meccanismo per cui la condanna
diventa un “fine pena mai”.
Che significa? “Chiedetelo a noi. Lasciate che siamo noi a spiegarvelo”,
hanno detto.
Le domande sono arrivate. Da cittadini, che sono insegnanti, medici,
volontari, giornalisti, suore. Le risposte hanno composto questo “libro
collettivo”.
Trentasei dunque gli autori. Rappresentano tutte le persone, si calcola
attualmente siano circa 1.200, sui circa 1.500 condannati all’ergastolo,
cui in Italia sono di fatto cancellati tutti i diritti e i benefici previsti durante la detenzione dalla legge per buona condotta.
In filigrana, costante, una domanda che mi faccio e che ci fanno que-
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sti uomini, molti da circa due decenni in carcere, molti senza nessuna
speranza di uscirne.
L’articolo 27 della nostra Costituzione recita, al terzo comma, “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità
e devono tendere alla rieducazione del condannato”. A tratti, ce ne ricordiamo. Quando qualche dramma che ci sembra più drammatico degli altri ci costringe, per il tempo che vale nel nostro tempo una notizia,
a sbirciare su quello che accade nelle carceri italiane.
Ma perché siamo pronti a dimenticarlo una volta di più, a distogliere
in fretta e per sempre gli occhi, infastiditi, per chi è più cattivo degli altri?
Eppure credo non ci sia una ‘scala’ del male per cui, oltre un certo gradino, si possa derogare a tutto. Non lo può fare uno Stato che si dichiari
civile, non lo possiamo pensare noi.
Anche per questo non troverete nelle note a queste pagine risposte alla
curiosità, se ci fosse, di sapere di quali fatti queste persone siano state accusate, né specificati i reati per i quali ognuno è stato condannato, a meno
che, fra le righe, qualcuno di loro abbia voluto farvi cenno.
Qualche tempo fa, andando alla presentazione di un libro di Carmelo
Musumeci, Vauro, uno dei relatori, ha parlato di una lezione avuta dal
figlio, che con Musumeci aveva intrecciato una corrispondenza fatta di
lettere e disegni. Non ha mai chiesto suo figlio, ha detto Vauro, “Ma cosa ha fatto Musumeci?”. Perché insomma, quell’uomo che dal carcere invia disegni e scrive così bei racconti, è stato condannato a una pena grave come quella dell’ergastolo? E mi ha fatto sentire in buona compagnia
questo bambino, perché, quasi vergognandomi, neanch’io ho mai voluto
sapere che cosa ha mai combinato quest’uomo, per essere in carcere e con
una condanna così pesante.
Ma da quando ho sentito di questa lezione, non me ne vergogno più.
Perché come ama ripetere Nadia Bizzotto, della Comunità Papa Giovanni XXIII, citando una frase cara al fondatore della comunità don
Oreste Benzi, “L’uomo non è il suo errore”, e sempre più ne sono convinta anch’io.
Curando le pagine di questo libro, al buio di volti che non conosco, mi
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sono affidata a ciò che le loro parole trasmettono. E credo sia stato giusto così, perché è dal buio, per chi è da questa parte del muro, che queste
parole arrivano.
Dal buio riaffiorano su pezzi di carta, su fogli quadrettati o protocollo,
scritture incerte, grafie attente a essere chiare come si faceva a scuola, caratteri netti di chi ha potuto usare una macchina da scrivere (ma chi sa
che usarne una in carcere a volte è solo un miraggio?); di qualcuno che
si scusa per qualche errore che sia sfuggito, ma “scrivo in fretta per mancanza di tempo: studio, lavoro…”; di chi spera “che il caldo torrido di
quest’estate ci dia tregua, altrimenti sarà duro scrivere”; di chi “sapevo
che sarebbero arrivate queste domande e ne arriveranno di peggio, ma
ciò non toglie che possiamo superare questo ostacolo con molta filosofia
d’animo sereno”...
Parole crude, dure, disperate; toni, accuse feroci, a volte; giudizi a volte esasperati, netti, ripetuti, quasi un mantra, anche nei confronti dei
pentiti, dello Stato e delle sue istituzioni, della Magistratura. Giudizi
qualche volta un po’ sommari. A volte troppo. Ma anche pazienti racconti puntigliosi, percorsi da ripercorrere, lunghi, fiduciosi argomentare;
brani di filosofia, veloci incursioni nella storia, a suggerire il tempo della lettura in carcere; cenni pure di poesia, in un luogo dove la percezione
del mondo che cambia senza poterne far parte, diventa “come tenere in
un pugno chiuso un po’ di sabbia”.
La narrazione che ne nasce, disegna un mondo complesso, contraddittorio a volte, ricco comunque di un sentire ‘forte’. Il linguaggio appare ‘rapito’ da codici diversi che si intrecciano: giudiziari, religiosi, letterari, che
si innestano sui codici di vita o malavita che sia, con le loro enfasi, le loro sgrammaticature. Anche perché è solo in carcere che queste persone per
lo più hanno cominciato a studiare. Varcata la soglia di questo “errore di
scrittura”, come il professor Giuseppe Ferraro definisce il nostro sistema
carcerario. Ho cercato di rispettare questo loro linguaggio, limitando le
modifiche, le correzioni, anche perché credo che il linguaggio possa essere
narrazione in sé. Ha in sé tutte le vite e i mondi che sottende.
Devo confessare che appena ho avuto in mano gli scritti da cui è nato
poi il libro, mi è sembrato di trovarmi come davanti a un muro. Poi, leg-
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gendo e rileggendo, si è come aperto un varco nel fiume di frasi e di parole, seguendo un percorso che qui ripropongo.
L’invito è a provare a mettersi in ascolto di queste parole; anche di ciò
che non è semplice capire, di opinioni che possono sembrare o essere non
condivisibili (ma cosa è sempre e per tutti condivisibile?) e che non ho
voluto ‘censurare’. L’invito dunque è a provare a mettersi in ascolto di parole e pensieri, spesso così ‘altri’ da noi. Pensieri a volte ripetuti, gli stessi che tornano nelle parole di ciascuno, ma che, a ben ascoltare, non sono sempre gli stessi. Mentre ossessivamente immutabili sono le ore, i
giorni, gli anni trascorsi in carcere, specie se senza nessuna prospettiva di
uscirne.
Nel gennaio del 1976 Elias Canetti tenne un discorso sulla missione
dello scrittore (lo si può ritrovare in La coscienza delle parole, Adelphi.
p. 390 e ss). Indirizzato agli scrittori, ma prezioso per tutti.
Parla, Canetti, del dovere di conservare la capacità di metamorfosi per
tenere aperte le vie d’accesso tra gli uomini, per essere capaci di “diventare chiunque”. Grazie alla metamorfosi, dice Canetti, l’uomo si è appropriato del mondo. Ma alla metamorfosi soprattutto l’uomo deve la
sua pietà, che “non ha alcun valore se viene proclamata come sentimento generico e indeterminato. Essa esige la concreta metamorfosi in ogni
singolo essere che vive e che c’è”. Nessuno, dice Canetti, sia respinto nel
nulla.
Pietà, dunque, come capacità anche d’ascolto e di immedesimazione,
che non è sentimento da ridurre, come impoverendolo spesso facciamo, a
generica commiserazione o indulgenza. Che nessuno, ma proprio nessuno degli autori di questo libro collettivo chiede. Avrebbe il sapore di altra
prigionia.
È quello che ho cercato di fare, e vorrei che pure per chi legge questa
‘pietà’ fosse viatico, per orientarsi lungo le strade, intricate, dei diritti che
vanno perduti.
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Tutti gli interventi sono stati scritti fra la primavera del 2010 e l’autunno del 2011.
Un ringraziamento va alle persone che, rispondendo all’invito lanciato
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in rete dagli “ergastolani ostativi” a essere interrogati sulla loro condizione, hanno posto loro le domande che hanno dato spunto ai racconti e
alle riflessioni che seguono.
Mita Borghesi, Dimitri Buffa (giornalista), Sabina Buratta (studentessa), Francesca Cenerelli, Elia (giornalista), Clare Holme, Julia Stefania Labbate (sociologa), Susanna Marinetti (dell’associazione Antigone), Antonio Piazza (docente), Giulia Pontillo (studentessa), Agnese
Pozzi (medico), Antonella Ricciardi, Monica (insegnante), l’editore
Sempre, le Suore Clarisse di Lagrimone (Parma).
E Vittoria (impiegata), Giovanna (imprenditrice), Giovanni (ricercatore), Francesca (mediatrice culturale), Giulio (autista), amici e clienti
di Mario Pontillo, che è un tassista. Nadia Bizzotto lo ha ‘reclutato’ per
sollecitare domande fra i suoi clienti, durante una corsa a Roma, nella
primavera dello scorso anno.
Un ringraziamento a Carlo Fiorio, docente di Procedura Penale dell’Università di Perugia, per i consigli e le indicazioni di carattere giuridico che ha gentilmente dato.
Una citazione particolare per Nadia Bizzotto, che è responsabile della
Casa di accoglienza della Comunità Papa Giovanni XXIII di Bevagna,
in provincia di Perugia, e referente per il Servizio Carcere della stessa comunità, che di tutto questo, e soprattutto della difficile comunicazione
fra il dentro e il fuori delle carceri, ha tenuto e tiene ancora le fila.
E un ringraziamento particolare a Vauro, che ci ha donato la sua arte
per la copertina di questo lavoro.
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Francesca de Carolis
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Gli autori
Le note di presentazione delle persone che hanno partecipato
alla scrittura di questo “libro collettivo”, sono autobiografiche.
Molte sono riassunte in brevi cenni, qualcuna ha più lunghe argomentazioni, con l’indicazione delle pene cui si è condannati,
qualche volta espresse in termini che sono già giudizi. Come
ciascuno ha ritenuto di presentarsi.
Non credo sia errore né distrazione che alcune di queste note
biografiche siano in prima persona e altre in terza, e a volte prima e terza persona si alternano nella stessa nota. Ho voluto lasciare i riferimenti come mi sono arrivati se, come credo, la scelta, anche istintiva, della prima persona è riappropriazione forte d’identità, mentre la terza persona risuona come un voler
mettere distanza fra la pena cui si è stati condannati e una più
intima essenza della propria identità.
Paolo Amico, casa di reclusione di Parma, 44 anni. In carcere dall’ottobre 1990, con condanna all’ergastolo. Sono stato al 41 bis dall’ottobre 1992 al marzo 2009 nelle seguenti carceri: Pianosa, L’Aquila, Tolmezzo. Non ho mai usufruito di alcun permesso, né da uomo libero,
né scortato.
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Sono Giovanni Marco Avarello, nato a Ravanusa (RG) il 14.09.1965,
attualmente ristretto presso il carcere di Voghera, sottoposto al regime differenziato A.S.1 (Alta Sorveglianza). Mi trovo in galera dal settembre 1991, ho 45 anni e sono ergastolano (con l’aggravante dell’ostativo). L’idea di raggruppare i pensieri di alcuni ergastolani ostativi
in un unico libro, proposta dall’amico Carmelo Musumeci, la trovo
valida. Con piacere do il mio umile contributo alla divulgazione dell’esistenza dell’ergastolo ostativo, del quale si muore lentamente.
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Ciro Bruno, nato a Grottaglie (TA), 52 anni, in carcere dal 17.11.1990.
Condanna: ergastolo ostativo. Regime detentivo 41 bis: sono stato al
41 bis dal 20 luglio 1992 fino al 23 dicembre 2005, nel carcere di Brindisi, Ascoli, Asinara, Lecce, Viterbo e Spoleto. Poi il 30 aprile 2008 mi
viene riapplicato il 41 bis senza motivo, infatti il Tribunale di sorveglianza di Roma il 23 marzo 2010 revocò il 41 bis. In tutto ho fatto 15
anni e mezzo di 41 bis (vale a dire 15 anni e mezzo sottoposto a tortura).
Giuseppe Costa, dal carcere di Opera. Nato a Siderno Marina 15.2.49,
detenuto dal 1990 per porto d’armi 416 bis e concorso in omicidio,
416 bis, condannato a otto anni, per l’omicidio all’ergastolo. Il giorno
23 marzo del 2010 ho finito 20 anni di carcere. Il coraggio… forse è
quello che ci fa andare avanti perché si spera in un futuro migliore.
Mi chiamo De Feo Pasquale, nato a Pontecagnano (SA) il 27.01.1961.
Sono detenuto dal 1983 e sto scontando l’ergastolo. Sono stato al 41
bis all’isola dell’Asinara dal 1992 al 1996. Ho trascorso due terzi della
mia esistenza tra quattro mura. Ripensando, mi rendo conto di aver
buttato via la mia vita, colpevole senza attenuanti di questa gravissima colpa. Ho fatto soffrire chi mi vuole bene e ho mortificato i loro
sentimenti. Tengo viva la speranza perché ho fiducia nel futuro, a dispetto del clima di chiusura alimentato da professionisti dell’odio.
L’amore ha sempre vinto sull’odio.
Mauro De Filippi, nato a Lecce, 46 anni. In carcere dal 14.4.2003, con
condanna all’ergastolo, ostativo. Non sono mai stato al 41 bis.
Generoso De Martino, 58 anni, in carcere da quando ne avevo 41. Sono ergastolano detenuto dal 30 ottobre 1993. Sono nato il 16.05.1952.
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Mi chiamo Salvatore Diaccioli, sono nato a Catania il 23.05.1957. Da
oltre 17 anni mi trovo in carcere, per espiare un “fine pena mai”. Questa non è la mia prima carcerazione e senza dubbio l’ultima e la più
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lunga ed è quella che mi ha fatto invecchiare. Sono in carcere dal
30.01.1993, condannato all’ergastolo più 10 mesi di isolamento diurno per una condanna di 28 anni. Mai avuto regime di 41 bis.
Ora nel carcere di Carinola. Se oggi sono qui a rispondere a queste
“domande”, è perché sono stanco, stanco di svegliarmi ogni mattina e
portare questo fardello, ogni giorno più pesante.
Io sono un figlio della strada, la mia infanzia l’ho vissuta in vari collegi, l’adolescenza in case di recupero, sono diventato adulto nei carceri, mi sono sposato in carcere nel lontano 1975, ho quattro figli che
ho cresciuto poco (e il risultato oggi è quello che è).
Sono Farina Giovanni, nato a Tempio Pausania il 22.09.1950, Sassari
(OT).
Attualmente sono in detenzione nel carcere di Pena a Catanzaro, via
Tre Fontane n. 28 C. C. Siano.
Ergastolo “ostativo”, fine pena mai. Non ho appartenenza a “Mafie”,
o condanne di omicidi o stragi di Stato. (…) Sono in detenzione da
anni. Il solo scopo da parte delle istituzioni italiane di impormi di autoaccusarmi di un crimine che non ho commesso. Ancora oggi 1 marzo 2010 mi viene applicata la carcerazione illegale, perché non ho la
possibilità di pagarmi un avvocato di fiducia per fare un incidente di
esecuzione del cumulo delle pene. Dovevo essere scarcerato nel 2007
per fine pena, perché attualmente con i benefici della liberazione anticipata negli anni passati e dei condoni di cui ho beneficiato negli anni della mia carcerazione ho già scontato più di 40 anni di carcere.
Io son un umile ragazzo di campagna. Nei miei lunghi anni di vita
vissuta tra le mura di una prigione mi è stata spenta ogni forma di vita che avevo intorno a me. I miei genitori sono morti senza che io potessi nemmeno sentirli per telefono in punto di morte. Eppure mi ritengo fortunato perché non sono riusciti a spegnermi il pensiero.
16
Alfio Fichera, Carinola. Nato a Catania, sessant’anni. Dal 7 febbraio
1994 condannato all’ergastolo. In regime A.S., mai stato al 41 bis.
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Gerti Gjenerali, nato a Tirana (Albania), 37 anni. Sono stato arrestato
in Germania nello 08.10.1997. Con condanna all’ergastolo. Mi trovo in
un regime detentivo che si fa chiamare A.S.3. Non sono mai stato al 41
bis. In questi anni non ho mai usufruito di permessi da uomo libero.
Mi chiamo Salvatore Guzzetta, la mia città natale è Catania (Sicilia)
dove sono nato 58 anni fa. Sono in carcere ininterrottamente dal
1992. Prima e ultima carcerazione (mai prima di questa ero stato in
carcere). La mia condanna è l’ergastolo. Sconto questa condanna in
regime di Alta Sicurezza. Dal ‘92 al ‘94 sono stato a regime di carcere
duro, al 41 bis. Questi due anni li ho scontati nel carcere di Sollicciano, a Firenze. Attualmente nel carcere di Opera.
Sono stato sempre restio alle domande dei giornalisti, ma, per la
causa del buon fine a cui andrà questo nostro progetto e per la voce
che i media ci daranno, vale la pena rispondere a queste e ad altre domande, se ce ne faranno…
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Mi chiamo Emanuele Interlici, nato a Vittoria, provincia di Ragusa, il
6.8.67, in atto ristretto nella casa di reclusione di Carinola.
Purtroppo in giovane età sono stato coinvolto in vicende illecite, ero
solo un ragazzo poco più che ventenne, incensurato, e, dovuto alla
mia incoscienza nonché al contesto sociale del tutto “marcio”, non c’è
voluto molto ad essere “aspirato in un vortice”, plagiato da gente cattiva (divenuti tutti collaboratori di giustizia), usato come un burattino, ritrovandomi la vita rovinata, unitamente alla mia cara famiglia e
a mia moglie in particolar modo.
Sono stato arrestato il 13.3.91, unico arresto avuto in vita mia!
Adesso mi trovo con una condanna all’ergastolo, sono cresciuto e
formato in carcere con tutt’altri ideali, cambiato e lontano da quel
“passato deviante” di cui nulla più mi appartiene, grazie ad un mio
processo di ravvedimento interiore senza alcuni intenti utilitaristici.
Oggi mi trovo con 20 anni di carcerazione espiata, sperando di avere una possibilità verso un futuro di vita migliore, procreare figli con
mia moglie, che ho sposato in carcere, dare un riscatto sociale, che di
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certo non deluderei. Terrei a precisare che personalmente non ho mai
ucciso nessuno.
Rispondo a tutte le domande che mi sono state poste, con senso di
responsabilità, coerenza e sincerità.
Giuseppe Iovinella, carcere di Saluzzo. 45 anni, nato a Napoli. Condannato a quattro ergastoli. Mai stato al 41 bis.
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Lentini Giovanni, è nato a Crotone il 08.01.1974, è sposato e padre di
un figlio di 12 anni. Nel luglio 2005 è stato arrestato nella Repubblica
di San Marino nonostante non ci siano accordi internazionali per l’estradizione, tra San Marino e Italia, nell’aprile 2006 è stato estradato
o meglio consegnato alla D.I.A.
Nel giugno del 2007 è stato condannato in primo grado dalla Corte
d’Assise di Ravenna a 27 anni di reclusione, nell’ottobre 2008 gli è stata inasprita la pena dalla Corte d’Assise di Appello di Bologna, che ha
revocato le attenuanti generiche concesse dai Giudici di primo grado,
infliggendogli la pena perpetua, il 30 aprile 2009 la Suprema Corte di
Cassazione gli ha dichiarato inammissibile il ricorso, confermando
l’infausta sentenza di secondo grado.
Attualmente è detenuto a Bologna in espiazione della condanna all’ergastolo divenuta irrevocabile il 9 maggio 2009 (di certo non si può
dire che la giustizia con lui è stata lenta).
Ha vissuto fino all’età di 16 anni a Crotone, da qui si è trasferito nel
nord Italia per lavoro, girovagando un po’ dappertutto, fino ad arrivare nel 1994 nella riviera romagnola, a Riccione, dove ha vissuto stabilmente fino al 2005, data in cui è rimasto impigliato nella rete dell’antimafia, sradicato dai suoi affetti, dalla sua vita privata e lavorativa, catapultato in una realtà crudele, dove i diritti umani vengono violati quotidianamente.
Ha sempre lavorato nel campo dell’edilizia, dapprima come manovale edile, fino ad avere una piccola impresa di costruzioni che gestiva insieme ai suoi fratelli. Inoltre, dal 1999 era socio di 3 circoli dove
si praticava il gioco d’azzardo le cosiddette “Bische Clandestine”.
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Da premettere che in Romagna il gioco d’azzardo è diffuso e praticato anche nei locali pubblici, Bar, Pub etc… ed i circoli sopracitati
erano aperti con regolari licenze, autorizzazioni comunali e della Pubblica Sicurezza. In Emilia Romagna ci sono centinaia di circoli aperti
da decenni gestiti da romagnoli, ma secondo la Procura antimafia bolognese solo le bische clandestine dove è socio Lentini, sono l’ambiente dove è maturato il movente dell’omicidio di cui lo stesso ed altri sono stati condannati all’ergastolo (Forse solo perché Lentini è Calabrese e la mente del Pubblico Ministero continua a considerare il calabrese sinonimo di Brigante o di ‘Ndranghetista).
Attualmente nel carcere di Bologna sta frequentando un corso di etica e filosofia, un corso di iconografia e sta studiando per diplomarsi.
Mi chiamo Paolo Lo Deserto e sono di Lecce. Ho 38 anni e da 7 e
mezzo in carcere condannato all’ergastolo. Prima volta in carcere, incensurato, ma soprattutto innocente, grazie ai signori collaboratori ed
un presidente di corte assise secondo cui tutto ciò che voleva fornire
la difesa era irrilevante e dove l’accusa sbagliava e si era confusa. Con
ciò lascio immaginare lo schifo a cui ho assistito nel mio primo processo da cittadino.
Sebastiano Milazzo, età 60 anni, arrestato il 4.6.1993. Condanna: ergastolo. Non sono mai stato detenuto in regime di 41 bis, non ho mai
usufruito di permessi da libero.
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Carmelo Musumeci. Nasce il 27 luglio 1955 ad Aci Sant’Antonio in
provincia di Catania. Si trova ora nel carcere di Spoleto. Entrato con
licenza elementare, mentre è all’Asinara in regime di 41 bis riprende
gli studi e da autodidatta termina le scuole superiori. Nel 2005 si laurea in giurisprudenza con una tesi in Sociologia del diritto dal titolo
“Vivere l’ergastolo”. L’11 maggio 2011 si è laureato all’Università di
Perugia al Corso di Laurea specialistica in Diritto Penitenziario, con
relatore il Prof. Carlo Fiorio, docente di Diritto Processuale Penale.
Nel 2007 conosce don Oreste Benzi e da allora condivide il progetto
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“Oltre le sbarre”, programma della Comunità Papa Giovanni XXIII. Ha
pubblicato i libri Gli Uomini Ombra e Undici ore d’amore di un uomo
ombra, editi da Gabrielli Editori, è promotore della campagna “Mai dire
mai” per l’abolizione della pena senza fine. Collabora con diverse testate e blog su internet come: urladalsilenzio.wordpress.com; www.linkontro.info (collegata all’associazione Antigone), www.informacarcere.it, ha
un sito www.carmelomusumeci.com dove alcuni amici pubblicano i
suoi scritti e il suo diario dal carcere.
Domenico Pace, carcere di Carinola. Nato a Rosarno (RC), 47 anni.
Detenuto dal 22.04.1991. Pena da espiare: ergastolo. Attualmente mi
trovo in AS3, ma in passato sono stato nel regime E.I.V. (Elevato Indice di Vigilanza), mai al 41 bis.
Luigi Peciccia, nato a Lecce, 42 anni. In carcere dal 3 giugno 2008.
Condannato all’ergastolo, ostativo. Regime detentivo A.S.
Mi chiamo Antonio Presta, sono nato nel 1972, sono entrato per la
prima volta in carcere quando avevo appena 19 anni, il 23.07.1991,
perché accusato di vari reati da un collaboratore di giustizia e condannato in via definitiva ad un ergastolo a 25 anni.
Ho espiato la pena in carceri lontano dalla mia regione (Puglia) e
dai miei affetti più cari: Ascoli Piceno, Fossombrone, Opera (MI), dove sono tutt’ora detenuto da 10 anni. Oggi ho 38 anni, per cui, con la
buona condotta già concessa, ho espiato 22 anni e 11 mesi all’1 gennaio 2010.
Giovanni Prinari, di Lecce, 48 anni, in carcere dal 5.1.1993, ergastolo. Reati non ostativi. Regime detentivo: sempre in A.S., tranne che nel
periodo 1999/2001 in E.I.V.
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Mi chiamo Sebastiano Prino e sono nato a Nuoro il 29.07.1964. Condannato alla pena dell’ergastolo circa 15 anni fa, per una tentata rapina ad un furgone portavalori che si è conclusa con la morte di due mi-
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litari e di altrettanti miei presunti complici durante lo scontro a fuoco scaturito in tale occasione.
Lavoro svolto in libertà per circa vent’anni: servo-pastore.
Grado di istruzione al mio ingresso in carcere: 5ª elementare.
Sono Giuseppe Pullara, nato a Palermo il 18.02.1960. Da oltre 16 anni sono detenuto per reati associativi e reati di sangue; sono un pluriergastolano che ha scontato 13 anni al 41 bis, in atto mi trovo a Voghera in A.S.1 e sono in procinto di iscrivermi all’Università, se mi
concedono alcune “comodità”. Il mio stato giuridico è quello di ergastolano ostativo.
Girolamo Rannesi. Gli amici mi chiamano Gino, nome questo ereditato da mio nonno, altrimenti sono il signor Girolamo Rannesi. Nato
a Catania. Età 48 anni. Sono detenuto ininterrottamente dal 1992. Al
momento dell’arresto avevo 29 anni, ero bello ricco e famoso, oggi lo
sono molto meno. Ma veniamo alle cose serie: in carcere dal 10.11.92
con condanna all’ergastolo per diversi omicidi che sarebbero maturati in un contesto di “guerra”. Le c.d. guerre tra clan contrapposti, dove tutti avrebbero avuto la possibilità di attaccare o di difendersi. Vengo letteralmente sepolto vivo, vengo processato attraverso l’ausilio
della video conferenza. Questo comporta un grosso limite per la propria difesa: non sei in aula, non vedi la corte, non puoi interagire per
tempo con l’avvocato, ragion per cui nel giro di pochi anni sono stato condannato e travolto da una montagna di ergastoli ostativi.
Vengo sottoposto all’infame regime del 41 bis, dal 1994 sino al 2007.
Durante la sottoposizione al regime speciale sono stato detenuto a:
Spoleto, Roma, Rebibbia, Cuneo, L’Aquila, Tolmezzo.
Non ho mai usufruito di permessi senza l’ausilio della scorta. Attualmente sono detenuto presso la casa di reclusione di Spoleto, collocato nella sezione A.S.1.
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Ivano Rapisarda. Ero nato a Catania il 9.01.1971. Ero nato, perché ormai da molti anni, troppi anni, sono morto, senza speranza e senza
futuro.
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Sono stato arrestato a diciannove anni, il 28 novembre 1990. Ormai
ho trascorso più anni della mia vita in carcere che fuori. Sono stato
imputato di una trentina di omicidi e condannato a tre ergastoli, mi
trovo recluso nel carcere di Spoleto. Sono stato sottoposto per undici
anni al regime di tortura del carcere duro del 41 bis. Sono stato arrestato per detenzione illegale d’armi, in seguito alla collaborazione di
altre persone sono stato raggiunto da diverse ordinanze di custodia
cautelare per omicidi, associazione mafiosa ed altro.
La mia condanna è Fine pena mai, ma nella posizione giudica c’è
una scadenza: gg 99 mese 999 anno 9999.
Giuseppe Reitano, nato a Bosco di Rosarno (RC) 54 anni. In carcere
dal 18.10.1991, con condanna all’ergastolo. In regime 41 bis non appena è stato introdotto nel 1992, per 18 mesi ad Ascoli Piceno, poi dal
1999 al 2000 a Spoleto, dal 2000 al 2003 a Terni.
Elio Rotondale, detenuto nella Casa Circondariale e Reclusione di
Carinola (Caserta). Ergastolano. Nella mia vita ho commesso molti
errori e sto ancora pagando per questi. Voglio precisare, però che essi
sono dovuti più alle circostanze che alla natura della mia indole che,
fondamentalmente, è buona.
Marzio Sepe, nato a Marzano di Nola (AV), 57 anni. In carcere da
quando ne aveva 41, dal ‘96 con condanna “fine pena mai”, ergastolo.
Al 41 bis per 11 anni, a Parma, Secondigliano (NA), Novara, Rebibbia
per 8 anni.
Alfredo Sole, Carcere di Opera. Nato a Racalmuto (AG) 18.11.67. Dal
1° settembre 1991 ergastolo definitivo. Al 41bis dal 1993 al 2005, in varie carceri: Caltanissetta, Palermo, Agrigento, Spoleto, Ascoli Piceno.
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Sorrentino Giuseppe, nato il 19 marzo ‘63 a Boscoreale (Napoli), attualmente residente presso la casa di reclusione di Opera (Mi), entrato in carcere a 31 anni. La data di arresto: il 10.01.1995. Vi elencherò
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le date dei luoghi del carcere (regime 41 bis): dal 2.03.2000 al
17.12.2005 carcere di Tolmezzo, carcere di Secondigliano, Ascoli Piceno, carcere dell’Aquila.
Vi elencherò le mie gravi patologie.
Ho subito un intervento al cuore triplo bypass. Sono affetto da ulcera, intestino con 400 polpi. La relazione clinica, hanno scritto che in
ogni momento sono in pericolo di vita. Una sola volta feci un’istanza
di sospensione di pena per causa malattia. Il giudice di sorveglianza
mi rigettò l’istanza con una motivazione vergognosa. Perché nel carcere sono controllato 24 ore al giorno. È vergognoso.
Sono Antonino Sudato, di cinquantasette anni, nato in Sicilia, condannato alla pena dell’ergastolo. Mi trovo in carcere da quindici anni.
Sono stato in passato sottoposto al regime di tortura del 41bis, per otto anni. Per tre anni sono stato in carcere a Spoleto, ora trasferito a
Sulmona. Sono felicemente sposato con quattro figli.
Angelo Tandurella, nato a Gela il 05/08/1970. Condannato all’ergastolo, dopo 11 anni di carcere a Spoleto è stato trasferito a Rossano calabro. Nadia Bizzotto, che lo conosce personalmente: “È un uomo purificato, forse dal dolore di aver passato la sua giovinezza in carcere,
dal tempo perduto che non tornerà indietro. Chi era Angelo 15 anni
fa è difficile da dire oggi, mi viene solo da pensare che se non fosse nato in Sicilia il suo destino sarebbe stato un altro… perché ancora non
ho trovato un ragazzo condannato all’ergastolo all’età di 20 anni
che fosse altoatesino, valdostano o semplicemente romagnolo…”. Angelo Tandurella, che si definisce così: Sono un uomo che fra pochi mesi compie 40 anni, 15 li ha trascorsi in carcere. Ho un “Fine Pena Mai”
e se tu mi chiedi: chi sei oggi? Io ti rispondo che non sono quella persona che tanti anni fa ha distrutto in pochi secondi la sua vita, e anche quella di altri.
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Sono l’ergastolano Trudu Mario, un sardo nato nella provincia di
Nuoro, ad Arzana, nel 1950. Mi trovo in carcere da 32 anni, dal mag-
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gio del 1979, con una condanna all’ergastolo. (Con imputazione sequestro di persona a scopo di estorsione). Fino ad oggi la mia trentennale carcerazione è stata interrotta da soli dieci mesi di latitanza (periodo che va da giugno del 1986 ad aprile del 1987). Venti anni fa entrai nei termini per poter usufruire dei benefici penitenziari e da allora ho iniziato a presentare diverse richieste per poterli ottenere, ma sono state respinte sistematicamente tutte fino a quando nel 2004 mi fu
concesso un permesso di 8 ore, altre 7 ore nel 2005, sempre per partecipare alla presentazione di lavori realizzati in carcere. Poi più nulla.
Angelo Salvatore Vacca, nato e residente a Lecce, 42 anni, detenuto a
Opera (Milano), in carcere dal 1.07.1995, con condanna all’ergastolo.
Non sono mai stato al 41 bis.
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Giovanni Zito. Autobiografia sommaria: nato a Catania il 02.12.1969,
è accusato di 416 bis e altro. Ininterrottamente detenuto dal 1996 è
stato sottoposto al regime speciale del 41 bis. Dal 19 aprile 1997 al
7.11.2006.
In totale ho scontato 17 anni di carcere. Dopo aver girato numerosi
istituti di pena è attualmente detenuto nel carcere di Voghera (Pavia)
dove continua a scontare la sua pena all’ergastolo (ostativo). Istituti in
cui sono stato nel 41 bis op.: Asinara, Viterbo, Aquila, Novara, Cuneo.
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Fermoimmagine
Che immagine trattiene di sé una persona dopo anni di carcerazione? Queste descrizioni, che alcuni ergastolani danno di loro foto scattate in carcere, ci avvicinano a comprendere possibili momenti di frattura della propria identità. Sono tratte dalla
tesi di laurea in Sociologia di Matteo Guidi, dell’Università Alma Mater Studiorum di Bologna, che ringraziamo per la gentile concessione.
Sono piuttosto commenti, reazioni avute davanti alla propria
immagine quando in questa diventa difficile riconoscersi (in
carcere non ci sono specchi a tutta lunghezza, e quelli che ci sono sono piccoli, deformanti a volte, e si perde l’abitudine a ‘vedersi’). Ritratti, per provare a immaginare i volti, e non solo, di
una categoria di carcerati di cui nessuno sembra conoscere l’esistenza: gli “ergastolani ostativi”.
GIUSEPPE REITANO. Vedete questa foto? L’ho fatta fuori al campo di cal-
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cio e non in una cella, ma per la prima volta non vedo me stesso, vedo un’altra persona, guardo questa mia foto e mi domando chi è costui? Mi sembra uno sconosciuto, quando l’ho vista per la prima volta gli stavo dicendo che hanno sbagliato, che non è la mia foto.
La guardo ancora dopo mesi e non mi riconosco, non so se sono io,
forse il fotografo ha fotografato un carcerato che sono io, ma che non
sono più io, io sono quello di Sulmona con il camice bianco che dipingeva in una stanza e non questo in un campo da calcio dentro a un
carcere. Questo assomiglia a un avanzo di galera, e non a me che non
mi sento tale.
È come vedere una persona sconosciuta, una persona che ti sconvolge solo a guardarlo, ho paura che chi mi vede in questa foto ha la stes-
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sa paura che ho io, è come vedere una foto del vecchio west quando
mettevano la foto con la taglia di un ricercato, per questo mi sconvolge.
GIROLAMO RANNESI. Dopo quindici giorni mi furono consegnate cinque
foto, mamma mia non le avessi mai fatte, ma chi cazzo era la persona
ritratta? Non certo io, ma allora chi era? Ai miei occhi questi apparve
come un estraneo, un ergastolano, invecchiato, abbrutito. Cazzo! ma
la mattina quando mi alzo e mi guardo allo specchio sembro quasi carino, boh! Le buttai nel sacchetto della spazzatura, mai avrei mandato le foto di un estraneo a casa mia.
Con riferimento all’ultima fotografia… Ho potuto fare la foto in
occasione di un torneo di calcetto. Ho scelto io la posizione, seduto
sull’erba con le gambe incrociate, per l’occasione indossai un paio di
jeans corti e una maglietta con su scritto: L’uomo non è il suo errore… Dopo una settimana in una busta chiusa mi fu consegnata la tanto sospirata foto. Non volevo vederla, per paura di rivedere ancora
una volta un estraneo, poi l’amico che avrebbe fatto il calendario me
la richiese, beh, a quel punto non potevo fare altro, ho aperto la busta
ed ecco spuntare fuori il solito ergastolano che non mi somiglia per
niente. Sullo sfondo della foto però qualcosa di carino si vedeva, l’erba e un piccolo alberello, poi tagliato per motivi di sicurezza.
ALFIO FICHERA. Mi trovavo nel carcere di Ferrara. Là incontrai un sacer-
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dote cappellano del carcere, che dal lunedì al sabato girava nelle sezioni d’alloggio dei detenuti per eseguire opere caritatevoli. (…) A
tutte queste attività don Antonio ne aggiungeva un’altra, la fotografia.
Non ci riprendeva quasi mai in pose studiate, ma nelle diverse attività
che svolgevamo all’interno delle celle e del carcere: in cucina, nella biblioteca, nei cortili di passeggio, mentre svolgevamo i lavori di distribuzione del vitto o di pulizia dei corridoi e delle scale. Poi, dopo la
messa domenicale, in una stanza adibita a sagrestia, ci faceva trovare
tutte le foto attaccate alla parete, così che noi potevamo decidere se
farne copie da mandare ai famigliari o tenerle per noi. Attraverso
quelle foto i miei famigliari e io stesso siamo riusciti a superare quel-
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lo che non può certo dirsi un contraccolpo da niente: il carcere. Dal
‘98 ad oggi, a Carinola, non ho potuto fare una sola foto.
SEBASTIANO MILAZZO. Dopo 12 anni arrivo a Spoleto e mi faccio delle foto e provo un senso di shock, perché dell’immagine che conservo di me
non restava niente. Mi sono trovato invecchiato, ingrassato, non mi riconoscevo in quelle foto e non le ho mai inviate a casa ai miei cari.
Hanno avuto mie foto quando mi è stato concesso di farle con loro.
ALFREDO SOLE. Scegliere la foto che mi ritrae? Beh, quella scattata nel
campo sportivo, in uno spazio “libero”, con il verde. Ho voluto una foto che non restasse impresso nessun segno che la collegasse al carcere.
È la foto che ho mandato a casa ai miei familiari. Indossavo un completo da portiere e sullo sfondo a parte il tappeto verde, la “mia porta”.
Tutto sommato sembra una foto scattata in un qualsiasi campo sportivo del mondo libero. Sì, l’ho voluta quella foto, anche se guardandola mi sono accorto del reale trascorrere del tempo. Non ci sono molte
occasioni qui dentro per poter osservare la propria figura per intero, e
osservarsi allo specchio in dotazione vedi solo la faccia. Ma la foto ti
coglie per intero, hai una visione di te in un unico sguardo e, che tu sia
fotogenico o no, hai una realtà davanti, il tempo che è trascorso.
IVANO RAPISARDA. L’agente per farmi rilassare mi ha detto: Rapisarda,
meno rigido, le persone che la stanno abbracciando sono i suoi familiari…; tale battuta mi ha fatto ridere e sono uscite delle foto bellissime.
Cosa si prova quando ti guardi in foto? Beh, è troppo personale come sensazione, per quanto mi riguarda dico: a parte qualche capello
bianco, sei uguale… Ma scherzosamente attribuisco questo non cambiamento di fisionomia al fatto che siamo tutti al fresco e come tutte
le cose ci conserviamo bene. Una sorta di ibernazione…
CARMELO MUSUMECI. Dopo una decina di giorni l’agente/fotografo mi ha
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portato le fotografie in cella e nel vedermi abbracciato a mia figlia il
mio cuore è affogato in un mare di felicità e di amore.
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L’ergastolo ostativo
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Le norme, le loro modifiche, si inseguono, si sovrappongono.
Quello che oggi viene definito “ergastolo ostativo” non è una pena prevista dal codice, ma il risultato di un meccanismo che deriva dall’intreccio delle leggi nate per combattere mafia e criminalità organizzata.
Il reato di associazione di tipo mafioso è stato introdotto per la
prima volta dopo l’omicidio del generale Dalla Chiesa, avvenuto
nel settembre dell’‘82, con l’articolo 416 bis del Codice penale cui
qui si fa spesso riferimento. Ma passano gli anni, e il fenomeno
mafioso sembra inarginabile. Fra la primavera e l’estate del 1992
vengono uccisi i giudici Falcone e Borsellino e gli uomini della loro scorta. Con Falcone muore anche la moglie Francesca Morvillo. Anche sull’onda emotiva provocata da queste stragi, e per favorire la “collaborazione” delle persone arrestate, è stato creato
un regime di carcerazione differenziato, e introdotta l’altra norma ‘chiave’ di cui qui si parla, il 4 bis della legge sul trattamento
penitenziario. Questa norma esclude la concessione dei benefici
previsti dalla legge Gozzini e delle misure alternative al carcere
per le persone condannate per i reati di stampo mafioso, come
anche per il sequestro di persona a scopo di estorsione, a meno
che non si collabori con la giustizia. Il non aver collaborato con la
giustizia diventa quindi in qualche modo pregiudiziale, ‘ostativo’
dunque, all’ottenimento di qualsiasi beneficio, anche dopo anni
e anni di carcerazione. Questo vale, nel caso, anche per chi non è
condannato all’ergastolo. Ma per un ergastolano diventa di fatto
un “fine pena mai”.
Sempre sull’onda dell’emergenza degli anni ‘90 arriva nelle carceri, per chi abbia commesso delitti legati alla criminalità organizzata, la sospensione delle normali regole di trattamento dei
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detenuti. Il famoso 41bis, che riguarda il trattamento penitenziario, e che fino al ‘92 veniva applicato in caso di rivolta o in situazioni di grave emergenza. Dopo l’omicidio del giudice Giovanni Falcone, è stato esteso anche alle persone in carcere per reati legati alla criminalità organizzata. Insomma, un regime differenziato e particolarmente duro, che affianca gli altri regimi di
“Alta sicurezza”, nei quali si va a finire all’uscita dal regime 41bis.
Gli interventi che seguono, non uniformi, a volte possono sembrare contraddittori. Ma, come dice Carmelo Musumeci, “il
campo della giustizia è come quello religioso, non ci sono verità
assolute perché la legge va interpretata”. Quindi alla domanda
“che cos’è, chi riguarda l’ergastolo ostativo” è possibile trovare
risposte e umori diversi in base all’esperienza di ciascuno.
Del meccanismo che ‘osta’ all’ottenimento dei benefici
extramurari dei condannati. Delle leggi dell’emergenza,
del 41 bis e dell’inferno dantesco dei circuiti differenziati
ANTONIO PRESTA. L’ergastolo ostativo riguarda tutti quegli ergastolani
condannati per omicidio (575 C.P.) legati o riconducibili alla criminalità organizzata (416 bis C.P.) o per sequestro di persona (630 C.P.)
con la morte del sequestrato, che ai sensi dell’art. 4 bis, ‘norma simbolo’ della riforma penitenziaria del 1991/92, possono accedere ai benefici penitenziari o alle misure alternative alla detenzione solo a condizione che collaborino con la giustizia.1
Nella nuova formulazione risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 279 del 2002, l’art. 4 bis consente l’applicazione dei benefici penitenziari nei confronti dei condannati per delitti ostativi sopra
citati, quando la limitata partecipazione al fatto criminoso, ovvero
l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, rende comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia.
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Norma introdotta dal primo comma dell’art. 1 del Decreto Legge n. 152 del 1991,
che ha subìto una serie di successive modifiche, dall’art. 15 del Decreto n. 306 del
1992, fino alla più recente della legge del 23 aprile 2009 n. 38.
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La sentenza della Corte Costituzionale n. 135 del 2003 ha, però,
chiarito che solo attraverso la collaborazione con la giustizia la persona detenuta può dimostrare di essere uscita dal circuito della criminalità organizzata e si può, quindi, esprimere con certezza il suo ravvedimento e accedere ai benefici penitenziari.
Noi siamo per lo più detenuti in circuiti differenziati, Alta Sicurezza ed Elevato Indice di Vigilanza, attualmente A.S.1, A.S.2, A.S.3.2
GIOVANNI LENTINI. Mi viene da rispondere subito che l’ergastolo ostativo
riguarda solo ed esclusivamente persone meridionali, ma non ne sono certo, quindi non posso affermarlo. Comunque è una misura che
viene applicata a tutti coloro che a parere della Magistratura (o meglio secondo le varie Direzioni Distrettuali Antimafia dislocate su tutto il territorio nazionale), si siano macchiati di gravi delitti di sangue,
di omicidi, ed hanno fatto parte di associazioni a delinquere come:
‘Ndrangheta, Mafia, Camorra, Sacra Corona Unita o altre mafie. L’ergastolo diventa ostativo anche quando viene applicata l’aggravante di
cui all’art. 7 del d.l. n. 152 dl 1991.3 Sembra, però, che ci siano due
orientamenti, contrastanti, della Suprema Corte, in quanto in alcune
sentenze si legge che: l’art. 7 è inapplicabile: ovvero applicabile solo ed
esclusivamente ai reati che non prevedono la condanna all’ergastolo;
in altri casi si legge che: anche se l’art. 7 non va ad incidere sull’aumento della pena in quanto l’ergastolo è il massimo della pena che si
può comminare in Italia per chi commette un assassinio, si deve tener
conto di tale articolo ai fini dei benefici penitenziari, rendendo dunque inapplicabile le misure alternative previste dalla Legge Gozzini.
C’è tanta gente con questa condanna che è innocente, io compreso.
30
2
I circuiti penitenziari differenziati nascono nel 1991. 41-bis Riservato (il più duro),
41-bis, Alta sicurezza, Elevato Indice di Vigilanza. Quest’ultimo (EIV) nel 2009 è stato abolito e sono nati tre sottocircuiti dell’Alta Sicurezza: A.S.1, per appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso; A.S.2, per imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante atti di violenza; A.S.3, per detenuti per mafia, sequestro di persona, traffico internazionale di sostanze stupefacenti.
3
Si tratta dell’aggravante della finalità di agevolazione di associazione mafiosa.
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C’è addirittura chi da innocente, su consiglio del proprio legale, per
cercare di evitare l’ergastolo si è autoaccusato di delitti che non ha
commesso, e nonostante ciò gli è stata inflitta la pena perpetua.
GIANNI ZITO. L’art. 4 bis esclude ogni beneficio, come permessi, semilibertà, libertà condizionale. Anche le telefonate e i colloqui con i propri familiari possono subire restrizioni.
Ecco perché vi sono discriminazioni tra detenuti e “detenuti”: se
commetto un delitto non legato alla criminalità organizzata posso
usufruire della legge Gozzini. Ma un reato è sempre un reato. Io sono
un detenuto che ha scontato 10 anni di 41 bis. Oggi sono detenuto in
alta sicurezza A.S.1, cioè primo livello come ex 41 bis. Ma non posso
usufruire di nessun beneficio perché condannato al 4 bis. Quindi vivere per morire ogni giorno della mia vita.
Tutti coloro che sono stati condannati per reati “ostativi”4 sono innocenti, perché il reato ti viene attribuito nel corso del processo, e non
prima, in base agli sviluppi che nasceranno nel medesimo processo
dalla collaborazione dei pentiti!!
Quindi chi più ne ha più ne metta. Legna al fuoco… e tutti o quasi tutti sappiamo come vanno queste cose nelle aule di giustizia del sud Italia.
GIUSEPPE PULLARA. Credo che almeno il 30% degli ergastolani ostativi
sono innocenti. Che si può fare per loro? Primo: far sì che i giudici di
revisione abbiano il coraggio di riaprire un nuovo procedimento, senza farsi condizionare dal nome del soggetto, dalla Procura generale e
dalla linea politica. Secondo, bisognerebbe ripristinare il diritto naturale: “Meglio un colpevole fuori che un innocente dentro”. Le leggi attuali sono responsabili dell’omicidio più grave per la società intera,
quello del Diritto ugualitario.
SALVATORE DIACCIOLI. Tutt’oggi ci sono in carcere persone che per un
ruolo “marginale” stanno espiando delle pene esagerate. Ma i processi che si sono svolti nel periodo 1993-2000, erano gli stessi collabo4
31
Per “reato ostativo” si intendono i reati per i quali sono previste misure che “ostano” alla concessione di benefici, e quindi quelli che cadono sotto il regime del 4 bis.
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ranti che li facevano; la Corte giudicante sembrava solo una formalità.
Qualunque cosa questi dicevano “era veritiera” e sembrava non necessitare di nessun riscontro oggettivo e soggettivo.
Io sono stato sempre convinto che se oggi facessero quegli stessi
processi molti di noi verrebbero assolti, e tanti avrebbero una forte diminuzione di pena.
PAOLO LO DESERTO. L’ergastolo ostativo riguarda tutte quelle persone che
vengono condannate a morte da vivi dai signori magistrati. Perché in
Italia la pena di morte è stata abolita in maniera fittizia e in subordine è stato creato l’ergastolo ostativo, una pena che ti uccide giorno dopo giorno, che non ti dà né un futuro né un presente e resti prigioniero del tuo passato.
Purtroppo quando si viene arrestati per vari reati e ci viene contestato il 416 bis i giudici non guardano innocenza o colpevolezza, ma
il clamore ed il successo che si susciterà nel condannare, in quanto se
in un futuro (come più volte è accaduto) uno è innocente, il giudice
non paga. Attualmente i magistrati pensano che in cielo comanda
Dio, la giustizia divina, e sulla Terra loro non sono da meno a nostro
Signore, per decidere la sorte di un essere umano.
GIROLAMO RANNESI. L’ergastolo ostativo è una pena certa… così sul cer-
32
tificato di detenzione: fine pena: 9999.
La legge italiana paradossalmente punisce in modo più severo un
malavitoso che ammazza un altro malavitoso piuttosto che un delinquente comune che ammazza donne, bambini o comunque persone
inermi. Questi possono essere puniti anche con la pena dell’ergastolo,
ma questo comunque darà loro la possibilità di uscire.
Chi sono invece gli ergastolani ostativi? Uomini che a torto o a ragione avrebbero ucciso altri malavitosi in una sorta di “guerra” dove
tutti potevano attaccare, difendersi, o scappare.
Il fatto di essere un ergastolano ostativo l’ho scoperto da solo.
Ci sono moltissimi ergastolani che sono ostativi a qualsiasi beneficio, ma di questo allo stato non hanno ancora nessuna contezza. Lo
scopriranno alla prima richiesta di un permesso-premio.
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Se chiamati a rispondere alla stessa domanda: cos’è l’ergastolo ostativo? Ognuno risponderebbe in modo diverso. Questo perché allo stato non tutti sono stati indottrinati a dovere dai propri avvocati. D’altronde quale avvocato direbbe mai al proprio assistito: lei non potrà
mai più uscire dal carcere?
Ma è necessario sapere che il punto scatenante perché ad un soggetto venga comminato l’ergastolo ostativo è uno, uno soltanto: ossia per
aver cagionato la morte di pinco pallino per agevolare l’associazione
di tipo mafioso. E poco importa se il condannato all’interno della
stessa ricoprisse un ruolo di mero affiliato.
ALFREDO SOLE. …e il 41bis non è nato per impedire che la persona in
carcere comunicasse con la propria organizzazione. È nato per vendetta. Sì, la vendetta dello Stato. Quella che doveva essere un’emergenza, finì per diventare una legge, causa naturale di una campagna
politica volta solo ed esclusivamente ad incutere paura nella gente,
creando così la malattia e il vaccino.
PASQUALE DE FEO. Gli organismi internazionali hanno criticato l’Italia
per il regime del 41 bis, ma i nostri politici fanno finta di niente e strumentalizzano per fini populistici.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, con la sentenza Musumeci2005, ha condannato l’Italia per aver violato il diritto di accesso ad un
tribunale in relazione all’applicazione del regime E.I.V.5
La Commissione per la prevenzione della Tortura dell’Unione Europea ha condannato il regime di 41 bis, ritenendo che esso violi l’art. 3
della Convenzione Europea che recita: “Nessuno può essere sottoposto
a tortura, né a pene o a trattamenti inumani o degradanti”.
Il Consiglio Europeo nel 2010 ha condannato il trattamento riservato alle persone sottoposte a questo regime.
5
33
È la sentenza della IV Sez., 11 gennaio 2005, ricorso n. 33695/96 – Musumeci contro Italia. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per la violazione dell’art. 6 par. 1, della Convenzione, per aver violato il diritto di accesso ad
un tribunale in relazione all’applicazione del regime di Elevato Indice di Vigilanza,
sul presupposto della sua maggiore afflittività.
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Amnesty International condanna e critica l’applicazione del 41 bis.
Un magistrato americano ha rigettato la richiesta di estradizione
per un boss italo-americano perché il regime del 41 bis è una tortura
che viola la convenzione ONU.6
Il presidente della Società Italiana Psicologi Penitenziari, Alessandro
Bruni, ha dichiarato: “Il 41 bis va reso più umano e accettabile per
quanto riguarda i contatti umani. Si è trattato di una necessità storica, ma non si può pensare di gestire sempre tutto con l’emergenza”.
Lo diceva anche Aristotele 2300 anni fa: “Una giustizia giusta è quella che promuove i legami sociali”. Anche l’umanizzazione della pena
passa attraverso le relazioni sociali.
LUIGI PECICCIA. Questa pena riguarda di conseguenza anche le famiglie
dei detenuti, che subiscono l’angoscia di questa pena primitiva. Per i
diversi innocenti, fra noi, che scontano pene non loro, bisognerebbe
credere in loro e aiutarli concretamente a istituire un ufficio di verifica per questi casi.
PAOLO AMICO E ALFREDO SOLE. “Qualsiasi cittadino è innocente finché non
verrà riconosciuto colpevole”, ma per chi ha l’etichetta di “mafioso” la
norma diventa: “Sono tutti colpevoli finché non dimostreranno la loro innocenza”. Visto che l’Italia ha bisogno di colpevoli… vedete voi...!
E cosa dire a proposito di casi di prigionieri, ad esempio alcuni
esponenti delle Brigate Rosse, che pur non essendo divenuti pentiti giudiziari sono usciti, sia pure dopo non pochissimi anni?
CARMELO MUSUMECI. L’ergastolo ostativo non è mai scattato per i reati
della lotta armata perché nella legge del 1992 questi reati ne sono sta6
34
Nell’ottobre del 2007 un giudice di Los Angeles, D.D. Sitgraves, ha negato all’Italia
l’estradizione di Rosario Gambino, ritenuto esponente di spicco dell’omonimo clan
newyorchese, sostenendo che il regime di detenzione 41bis equivale ad una forma di
tortura. Già in una precedente sentenza lo stesso giudice aveva sostenuto che il sistema penitenziario italiano per i boss mafiosi ha caratteristiche “che costituiscono una
forma di tortura” e violano la convenzione delle Nazioni Unite in materia (fonte Ansa, “Los Angeles Times”).
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ti esclusi. L’art. 4 bis della legge allora stabiliva che “quando si tratta di
detenuti o internati per delitti commessi per finalità di terrorismo o
eversione dell’ordinamento costituzionale ovvero di detenuti o internati per i delitti di cui agli art. 575 ecc. i benefici suddetti possono essere ammessi solo nei casi in cui non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamento con la criminalità organizzata o
eversiva”. Quindi indipendentemente dall’aver collaborato con la giustizia. Il divieto di concedere benefici legato alla non collaborazione
viene introdotto con la riforma del 2002, e non è retroattivo.7
Le norme ostative al concedere i benefici penitenziari, sono un ritorno al passato, in quanto negano e limitano i benefici in relazione
alla tipologia dei delitti commessi, e questo significa tornare al medioevo.
I limiti e i divieti posti dalla legge si pongono in contrasto con il
principio della funzione rieducativa della pena, sancito dall’art. 27
comma 3° Cost. perché esclude a priori per talune categorie di condannati la possibilità di una progressiva rieducazione. In poche parole, si diventa cattivi per sempre.
Il carcere ostativo è l’inizio di un incubo. L’uomo ombra diventa
spettatore della sua vita. Smette di pensare, smette di essere persona e
diventa un fantasma.
SEBASTIANO MILAZZO. Il fatto che alcuni esponenti dell’area politica sono
riusciti a liberarsi dal carcere è perché hanno avuto, nelle stanze del
potere e non solo, simpatie politiche per loro, e queste in Italia contano più dei reati e più delle stesse leggi, poi perché hanno ottenuto i benefici prima che la politica usasse le misure repressive come mezzo di
ricerca di facile consenso elettorale e, non meno importante, si trattava di gente colta e che aveva all’esterno e all’interno del carcere chi poteva fornire loro il supporto necessario per affrontare il reinserimento nel lavoro e nella società.
Nell’applicazione dell’articolo 4 bis, al di là dei casi patologici, non
7
35
Oggi anche i delitti di terrorismo sono ostativi, nel senso che i benefici possono essere concessi solo previa collaborazione. Rimane il divieto di retroattività.
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influisce molto la sensibilità dei magistrati che, un po’ peggio o un
po’ meglio, applicano la legge. Influisce il modo scriteriato di legiferare e il clima di paura e allarmismo diffuso attraverso i media. Sono questi gli elementi che condizionano la sensibilità dei magistrati
e degli operatori penitenziari, perché i primi sono quotidianamente
accusati di infliggere pene troppo lievi, mentre i secondi sono fatti
vivere nell’angoscia che il condannato fuori può commettere altri
reati.
SALVATORE VACCA. Nella maggior parte dei casi si è tolta la vita ad un’al-
tra persona, prima che l’altra persona la togliesse a noi (questa non è
certo una giustificazione)…
Se ci sono innocenti fra noi? A mio avviso sarebbe più corretto porgere questa domanda a quei collaboratori di giustizia, e non pentiti,
che hanno fatto condannare persone all’ergastolo pur sapendole innocenti.
“la Repubblica”, nell’ottobre 2011, titola: Il racconto del pentito
Spatuzza: ecco come preparammo l’auto con il tritolo. Via d’Amelio, così abbiamo ucciso Borsellino. E tornano in libertà gli
ergastolani condannati nel vecchio processo.
Cronaca di un incontro
36
Uno di questi ergastolani, Cosimo, condannato per quella strage è
uscito dal carcere di Spoleto. Prima di uscire è passato a salutarmi.
Sedici anni fa eravamo nella stessa stanza del carcere dell’Asinara
(l’Isola del Diavolo, come la chiamavamo noi prigionieri) sottoposti
al regime di tortura del 41 bis.
L’avevo visto entrare che era un ragazzino, con i capelli neri come il carbone e con il sorriso sempre stampato sulle labbra. E l’ho visto uscire l’altro giorno anziano, senza nessun sorriso e con tutti i capelli bianchi.
Cosimo un paio di anni fa, sapendo dei miei studi universitari di
giurisprudenza, mi chiese di fargli una richiesta di permesso premio.
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Dopo un paio di mesi il magistrato di sorveglianza gli rispose in
questo modo:
“Si dichiara inammissibile la richiesta perché il detenuto è stato
condannato per reati esclusi da qualsiasi beneficio penitenziario se
non collabora con la giustizia”.
Cosimo mi venne a trovare nella mia cella e mi chiese cosa volevano dire quelle parole, ed io gli risposi in maniera semplice come ormai faccio da anni con tutti gli ergastolani ostativi:
– Vuole dire che sei destinato a morire in carcere se non metti in cella un altro al posto tuo.
Dalla sua espressione del viso notai che forse non aveva capito il
concetto e allora glielo spiegai ancora meglio:
– Lo vuoi capire o no? Per uscire devi confessare i reati e fare i nomi
di altri e farli condannare, solo facendo arrestare loro potrai uscire tu.
Cosimo per un attimo mi guardò con i suoi occhi da lupo bastonato, poi li abbassò e mi rispose:
– Carmelo, io per uscire farei qualsiasi cosa, ma sono innocente e
quindi come faccio a confessare un reato che non ho mai commesso?
Incredulo gli replicai:
– Abbi pazienza, non è che non ti voglio credere, ma in carcere tutti dicono che sono innocenti.
Cosimo mi guardò per un lungo istante quasi con vergogna, poi
sbottò:
– Carmelo, ma io sono innocente davvero.
Rassegnato scrollai le spalle e gli risposi:
– Mi dispiace Cosimo, ma non posso fare nulla! Purtroppo se sei innocente è peggio per te.
L’altro giorno quando ci siamo salutati e abbracciati, gli ho augurato di rifarsi una vita, quella poca che lo Stato italiano e le sue medievali leggi gli hanno lasciato ancora da vivere.
37
(CARMELO MUSUMECI, novembre 2011)
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Il pentimento, la collaborazione
Non aver collaborato con la giustizia è una scelta che qui viene
ribadita con forza. Fino a respingere la legittimità del termine
‘pentiti’ che comunemente ormai tutti usiamo per indicare i
collaboratori di giustizia, trasformando l’atteggiamento morale che accompagna il riconoscimento di colpa in figura giuridica. In uno scenario dove molti sono finiti in carcere proprio su
indicazione dei pentiti (e qualcuno si dichiara innocente), dove
collaborare con la giustizia può mettere in pericolo i propri familiari, dove “spesso i reati sono stati commessi insieme ad
amici con cui si è cresciuti fin da bambini”, non collaborare viene rappresentato soprattutto come assunzione di responsabilità.
Del perché della scelta di ‘non collaborare’ e della necessità
di distinguere fra ‘pentimento’ e ‘collaborazione’
GIOVANNI LENTINI. Bisogna capire cosa si intende con la parola “penti-
mento”. Si è assistito e purtroppo si assisterà ancora a pentimenti fasulli; penso che molti collaborano con la giustizia solo per uscire dal
carcere e prendere soldi dallo Stato, altri ancora per vendicarsi mettendo in galera i propri nemici, addirittura c’è chi ha fatto finta di
pentirsi per poter uscire dal carcere e vendicarsi del male ricevuto dai
clan avversari commettendo ulteriori omicidi. È questo ciò che ha fatto Totuccio Contorno a Palermo e ci ha rimesso il posto il Giudice Di
Pisa negli anni 1992/1993.1
1
38
Alberto Di Pisa era stato accusato alla fine degli anni Ottanta di essere l’autore delle lettere anonime alla Procura di Palermo che inaugurarono una tormentata stagione di ‘veleni’. Era stato indicato come ‘il corvo’ che firmava le lettere volte a minare
la credibilità di Falcone, accusato di avere ‘pilotato’ il ritorno in Italia di Totuccio
Contorno con l’obiettivo di combattere la famiglia dei Corleonesi. Di Pisa, che aveva fatto parte del pool antimafia, fu condannato in primo grado a diciotto mesi per
calunnia. Elemento di prova un’impronta digitale lasciata su una lettera ‘del corvo’.
In appello l’impronta fu giudicata inutilizzabile e il magistrato assolto.
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Chi ci dice che il famoso Giovanni Brusca sia effettivamente pentito di aver ucciso e sciolto nell’acido un bambino di 12 anni? È stato
perdonato dalla magistratura e ha avuto la possibilità di avere permessi, ma né i giudici che gli hanno concesso di uscire dal carcere, né
noi potremo mai sapere se si è pentito davvero di ciò che ha fatto.
Penso che chi è pentito veramente di ciò che ha commesso non ha
bisogno di gridarlo al mondo, o di mettere altra gente in galera continuando a fare dell’altro male, perché anche togliere la libertà ad una
persona è sempre fare del male!
Si può essere pentiti del male fatto in passato, impegnandosi a non
rifarlo, interessandosi ai problemi sociali, avvicinandosi con la preghiera a Dio, fare qualsiasi cosa che non sia male: questo per me è un
pentimento vero.
MARIO TRUDU. Il pentimento che pretendono loro è l’umiliazione. Per
loro collaborazione significa perdita di dignità, fuoriuscire dalla sfera
umana. Come può collaborare chi è stato vittima di processi compiuti con la roncola nei cosiddetti periodi di “emergenza” in cui contava
solo la parola dell’accusa e dove i testimoni della difesa venivano sistematicamente arrestati e processati anche loro? L’Italia, dagli anni
Ottanta ad oggi, pare essere un Paese in emergenza perenne.
SALVATORE DIACCIOLI. Per quanto riguarda la mia persona, posso affer-
mare che il mio pentimento è avvenuto interiormente e non riesco a
concepire perché si pretenda che uno deve per forza di cose barattare
la libertà. Inoltre io non ho più nulla da dire dal momento che nel
mio processo il 60% sono collaboranti (e tutto quello che gli ha fatto
comodo lo hanno già detto). Cosa potrei aggiungere io, a che servirebbe la mia collaborazione? Forse per incolpare qualcun altro dei
miei reati? No… se io ho delle colpe le voglio espiare e lo voglio fare
nel giusto rispetto della legalità.
ANGELO SALVATORE VACCA. …per non parlare poi dei pentiti che hanno ac-
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cusato persone solo per “sentito dire”.
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Aver aderito alla criminalità organizzata, chi per scelta, chi si è fatto
trascinare, o chi è capitato in mezzo per caso, non vuol dire avere sposato questo tipo di scelta. Le persone sono umane, quindi tutte possono commettere degli errori, è perseverare che è disumano. Credo che
ad ognuno debba essere concessa non un’altra possibilità ma un’ultima possibilità.
PAOLO LO DESERTO. …per non parlare dei signori collaboratori che vengono paragonati agli apostoli, che si pentono per “continuare a guadagnare soldi, non si fanno il carcere, effettuano le proprie vendette e
deridono il sistema”… e continuano ad essere per sempre protetti, altrimenti minacciano le cosiddette procure di ritrattare, per dire la verità su persone condannate innocentemente. Ed io che sono all’ergastolo ostativo, per vedere un giorno di libertà dovrei collaborare?
La mia colpa è di non sapere niente, e non perché sono un mafioso.
Solo perché non saprei cosa inventare su terze persone e non è giusto
che paghino terze persone per me, altrimenti quando avrò l’onore
d’incontrare Nostro Signore non avrei il coraggio di guardarlo negli
occhi, che ho fatto soffrire degli innocenti. E non sarei orgoglioso
quando la mattina mi sveglio per lavarmi la faccia e guardarmi allo
specchio o di guardare in faccia la propria figlia. È contro la mia indole rovinare famiglie altrui e comportarmi come altri hanno fatto
con me. Rimango qui dove mi trovo senza aspettare un domani che è
uguale a oggi e ieri, con l’unica speranza che un giorno venga alla luce la verità e si riconosca la mia estraneità a tutto ciò.
PAOLO AMICO E ALFREDO SOLE. Sia ben chiaro, non scegliere il percorso del-
40
la collaborazione non significa rifiutare le regole che lo Stato si è dato come strumento per regolare la convivenza civile, ma significa soltanto farsi carico delle proprie responsabilità, e quindi accettare tutto
ciò che esse comportano come punizioni per scelte devianti fatte in
passato. Significa principalmente non cercare scorciatoie che permettono sì di riacquistare la libertà, ma forse non favoriscono quelle
profonde riflessioni che possono portare una persona a un reale cam-
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biamento. Ma tali cambiamenti possono avverarsi solo se si intravede,
anche lontanamente, un barlume di speranza. L’ostativo, uccide l’unica cosa che rimane a un ergastolano: la speranza.
ANTONIO PRESTA. Se non pentendoci, come pensare di meritarsi la li-
bertà? Perseguendo comunque un percorso di cambiamento e miglioramento rispetto ai disvalori del passato e restando fiduciosi in un
cambiamento anche da parte delle istituzioni, perché la civiltà di un
Paese si misura soprattutto dalla civiltà delle pene.
GIUSEPPE PULLARA. Il pentimento è un nobile sentimento che nasce nel
profondo del cuore e si manifesta attraverso l’amore verso l’altro, mutando il precedente approccio verso il prossimo. Ecco perché la libertà
non può essere preclusa ai tanti accusati di appartenere a una delle famigerate organizzazioni criminali senza scrutare il pentimento del loro cuore dopo due o tre decenni di dura reclusione.
Sono sicuro, chi legge non è lo stesso/a persona di 10-15-20 anni fa,
sia per la durezza della vita, sia per la maturità fisiologica. Perché non
può cambiare un uomo ergastolano ostativo?
SEBASTIANO PRINO. Credo che solo un mentecatto o una persona spinta da
una forte ideologia possa fare a meno in questi luoghi di riconsiderare
il proprio vissuto e di analizzare le cause del proprio destino. Io perlomeno l’ho fatto, mi sono scrutato dentro ponendomi domande che nel
tempo mi hanno portato a condividere la teoria del manicheismo, cioè
una sorta di conflitto interiore che a lungo andare ti fa maturare e non
di rado fa vedere gli eventi della tua esistenza sotto altri profili.
41
CARMELO MUSUMECI. Chi è quell’uomo che almeno per una volta non si
è mai pentito di quello che ha fatto? Forse persino Dio si è pentito di
aver creato l’uomo.
In ogni caso… se quelli “liberi” hanno commesso un crimine a danno della comunità, non sarebbe meglio collaborare per sanare, per dare un minimo di giustizia e di tranquillità agli altri? Non credo.
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Se quelli liberi si sono rifatti una vita e ora lavorano, sono dei
buoni mariti e dei buoni padri, perché sbatterli dentro in un luogo
brutto dove appassiscono la mente, il cuore e l’anima? E in ogni caso mandare una persona in carcere per interesse non è mai una
buona azione.
Non credo che Giuda abbia fatto una buona azione vendendo Gesù
per trenta denari.
Ho scelto di non collaborare per non rubare la vita e la libertà degli
altri.
Sembra incredibile, e la mia non è una provocazione, ma il detenuto è una delle poche persone in questo Paese che ancora crede nelle
leggi, se per rispettarle non collabora con la giustizia e in questo modo rinuncia alla sua libertà.
Guarda gli imputati di tangentopoli, primo non hanno rispettato le
leggi dello Stato e poi non hanno neppure rispettato le leggi dei ladri
perché se la sono cantata quasi tutti e subito.
GIUSEPPE IOVINELLA. Io ho scelto di non collaborare perché vivo di di-
gnità. Credo che per pentirsi, se si ha commesso un illecito, non bisogna sedersi davanti a un giudice e accusare altri padri, figli o nipoti,
ma rivolgersi a Dio e chiedere perdono e, se si può, aiutare i figli di chi
ha subito.
Ci sono persone che hanno scelto di non collaborare perché guardano negli occhi i propri figli e non vogliono portare via anche la loro vita.2
PASQUALE DE FEO. Collaborare? Non mi ha mai sfiorato questo pensiero, neanche nei momenti più bui, quando ero nel regime di tortura
del 41 bis dell’Asinara. Anzi, tutte queste sofferenze hanno rafforzato
in me questo proposito. Non mi è mai piaciuto fare la spia. Un uomo
deve affrontare le sue disgrazie con dignità, senza cercare di sfuggire
2
42
Il riferimento è al cambio di identità, quale misura di protezione prevista anche per
i parenti dei pentiti.
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mettendo altri al suo posto. Nessuno pensa mai che in carcere ci sono
tanti innocenti, accusati dai vari “Scarantini”.3
Credo che per tutti coloro che hanno fatto questa scelta, i motivi siano grosso modo gli stessi, e tra questi i timori di creare problemi ai familiari, farli strappare dal contesto in cui sono nati e vivono; anche l’aver visto e provato le sofferenze e le lacerazioni di chi ha collaborato.
Spesso i reati sono stati commessi insieme ad amici con cui si è cresciuti
fin da bambini, come si fa a tradire un amico che ormai è un fratello?
Non vedo non sento, non parlo …e se fosse proprio questo che
vuole lo Stato?
SALVATORE GUZZETTA. Questo mi fa ricordare una barzelletta che mi ha
raccontato un caro amico: un poliziotto per sbaglio spara, invece di
colpire un ladro colpisce un collega, un siciliano che aveva assistito alla scena viene arrestato, al commissariato l’ispettore interroga l’uomo,
incomincia a imprecare: “Ti farò dare l’ergastolo se non mi dici cosa
hai visto. Come sono andate le cose?”. Il siciliano imperterrito: “Ispettore iù nenti vitti nenti sintii, e nenti sacciu, e si c’eru durmia!!”. L’ispettore lo guarda: “Puoi andare, caso risolto, è stato il ladro a uccidere il collega”. Questo succedeva una volta, oggi i tempi sono cambiati,
e sono cambiati anche i siciliani.
PASQUALE DE FEO. La settimana scorsa c’era un articolo sul quotidiano
“la Repubblica”: un giudice dichiarava che doveva prosciogliere il comandante del carcere di Termoli4, che aveva affermato che i detenuti
3
43
Il riferimento è a Vincenzo Scarantino, pentito chiave del primo processo per la
strage in cui fu ucciso il giudice Paolo Borsellino. Scarantino aveva inizialmente confessato di avere partecipato alla strage e si era accusato di aver procurato l’auto poi
imbottita di tritolo che è costata la vita al giudice e ai cinque uomini della scorta. Le
prime condanne sono venute proprio in seguito alle sue dichiarazioni. La sua vicenda è accompagnata da molti colpi di scena. In seguito Scarantino è stato smentito da
un altro pentito, Gaspare Spatuzza, ed è lo stesso Scarantino che davanti ai giudici
del processo bis torna sui suoi passi.
4
Il riferimento è all’archiviazione del caso relativo alla denuncia di un pestaggio che
sarebbe avvenuto nel carcere di Castrogno (Teramo). Una prova audio non è stata
considerata sufficiente.
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“si massacrassero sotto il reparto e non nella sezione davanti agli altri
detenuti”; la motivazione del giudice era che i detenuti non avevano
rilasciato dichiarazioni che potessero rinviare a giudizio questo comandante. Un “povero cristo” avrebbe preso l’ergastolo, come l’hanno preso in tanti, per frasi intercettate che si prestavano all’ambiguità.
Invece, una registrazione chiara che non si presta a interpretazioni
non basta neanche per il rinvio a giudizio.
Lo Stato protegge le sue gerarchie, a tutti i livelli, invece quando si
tratta di “poveri cristi” li elimina con il carcere, innocenti o colpevoli
che siano. La storia ci insegna che il potere politico ha sempre usato i fenomeni criminali per eliminare le persone, usarle per il linciaggio mediatico, per coprire problemi e ruberie. Sì. Lo Stato vuole questo da noi.
GIUSEPPE PULLARA. Lo Stato vuole così tante cose… ma non uscire dal
labirinto creato dai suoi stessi membri. Ci vorrebbero tutti pentiti, ma
non dobbiamo accusare i politici, altrimenti si è screditati; se decidiamo di collaborare devono gestire la tua mente affinché il nostro dire
possa rendere quello che vogliono; ci lasciano marcire in minuscole
celle per due, tre, quattro decenni, solo per dimostrare all’opinione
pubblica che lottano il male assoluto con fermezza; ma sono clementi con pedofili assassini.
GIOVANNI ZITO. Non vedo, non sento, non parlo…? Queste parole sono
44
solo illusioni, chiacchiere al vento. Tutti ci siamo difesi tramite gli avvocati e con dichiarazioni spontanee nei processi. Questo gioco di parole non è assolutamente vero, si concede solo quello che si vuol far
concedere, non ci sono verità, non ci sono più regole. Cosa può volere lo Stato che si prende la vita ogni giorno come riscatto? Oggi i morti che camminano nelle carceri non si possono più contare. Sinceramente preferirei morire subito con la mia dignità e onestà. Perché vivere ogni giorno in queste mura che ti rubano sogni e pensieri? E perché dare ancora tanto dolore alle proprie famiglie se già so che devo
morire sorseggiando aria inutile? Non voglio vivere così, non è la mia
speranza, non è un mio futuro, non è la mia vita. È la vita che lo Sta-
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to mi toglie ogni ora, ogni giorno, ogni mese e tutti gli anni della mia
vita. Non lo voglio, non accetto questo dono dallo Stato.
SEBASTIANO MILAZZO. La delazione serve ai regimi, non ad amministrare
le carceri e la giustizia di un Paese che si vuole definire civile e democratico, perché con la delazione si costruiscono solo società piene di
paure, odi, ricatti e infamie al servizio di quanti in nome della libertà
hanno interesse a reprimere la libertà. Dovrebbero pensare a questi
aspetti coloro che osannano come virtuosi i delatori, gli untori della
colonna infame o quei virtuosi cittadini che denunciavano le famiglie
degli ebrei al dittatore.
Ma se non collaborando, quindi, quali le vie, i sintomi di ‘guarigione’ per dimostrare il distacco dal mondo criminale di cui
pure si è fatto parte?
ALFREDO SOLE. Non è facile dire, quando tutta l’attenzione è rivolta
esclusivamente al fenomeno “pentitismo”. Ma se si analizzasse in modo serio e coerente il percorso carcerario di un detenuto, si scoprirebbe che è veramente e umanamente impossibile che un essere umano,
dopo una lunga carcerazione, possa rimanere ancora intrappolato nel
suo passato criminale.
ALFIO FICHERA. Più che leggere l’impossibile libro della mente umana, si
dovrebbe maggiormente impegnarsi tutti nel rimuovere le condizioni che sono state causa della “scelta” criminale dell’individuo.
Non v’è dubbio che ai “furbi” vada meglio: pensa a cosa avviene nel
nostro attuale governo.
CARMELO MUSUMECI. Come dimostrare il distacco dal mondo criminale?
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Non usare la giustizia per uscire dal carcere; accettare, giusta o sbagliata che sia, la propria pena.
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La vita in carcere
Il rumore del carcere è il rumore del ferro. Del ferro di porte e
cancelli, che si aprono, che si chiudono, che sbattono. Delle chiavi che girano nelle toppe, del ferro che chi vigila sbatte sulle
sbarre. “Sì, la sua voce è il rumore del ferro”, mi ha detto un
amico che del carcere ha un ricordo per fortuna lontano. Un rumore costante. Tanto presente che si trasforma nel suo opposto,
diventa silenzio, ho pensato, se nessuno in queste pagine vi fa
mai cenno. Come succede con le cose che ‘devono’ diventare abitudine e, per riuscire a viverci dentro, quasi le si riassorbe in sé
fino ad annullarle. E in questo ‘silenzio’ scorre la vita del carcere, i suoi tempi meccanici, le azioni sempre uguali, qualche iniziativa con la quale ci si industria, come dice qualcuno, per ammazzare il tempo “facendo finta che non sia il tempo ad ammazzare noi”. Un luogo dove si “diventa il carcere” dove, qualcuno prevede, “arrugginirò come il ferro”.
Ricordo dell’Asinara
CARMELO MUSUMECI da un’intervista a “Sassari notizie”, 18 gennaio 2011. Nell’I-
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sola del diavolo ci sono stato cinque anni. I reati, associazione a delinquere di stampo mafioso, omicidio, estorsione, detenzione di armi
ed altro…
I luoghi. La cella sembrava una scatola di sardine. Un fazzoletto di
cemento, con la branda piantata al pavimento. Un tavolino di pochi
centimetri inchiodato al muro. Una finestra con doppie sbarre. Una
porta blindata spessa una spanna. Un bagno turco aperto senza nessuna riservatezza. A lato un piccolo lavandino. Lo spazio nella stanza
era minimo e a mala pena riuscivo a stare in piedi e potevo fare giusto qualche passo avanti e indietro.
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Le celle dell’Assassino dei Sogni dell’Asinara erano allocate nella
parte meno illuminata della prigione. Più che celle sembravano tombe. L’aria sapeva di chiuso e di muffa. Mancava l’aria e la luce. Dalla
finestra della cella si poteva vedere solo una fetta di cielo. La parte più
alta. Nella finestra c’erano doppie file di sbarre e poi per completare
l’opera una rete metallica fitta. L’acqua non era potabile e veniva giù
marrone.
Lì ho studiato per non impazzire, quando oltre al regime di tortura
del 41 bis mi hanno applicato anche l’isolamento diurno, restando
isolato da tutti e da tutto 24 ore su 24. Ho studiato per corrispondenza perché non potevo ricevere libri e il mio tutore, Giuliano Capecchi,
maestro in pensione, mi mandava qualche pagina di libro dentro le
lettere.
Non avevo nessuna attività. A quel tempo il regime di tortura del 41
bis non prevedeva nessuna attività culturale, sportiva, lavorativa. Si
viveva da cane in un canile.
La differenza con le altre carceri? Il giorno con la notte. Vorrei che
diventasse un museo per ricordare a tutti cosa è stato l’Asinara.
Si sa molto su cosa è accaduto cento, cinquecento, mille anni fa, ma
si sa pochissimo su cosa è accaduto venti, dieci, cinque anni fa e non
si sa nulla di quello che sta accadendo adesso.
Cronaca di un arrivo…
DAL RACCONTO DI GIOVANNI FARINA, aprile 2010. Il giorno in cui mi è stata co-
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municata la declassificazione dall’art. 41 bis nell’Istituto di pena di
Spoleto sono stato spostato a un altro reparto e chiuso in cella di isolamento. Dopo 5 giorni sono stato caricato in un furgone blindato
con due zainetti a tracolla che contenevano pochi oggetti per l’igiene
personale e della biancheria. Nella celletta blindata che c’era all’interno del furgone blindato potevo stare seduto in una sola posizione.
Dopo un viaggio di 11 ore sono arrivato all’istituto di pena di Catanzaro. Ero stato allontanato dalla mia famiglia più di mille chilometri.
Nel magazzino del carcere, dopo avermi spogliato e perquisito mi
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danno un sacchetto della spazzatura dove c’erano due lenzuola e una
coperta, mi portano in una cella d’isolamento. La cella era molto
sporca, c’era moccio e sangue rappreso alle pareti, doveva essere almeno da 10 anni senza imbiancata. Chiamo la guardia carceraria,
chiedo che mi fosse dato il necessario per dare una pulita alla cella. Mi
risponde che lui non si poteva allontanare dal suo posto, che non mi
poteva aiutare. Rassegnato inizio a farmi il letto perché ero stanco dal
lungo viaggio, distendo le lenzuola. Il primo lenzuolo aveva un grosso squarcio, il secondo una grossa macchia gialla che il lavaggio non
aveva cancellato, doveva essere vomito. Il materasso di gommapiuma
doveva essere scaduto da anni, era molliccio e puzzolente. Richiamo
la guardia carceraria, chiedo se mi cambiano le lenzuola. Le distendo,
faccio vedere in che stato erano. Mi rispondono che era sabato notte
e che fino a lunedì la lavanderia era chiusa e che dovevo tenermi le
lenzuola che mi erano state date. Rassegnato mi sono messo a letto
con i vestiti che avevo addosso. La domenica verso le dieci mi chiama
il comandante del reparto perché il mio stato di detenzione è sempre
la massima sicurezza, E.I.V. In Italia la massima sicurezza è un pozzo
senza fine, da una parte esci e dall’altra entri.
Mi dice il comandante che dovevo cambiare sezione. Mi portano al
quarto piano. Al quarto piano mi dicono che dovevo dividere la cella
con un altro recluso perché non c’erano celle libere. Il comandante di
reparto mi promette che era una sistemazione provvisoria, solo per 2
giorni, non era vero. La guardia carceraria all’inizio mi assegna una cella con un recluso che fumava, anche se gli avevo detto che non fumavo
ed ero allergico alla nicotina. Al mio rifiuto più totale fa un giro in tutta la sezione e trova una cella occupata da un recluso che non fumava.
Il cubicolo non è una cella costruita per due persone. Dopo lo spazio che occupa il letto, un tavolino, tre stipetti attaccati al muro e un
attaccapanni che è l’arredo ministeriale in ogni cella per ogni detenuto, resta solo lo spazio di passaggio per una persona.
La cella ha il soffitto basso e con il letto a castello, la faccia del recluso che dorme sopra è all’incirca a una distanza dal neon della luce
di dieci centimetri.
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49
In ogni istituto di pena come norma nelle celle e anche nel corridoio
c’è la luce notturna. In questo istituto è tutto fuori norma. Non c’è la
luce notturna, e il continuo accendere e spegnere improvviso il neon
della guardia carceraria, una luce molto forte e improvvisa quando
ero rilassato nel sonno, mi aveva mezzo accecato. Ho dovuto fare una
visita oculistica e mettere gli occhiali. La poca biancheria che mi ero
portato dietro nel viaggio mi è toccato lasciarla dentro le buste di plastica, gli stipetti erano occupati dal recluso che occupava la cella da
più di un anno. Ho spinto le buste della biancheria sotto al letto e negli spazi che non erano già occupati. In questo spazio strettissimo ci
dovevamo vivere in due 24 ore al giorno sempre chiusi. Quando uno
stava in piedi l’altro doveva stare a letto. Io che non faccio colloqui
settimanali e neanche mensili, e per mia abitudine faccio ginnastica
mattutina, che qui non mi sarà facile, e mi devo lavare la biancheria
sporca. In cella non c’è un angolo dove stendere un asciugamano, una
tuta, per farli asciugare. Non c’è la lavanderia come in tutti gli istituti
di pena dove sono stato fino ad oggi, per la biancheria personale. Qui
c’è solo il cambio delle lenzuola ogni 15 giorni. E si possono fare 3
docce a settimana in delle strutture logore e trasandate dove l’acqua
calda non c’è mai e ogni volta che faccio la doccia mi ammalo.
In questo momento sono in una cella d’isolamento al piano terra.
Davanti alla finestra c’è mezzo metro di spazzatura in fermentazione.
Nemmeno i cani nel canile sono trattati come trattano in questo carcere. I cani sono più tutelati perché ci sono gli animalisti e Striscia la
Notizia, che vanno a controllare i canili e fanno presente alle Istituzioni lo stato di vita di quelle povere bestiole.
Il dentista è introvabile, per l’acquisto di un paio di occhiali sono
dovuto andare alla ricerca di un prete. Ho l’impressione di essere alloggiato sotto un ponte. All’inizio hanno tentato di mettermi le mani
addosso e nella cella di isolamento mi avevano lasciato quattro giorni
senza mangiare contro la mia volontà, perché non mi avevano dato
nemmeno i piatti. Quando passava il carrello dell’ora di pranzo e cena non potevo prendere da mangiare.
Dopo 4 giorni il comandante mi chiede perché non volevo stare in
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cella in promiscuità. Alle mie spiegazioni risponde che dovevo ritornare subito nella cella alla quale ero stato assegnato… non aveva a disposizione per i reclusi un albergo, ma celle di detenzione.
Del tempo in carcere
ANTONIO PRESTA. Sono entrato in carcere che ero analfabeta, ma ho da
subito iniziato ad attivarmi per imparare a leggere e scrivere, quanto
meno per garantirmi la possibilità di comunicare con la mia famiglia
e con l’esterno del carcere, attraverso la corrispondenza epistolare.
Nei primi anni, in un circuito penitenziario di alta sicurezza, non
esistevano educatori o assistenti sociali per quel regime. Iniziai la
scuola di alfabetizzazione e a leggere tanti libri, per ingannare il tempo (o me stesso: per non pensare di essere in quelle condizioni) e aprire la mia mente su quanto stavo vivendo. Conseguii la terza media con
“distinto” e continuai la scuola fino al secondo anno di ragioneria; poi
fui trasferito al carcere di Opera. Ho frequentato corsi: teatro, volontariato all’interno del carcere, specializzazione di gelatiere. Attualmente lavoro da quasi due anni in un laboratorio per la produzione
di gelato, assunto a tempo indeterminato da un’azienda esterna s.r.l.1
Ho fatto un percorso inframurario molto positivo, inclusa una revisione critica rispetto alla mia condotta passata e i miei reati commessi. Ho peraltro richiesto, sia alla direzione del carcere che al magistrato, di poter svolgere del volontariato all’esterno del carcere, anche se
dubito mi sarà data questa possibilità.
Un vecchio ergastolano mi disse: “Noi ergastolani prima diventiamo
carcerati, poi il carcere”. Ecco, non è un luogo comune quando si afferma che diventiamo arredamento del carcere, perché non potrò op1
50
All’interno del carcere è stato possibile svolgere un corso di specializzazione nella
scuola a indirizzo alberghiero. Questo tipo di scuola è un indirizzo frequente nelle
carceri, insieme all’Istituto d’arte consente molti lavori di manualità abbinati allo
studio.
Ci sono ditte esterne che stipulano contratti col carcere per l’assunzione di detenuti
che lavorano all’interno dell’istituto penitenziario.
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pormi a lungo; prima o poi, mi piaccia o no, sarò “il carcere”: arrugginirò come il ferro, sarò umido e pieno di muffa come i muri, mi
aprirò e mi chiuderò alla stessa ora e morirò ogni volta in un giorno
diverso, fin quando esisterà l’ergastolo, fin quando resisterà il mio
corpo.
PASQUALE DE FEO. Il carcere è ripetitivo e grosso modo in tutte le carce-
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ri gli orari sono simili, a parte qualche piccola variazione. Le giornate
sono inquadrate in orari rigidi. La vita scorre in quattro ore. Le venti
che restano si rimane in cella.
Le quattro ore d’aria al giorno, dalle ore 9 alle ore 11… dalle ore 13
alle ore 15… si può andare a passeggiare in una specie di piscina di cemento, dove si corre per tenersi in forma… chi ne ha voglia. Tutte le
attività didattiche, scuola, corsi e formazione (quando ci sono), sono
racchiuse in queste quattro ore.
La Commissione Europea per la prevenzione della tortura ha stabilito che ogni detenuto deve avere disponibili, nella propria cella, 7 metri quadrati di spazio, e che si deve poter stare fuori dalla cella almeno otto ore. Purtroppo ciò non avviene.
La mia vita scorre nella cella. Qui ho il mio mondo terreno. Ci sono
tutte le mie cose che mi danno l’impressione di essere ancora un essere umano. Vivo, anche se sono un morto vivente.
Mi alzo presto la mattina verso le ore 6, studio, leggo o scrivo qualcosa… fino alle ore 7.30. Mi alzo, faccio colazione, mi lavo e mi preparo per fare attività ginnica. Faccio le pulizie e aspetto le ore 9 per
iniziare a fare ginnastica. Finisco alle ore 11 e mi faccio la doccia.
Verso le ore 12 viene distribuito il vitto. Mentre pranzo mi guardo i
TG, cerco di tenermi informato. Il pomeriggio lo passo in cella a scrivere, leggere o studiare. Faccio pausa per vedere qualche programma
scientifico o storico. Verso le ore 18.30 ceno e guardo i TG.
Dopo cena scrivo qualche lettera e verso le ore 21 mi metto a letto e
guardo un po’ di TV. In caso non facciano qualcosa di interessante,
leggo qualcosa, e mediamente mi addormento tra le ore 22,30 e le
23,30.
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La mattina dopo si ricomincia, daccapo. Qualcosa di diverso capita
di rado.
Da tre settimane, il venerdì pomeriggio dalle ore 13 alle ore 15, frequento un corso di scrittura creativa. Mi piace perché stimola i pensieri.
In carcere quello che uccide è l’ozio e l’appiattimento mentale. Io
cerco di combatterlo tenendo attiva la mente. In sintesi la mia vita è
quella di un collegiale.
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GIUSEPPE PULLARA. In primis vorrei sfatare il luogo comune secondo cui
in carcere c’è più tempo libero; sappiate che tutto il nostro tempo libero è cadenzato dal regime penitenziario. Alle ore 8, colazione; alle
ore 8,20 circa, battitura delle sbarre; alle ore 9 si va al passeggio; alle
ore 11 si rientra in cella; dalle ore 11 alle ore 13 si fa il turno per la
doccia, si aspetta il vitto per pranzare, si aspetta la posta di familiari o
amici. Alle ore 13 si riscende al passeggio oppure in saletta; alle ore 15
comincia l’attesa della battitura pomeridiana. In alcuni istituti avviene per tre-quattro volte al dì.
Dalle ore 15 in poi si pensa a cucinare, scrivere la lettera quotidiana,
riposare un po’, fino alle ore 17, momento della socialità, che dura fino alle 18,30; per un’altra mezz’ora o poco più c’è un via vai di detenuti per rientrare in cella.
La compagnia in cella è una forzatura per gran parte dei detenuti,
per via dello spazio stretto delle camere e per la promiscuità intellettuale, caratteriale e costumi diversi.
Tutto ciò limita il tempo “libero” a un lumicino, per cui ogni soggetto vive il tempo “libero” come meglio può: chi studia per non oziare o pensare la negatività in cui è costretto a vivere, chi scrive molte
ore, anche la sera tardi; chi guarda la tv dalla mattina alla sera; chi si
dedica alla cucina preparando piatti succulenti e altri pessimi, per
esperimenti.
La direzione può fare tantissimo per evitare l’ozio, sia con corsi specialistici, sia con il lavoro, sia con la realizzazione di progetti culturali
e ricreativi.
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Molti abbiamo bisogno di uno stimolo in più per uscire dal guscio
in cui ci siamo cacciati…
GIOVANNI ZITO. Beh fuori hai un ritmo di vivere la vita, puoi gestire le
proprie necessità come meglio credi o pensi. Ma io invece cosa sono?
Un punto fermo, questo sono io.
Un uomo che non conoscerà mai più i colori della sua vita. Il mio
tempo è scandito secondo come mi sveglio al mattino, nel senso che
o faccio un po’ di sport nella vasca di cemento armato, cioè il passeggio, o uccido il mio corpo e il cervello fissando un qualcosa senza nessun significato, perché tanto che cosa ne faccio del mio corpo se un
giorno dovrà essere rottamato?
ALFREDO SOLE. Sconto la condanna nel circuito AS1, questo comporta il
divieto di incontrare altri circuiti. Ai corsi di formazione manuale o
creativi possono accedere altri, ma non noi. Per il nostro circuito c’è
solo la scuola. Ma non è il caso mio. Sono già diplomato e la mia unica attività la svolgo nella mia cella, che è quella di studio universitario. Filosofia. Ma per adesso ho lasciato anche questo, non per colpa
mia, ma di questo carcere che a quanto pare non vogliono universitari-detenuti. Mi piacerebbe continuare a studiare. Quello che più mi
manca è la libertà. Tutte le altre mancanze sono effimere.
GENEROSO DE MARTINO. Attività manuali non posso farne perché invalido.
Attività creativa niente, non ci danno la possibilità. Uguale per le attività intellettuali. Per l’A.S.1 non esiste niente. Solo la scuola, ma che
scuola, un bidone. Cioè chiusa come un silos dove si conserva il grano e dato che sono l’unico a soffrire di claustrofobia mi è impossibile
anche studiare.
Cosa mi piacerebbe fare? Andare a casa e crescere i miei nipotini visto che coi figli mi è stato impossibile.
SEBASTIANO MILAZZO. Attività manuali, creative? Sì, tutto ciò che è più
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che altro funzionale per la concessione di finanziamenti alla compa-
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gnia di giro che ronza famelica intorno al detenuto. Mi piacerebbe che
tutte le attività fossero funzionali a far conoscere realmente il condannato, le sue speranze e la bontà dei suoi propositi. Svolgo comunque un’attività che mi piace: il bibliotecario. Ma mi manca la speranza che per me possa esserci un futuro. Il mio più grande desiderio è
essere considerato per quel che sento di essere diventato.
MARZIO SEPE. Sono in carcere da 15 anni, solo adesso frequento la scuo-
la ragioneria. Mi piacerebbe fare informatica.
GIROLAMO RANNESI. Qui abbiamo una biblioteca, non tutte le carceri
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però sono come quelle di Spoleto. Ve ne sono molti che ne sono
sprovvisti.
Con riferimento alle possibilità di studio, bisogna premettere che in
molti carceri questa possibilità è pari allo zero. Qui a Spoleto esiste l’istituto d’arte quindi vi è la possibilità di studiare, altresì vi è la possibilità di frequentare il corso di lettura ideato e diretto dalla psicologa
del carcere dott. Paola Giannelli.
Chi scrive si reputa fortunato, ma con rammarico non può non ricordare che nel quartiere in cui è cresciuto la scuola era un miraggio
(fermo restando il libero arbitrio ah!).
Teatro? Non credo di essere capace di fare teatro e tuttavia ci provo
lo stesso, voglio provare a vincere la timidezza. In verità ho già fatto
qualcosa, durante le prove mi sono anche divertito ma poi una volta
sul palco ho potuto constatare di avere dei grossi limiti, su tutti la paura di essere giudicato dagli altri. Per quanto mi riguarda non credo di
essere un buon attore, ma mannaggia vorrei essere più disinibito.
Il prossimo mese proprio in prossimità dello spettacolo finirò di
scontare l’isolamento diurno, quindi se tutto va bene potrei essere tra
i protagonisti che si esibiranno proprio il 10 di aprile.
Spero in un futuro migliore per tutti. Essendo cresciuto in ambienti particolari, mi sento di poter affermare che il male assoluto della
nostra società è la Corruzione.
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ALFIO FICHERA. Non abboccate quando sentite di sequestri di beni mi-
lionari e di “boss” che pranzano con aragoste e champagne. Il carcere
è né più né meno un riflesso della società esterna; in esso convivono
ricchi e disperati, sani e malati, schiavi e tiranni, sciocchi e furbi: vi è
quindi chi sceglie di farsi sfruttare lavorando per una paga di 200 euro al mese perché aiuta la famiglia a sfamarsi e chi invece è nelle condizioni di sfuggire al ricatto del bisogno. In carcere si sommano tante
cose diverse. La società per lavarsene le mani li chiama tutti mafiosi,
criminali, “gente di rispetto” e crea l’opinione comune, spesso a disprezzo della realtà.
CARMELO MUSUMECI. In carcere c’è il rischio assuefazione. Faccio risponde-
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re direttamente da Antonio Gramsci: “Ho sempre paura di essere soverchiato dalla routine carceraria. È questa una macchina mostruosa che
schiaccia e livella secondo una certa serie. Quando vedo agire e sento
parlare uomini che sono da cinque, otto, dieci anni in carcere e osservo
le deformazioni psichiche che essi hanno subìto, davvero rabbrividisco,
e sono dubbioso nella previsione di me stesso. Penso che anche gli altri
hanno pensato (non tutti ma almeno qualcuno) di non lasciarsi soverchiare e invece, senza accorgersene neppure, tanto il processo è lento e
molecolare, si trovano cambiati e non lo sanno, non possono giudicarlo, perché essi sono completamente cambiati”. (A. Gramsci, Lettere dal
carcere, Torino 1965, p. 236, lettera 19 novembre 1928 a Giulia).
Riguardo a quanto incide in questa assuefazione il fatto che la detenzione sia permanente e senza fine, posso dire che ormai mi sono
abituato alla sofferenza e non mi fa più paura. La sofferenza mi fa solo soffrire, piuttosto è la vita che mi fa paura perché più vivo e più dura la mia pena.
Il carcere ostativo è l’inizio di un incubo. I sogni della notte: addormentarsi alla sera e non svegliarsi più al mattino nella cella.
Gli incubi: addormentarsi alla sera e svegliarsi di nuovo al mattino
nella cella.
La cosa che pesa di più: l’inutilità di avere un calendario attaccato
alla propria cella.
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Del corpo e del cibo, spigolature…
ALFIO FICHERA. Alcuni danno importanza alla forma fisica perché a chi
vive di solo pane, come accade ai carcerati, non rimane che nutrire e
curare il corpo.
GINO RANNESI. Il sottoscritto lo fa per apparire in ottima forma agli oc-
chi dei propri cari. Altri per l’insicurezza in cui versano. La moltitudine lo fa per sentirsi vivo, sai com’è, “mai dire mai”.
ANGELO TANDURELLA. Se sono soprattutto quelli che scontano pene lun-
ghe che danno importanza alla forma fisica? Secondo la mia opinione, non c’entra niente. Diversi detenuti praticano sport primo per star
bene con la propria persona, secondo per scaricare lo stress e terzo per
sentirsi appagati, o per mantenersi più giovani. Il mio sport preferito
è il calcio, dove riesco a scaricare tutta la tensione e lo stress e quando
finisco la partita, a prescindere se ho vinto o perso, mi sento stanco e
rilassato.
GIUSEPPE REITANO. Io non lo so! Io sono in carcere da 20 anni, e 10 di latitanza fanno 30, e non ho mai fatto ginnastica per la forma fisica. Anche fuori sono malati come anche i carcerati per questa forma fisica,
forse è un modo per passare il tempo, o per sentirsi meglio…
IVANO RAPISARDA. Cerco in tutti i modi di non annoiarmi, mi occupo di
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tutto ciò che mi fa stare bene fisicamente e psicologicamente.
Chi non entra in contatto con il mondo carcerario, non ha idea delle risorse che si sono sprigionate dopo decenni di sofferenza.
Un esempio. Il progetto “Cucinare in massima sicurezza”.
Matteo Guidi, è stato (lo è) un professore e un amico vero, tra una
lezione e l’altra, è venuta fuori l’idea di un libro di ricette, ne è nato
un confronto e da lì l’idea di far conoscere fuori il nostro linguaggio.
Vi ha partecipato un gruppo di detenuti, tutti ergastolani tranne due
che comunque hanno da scontare 30 anni.
Insieme abbiamo lavorato benissimo.
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Cucinare in carcere è un fattore di socializzazione, assieme alle persone che hai invitato si decide cosa comprare e cosa e come cucinarle. Siamo degli ottimi cuochi.
Possiamo mangiare in gruppo, massimo 5 persone, ma di solito siamo in tre. Nel carcere nascono delle vere amicizie ed è un vero piacere condividere non solo quello che si cucina, ma anche quello che ci
portano i familiari a colloquio.
Le difficoltà più comuni, stranamente sono delle cose banali, come
per esempio la mancanza di qualche ingrediente indispensabile per
fare qualche specialità, certo si sostituisce con qualcosa d’altro, ma il
risultato se pur soddisfacente non è mai come la specialità con gli ingredienti giusti.
Strumenti ne mancano e anche tanti, ma l’intelligenza e l’ingegno
del detenuto supera l’immaginabile, per esempio una caffettiera diventa un “martello” o un mattarello per fare il pesto, un armadietto o
il classico sgabello a volte si trasformano in forni per torte e pasta al
forno. Un semplice bastone di scopa si trasforma in un mattarello per
stendere la pasta per fare i ravioli ripieni di carne o ricotta e spinaci,
le forme le creiamo con un bicchiere di plastica. Tutti gli strumenti
che abbiamo a disposizione sono utili, tra quelli che ho creato un
temperamatite che uso per pulire la carne e disossarla.
A parte qualche ingrediente, le ricette sono uguali a quelle da fuori,
certo non abbiamo gli aromi liquidi, ma con un po’ di fantasia e di
esperimenti riusciamo a crearne qualcuno che si avvicini al sapore che
ci occorre.
Per esempio. Per inumidire il pan di spagna ci vorrebbe un po’ di
aroma di rhum, cosa che non possiamo acquistare. Mettiamo un po’
di vino da parte. Si riversa in una bottiglia di plastica, aggiungiamo
zucchero e chiodi di garofano e lo lasciamo riposare per qualche settimana, così abbiamo qualcosa per inumidire il pan di spagna e allo
stesso tempo quel che rimane sembra Martini bianco.
MARIO TRUDU. Non è facile organizzare la giornata qui dentro, sei sem-
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pre in attesa di qualcosa che non arriva mai, non ti puoi concentrare
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su niente. Le mie giornate sono scandite dalle ore di aria, che io ne approfitto in pieno: di iniziative non ne perdo una, dalla frequentazione
di un corso di grafica all’uso del computer in cella.
Del progetto “cucinare”? La parte più impegnativa da me svolta è
stato fare i disegni che in qualche modo rappresentano vari oggetti
creati per cucinare.
Cucinare dovrebbe essere un’operazione banale, ma qui dentro non
lo è perché devi saperti arrangiare, inventare.
Qui possiamo mangiare in gruppo, almeno in questo carcere di
Spoleto. In molte altre carceri ancora la civiltà non è arrivata: i loro dirigenti sono ancora degli uomini delle caverne, sono dei trogloditi.
Le difficoltà più comuni? Non vorrei prendere un attacco di bile raccontando queste cose, il più delle volte trovi difficoltà dove non dovresti
incontrarne, e questi intoppi ti spappolano il fegato per la rabbia.
Gli strumenti più utili e usati sono: fornellino a gas e caffettiera o
meglio la “moka”, tramite essi puoi svolgere una marea di attività.
Sono veramente strumenti multiuso, noi carcerati possiamo veramente dire “sia benedetto chi li ha inventati” e delle nostre invenzioni credo che il più utile sia il taglino fatto da un manico di spazzolino da denti e la lama di un tempera matite, è tagliente come un
rasoio.
Se vogliamo cucinare una pasta al forno dobbiamo costruirci un
forno. Uno dei modi per realizzarlo è questo:
liberare lo stipetto a parete, lavare e disinfettare bene, bucare il fondo con un chiodo (il chiodo viene ricavato da un fornellino vecchio
togliendogli lo spinotto che buca la bomboletta del gas, che viene reso incandescente sul fornello), fare due fori del diametro utile per avviare e svitare comodamente i fornellini, prendere quattro lattine di
birra vuote, sistemarle in modo che si possa poggiare la teglia in cui si
andrà a cucinare.
Se si preferisce realizzare un forno più efficace, raccogliere la carta
argentata dei pacchetti di sigarette e tappezzare l’interno dello stipetto, incollandoli con la colla vinavil.
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CARMELO MUSUMECI. Molti cercano di ammazzare il tempo senza sapere
che nel frattempo è il tempo che ammazza noi, altri ammazzano il
tempo cucinando.
Ma è difficile anche cucinare, per via dei numerosi divieti. Un esempio?
Claudio, un mio amico, con tanto affetto mi ha mandato un barattolo di plastica di miele fatto dalle sue api e non me lo vogliono dare.
Sto insistendo per farmelo dare.
Io non mi arrenderò mai alla stupidità del carcere perché se no sarei stupido anch’io.
Qualcuno mi dovrà pur spiegare perché un barattolo di miele trasparente, controllabile con la vista, con il palato e con il buon senso,
non passa e per esempio un arancio, un limone o una mela passano…
Non abbiamo frigorifero in cella. D’estate per avere l’acqua fresca
compriamo la bottiglia e con due calze di lana l’appendiamo a dondolare in un angolo della cella dove c’è un filo di vento. Lo strumento più utile tra tutti quelli che ho creato, il forno, inserendo una pentola più piccola in una più grande.
Spesso ricicliamo il mangiare dell’amministrazione per farlo più
buono. Se il carcere passa le fettine di carne dure come la suola di una
scarpa, noi ci facciamo uno spezzatino con le patate.
In carcere tutto è difficile, ma niente è impossibile. Per esempio oggi sono andato al campo sportivo grande. Ci vado sempre volentieri
perché lì c’è molto spazio e posso camminare lungo il campo senza
voltarmi continuamente.
Aveva piovuto, c’erano delle lumache.
Le ho raccolte di nascosto e ieri sera abbiamo fatto un sugo con le
lumache che non lo mangiano neppure nel migliore ristorante di Bologna!
Della storia di un computer, conversazioni dal blog…
FRANCESCO ANNUNZIATA NELLINO… ottobre 2010, dal blog urladalsilenzio. “Ti
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informo che continuiamo a battagliare per il computer, e abbiamo in-
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trapreso una serie di iniziative con reclami ecc. ecc., lettere al Presidente della Repubblica, ecc. ecc. Ora, giusto per farti avere un’idea di
che razza di mondo sia questo, ti invio gli ultimi due rigetti ad opera
del Magistrato di Sorveglianza…
Nel mio reclamo esplicitamente richiedevo l’autorizzazione all’acquisto e all’uso di un PC da tenere nella camera di pernottamento. Preciso
che un reclamo è di gennaio e l’altro è di agosto. Ha risposto ad entrambi
insieme, ha fatto trascorrere 8 mesi. Ma c’è di più, io il computer avevo
chiesto di comprarlo a mie spese, e non di utilizzare quello della scuola.
Quindi, ho chiesto una cosa e mi hanno risposto con un’altra.
Il magistrato di sorveglianza scrive che… il PC può essere autorizzato per particolari esigenze di studio. Falso!!! La circolare DAP
3556/6006, 15 giugno 2001 e l’art. 40 r.e. o.p. non parlano assolutamente di particolari esigenze… Ma “solo” per motivi di studio o di
lavoro! Quindi se uno studia o lavora ci vuole il computer, lo può
avere. Nessuno può dire che uno studio scolastico sia più meritevole di un altro o meno. Anzi. Nel caso di specie, quale studio può essere più meritevole di avere il computer della scuola media superiore per geometra, dove ci sono prettamente materie tecniche come
progettazione impianti, topografia e lingue straniere, dove è necessario l’ascolto? Siamo intenzionati a scrivere anche alla Gelmini”.
Dal diario di PASQUALE DE FEO, 29/03/2011. L’educatrice in via informale mi
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ha fatto capire che mi verrà rigettata la mia richiesta di ritirare computer e stampante dal magazzino e poterli usare. Pochi giorni fa hanno dato il computer al mio compagno di sezione Claudio, nella sua
cella. Lui è iscritto come me all’Università. Pertanto hanno creato una
discriminazione. Mi hanno fatto aspettare un anno per rispondermi
no. Il mondo va avanti, ma qui a Catanzaro sembra come il libro di
Primo Levi, Cristo si è fermato a Eboli. Il 21 gennaio 2011 il Ministero
ha emanato una circolare per aprire al mondo esterno sia le carceri sia
le menti di chi li dirige, sottolineando con chiarezza che non è più accettabile legittimare restrizioni e divieti in nome del “totem” sicurezza. Con tutto ciò qui niente è cambiato. Come fanno ad essere così
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miopi è un mistero. Se oggi scrivo e la mia curiosità culturale è aperta a 360 gradi lo devo al computer e alla stampante.
Una frase dell’educatrice mi è rimasta impressa “con la penna scrive così tanto, figuriamoci con il computer cosa può combinare”. Non
penso e non voglio pensare che sia questo il motivo reale del diniego del computer e della stampante.
ALFREDO SOLE novembre 2010, dal blog urladalsilenzio. “Non è che sono pron-
to per gli esami, ma pronto a preparare la prima materia. Solo che da
quando ho pagato le tasse non si è fatto più vedere nessuno. L’assistente volontario che si è occupato dell’iscrizione non mi ha ancora
portato il programma. Siamo in due in questa sezione iscritti all’università, e sono incazzato per questo lassismo nei nostri confronti. Ieri, dopo insistenze, hanno rintracciato il volontario. Dice che si farà
vivo la prossima settimana… Se non sei davvero ostinato, ti passa la
voglia di fare qualsiasi cosa. È proprio quello che loro vorrebbero, no?
Se non fai nulla ed ozi dalla mattina alla sera, non dai fastidio, e se non
dai fastidio, loro lavorano di meno”.
Del rapporto con l’istituzione carceraria
ANGELO TANDURELLA. Io ho un rapporto buono con le guardie, c’è massi-
mo rispetto, si scherza, si affrontano temi sociali abbastanza seri…
Sono 11 anni che sono rinchiuso in questo istituto. Poi, facendo lo
spesino, sono sempre in contatto con loro e si creano dei rapporti
umani, non con tutti, però, perché c’è sempre lo stronzo di turno, ma
tu lo eviti e stai tranquillo.
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PINO REITANO. Io credo che solo le persone incivili non hanno dei buoni rapporti con chiunque; gli Agenti di custodia, come il Direttore, sono persone, e se qualsiasi detenuto non ha un buon rapporto con loro, la colpa non è della casa di Reclusione, ma del detenuto che non
comprende la civiltà o il rapportarsi con gli altri. Poi in tutti i luoghi
ci sono delle persone nere.
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GIROLAMO RANNESI. Premetto che anche l’istituzione carceraria è com-
posta da esseri umani, e che come tutti gli esseri umani, guardie, direttori, ecc… possono sbagliare. Non si può fare di tutta un’erba un
fascio. Se penso dunque che possa essere possibile un buon rapporto
fra detenuti e guardie e direttori, la mia risposta è sì.
I motivi per cui si sceglie di lavorare in carcere secondo me possono essere molteplici. Qualcuno per avere uno stipendio sicuro. Questa categoria a mio avviso sono per lo più buoni agenti, entrano in
carcere per guadagnarsi il pane. Poi ci sono quelli che essendo vissuti
in quartieri malfamati e che magari hanno subìto le malefatte dagli
scugnizzi o dai Carusi si arruolano nella polizia penitenziaria o in altri corpi di polizia. Questi sono carichi di livore: adesso ve lo faccio vedere io chi sono!
CARMELO MUSUMECI. Non credo sia possibile un buon rapporto. Perché
un buon direttore, una buona guardia ecc… non accetterebbero mai
di lavorare in queste condizioni disumane senza scontrarsi con l’istituzione. Un buon direttore, una buona guardia ecc… non accetterebbero mai di fare da guardiani allo zoo con dentro le gabbie degli umani. Nulla toglie, ovviamente, che anche fra gli operatori penitenziari ci
sono i buoni e i cattivi e che a livello esclusivamente personale possono nascere dei buoni rapporti. Chi lavora in carcere, perché sceglie
questo? Per le guardie, le solite ragioni per cui uno fa il delinquente,
per motivi finanziari e perché non ha la possibilità di fare un altro
mestiere. Nessuno credo che nasca con l’aspirazione di fare per mestiere quello di chiudere una persona dietro una gabbia.
ALFIO FICHERA. Credo che fra detenuti e istituzione carceraria debba es-
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serci un buon rapporto, perché nessuna delle due parti può scegliere
di divorziare e andarsene.
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La comunicazione
L’articolo 21 della Costituzione italiana recita: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto ed ogni altro mezzo di diffusione”. Qualcuno da
qualche tempo, grazie all’intermediazione di volontari, si affaccia sui blog, ma l’attenzione di noi, di là dalle mura, è talmente flebile… E se comunque comunicare con l’esterno è fortemente limitato, la percezione del mondo è “sabbia che scivola
via”, se la sua voce e le sue immagini arrivano più che altro attraverso lo schermo di un televisore, beffardo vetro divisorio fra
il tempo fermo del carcere e il tempo altro che scorre fuori.
Scriveteci, scriveteci!
NICOLA RANIERI, detenuto malato di tumore, trasferito al carcere milanese di Opera per sottoporsi a delle cure, febbraio 2011. “Per quanto riguarda il sito so-
no pochi quelli che mi scrivono, specialmente in questo periodo che
non sto dormendo e sto poco bene. Avere un po’ di corrispondenza
mi farebbe bene, perché avrei tante cose da dire, invece mi sento sempre più solo (…). Potrei parlare della mia vita, rispondere alle domande che mi ponete, invece non fate altro che delle fiammate per poi
svanire nel traffico tra tanta gente”.
PASQUALE DE FEO, dal blog urladalsilenzio, 25/03/2011, dove si invita a: “SCRI-
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VERGLI… SCRIVERGLI… SCRIVERGLI… magari anche ad inviargli qualcosina sull’Inter, dato che è un appassionato tifoso… ma perlomeno scrivergli. Certo, scrivere una lettera cartacea comporta un
minimo impegno, magari se ne andrà mezz’ora del vostro tempo. Ma
per Nicola in questo momento è preziosa tutta la vicinanza possibile.
Passa gran parte delle sue giornate da solo, chiuso in cella, tra i suoi
pensieri”.
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“Tramite la scuola di geometra che frequento da uditore, con i professori è stato creato un contatto con gli studenti fuori, scrivendo una
lettera. Oggi mi hanno consegnato tre lettere di risposta di altrettanti
studenti, Emanuele, Giuseppe e Pietro. Mentre leggevo mi sono emozionato, credo sia dovuto al peso che hanno dato al contenuto del mio
scritto. Mi ha fatto piacere e ha suscitato anche il mio orgoglio. Risponderò ai tre ragazzi, con l’augurio che le mie parole possano essere utili…”.
Della comunicazione “verso e da” il mondo esterno…
GIUSEPPE PULLARA. Per noi ergastolani ostativi l’articolo 21 della Costi-
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tuzione viene riconosciuto come diritto, ma limitato nei fatti dai regolamenti penitenziari e dai tanti burocrati che non vogliono fare
uscire dalle mura di cinta le nostre proteste civili e non, per non far
sapere cosa succede all’interno del carcere. A tal proposito adoperano
svariate tecniche: la mediazione, con la promessa da marinaio che
qualcosa si farà; la minaccia di punirti con sanzioni disciplinari; il cestinamento della posta; il condizionamento psicologico, facendoti
cambiare cella e sezione, se non il carcere, ecc… ; a questo bisogna aggiungere l’atteggiamento velatamente “persecutorio”, non facendoti
lavorare quasi mai.
La comunicazione in uscita è limitata alla corrispondenza e a dei
colloqui, sia familiari, sia attraverso gli operatori, agenti, insegnanti,
volontari, educatori. La comunicazione con i nostri familiari avviene
tramite il colloquio, la lettera e la telefonata. Altro genere di comunicazione non è consentito.
Con le vittime dei reati commessi? Personalmente non ho alcuna
comunicazione con le vittime, tranne che con i miei familiari, che sono le mie uniche vittime!
I mezzi di comunicazione che ci sono consentiti in entrata, sono
giornali, riviste, libri, tv e radio. Tv e giornali sono limitati a seconda
dei territori o per volontà della direzione. Esempio: da quando è entrato in vigore il digitale terrestre ci è consentito di poter vedere solo
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10 canali. Neanche il numero di quelli che ha solo la Rai. I giornali sono limitati, si dice, perché fuori portata della distribuzione il luogo del
carcere.
Ma il mondo, visto attraverso i telegiornali, è la percezione di un
mondo che cambia senza poterne far parte, è come tenere in un pugno chiuso un po’ di sabbia. Ogni giorno ne cade a terra un pochino,
finché ci si ritrova con il pugno vuoto.
Questa sensazione d’impotenza, nel fermare la caduta della sabbia
dal pugno chiuso, ci porta allo stato percettivo di essere inutili ai bisogni dei nostri cari o degli altri, facendoci sentire il vero peso di essere ergastolani, cioè persone private non solo della libertà, ma anche
del partecipare al cambiamento del mondo, al quale pure potremmo
dare il contributo del nostro sapere reale “grazie” alla sofferenza patita nei lunghi anni di detenzione.
La sensazione di impotenza ci fa allontanare dalla realtà del mondo
odierno, facendoci sentire diversi, esageratamente.
Tutti abbiamo pregiudizi su tutto, perché abbiamo paura del diverso e dell’ignoto, ma sui detenuti ci sono pregiudizi esagerati, perché si
identifica il reato con la persona che l’abbia commesso. Quanto dico
lo posso affermare per l’esperienza avuta con gli insegnanti e gli operatori che lavorano nelle carceri. Loro hanno provato “repulsione” a
lavorare in questi ambienti, ma dopo pochissimo tempo hanno dovuto ricredersi, perché i nostri sentimenti sono simili se non più sensibili di tanti che vivono “fuori”. Dico più “sensibili” perché il dolore e
la mancanza di libertà alzano la soglia sentimentale.
Ebbene, i veri pregiudizi li creano i media e i politici che trasmettono terrore con titoli ad effetto e venditori di fumo, per racimolare un
pugno di voti, parlando di sicurezza futura. Io aspetto la sicurezza sociale dal tempo giurassico!
GIOVANNI ZITO. Il mio pensiero è che l’ignoranza è meno dannosa del
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confuso sapere.
Io per mia natura non leggo giornali di nessun genere, la Tv mi basta e avanza per quello che già si vede e si sente.
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Quando si ascoltano notiziari ti accorgi di come le cose cambiano
così velocemente che non ci si crede.
Così si prova una forte distanza, un distacco enorme, immenso, perché non ci si rende conto di quanti anni sono passati, vivendo in una
gabbia dove ci sono muri alti (cinque) metri e pareti intorno alla propria vita.
Siamo in un mondo microscopico, emarginati dal mondo esterno
che ci invade solo tramite tv, e a volte siamo più confusi che persuasi.
Ma posso avere il giornale se lo posso acquistare, posso anche avere
qualche libro dalla biblioteca, se voglio ne faccio richiesta. Ho la radiolina del tipo consentito. Non posso avere internet.
La comunicazione con i familiari avviene per prima cosa con la corrispondenza, per sapere sempre e comunque come vanno le cose in
famiglia, poi c’è la possibilità di effettuare n. 2 telefonate al mese, e se
ne hai la forza economica ti fai un colloquio al mese, se ti va bene.
Questo è tutto quello che si può ottenere visto che si vive a chilometri di distanza dal luogo di residenza. Sofferenza sul dolore, così è per
noi.
Comunicazione con le vittime dei reati commessi? Prima cosa io sono stato accusato ma non mi sono mai autoaccusato di fatti per i quali ho l’ergastolo. Non li conosco neanche di vista, non so proprio chi
sono, le vittime dei reati dei quali sono accusato.
Per il resto non ho altra corrispondenza con persone che non sono
della mia famiglia, fatta eccezione per qualche detenuto ergastolano
con cui ci siamo incontrati nelle varie galere. Tutto qua.
Certo che ci sono dei pregiudizi su di noi. Non si fa altro che questo. Tutti i santi giorni. Sono dovuti ai fatti che accadono ogni istante
della vita esterna, ma noi ergastolani da più di un decennio cosa possiamo fare? Che colpe possiamo avere in merito a fatti attuali?
Ma non giudicate un uomo dalla gente che frequenta, non dimenticate che Giuda aveva amici irreprensibili.
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La famiglia, gli affetti, i compagni
di carcere, gli amori
L’art. 28 della normativa sul trattamento penitenziario stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o
ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie”. Eppure, i luoghi di detenzione sono spesso lontani da quelli di residenza dei propri familiari. La difficoltà ad avere incontri-permessi, i problemi economici, e non solo, che diluiscono
nel tempo le visite di mogli e figli, le fortissime limitazioni previste quando si è sottoposti al 41 bis, rendono i rapporti con le
famiglie un ‘miraggio’, la loro assenza un “trauma costante”. La
famiglia torna nei sogni, a volte negli incubi. È anche il desiderio di uscire e formarne una nuova o, quando c’è, è una donna
che aspetta fuori, che ripaga del ricordo di una famiglia d’origine dalla quale non si è potuto che scappare.
In un mondo dove l’affettività è, i tutti in sensi, castrata, rimane da convivere, come meglio si può, con la “famiglia carcere”.
Della famiglia e dei ricordi, motivi spesso unici di gioia,
motivi spesso di dolore
GIUSEPPE PULLARA. L’origine di ogni essere vivente avviene nel grembo
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materno, e quasi tutti nasciamo in seno a una famiglia. Il nucleo familiare è la fortezza di ogni persona. Senza di essa ci si sente privi di
ogni difesa, nudi tra la folla vestita, senza la terra sotto i piedi…
La famiglia è la prima società con la quale ci confrontiamo, prima
di abbracciare il mondo esterno, e la prima in cui affondiamo i nostri
artigli di inciviltà. La sicurezza che la famiglia ci offre spinge la perso-
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na a delle scorrettezze, sapendo del perdono assicurato e incondizionato che elargisce. Essa rimane il fulcro della vita e del senso di appartenenza, senza la quale non potremmo vivere, ci sentiremmo pesci
fuor d’acqua, anime in un limbo, esseri senza volto.
Il ricordo della famiglia è un miscuglio di sentimenti: rimpianto,
rancore, serenità, oppressione… secondo l’età. Io da bambino ero felice e sereno, ma sentivo l’oppressione della famiglia quando mi si negava una maggiore libertà, come se volessero privarmi della gioia di
vivere allegramente. Oggi capisco le loro decisioni!
Se non provo rancore per nessuno, il rimpianto per me è come un
fastidioso insetto, che ti tormenta tutti i santi giorni. Perché? Il dolore dato ai familiari per lo status quo mi fa soffrire sapendo che soffrono. Ogni ricordo piacevole, oppure assistere alla proiezione di un film
romantico, trasportano il mio cuore in un vortice sempre più stringente, facendo scorrere la mia vita passata con la mia famiglia come
in un film. E si soffre e si gioisce.
Per vivere il presente decorosamente bisognerebbe avere la forza di
annullare le emozioni e i sentimenti che ci legano alle persone amate.
Essendo difficile, se non impossibile, il presente è un trauma perenne,
come un girone dell’Inferno di Dante. La colpa della loro sofferenza
poggia su di noi come una Spada di Damocle, perché ci sentiamo responsabili degli eventi, anche quando ci sentiamo incolpevoli.
Il futuro? buio totale, tunnel senza uscita…
Il carcere non è una famiglia, ma un agglomerato di persone che
cercano di tollerarsi a vicenda. Tutti cerchiamo di sostenere chi è più
debole (fisicamente, mentalmente, economicamente ecc…) come
meglio si può, ma non c’è creazione di una nuova famiglia in carcere.
Sarebbe uno schiaffo moralmente insopportabile per chi vive e convive con il dolore causato ai suoi cari. Sono insostituibili!
Molti sostengono che la vita familiare e coniugale sia “un carcere”?
Beh, chi non conosce il vero carcere può dire quello che vuole, ma sarebbe uno sbaglio sentirsi carcerati solo perché non si riescono a risolvere alcuni problemi. Vero è che la società si evolve troppo rapidamente e non è facile starle dietro, ma se in una coppia, famiglia o unione di
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fatto, si pensa all’interesse personale e non a quello della famiglia, ogni
piccolo problema pesa un’enormità, facendo nascere nelle menti deboli la sensazione di soffocamento, e di conseguenza di carcerazione. Qual
è la soluzione? La fuga? Sarebbe comodo e da bambini non trovare il
problema per focalizzarlo ed eliminarlo. Vi sembro troppo facilone?
Sappiate che ho distrutto la mia famiglia per troppo amore!1
Il tempo e la solitudine mi hanno fatto riflettere e da questa lunga
riflessione posso acclarare che la prigione è dentro di noi. Fuggite dal
carcere interiore, e sarete liberi in famiglia!
ANTONINO SUDATO. Per me la famiglia è tutto. Tutto!
Senza il loro amore non avrei il motivo per esistere o vivere. È la mia
famiglia che mi dà la forza tutte le sere di addormentarmi e al mattino di svegliarmi.
I ricordi mi aiutano a migliorarmi e a pensare che una volta ero un
uomo libero e felice.
I miei genitori sono morti mentre ero in carcere, ma sono ancora vivi nel mio cuore. Sono sposato da circa trent’anni con mia moglie e
compagna di tutta una vita. Ho quattro figli, Massimo, Michelangela,
Simona e Mariella che mi fanno essere felice anche tra quattro mura.
Vivo la cattività del carcere con sofferenza ma con la serenità di
amare ed essere amato.
Data l’età mi sento più un padre verso i miei compagni più giovani,
con gli altri mi sento un fratello.
E a chi sostiene che la vita familiare e coniugale sia un carcere, dico
di provare a stare chiuso fra quattro mura senza una carezza, un bacio, una parola d’affetto di chi ami o di chi ti ama.
GIOVANNI ZITO. Per me, che sono ergastolano ostativo, la famiglia è pro-
prio tutto, perché quando un ergastolano trova ancora la forza, il coraggio, la voglia di vivere, lo deve all’amore incondizionato dei propri
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Il riferimento è al legame sentimentale che ha coinvolto l’autore nelle vicende della famiglia della donna cui si è unito.
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familiari. Tutto gira intorno alla propria famiglia, dalla gioia al dolore più tremendo, come può essere la perdita di un familiare. La famiglia è il fuoco della casa e un dolce tepore, una carezza, il bacio di una
mamma. La famiglia mi dona tutto l’amore possibile e immaginabile,
mi trasmette sempre e comunque la serenità dell’anima.
L’anima di un ergastolano ostativo racchiude dentro di sé tutti i ricordi più belli: la fanciullezza, il profumo dei ricordi che non si possono esprimere con parole. La felicità non si acquista, non sta nelle
apparenze: ognuno di noi la costruisce in ogni istante della vita con il
proprio cuore. Si cerca nel proprio cuore di dare delle risposte più sincere al tempo che passa inesorabilmente. Pensi e ripensi un fermo immagine, momenti di debolezza e crudeltà allo stesso tempo. La coscienza non dorme mai.
Ma per me sarà difficile avere una mia famiglia, visto che metà dei
miei anni li vivo dentro 4 mura notte e giorno senza fine.
Ci penso spesso, come sarebbe stata la mia vita con una moglie e dei
figli da crescere. Oggi ho 40 anni e fine pena mai.
Qui in carcere tutti ci sentiamo dei figli, mariti, fratelli… Un pensiero costante è ricevere una lettera dal figlio, dalla figlia, dal fratello,
perché in esse ci sono racchiuse parole che ti spezzano il cuore, i sentimenti più veri escono e crescono come rose. E queste gocce di parole spesso e volentieri le condividi con il compagno di cella o con l’amico sfortunato o fortunato come te.
I miei errori, o le scelte, di cui gli altri mi accusano, ricadono sulla
mia famiglia, volente o nolente. E così anche loro scontano la mia
stessa condanna perpetua. Non si può tornare indietro, ma si cerca
sempre con tutte le forze di migliorare per il futuro. Se ci sarà mai un
futuro, per tanti di noi.
ANGELO SALVATORE VACCA. I miei genitori si sono separati quando avevo
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solo 8 giorni e venni affidato alla nonna paterna. Questo accadde perché mio padre era un tipo violento e molto manesco, ma solo con le
donne. Mia madre dopo anni di sofferenze e sopportazione scappò
via, lasciandomi in ospedale. In seguito venne a riprendermi senza
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però riuscirci. Mia nonna era una gran lavoratrice, lavorava in campagna la mattina e anche il pomeriggio, guadagnando due giornate in
una. Era costretta a lavorare, anche se percepiva la sua pensione e
quella di reversibilità, che puntualmente mio padre le sottraeva, anche con la forza e a volte anche picchiandola. Lui non lavorava mai e
cambiava donna ogni 2-3 mesi. Le portava a casa costringendomi a
chiamarle tutte mamma, altrimenti erano botte. Tutte le donne che ha
avuto, però, più di 3 mesi con lui non resistevano, perché le costringeva a lavorare, toglieva loro tutti i soldi e le picchiava. Spesso mentre
era con una portava già a casa un’altra, spacciando quella che era a casa per sua sorella e se quella fiatava, botte da orbi. Un giorno, rientrato da scuola, mia nonna mi disse che mio padre era finito in carcere.
Pensavo fosse un sollievo, invece proprio su quell’episodio avrei forgiato il mio futuro.
Tutti i miei amici e vicini di casa non vollero più frequentarmi, perché i loro genitori glielo proibivano: il paese era piccolo e avere un genitore in carcere era come avere la peste. Cominciai così ad isolarmi e
ad odiare quella società che mi rifiutava pur non avendo commesso
nulla. Dopo pochi mesi mio padre tornò a casa e la tranquillità ebbe
fine… Mio padre si appropriava di tutti i soldi, il cibo scarseggiava e
la fame si faceva sentire. Cominciai a frequentare qualche ragazzo con
il padre in carcere e formammo così un gruppo di ragazzini dai 6 agli
8 anni, che dove passavano portavano via anche l’erba. Quando entravamo nelle case non rubavamo nulla di prezioso, solo pane, pasta,
olio, tutte cose per cibarci. Poi verso i 10 anni cominciammo a capire
che era più fruttuoso portare via soldi, oro, televisori, perché li potevamo vendere e con il ricavato comprare tutto ciò che volevamo. Cominciammo a rubare di tutto, anche le ruote delle auto e le batterie
dei camion. All’età di 13 anni venni rinchiuso per 7 mesi in riformatorio per i troppi guai che combinavo. Quando uscii avevo 14 anni e
passai al carcere minorile per ricettazione. Durante i furti cominciammo a trovare le armi e a commettere le prime rapine. A 18 anni
ovviamente cominciammo ad entrare nelle carceri per adulti, dove si
fanno le giuste conoscenze per entrare nei giri che contano.
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A 19 anni conobbi una splendida ragazza, anche lei con genitori separati e con il padre in carcere da 20 anni per omicidio. Dopo 6 mesi
la sposai e decisi di chiudere con il passato, anche perché dopo un anno nacque una figlia. Tutto questo però durò solo 2 anni, perché quello che guadagnavo in un mese, con l’illecito lo avrei guadagnato in
poche ore e poi avevo cominciato a conoscere i guadagni che portano
le sostanze stupefacenti.
Dopo 2 anni mi arrestarono di nuovo per una rapina e dopo 3 anni, su una condanna di 4, usufruii della semilibertà. Poco dopo mia
moglie rimase di nuovo incinta e nacque mio figlio. Avevo scelto di
tornare a delinquere anche perché volevo dare tutto alla mia famiglia,
tutto quello che io non avevo mai avuto, ma questo mi ha portato a
togliere ai miei figli quello che anche a me era stato tolto: la presenza
di un padre. I beni materiali si possono avere anche con i sacrifici, l’amore e la presenza di un padre non si possono comprare. Quando
mio figlio aveva solo 6 mesi venni arrestato nuovamente per omicidio. Sono stato condannato all’ergastolo a 28 anni e non ho avuto la
gioia di veder crescere i miei figli, ma non gli ho fatto mancare il mio
affetto, anche se da lontano, e loro mi adorano. Oggi hanno 21 e 15
anni e sono due ragazzi che tutti mi invidiano, senza grilli per la testa… Sono orgoglioso di loro e vivo per loro e per mia moglie, che
con enormi sacrifici li ha tirati su senza fargli mai mancare nulla. Oggi l’unica cosa che spero è di poter vedere crescere i miei futuri nipoti standogli accanto, dato che con i miei figli non ho potuto farlo.
GIROLAMO RANNESI. Quali sono le cose che ho potuto fare durante gli ul-
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timi 18 anni della mia vita che possono essere definite gioie? Niente di
particolare, ho solo trovato una ragazza che per devozione ha scelto di
amare un disgraziato facendone in certi momenti un uomo felice.
Durante la carcerazione, nei momenti più difficili perché sottoposto
al regime del 41, accade che io e Francesca ci fidanziamo. La cosa si fa
seria, vogliamo un figlio, comincio a chiedere autorizzazioni a tutto
spiano al Ministero della Giustizia, ho fatto istanze per 7 anni. Niente. Figuriamoci se autorizzano un mafioso a procreare. Tuttavia acca-
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de che ho voluto insistere ancora una volta, avevo fatto un sogno e
spronato da quello che avevo visto torno alla carica. Ed ecco l’incontro con una persona di buona volontà: arriva la sospirata autorizzazione a procreare, naturalmente attraverso la fecondazione assistita, e
poi arriva Nicholas, colui che dà un senso all’amore e alla perseveranza con cui insieme a Francesca avevamo lottato. Ho sposato Francesca
quando Nicholas aveva compiuto 2 anni, dopodiché riesco ad uscire
da quel maledetto regime che è il 41 bis, che per 13 anni mi aveva impedito di abbracciare i miei cari compresa Francesca. La fine di quel
regime speciale ha comportato il trasferimento in altra struttura, la
sorte ha voluto che fosse Spoleto. Qui inizia la lotta tra il sottoscritto
e la magistratura di sorveglianza, eh sì, perché un’altra esigenza doveva essere espletata: la consumazione del matrimonio. Le istanze in tal
senso vengono inoltrate a raffica, e a raffica arrivano i rigetti, ma ecco l’incontro con la persona di buona volontà, la quale capisce il problema cosicché tra lo stupore di tutti i sapientoni arriva l’inaspettato
permesso: 6 ore da trascorrere con la propria moglie in un appartamento di Spoleto al fine di espletare la consumazione del matrimonio.
Che dire, forse non uscirò mai più dal carcere, a meno che non incontri ancora una volta l’ennesima persona di buona volontà.
Durante la lunga carcerazione ho perso mio padre. Anche nel dolore ho trovato persone che amministrano la giustizia con amore e carità, infatti mi è stato concesso di visitare mio padre mentre era in fin
di vita all’ospedale con l’ausilio della scorta, la quale con discrezione
mi ha condotto davanti al suo letto.
Era lucido e tanto felice di vedermi. Mi ha detto: ti aspettavo, sapevo che saresti venuto. Abbiamo parlato di tante cose ma io con un nodo alla gola non facevo altro che chiedergli perdono per tutto il tempo che non avevo passato con lui. Da libero infatti ero sempre occupato con i miei ex falsi amici, e successivamente a causa della lunga
carcerazione.
Lui era lì pronto a morire, io invece dovevo andare via. Lui moriva
mentre il figlio maggiore doveva andare via con la consapevolezza che
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il suo posto sarebbe stato lì, accanto al proprio padre fino alla fine. Ho
maledetto il giorno in cui non ascoltai mio padre. Tentò in tutti i modi di allontanarmi da certe amicizie che poi si rivelarono false, proprio
come lui aveva predetto.
Noi lontani dalle famiglie, suggeriamo ai giovani che fanno scelte
come se la famiglia non fosse un valore fondamentale della vita, di ritornare sui propri passi. La propria famiglia infatti è la soluzione di
tanti problemi, sono chi vi ha cresciuti! Forse che i vostri genitori non
desiderano per voi il meglio?
Se solo immaginaste il dolore che si prova con la lontananza coercitiva, tornando a casa tutte le sere fareste salti di gioia. La famiglia è colei che non tradisce mai.
I nostri familiari sono partecipi delle nostre sofferenze e non solo, le
subiscono anche, ragion per cui ognuno di noi si sforza per mostrarsi agli occhi dei propri cari in buona salute, forti e coraggiosi. Ma
quando i figli ti chiedono “Papà ma perché non torni a casa?” beh! allora sono guai, devi stare attento a non tradire l’apparente sicurezza
mostrata fino a quel momento.
Chi scrive ha un figlio di 7 anni che nell’ultimo colloquio, spazientito dalla solita risposta, ossia papà sta qui per motivi di lavoro, ha cominciato a tirare calci sul tavolo e non solo.
GENEROSO DE MARTINO. Mi piacerebbe andare a casa e crescere i miei ni-
potini visto che coi figli mi è stato impossibile. La mia famiglia è la cosa che mi manca di più anche perché è lontana e faccio appena qualche colloquio l’anno.
Il mio desiderio è che tutti i bambini abbiano un percorso di crescita felice perché i miei figli portano evidenti i segni di sofferenza per la
mia mancanza da casa.
MARZIO SEPE. Il calore dei figli e la famiglia, è quello che mi manca di
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più…
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Dell’affettività, quando ‘prigionizzata’. Dei rapporti
con i compagni di carcere
GERTI GJENERALI. In questi anni ho mai usufruito di permessi da uomo
libero. No mai!! E quando ho avuto avvenimenti gravi nella mia famiglia ho fatto quello che fanno tanti stranieri in Italia lontani dalla
loro famiglia… ho pianto e ho sofferto in silenzio.
La prigionizzazione dell’affettività… Personalmente la vivo male, e
non perché sono giovane e sogno una famiglia… ma trovo assurda
questa inutile “tortura psicologica”… mi sono sempre domandato:
quando uno prende una condanna vale anche per il suo amore? Se una
donna ama suo marito “criminale” fa di lei pure una criminale? Perfino
nel mio Paese2 dove la democrazia è giovane e le questioni politiche si
risolvono a colpi di AK 473 in piazza, ci sono le leggi che puoi avere rapporti con la propria donna. In quasi tutti i Paesi europei il detenuto ha
diritto all’ora di affettività. Quasi tutti i detenuti che hanno condanne
lunghe, la prima cosa che fanno è chiudere il rapporto con la propria
donna. Almeno parlo di quelli che hanno un po’ di buon senso, molto
triste tenere prigioniera la tua donna per il tuo semplice egoismo.
E non è una questione fisiologica, dopo un po’ di tempo non senti
più niente, diventi un robot, è una questione stupida, medievale, arcaica e vergognosa.
Mi fa sorridere quando sento: “L’Italia Paese di navigatori, poeti, artisti, cultura, e dei grandi amanti”… non c’è niente di artistico e poetico nel vostro sistema carcerario… sistema talebano e infantile... ridicolo!!!
GIUSEPPE REITANO. Credo che ogni detenuto viva l’affettività in modo
diverso. L’affettività è un qualcosa che fa parte della vita degli esseri
umani in generale, ed esserne privati è come se ti mancasse un pezzo
di te, vivi un trauma perpetuamente.
2
Albania.
Sigla che sta per Avtomat Kalašnikova obrazca 1947 god, fucile automatico, comunemente noto come Kalasnikov.
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3
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In tutti questi anni ho potuto usufruire di un permesso di necessità,
che si concede in casi unici, come è stato il mio caso. Dopo 20 anni di
carcere sono uscito, per 13 ore libero senza scorta per potermi sposare. Per me è stato un miracolo considerato il fatto che è difficile poter
ottenere dei permessi.
GIROLAMO RANNESI. Durante quei lunghissimi anni passati al 41 bis, 13
per l’esattezza, ho visto Donne e bambini elemosinare un abbraccio
dai propri congiunti. Chi è sottoposto al regime del 41 bis può effettuare un’ora soltanto di colloquio al mese e questo avviene attraverso
l’ausilio di un grosso vetro divisorio. Ho visto bambini piccoli tendere le braccia verso il genitore nell’invano tentativo di essere presi in
braccio. Ho visto bambini piccoli battere le loro manine contro quell’infame vetro divisorio. Ho visto Donne immerse in un pianto inconsolabile. Ho visto uomini umiliati, mortificati, ho visto.
Ho visto famiglie distrutte, immolate in nome della sicurezza.
Ho visto uomini zelanti che parlano a vanvera: Oggi la mafia è più
forte di un tempo, è così forte che non ha più bisogno di sparare. Vita facile per costoro perché nessuno ha il coraggio di chiedergli: Se la vostra mafia è più forte di un tempo, perché continuate ad infliggere sofferenze a Donne e bambini? Inoltre, che cazzo ne avete fatto di tutti i soldi spesi per combattere la mafia?
Fuori da quel regime è molto meno dura. Durante i colloqui visivi,
anche coloro che sono stati condannati all’ergastolo hanno la possibilità di consolare con un abbraccio la propria vedova bianca. Altresì hanno la possibilità di prendere in braccio i propri figli e i nipoti piccoli.
Oggi come vivo la prigionizzazione affettiva? Ahimè, con la prospettiva di uno che sa di non poter uscire mai più dal carcere. Ahimè.
PAOLO AMICO. Non ho mai usufruito di alcun permesso. Attualmente so-
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no in cella singola perché sto scontando l’isolamento diurno. Ho iniziato da un mese circa ed in totale ho da scontarne 13 mesi. Prima dell’isolamento diurno ero in cella con un altro detenuto per via del sovraffollamento.
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Regolarmente chi è assegnato come me al circuito A. S.1 viene tenuto in cella singola. A parte gli scorsi sei mesi trascorsi in compagnia,
tutti gli anni di pena (21 anni e 2 mesi) li ho trascorsi quasi sempre in
cella singola. Attualmente ho pochissimi rapporti con i miei compagni, visto il mio stato di isolamento, comunque di solito sono cordiali.
La carcerizzazione dell’affettività… Questa è la risposta più impegnativa e alla quale non so se sia facile rispondere, ma ci proverò.
Io la chiamo mutilazione degli affetti, è la nota più dolente nell’ambito del bilancio quotidiano della vita del carcerato. Non ci sono mai
ore di colloquio con i familiari a sufficienza, che possano saziare e dissetare la fame e la sete di affetto che tormentano il tuo corpo e il tuo
spirito. Gli abbracci interrotti improvvisamente perché qualcuno nella sala colloqui ti avvisa che il tempo è scaduto. Oppure quando al telefono non senti più la voce della tua persona cara e all’improvviso ti
rendi conto che erano già trascorsi 10 minuti disponibili. Ti accorgi di
avere un senso di vuoto dentro di te perché non hai potuto salutare e
dire l’ultima parola di affetto e di conforto a chi stava dall’altra parte.
I tantissimi risvegli che ti riportano al grigiore della realtà dura, la
“fortunatissima notte” nella quale hai fatto un meraviglioso sogno,
onirico riflesso di ciò che ogni giorno ad occhi aperti vai fantasticando con la mente coltivando la speranza del vero risveglio. L’affettività
io la idealizzo come qualcosa di sublime che concretizza la sua massima manifestazione nel pieno della intimità, della discrezione e della
riservatezza. Il paradosso è che mi sento in maggiore intimità affettiva con le persone che amo quando scrivo loro una lettera o diversamente quando nell’intimità della mia cella vado con i miei pensieri alla ricerca di loro.
Quando ci incontriamo nelle affollate e panotticamente osservate
salette-colloquio, avverto invece tutto l’imbarazzo della castrazione
dell’affettività. Quale affettività può esserci quando al colloquio in
uno slancio di affetto ti soffermi un po’ di più a prolungare quel bacio che da diversi giorni attendi con fervore di dare alla tua donna,
quando ad un tratto senti un ticchettio sul vetro al tuo fianco? È l’agente che come Cerbero ti sta osservando e ti sta dicendo che in quel-
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la “area” sono banditi gli slanci di affetto. Fortuna per me che non mi
sono mai trovato in questo terribile imbarazzo. Mi sentirei morire
dentro. È stato fin troppo imbarazzante assistere alla scena.
LUIGI PECICCIA. Mai usufruito di permessi da uomo libero, senza scor-
ta. In cella siamo in due. I rapporti con il compagno di cella pessimi,
con i compagni di sezione normali. Come vivo la prigionizzazione
dell’affettività? Con tanta pazienza.
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GERTI GJENERALI. Da quasi nove anni sono solo in cella, ma ho l’impressione che lo sarò per poco, visto che l’emergenza è sempre presente.
L’unico compagno che ho in questi anni di “rieducazione” è l’indifferenza che hanno le autorità per il “genere umano” che fanno chiamare “detenuti”.
I rapporti più duraturi… sono quello che uno ha con se stesso… il
resto sono solo le proiezioni che uno ha nel suo sé interiore.
I rapporti con altri compagni di detenzione in linea di principio sono “buoni”. Di solito tutto dipende da te stesso e come vuoi farti la detenzione. Qui, come ogni Teatro che si rispetti trovi attori di tutti i tipi, le maschere sono pronte per ogni situazione. Alcuni attori si credono importanti protagonisti, alcuni altri si sentono perfino innocenti e vittime del sistema, alcuni altri si sentono furbi e scaltri con i
loro “percorsi” da seguire a tutti i costi. Alcuni attori non si sentono
protagonisti ma delle comparse in un gioco di crudeltà che ha delle
radici profonde, alcuni di questi attori si sentono orgogliosi di stare
qui e nella loro cultura arcaica e ipocrita, alcuni stanno in silenzio e
osservano l’illusione del sistema forcaiolo... mah!
Come sono i rapporti fra di noi? Come devono essere in un carcere
di massima sicurezza, come sono fuori: l’egoismo e il disinteresse per
i tuoi compagni ne fa da padrona, ogni uno per sé… ovvio che parlo
per me… questo è il bello della commedia umana qui in carcere, che
ogni uno di noi, nelle sue illusioni e le sue maschere, si crede unico e
protagonista del suo destino.
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PASQUALE DE FEO. Quando è morta mia madre non mi hanno mandato
al funerale, né tantomeno prima mi hanno concesso un permesso,
neanche un avvicinamento per un mese di colloquio.
Da oltre venti anni sono da solo in cella, non riuscirei più a stare in
compagnia.
Ho avuto sempre buoni rapporti con i compagni di sezione. Come
il mondo esterno, anche nel mondo interno al carcere c’è sempre
qualche antipatia, ma è del tutto naturale.
La condanna dovrebbe privarci della libertà, invece la condanna è
anche alla castrazione sessuale, che incide molto sulla psiche. Il carcere attuale è criminogeno ed è una fabbrica di recidiva perché calpesta
la dignità delle persone e castra la sessualità, perché il sesso è l’atto più
naturale della natura umana, e nessuna legge lo proibisce, pertanto è
una violazione nell’esecuzione della pena.
Dovremmo tutti scioperare contro questo carcere fuori legge, per ripristinare la legalità.
ANGELO SALVATORE VACCA. Non ho mai usufruito di permessi nonostante
la sintesi trattamentale favorevole ai permessi ed alla declassificazione. Per fortuna non ci sono stati gravi avvenimenti in famiglia.
Sono in cella con altri nonostante l’art. 22 del C.p. stabilisce che l’ergastolano deve essere ubicato in cella singola.4 I rapporti con i compagni di cella non sempre sono stati idilliaci, tant’è che ho cambiato
diverse celle e compagni. Con i compagni di sezione è diverso, perché
se vuoi ci hai a che fare, altrimenti quei pochi li puoi evitare.
4
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Comunque, i giudici di legittimità si sono di recente pronunciati (sent.
22072/2011) sulla natura dell’isolamento notturno, definendolo una modalità di
esecuzione della pena dell’ergastolo. Nel caso sottoposto alla Corte, un detenuto lamentava la mancata attuazione del disposto di cui all’art. 22 del Codice penale, che
prevede l’isolamento notturno in caso di ergastolo. Il Magistrato di sorveglianza non
aveva disposto la misura, osservando che non costituiva una vera e propria sanzione
per l’ordinamento penale, a differenza invece dell’isolamento diurno. La Corte di
Cassazione, ha respinto il ricorso del detenuto, confermando la decisione del magistrato di sorveglianza e precisando che l’isolamento notturno rappresenta un inasprimento sanzionatorio e non una sanzione.
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Nella maggioranza dei casi, senti i compagni lamentarsi della mancanza non tanto della propria compagna, ma di una donna in generale e del rapporto sessuale. Personalmente soffro molto di più l’assenza come padre, avendo due figli, che ho lasciato in tenera età.
Certo, la mia compagna mi manca da morire anche sotto l’aspetto
della sessualità, ma io e lei abbiamo ormai un rapporto solido, siamo
sposati da quasi 23 anni ormai, e ci conosciamo completandoci a vicenda. Con i figli invece sto perdendo quei periodi della loro crescita
che mai più potrò recuperare.
Comunque privare una persona, imprigionandogli anche l’affettività, è qualcosa che non fa certo parte di un Paese e di un popolo civile, ed è qualcosa talmente brutta che difficilmente può essere descritta.
ALFREDO SOLE. In venti anni non ho mai usufruito di permessi premi o
di necessità.
Sono in cella singola, ho buoni rapporti con i compagni di sezione.
L’affettività… si annulla per poter sopravvivere.
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SALVATORE GUZZETTA. In carcere dal 1992. Ci sono stati avvenimenti gravi in famiglia, lutti, ma non mi hanno concesso di partecipare.
La mia carcerazione, fra carcere duro 41 bis e isolamenti diurni, me
la sono fatta da solo in una singola cella. Da 4 mesi spartisco il poco
spazio della cella con un altro detenuto per motivi di sovraffollamento del carcere di Opera dove attualmente sono detenuto. Riesco a mal
sopportare questa nuova situazione, ma poco, grazie a chi ci governa,
c’è da fare.
Il rapporto con il compagno di cella è sereno. Tra noi detenuti c’è
grande solidarietà. Siamo uomini che viviamo nella sofferenza del
quotidiano. Sereni sono i rapporti con i compagni di sezione. Chi
porta rispetto sicuramente è ricambiato.
L’affettività in prigione, personalmente la vivo male. Dalle istituzioni sono stato sbattuto a più di mille chilometri dalla mia famiglia per
quasi 20 anni.
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La famiglia è come un orto, se tu non hai cura di ciò che hai seminato, tutto va a seccarsi e inaridire. A me sembra è successo questo, non
potendo, per la lontananza, coltivare quell’affetto con amore, per i figli,
i parenti. Ciò che ho seminato si è appassito, inaridito nel tempo. Il mio
raccolto è limitato, grazie a chi ci governa e a chi ci deve rieducare.
MARZIO SEPE. In carcere dal ‘96, non ho mai avuto permessi, neanche
per la morte della mia adorata mamma.
Sono in cella singola, ottimi rapporti con i compagni di sezione. Come vivo la prigionizzazione dell’affettività? Per anni malissimo. Dal
2008 diciamo più umano con la mia famiglia “figli”.
CIRO BRUNO. Non ho mai usufruito di permessi premio. Purtroppo ho
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perso mio padre il 2 agosto 2007, e non mi è stato concesso di partecipare ai funerali.
Sono in cella singola. Per quanto riguarda la convivenza tra noi detenuti posso dire, a fronte dei miei cinquantadue anni, di cui 21 trascorsi in carcere, che tendenzialmente con alcuni ho rapporti formali, invece con altri sono legato da sano sentimento, scaturito in principio dalla solidarietà, poi, come spesso succede, per fortuna si trasforma in stima e affetto, condividendo il quotidiano, spesso fatto di
dolori, sofferenze, nervosismo, intolleranza. Menomale che ho rapporti saldi con alcuni, perché è grazie a questo che riesco a superare
tutta quella serie d’incompatibilità che si crea con la restante parte dei
detenuti, che grazie a Dio non sono tanti.
Dico questo in quanto ho constatato che da un po’ di anni a questa
parte si sono persi alcuni valori all’interno delle carceri, e quindi sei
costretto a convivere con alcuni arroganti, presuntuosi, invidiosi, ingordi, irriconoscenti e, mi dispiace dirlo, anche cattivi, cattivi perché
delatori. Ma tutto ciò riesco a superarlo con molta indifferenza, e grazie alla mia natura, che mi ha dotato del buonsenso. Infatti a me basta poco per essere sereno con me stesso e soprattutto con gli altri,
perché mi rendo sempre disponibilissimo verso un compagno, che
poi non è altro che un povero Cristo come me.
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La prigionizzazione dell’affettività? Dire che è atroce è poco. Perché
la privazione dell’affettività ti sconvolge, ti annienta l’anima, ti riduce
a un nulla; viene a mancare tutto, sei spogliato di ogni cosa, sei spersonalizzato e mortificato.
Io trovo aberrante che giustamente tutte le forze politiche sono sensibilissime alla tutela e alla salvaguardia di tutte le specie di animali,
anche quelle ritenute le più feroci, tralasciando magari d’occuparsi in
modo serio e coscienzioso delle condizioni disumane in cui noi detenuti siamo costretti a vivere, condizioni che rasentano le più fini e
machiavelliche e sofisticate torture, basti pensare alla consuetudine di
sbatterci in istituti che distano migliaia di chilometri dai propri famigliari, con la consapevolezza che così facendo si interrompono quei
sottili legami, che già l’essere detenuto comporta, con il nucleo famigliare, aggiungendo la miriade di difficoltà che ci sono ogni volta che
si dovrebbe fare un colloquio; tenendo prima di tutto conto di alcune
possibilità che purtroppo in molte famiglie vengono a mancare, soprattutto quelle economiche, tutto questo porta a soffocare anche l’amore più fervido che ogni nostro familiare ha per noi. Quindi, quando viene a mancare l’appoggio, l’affetto e l’amore di cui ognuno di noi
ha bisogno per poter vivere la detenzione come espiazione e non come vessazione, così come accade ormai da più di due decenni… vedi
tutti i suicidi che si consumano nelle carceri italiane.
DOMENICO PACE. Ho ottenuto permessi di necessità sotto la vigilanza di
scorta armata.
Mi trovo in cella singola. Il rapporto con i compagni di sezione è di
massima cordialità.
Essere privato dell’affettività, lo considero come una doppia condanna: devono “pagare colpe” (non loro) mia moglie e mio figlio.
MAURO DE FILIPPI. Non ho mai usufruito di permessi, né libero né scor-
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tato.
A mia madre nel 2009 sono stati asportati due tumori, e a causa di
ciò ho chiesto un avvicinamento-colloqui per poterla vedere, che non
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mi è stato mai concesso. Nonostante in due anni ho fatto solo due colloqui, ancora oggi continuo a chiedere l’avvicinamento senza ricevere risposta dal DAP.
In cella per il momento sono da solo, ma non si esclude che da un
momento all’altro mi possano mettere uno o due compagni in una
cella per una persona, visto che la struttura può contenere 200 persone e siamo già in 300. I rapporti con i compagni di sezione comunque
sono ottimi.
Affettivamente sono molto addolorato, perché a causa della mia situazione economica non posso vedere come vorrei la mia famiglia,
soprattutto i miei nipotini, figli delle mie figlie, che sono nati quando
ero già in carcere. Il piccolo di 3 anni l’ho potuto vedere una sola volta da quando mi trovo qua, dal 19-10-2010, mentre il più grande di 6
anni non lo vedo da tre anni, e questo mi fa stare molto male. Ma nonostante tutto non mi viene autorizzato l’avvicinamento-colloqui che
mi spetterebbe di diritto.
SALVATORE DIACCIOLI. Non ho usufruito di permessi da uomo libero. Nel
1995, per la perdita di mia suocera, mi sono state concesse due ore di
permesso di necessità.
Vivo in cella singola. Per quanto riguarda il rapporto con i miei compagni di sezione, beh… diciamo che per un quieto vivere si cerca (anche se con tanta fatica) di convivere e di relazionarci nonostante sono
tante le cose, i costumi, le ideologie, che ci distanziano l’uno dall’altro.
Oggi l’ambiente carcerario è molto cambiato, i princìpi sono pochi e i
valori nella stragrande maggioranza non sanno cosa siano, ed io, come
veterano detenuto, rimpiango l’ambiente carcerario degli anni ‘70.
La prigionizzazione dell’affettività la vivo con la consapevolezza che
non ci sono parole o gesti, che possono esprimere quello che davvero
ci viene privato.
GIOVANNI PRINARI. Ho avuto solo un permesso di necessità nel 2003 dal
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magistrato di sorveglianza di Lecce per la morte di mia nonna, per recarmi al cimitero.
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Sono in cella singola, i rapporti con i compagni di sezione sono di
civile convivenza per la gran parte, ottima con pochissimi.
L’affettività… una tortura vera e propria, contraria a qualsiasi ragione di natura biologica, prima, e civile, dopo.
Pagare per i propri errori è giusto e sacrosanto. Pagare però un surplus non lo è più. Quel surplus di pena sono gli affetti, quei rapporti
con la famiglia che il tempo e la distanza sgretolano, affievoliscono,
inaridiscono. Il cuore diventa un pezzo di ghiaccio, ma il dialogo stesso si interrompe perché ogni giorno che passa ci si sente sempre più
estranei alle vite di chi è fuori. Già è dura mantenere vivo l’affetto attraverso colloqui settimanali quando si è detenuti nella propria città,
se solo si pensa che le sei ore mensili di colloquio consentite corrispondono a un quarto di un giorno e per gli altri 29 e tre quarti del
mese non puoi avere i tuoi cari vicino. Ma puoi non vederli per mesi
o anni, come succede a me, che il periodo più lungo senza poter fare
un colloquio è stato di diciotto mesi.
Fino a quando sono stato detenuto a Lecce, ho potuto vedere crescere i miei due figli cercando di fargli sentire quanto più possibile la
mia presenza, consapevole dei miei errori e del dolore che gli avevo
procurato. Vederli tutte le settimane, poterli toccare, accarezzare,
stringerli forte tra le braccia, tenergli le mani, era come fare il carico
d’ossigeno, sia per me, sia per loro. Era un farsi forza reciprocamente,
non volere perdere la speranza che un giorno sarebbe stato diverso,
che ci sarebbe stato un futuro un tantino migliore. E non è facile per
chi ha l’ergastolo sperare che tutto ciò si possa realizzare.
Oggi i miei figli sono grandi. Loro in tutti questi anni hanno rappresentato la mia ancora di salvezza, la mia forza interiore per affrontare una vita che vita non è, perché l’ergastolo ti fa morire dentro un
poco ogni giorno, e non solo per il peso della condanna in sé che si
porta via il tempo, ma per quelli che sono i rimorsi che uno si porta
dentro per tutto il male che ha fatto.
Oggi mi trovo a essere il nonno di due nipoti bellissimi, figli di mia
figlia, Marco di tre anni ed Andrea di uno. Nella prima gravidanza
non ho avuto la possibilità di vedere mia figlia, perché per tutti e no-
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ve i mesi la sua gravidanza è stata a rischio, e io nel frattempo ero stato trasferito a centinaia di chilometri dalla mia città.
Non ho potuto condividere con lei quello stato di grazia, che solitamente ha una donna quando è in attesa di una nuova vita nel suo
grembo. Questa è stata una sofferenza durissima per tutti e due.
Durante la seconda gravidanza, malgrado anche questa fosse a rischio, ha deciso di venire a farsi vedere. Era di appena 4 mesi, ma era
radiosa, ed è stata un’emozione indescrivibile poterle posare la mano
sul grembo.
Il mio nipotino Marco l’ho visto quattro o cinque volte. Andrea, invece, solo una volta.
Non è facile per una famiglia che vive di uno stipendio esiguo e con
due figli, spendere dei soldi per venire al colloquio. Né può farlo mia
madre che è anziana, sofferente e che vive di pensione minima.
Una ultima considerazione: ho scontato 18 anni di pena e non ho
mai avuto un permesso premio. Se qualcuno osa ancora avere dubbi
circa l’effettività dell’ergastolo o della certezza della pena, credo che il
dubbio potrà toglierselo.
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SEBASTIANO MILAZZO. Non ho mai usufruito di permessi da libero. Mi è
stato concesso nell’agosto del 2009 di andare a trovare mia madre,
sotto scorta, presso la mia abitazione.
I rapporti con i miei affetti sono stati ottimi sino a che sono stato
nel carcere di Sollicciano (Firenze). Un istituto dove ordine e rigore
erano realizzati nel più rigoroso rispetto dei princìpi di umanità cui
dovrebbe ispirarsi la pena.
Al momento dell’arresto avevo lasciato un bambino di 18 mesi e un
altro mi è nato un mese dopo e per otto anni ho potuto incontrarli
ogni settimana, quasi sempre in un’area verde attrezzata. Un ambiente gradevole con una sorveglianza attenta e sensibile (in genere donne), dove potevo toccare i miei figli, accarezzarli, giocare con loro,
stringerli fra le mie braccia, trasmettere loro l’idea di avere un padre
presente ed essere di conforto alla madre.
Dopo otto anni sono stato trasferito a Spoleto e la possibilità di in-
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contrarli si è progressivamente diradata, fino a vederli 2/3 volte l’anno. Si è diradata per motivi economici, per la distanza, ma anche per
non distoglierli dai doveri scolastici e poi dagli impegni di lavoro. La
rarefazione dei colloqui mi ha impedito per più di dieci anni di conoscerli veramente, e col tempo mi ha fatto assistere ‘impotente’ all’inaridimento dei nostri rapporti e dei nostri dialoghi.
Ho cominciato a chiedere alla Direzione di poter essere di nuovo
trasferito in Toscana. Nella mia condizione di ergastolano, che non
poteva godere né di un abbraccio libero, né di misure alternative, non
volevo perdere i miei figli né volevo che si perdessero. Consapevole
delle difficoltà sempre maggiori che avrebbe incontrato con il passare
degli anni una madre che doveva fare loro anche da padre, speravo di
poterle stare più vicino, per aiutarla ad educare i nostri figli, a seguire
una strada di sicura legalità. Speravo in qualcosa che in un sistema sano non dovrebbe nemmeno essere chiesto.
Per anni sono andato ad esporre queste mie speranze alla Direzione, nonostante ogni volta mi rendessi conto di esporle a facce neutre,
come quelle degli entomologi che infilzano gli insetti da esperimento,
che non concepivano che la vera dignità delle istituzioni, in uno Stato che si vuole definire giusto e prima ancora civile, si realizza nello
svolgere bene il proprio ruolo, come la legge vuole che sia e non come
la si interpreta.
Infatti tutte le mie richieste, nonostante la funambolica retorica mediatica sulla finalità rieducativa della pena, non sono state mai valutate da chi, capivo bene, coltivava solo l’interesse di stare arroccati nei
loro piccoli feudi, padroni assoluti del campo, anche a costo di ridurre l’esistenza di chi si ostina a non volere abdicare al ruolo di padre e
di coniuge, in un supplizio quotidiano, trattando i detenuti come esseri “insenzienti”.
Dal 2008, causa un incidente, mia moglie non ha più potuto viaggiare e non poteva più portarmi i figli, ancora minorenni. E di fronte
al fastidio delle mie sempre più frequenti istanze di trasferimento, venivo segnalato al DAP per essere allontanato da Spoleto. Il pretesto era
stato trovato nella colpa di aver “osato” chiedere il rispetto della legge
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(art. 22 C.p.) che impone di far scontare l’ergastolo in cella singola, e
l’aver osato chiedere il rispetto della legge a chi la legge è chiamato a
farla rispettare, e in un luogo dove si dovrebbe rieducare alla legalità,
ha scatenato la reazione di scegliere con scientifica malvagità il luogo
più lontano e più difficile da raggiungere. Sono trasferito a Carinola.
Non Bologna, Firenze, Volterra, ma un luogo distante, senza un aeroporto o una stazione ferroviaria vicina.
E cosa ne rimane di un rapporto dopo anni passati senza potersi
guardare negli occhi, senza il calore di un abbraccio, è facile immaginarlo. Come è facile immaginare cosa può rimanere nella mente di figli che sin dalla nascita sono stati privi della presenza del padre, che si
vedono presentare una figura diventata come quell’albero su cui da
anni non cade la pioggia, che ad un certo punto appassisce, perde le
foglie, non produce più né fiori, né frutti, e diventa come legna da ardere.
Ma a chi giova questo perverso meccanismo se non a chiunque voglia confondere le acque per scopi che nulla hanno a che fare né con
la giustizia né con la sicurezza.
Il distacco dagli affetti, soprattutto per l’ergastolano che non ha un
fine pena certo su cui contare, suona pressappoco così: “Siccome non
ti viene tolta la vita ti faccio vedere la morte come l’unico conforto su
cui puoi contare”.
GIUSEPPE IOVINELLA. Io avevo chiesto il permesso per andare a trovare
mia sorella che è down, è lì da mia madre che ha 85 anni e sono undici anni che non le vedo. Mi hanno risposto: solo in caso di morte.
Poi, essendo separato non vedo quasi mai i miei figli e mi mancano
tantissimo.
MARIO TRUDU. Fino ad oggi la mia trentennale carcerazione è stata in-
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terrotta da soli dieci mesi di latitanza (periodo che va da giugno del
1986 ad aprile del 1987). Venti anni fa entrai nei termini per poter
usufruire dei benefici penitenziari e da allora ho iniziato a presentare
diverse richieste per poterli ottenere, ma sono state respinte sistema-
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ticamente tutte fino a quando nel 2004 mi venne concesso un permesso con l’art. 30 O.p. (otto ore libero, senza scorta) per partecipare
alla presentazione di un CD-ROM sulle fontane di Spoleto, realizzato
in carcere da noi alunni del quarto anno dell’Istituto d’arte. Trascorsi
quelle ore di permesso a Spoleto insieme ai miei familiari venuti appositamente dalla Sardegna, ed in compagnia di alcuni professori. Nel
novembre del 2005 mi fu concesso un altro permesso, questa volta di
sette ore, per la presentazione di una rivista sui vecchi palazzi di Spoleto, che avevamo prodotto in carcere. Trascorsi quelle ore a Perugia
sempre con i miei familiari. A questo punto mi ero convinto che il fattore di pericolosità sociale attribuitomi fosse oramai decaduto e di
conseguenza mi illusi che, di tanto in tanto, mi sarebbe stato concesso qualche permesso utile a curare gli affetti familiari. Purtroppo non
fu così, perché dopo quell’ultimo permesso tutte le mie richieste furono respinte.
Inizio a questo punto a chiedere con insistenza un trasferimento in
un carcere della mia regione di appartenenza, ma nulla da fare: la prima richiesta fu rifiutata e le successive non ebbero mai risposta. Ho
presentato a più riprese richieste di permesso necessità per poter andare a far visita a mia sorella Raffaella che non vedo dal 2004 e che
non si trova in condizioni per poter affrontare lunghi viaggi, ma anche queste vengono negate motivando che lei non si trova in pericolo
di vita.
Sono contento che mia sorella non sia in pericolo di vita.
ANTONIO PRESTA. I primi anni di detenzione sono stati durissimi per la
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mia giovane età, per le difficoltà di poter effettuare colloqui visivi con
la mia famiglia, per le poche possibilità economiche, con la mia immissione in un circuito penitenziario più duro, di alta sicurezza, con
la posta censurata, con la convivenza con una maggioranza di ergastolani di lunga data, che pure mi hanno aiutato, e ho riscontrato in
molti di loro una grande umanità e altruismo.
Oggi ho 38 anni. Ho espiato 22 anni e 11 mesi all’1 gennaio 2010.
Ho fruito di un permesso di 12 ore accompagnato dalla volontaria nel
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2008, per problemi attinenti la famiglia. Mi è stato redatto un programma trattamentale positivo a brevi permessi premio e alla mia declassificazione dall’attuale circuito detentivo A.S.1 (proposto già dal
2006), però non è cambiato ancora nulla, perché sembra che tanto il
D.A.P. quanto il magistrato non sono favorevoli a nessuna concessione nei miei confronti.
Vivo di speranze, scrivo: alle istituzioni, ai volontari, a chiunque,
pur di sensibilizzarli e renderli partecipi della mia condizione di ergastolano e dei tanti anni di prigione espiati.
Tutto però sembra risolversi in un gioco crudele, perché sembra
non interessare a nessuno la tortura psicologica e fisica che il carcere
mi infligge, i tanti anni di prigione, la privazione di quella dignità esistenziale, lontano dal mondo, privato dei sentimenti, delle emozioni,
degli affetti, del sesso (perché non devi esistere nemmeno come uomo). Ricordo che il sesso è anche procreazione, figli, una famiglia,
non solo un piacere fisico e mentale, e non so come si potrebbe provare piacere in un luogo come questo.
Non mi resta che riconoscere che la vita appartiene alla volontà delle persone.
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ALFIO FICHERA. Non ho mai usufruito di permessi, né libero, né scortato. Ho perso mia nonna nel ‘96 e mio padre nel ‘98. Mi sarebbe stato
comunque negato di partecipare ai funerali, ero ancora giudicabile.
Ma non ne ho fatto richiesta. Sono sottoposto a isolamento dal
19.7.2010 e ne avrò fino al 19.7.2012. Vivo, come vive un ramo staccato dal proprio albero. Mi dissecco ogni giorno di più.
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I permessi, i benefici
Premessa alla concessione di permessi e benefici, è la valutazione della pericolosità sociale delle persone detenute, che è affidata a una procedura complessa su cui qui vengono avanzati molti dubbi. Mettendo in discussione soprattutto la capacità, quando non la volontà, dell’istituzione carceraria di ‘valutare’ il
cambiamento e l’allontanamento dal mondo della criminalità.
Un’istanza di permesso
ALFREDO SOLE, dal blog urladalsilenzio, novembre 2010. Circa dieci giorni fa ho
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chiesto un permesso premio, un giorno di libertà. È straordinaria la
celerità con cui mi è arrivato il rigetto. Riporto per intero quello che
ha scritto il Magistrato di Sorveglianza:
“Visto l’istanza avanzata da Sole Alfredo ad ottenere la concessione di un permesso: rilevato che manca il programma di trattamento di cui l’esperienza dei permessi costituisce parte integrante, essendo ancora in corso l’osservazione della personalità; rilevato che
tale elemento costituisce presupposto indefettibile per valutazione
della pericolosità sociale di cui all’art. 30 ter dell’O.P., e che in sua
assenza non può che essere negativa; RIGETTA ALLO STATO L’ISTANZA. Si comunica al P.M, al direttore dell’Istituto, per quanto di
competenza, in relazione alla tempestiva predisposizione di un periodo di trattamento”.
Allora? In venti anni di carcere non sono ancora capaci di definire
la mia personalità! E chi dovrebbe definirla? Il criminologo che in 20
anni ho visto solo una volta mentre ero al 41bis, o lo psicologo che,
sempre in tutti questi anni, ho visto solo un paio di volte a Livorno?
Di certo non potrà farlo l’educatore, che credo non abbia i requisiti
giusti per qualcosa di così importante. Allora, chi dovrebbe farlo se c’è
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un’assenza cronica di queste figure? Forse il Direttore e gli agenti?
Non credo proprio.
“Non c’è un programma di trattamento”... Il magistrato si trova obbligato a ordinare alla direzione un programma di trattamento! Più di
16 mesi che sono in questo carcere ed è come se fossi stato un fantasma! Comunque, nonostante questo rigetto non sia del tutto negativo, in quanto obbliga la Direzione all’attenzione verso di me, io avrei
preferito il rigetto con la vera e unica motivazione che mi impedirà di
accedere ai benefici. La motivazione del 4 bis! Così avrei potuto impugnare il rigetto con la speranza dell’incostituzionalità dell’art. 4 bis.
Invece in questo modo resto in sospeso, e non ho argomenti sufficienti per una impugnazione.
Sembra un piano diabolico e ben orchestrato per far scorrere il tempo. Mi spiego: sono già passati 16 mesi nel “nulla”. Se adesso mi aprissero l’osservazione, trascorrerebbero altri sei mesi prima di chiuderla.
16+6=22, quasi due anni. Il cosiddetto “trattamento” dura altri 2 anni e in totale arriviamo a 4 anni (20+4= 24 anni sono già trascorsi nel
frattempo). Solo allora potrei avere i requisiti per usufruire di qualche
beneficio (non tenendo conto del 4 bis). Ma, come spesso accade, anzi, come puntualmente succede, allo scadere di questi 4 anni… ecco
che arriva il trasferimento in un altro carcere. Tutto si azzera!
Della procedura per stabilire se una persona si è allontanata
dal suo passato
ALFREDO SOLE. Si tratta di una procedura che chiama in causa educato-
91
ri, psicologi, criminologi, assistenti sociali, che “dovrebbero osservarti” per “appuntare” i tuoi eventuali cambiamenti, sia in positivo che in
negativo. Anche gli agenti di custodia hanno un ruolo in questo. Attraverso questo lavoro di osservazione, il Magistrato di Sorveglianza
decide se un detenuto è meritevole oppure no di usufruire dei benefici. Ma questo vale per i detenuti comuni, per noi le cose cambiano. Le
procedure di cui sopra vengono meno, anche se restano su carta. Dimostrare che ci si è allontanati da un passato criminale è pressoché
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impossibile se non con la collaborazione con la giustizia. In poche parole, se fai l’infame sei cambiato, altrimenti, per loro, vuol dire che sei
e rimarrai un criminale. In questo modo ti ritrovi i furbi che escono
usando la stessa giustizia e che non sono cambiati, e coloro che, invece, pur essendosi allontanati dal loro passato, scontano la carcerazione in modo definitivo, completo, senza mai un giorno di libertà.
GIOVANNI ZITO. Tutte le informazioni su ogni singolo detenuto partono
dal DAP.
Poi ci sono gli educatori, cosa rara in questi luoghi perché quelli che
ci sono sono pochi e possono fare pochissimo per un ergastolano
ostativo. Anche gli assistenti sociali possono avere un ruolo significativo per la sintesi del detenuto, ma la cosa è molto più complicata e
complessa nel quadro generale.
Io credo poco alla possibilità che qualcuno possa fare il furbo. Oggi
il detenuto più giovane di età con l’ergastolo ostativo supera l’età di
50 anni, gli ultimi 10-20 anni li ha trascorsi dietro mura e pareti. Si è
più maturi, più responsabili, sia sulla propria vita e sia sulla vita altrui.
CARMELO MUSUMECI. Il detenuto in carcere viene guardato, non visto. Il
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vero volto del potere carcerario non è cambiato dal passato, anzi, anche se ora si è strutturato in un esercito di criminologi, educatori,
commissari e ispettori. Quando il loro parere è negativo conta, quando è positivo non conta. Il carcere educa all’illegalità e fa facilmente
uscire gli uomini peggiori perché hanno la capacità di fingere la buona condotta.
Se ci si è allontanati dal proprio passato, normalmente lo stabiliscono i burocrati che applicano la legge e che al posto del cuore hanno il
regolamento, e spesso neppure quello.
Eichmann, il gerarca nazista, non provava il minimo rimorso di coscienza a fare del male, perché sotto il nazionalsocialismo il male era
la legge e lui non avrebbe mai pensato un solo istante che si potesse
infrangere la legge.
Si fanno tante ingiustizie per applicare la giustizia. Gesù diceva a
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Pietro: Perdonare sempre, perdonare tutti, perdonare un’infinità di
volte, giacché non esistono uomini senza peccato e perciò nessuno è
in grado di punire e di correggere.
Dostoevskij diceva: Fatemi capire perché e come ho sbagliato e poi
mi giudicherò e condannerò da solo e sarò più severo di qualsiasi altro giudice.
Ma quale alternativa, quali presupposti, si suggeriscono quindi,
per la concessione di permessi e benefici?
PASQUALE DE FEO. Sarebbe necessario introdurre l’automatismo dei be-
nefici, per annullare le dittature delle direzioni delle carceri, del Magistrato di Sorveglianza e di tutti gli apparati di sicurezza, che sono
più di quelli della Germania di Hitler.
La nostra Costituzione sancisce la responsabilità personale, pertanto chi non rispetta gli obblighi ne paga le conseguenze. Inoltre l’art. 3
sancisce che siamo tutti uguali davanti alla legge, pertanto bisogna applicare queste norme, senza fare distinzioni, per evitare la mostrificazione organizzata dei professionisti dell’odio.
GIUSEPPE IOVINELLA. Credo che i presupposti per accedere ai benefici do-
vrebbero essere: dopo 10 anni di carcere, usufruire di permessi di una
settimana al mese, il resto dei giorni lavorare dignitosamente per aiutare la propria famiglia e se può fare fronte a qualche bisogno della famiglia di chi ha subìto, se hanno bambini, figli minori di 21 anni. Nel
periodo di 10 anni di detenzione, uno non dovrebbe trascorrere 22
ore in cella, ma essere a contatto con persone che conducano sulla retta via, aiutandolo ad entrare in un mondo migliore fatto di pace e serenità.
CIRO BRUNO. Innanzitutto occorre che si applichi il principio rieducati-
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vo previsto dall’art. 27 della Costituzione, visto che ormai il reinserimento è diventato un parafrasare i propositi civili della collettività,
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ma che in buona sostanza non viene attuato per i più disparati motivi, per poi non parlare di chi purtroppo è imputato di alcuni tipi di
reati, per cui l’art. 4 bis della Legge 354/ 75 fa sì che ogni essere umano perda il diritto ad avere diritto, per cui il reinserimento diventa un
vocabolo inesistente.
E nel caso la famiglia, un figlio un fratello la moglie, facesse ancora parte dell’associazione criminale, escludendo l’ostatività,
cosa fare?
ALFIO FICHERA. Non so, sono l’unico delinquente della mia famiglia.
Alternative comunque ci sono per impedire la comunicazione con
l’organizzazione criminale di appartenenza, usando mezzi umani e
non crudeli come il 41 bis. Ad esempio la videoregistrazione con supporto fonico è ineludibile. Ma penso non viene efficacemente usata
proprio per indurre le persone a tentare l’illecito e dimostrarne costantemente la pericolosità.
ALFREDO SOLE. Escludendo l’ostatività…, ma io la vivo pienamente e mi
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sarà difficile dire.
Facciamo un esempio: mettiamo che io, dopo non so… 30 anni di
carcere iniziassi ad usufruire di benefici, come permessi, etc. e nello
stesso tempo mio fratello decidesse di far parte di una qualche associazione criminale, o se già facesse parte della criminalità, forse io meriterei di perdere quei benefici per l’azione di mio fratello? Dopo aver
scontato una vita di galera per le mie azioni, dovrei anche pagare per
quelle di mio fratello? Sarebbe diabolico! Solo gli amici si possono
scegliere, i familiari no.
Il reato deve essere soggettivo. Chi è in termini di Legge e ha fatto un
percorso carcerario dove merita di usufruire dei benefici, dovrebbe esserne escluso solo ed esclusivamente, dopo aver ottenuto i benefici, se si
comportasse in modo da trasgredire le condizioni imposte dalla Legge.
Non ci sono mezzi umani per impedire alla gente di comunicare,
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solo con l’inumana soppressione si può riuscire in questo intento. Il
41bis non ha niente a che vedere con la “comunicazione”. Se fosse così, l’associazione di chi è impedito a comunicare dovrebbe cessare di
esistere. È forse così? La gente fuori continua a delinquere indipendentemente dal fatto che il suo associato riesca o no a comunicare con
loro da dentro il carcere.
La scusa della “prevenzione” è una mentalità italiana. Non puoi punire qualcuno solo perché “potrebbe” commettere reato dal carcere se
comunicasse.
Io ho scontato dodici anni di 41bis solo con la giustificazione del
“potrebbe”. Ma non avevo comunicato prima del 41bis e non l’ho fatto dopo il 41bis. Dodici anni di tortura per un “potrebbe” che nella
realtà non è mai esistito. Al regime del 41bis sono pochissimi quelli
che vi sono sottoposti per aver comunicato commettendo un qualche
reato, tutti gli altri sono lì per quel “potrebbe” e non c’è alcuna difesa
per questo. Pagano per qualcosa che non hanno ancora fatto.
GIOVANNI ZITO. Le scelte sono personali e individuali.
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Ci sono modi e modi, nessuno è obbligato a fare quella cosa o un’altra, non credo che la propria famiglia possa indurre il proprio figlio,
fratello, o moglie in uno sbaglio simile.
Oggi che l’essere umano cerca con tutte le sue risorse di andare sul
pianeta rosso, cioè Marte, non ci sono mezzi adeguati per impedire la
comunicazione con l’organizzazione criminale di appartenenza?
Ma chi può credere ad una simile bugia.
Il 41 bis è solo una forma di tortura fisica e psicologica. Ma la cosa
che non sapete è il fatto che al regime speciale ci sono vessazioni di
ogni genere, umiliazioni quotidiane, ma nessuno ne parla perché fa
comodo così a tutti quelli che gestiscono il GOM cioè Gruppo-Operativo-Mobile… il così detto “il bastone e la carota”, fai il buono e sei
punito, fai il detenuto e sei punito lo stesso, strumentalizzato su ogni
cosa. Io sono ex 41 bis e so come vanno le cose in questi circuiti dove
tutto nasce e muore dietro le sbarre.
Comunque togliendo il vetro blindato e divisorio dei colloqui,
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quindi permettendo un colloquio sereno con la propria famiglia, si
possono mettere telecamere audio visive, registrazioni di ogni genere
e ogni tipo di apparecchiatura elettronica senza compromettere la salute sia del detenuto e sia quella dei familiari stessi.
CARMELO MUSUMECI. Bisognerebbe darci fiducia. Invece ci parlano di so-
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lito del nostro passato e quasi mai del presente e mai del futuro. Anche dal male può nascere il bene, basta andarlo a cercare dentro il cuore dei criminali.
L’alternativa? Le organizzazioni criminali dovrebbero venire sconfitte con il dialogo, il lavoro e l’amore sociale. Molti criminali non conoscono il bene perché hanno vissuto sempre nel male. Il libero arbitrio esiste quando tu conosci il bene e il male. Spesso i reati che abbiamo fatto rispecchiano il male del mondo dove vivevamo e dove viviamo adesso. Lo studio, per esempio, è molto importante per formare le coscienze perché ti costringe ad alzarsi ogni mattina per iniziare
un nuovo cammino.
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Insomma, quali diritti…
Le carceri sono fuori legge. Una denuncia su cui insiste chi di
carcere e carcerati si occupa, prima fra tutte l’Associazione “Antigone”, che con questa frase, nella primavera del 2011 aveva
avviato una delle sue campagne di denuncia. Ma questo essere
fuori dalla legge, agli occhi di noi che pensiamo al carcere come
cosa esclusa dal nostro orizzonte, sembra trovare una buona
giustificazione nel nostro bisogno di ‘sicurezza’. Il carcere può
essere insostenibile anche per chi ci lavora, e i suicidi degli agenti, 60 in 10 anni, ne sono buona prova. Ma per chi ne è prigioniero, tutto diventa arbitrio.
Del rispetto dei diritti e dell’amministrazione penitenziaria
GIOVANNI LENTINI. È difficile parlare di diritti dei detenuti in Italia, anche
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perché è difficile capire dove è il confine tra diritti e sicurezza, poiché
il più banale diritto, dietro la parola magica “sicurezza”, o per motivi
logistici, viene negato.
Non dovrebbero esserci discriminazioni in ordine a nazionalità,
razza e condizioni economiche e sociali, a opinioni politiche e credenze religiose, così recita l’art. 1 dell’ordinamento penitenziario. Ma
con la differenziazione delle sezioni in AS1, AS2, AS3, questo articolo
viene violato in toto, così come veniva violato negli anni addietro,
quando vi erano le sezioni dove erano ubicati solo i detenuti con reati politici, o altre, con detenuti con reati di mafia.
La cosa più aberrante è la mancanza del minimo indispensabile per
l’igiene personale e dei locali adibiti al soggiorno e al pernottamento
dei detenuti. Vengono a mancare le cose più essenziali: detersivi, saponi, carta igienica ecc... per non parlare che in alcuni istituti viene a
mancare anche un letto dove poter dormire, questa è la situazione attuale per alcuni detenuti nel carcere di Bologna.
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Nonostante la norma preveda addirittura la fornitura di vestiario e
di corredo, nella pratica se uno non ha soldi non può nemmeno lavarsi. Se non si riescono a risolvere questi problemi è impensabile riuscire a far rispettare altri diritti che di norma dovrebbero essere inviolabili, come il diritto all’affettività, così come recita l’art. 61 dell’ordinamento penitenziario, o il diritto all’istruzione e al lavoro, art.
19 e 20 O.P. o addirittura pretendere la cella singola.
Come è ormai noto le carceri sono strapiene di detenuti molti dei quali con gravi problemi sociali ed economici, spesso sono detenuti che non
hanno nessuno che li sostiene, né economicamente né moralmente.
Fortunatamente in alcune realtà penitenziarie ci sono associazioni
di volontariato che si fanno carico di alcune di queste problematiche,
ma non possono essere efficienti per tutto e lo Stato non può restare
indifferente a tutto ciò.
A chi dice “marcite in galera” occorre rispondere che la dignità di un
essere umano non dovrebbe essere mai violata, qualsiasi reato esso
abbia commesso. `
IVANO RAPISARDA. I diritti dei detenuti in Italia non sono assolutamente
rispettati. Basta pensare che esiste il 41 bis. Io sono stato sottoposto a
tale regime dal 1992 al 2003 e so cosa significa non poter abbracciare
i propri cari. Il male dell’Italia non siamo noi; in Italia abbiamo persone che ridevano per il terremoto dell’Aquila, abbiamo politici che
in quanto ministri usano il legittimo impedimento, che in tutti i modi cercano di farsi leggi personali, abbiamo politici che vanno con i
trans e, in modo del tutto da chiarire, i vari testimoni stanno morendo con assurdi incendi…1
CARMELO MUSUMECI. Non so se là fuori ci sia qualcuno che crede ancora
che nelle carceri italiane venga applicata la Costituzione, qui dentro
non ci crede più nessuno.
A proposito, lo sapete che alcuni dei padri della Costituzione sono
stati degli “avanzi di galera”? Molti di loro sono stati in carcere ai tem1
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Il riferimento è alla morte in un incendio della transessuale coinvolta nel caso che
ha portato alle dimissioni del presidente della Regione Lazio, Piero Marrazzo.
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pi del fascismo. Si rivolterebbero nella tomba se sapessero che la loro
Costituzione nelle carceri è stata stracciata.
Il carcere così com’è spreca la vita dei suoi prigionieri e il tempo di
chi ci lavora.
Molte persone “perbene” del mondo dei vivi dicono: “Hanno anche
la televisione” ma spesso è anche grazie alla televisione che i detenuti
sono docili come pecore.
Il carcere di oggi induce ogni detenuto a essere prigioniero di se stesso.
Il carcere è il luogo più illegale di qualsiasi altro posto. È il luogo dove vanno le anime perse.
Sì, è vero, a parte alcuni casi, ma ancora troppi, i detenuti non li picchiano e non li torturano più come hanno fatto all’Asinara e a Pianosa sotto il regime di tortura del 41 bis. Anzi, ci curano, anche se spesso male. Ci fanno persino campare più possibile per farci soffrire di
più. Ci hanno dato persino la televisione in cella, per rincoglionirci
meglio. Ecco… in cambio ci hanno tolto solo la speranza e l’anima.
Forse se lo Stato desse l’esempio e fosse capace di rispettare le sue stesse leggi e d’insegnarle trasformerebbe i detenuti nei migliori cittadini, compresi i mafiosi sottoposti al regime di tortura del 41 bis.
Io credo che ogni società abbia nella maggioranza dei casi i cittadini che ha educato, formato e che si merita.
PASQUALE DE FEO. I diritti? In Italia ogni carcere è una baronia feudale.
99
Ciò avviene con l’avallo del DAP del Ministero di Giustizia. A questo
organo non interessa se vengono applicate le norme e rispettati i diritti. Ha solo interesse che tutto vada avanti e non succedano proteste.
I direttori delle carceri in questo momento si sentono onnipotenti e
arbitrariamente interpretano le norme e i regolamenti che applicano
secondo il loro metro di giudizio.
I provveditorati regionali che dovrebbero esercitare un controllo sull’operato dei direttori intervengono solo quando non possono farne a
meno, e cercando sempre di coprire i misfatti che succedono in carcere.
L’Ufficio di Sorveglianza che dovrebbe tutelare i detenuti dagli arbitri delle direzioni, invece tutela le direzioni dai reclami dei detenuti
che richiedono i loro diritti.
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100
Ci sono dei motivi di rigetto di reclami proposti dai detenuti, scritti dai Magistrati di Sorveglianza, che sono dei veri capolavori machiavellici.
La Polizia Penitenziaria ormai è diventata talmente potente che condiziona con i suoi sindacati ogni cosa, dal Ministro della Giustizia al
singolo carcere.
Il loro potere è diventato una burocrazia farraginosa che fa resistenza a ogni progresso e al riconoscimento dei diritti garantiti dalle Leggi di Stato, per mantenere lo status quo e pertanto ostacola ogni iniziativa, con la parola magica “sicurezza”.
Poi le ruberie che vengono permesse dalle imprese con la complicità
degli addetti del carcere, sono alla luce del sole, ma gli organi che dovrebbero intervenire, fanno finta di non vedere, di non sentire e di
non leggere le denunce e i reclami presentati dai detenuti. Gli interessi sono molti e la complicità estesa è molto forte.
Come in tutti i campi statali, c’è la propensione a pensare che si può
depredare, il carcere alimenta ancora di più questo concetto perché
nessuno può controllare essendo che non c’è nessun libero accesso ai
giornalisti e non è stato ancora istituito il Difensore Civico nelle carceri con pieni poteri.
Ciò che comprano i detenuti ha un prezzo sempre elevato, fino a duetre volte superiore al suo prezzo; la frutta e la verdura hanno il prezzo
di prima qualità ma quello che portano è di pessima qualità e quando
lo facciamo presente agli addetti ci ricattano e ci minacciano in tanti
modi, pertanto subiamo una truffa e un’estorsione allo stesso tempo.
I detenuti che denunciano e reclamano per iscritto vengono perseguitati con varie angherie, e nelle relazioni trattamentali sono descritti come facinorosi, istigatori e pericolosi per l’ordine e per la sicurezza del carcere.
Il fatto che i detenuti chiedano l’applicazione dei regolamenti e il
controllo sulla correttezza delle imprese, e ciò non avviene suscitando
sorpresa anche negli addetti ai lavori, la dice lunga sul grado di assuefazione che anni di abusi, di ruberie e forzature interpretative hanno
generato rispetto alla sistematica violazione delle norme.
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SEBASTIANO MILAZZO. Lo vogliamo chiamare Stato di Diritto quello che
obbliga la magistratura a chiedere le informazioni necessarie per decidere sulla concessione dei benefici al Carcere e alla Polizia, senza obbligare queste a fornire informazioni vere e reali, consentendo loro di
fornire informazioni in prestampati uguali per tutti?
Imporre al magistrato di decidere su delle valutazioni (vere) che si
sa in anticipo che non arriveranno mai, significa togliere alla magistratura il compito di decidere, affidandolo in termini reali alla totale
discrezionalità ad organi che per loro natura tengono conto di logiche
repressive.
In pratica la magistratura di sorveglianza è stata relegata, nel caso
dell’ergastolo, a svolgere il ruolo di giudice delle “esecuzioni capitali”.
“Esecuzioni” che si vogliono giustificare con il fatto che l’ostatività si
applica nei confronti di chi è stato condannato per reati gravissimi.
Può essere considerato Stato di Diritto quello che dice: “Se collabori
le porte del carcere si aprono immediatamente”? Questo non significa
forse costringere chi, in ipotesi, assassino non è, a rimanere ingabbiato sino alla morte per ciò che non è in grado di fornire?
Lo vogliamo chiamare Stato di Diritto quello che tratta gli individui
come fossero fatti con lo stampino, penalizzando proprio quei condannati che hanno fatto una revisione critica del loro passato, lasciati
macerare oltre il necessario nel rammarico di non poter mettere a
frutto positivamente le loro esperienze negative affinché le storie non
si ripetano con i figli, consentendo loro, quando lo meritano, di poterli guidare in un percorso di vita fatto di legalità?
LUIGI PECICCIA. Nel carcere non viene rispettato niente, tanto chi è che
101
se ne accorge? Nessuno… E primariamente non vengono osservati i
diritti della salute, e ora che questo è di competenza delle USL è ancora peggio. Non c’è bisogno che la spieghi io questa carenza, perché
già i cittadini si scontrano ogni giorno con l’inefficienza della Usl, figuriamoci i detenuti, che sono malvisti dalla società…
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La salute
Fra i diritti violati, quello di cui parla l’articolo 32 della Costituzione italiana: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Un medico, Agnese Piazza, ha posto le domande le cui risposte compongono questo capitolo. Domande non solo di ordine strettamente medico, ma
anche altre che riguardano i sogni o i desideri, perché, dice,
“senza speranze e senza sogni, senza obiettivi e prospettive, non
si può stare bene, né nel corpo né nello spirito, con la conseguente insorgenza di inevitabili condizioni patologiche relative
alla sfera psichica o fisica, o ad entrambe”.
Della salute fisica e mentale. Dei sogni, talvolta…
ALFREDO SOLE. In carcere si muore e ci si ammala di malattie fuori evi-
102
tabili, ma la malattia che uccide più detenuti è il suicidio (a parte
quelli fatti passare per suicidio).
Se si viene curati e se è il carcere a far sorgere patologie? Ma non è
di questo che ci si dovrebbe meravigliare. Bisognerebbe meravigliarsi
del fatto che in carcere c’è ancora gente che sta bene, che non è ammalata. Il carcere mira a distruggere l’essere umano, sia fisicamente
che psicologicamente. Non credo alla favola della rieducazione, perché è inesistente. Si può forse rieducare qualcuno usando umiliazioni
giornaliere e un costante tentativo di spersonalizzare il detenuto?
Molto spesso le malattie nervose nascono proprio dal tentativo continuo di contrastare questa violenza. Chi ci riesce viene tacciato come
irriducibile e perciò non meritevole di benefici, chi non ci riesce muore suicida.
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103
Non c’è bisogno di risposte in massa per trarre dei risultati di ciò
che fa il carcere all’essere umano. Bastano le risposte di pochi detenuti, che sono lo specchio di tutti. Cambiano le patologie, ma la causa è
sempre il carcere, mancanza di cure, cure sbagliate, dottori assenti (e
non solo fisicamente), mancanza di medicine, visite specialistiche
quando non ne hai più bisogno, visto che è troppo tardi… Questo per
le patologie fisiche, per i mali psichiatrici è tutta un’altra cosa: litri di
Valium e cocktail di psicofarmaci. Chi sta male non è una persona da
curare ma è uno che dà fastidio.
Sono entrato in carcere in buona salute, a 23 anni, ora ne ho 42.
Quando ho cominciato a stare male, certo che si sono preoccupati di
farmi visitare, ma le visite sono state molto approssimative e mai approfondite. Ho sofferto di bronchite, e a causa di cure inadeguate e
tardive la bronchite è diventata cronica.
Se penso che il regime carcerario ha avuto una responsabilità? Non
lo penso, ne sono sicuro! Il carcere è un luogo freddo d’inverno, e un
forno d’estate. L’umidità è sempre alta. Spesso, nelle carceri più vecchie, trovi muffa sui muri e infiltrazioni d’acqua. Questo causa malattie e allergie.
I pasti sono completi, ma non è questo il problema. Il vero problema è che nella maggior parte delle carceri sono immangiabili.
Faccio attività fisica. Ero un ragazzo di 23 anni che pesava 68 chili.
Adesso sono un uomo di 42 anni e peso 80 chili. Gli ultimi 8 presi in
questo carcere a causa della palestra.
In quasi 20 anni di carcere credo di avere parlato con uno psicologo
non più di 4 o 5 volte. No, non c’è nessun sostegno o supporto psicologico, a meno che non inizi a dare di matto, e allora puoi sperare che
qualcuno ti chiami per controllo.
La notte riesco a riposare. Non sogno. I sogni li fai solo all’inizio
della carcerazione, ma quando fai 20 anni di carcere, anche sognare
diventa un lusso che il tuo cervello raramente ti offre. Ma di solito,
quando ho la “fortuna” di ricordare un sogno, mi accorgo che c’è sempre l’elemento carcere.
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GIUSEPPE COSTA. Sono entrato in buona salute, arrestato a 41 anni. Og-
gi, 2010, ho 61 anni, soffro di glaucoma bilaterale, osteoporosi, sinusite cronica, iperteso dal 2005, dal 2002 ipertrofia prostatica, bronchite cronica.
Non sono sottoposto a controlli periodici.
Sicuramente il regime carcerario ha avuto le sue conseguenze. Non
riesco né a dormire né a riposare la notte. Quando dormo quel poco,
sogno spesso e faccio sogni brutti. Ho avuto molti incubi, non riesco
a spiegarli, quanti incubi…
Il cibo non è speciale, i pasti non sono completi, non ho avuto mai
proteine.
Sono impossibilitato di fare attività fisica, non son dimagrito, un po’
ingrassato. Non ho mai fatto incontri con uno psicologo, non esiste
supporto psicologico carcerario.
Non ho mai fatto attività manuale, né intellettuale, né creativa. Mi
piacerebbe rendermi utile per me e per gli altri. La mia famiglia, la cosa che mi manca di più…
Un desiderio? Essere guarito dal glaucoma e dalle altre patologie.
Avendo la salute puoi affrontare un lavoro.
Ringrazio, se un giorno leggessi che questo ergastolo possa avere fine… dopo avere scontato 20 anni di carcere, credo che si è pagato il
debito.
MARZIO SEPE. Sono entrato in carcere in buona salute, a 41 anni. Ora ne
104
ho 56. Ho iniziato a stare male fisicamente intorno ai 50 anni. Non
sempre ho avuto tutte le cure necessarie. Ho avuto problemi di cuore
e pressione. Per primo ho cominciato ad avere problemi alla schiena,
alla cervicale, a soffrire di dolori reumatici. Sì, il regime carcerario ha
avuto una responsabilità nel mio ammalarmi.
La notte non riesco a riposare. Sogno. La famiglia, principalmente,
i miei figli e spesse volte la libertà. Non ho incubi, né paure. Il cibo
non è buono, no, no. Sono dimagrito e non svolgo nessuna attività fisica. Non ho fatto incontri con lo psicologo. Il mio desiderio? La pace
nel mondo e non vedere bambini che soffrono.
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GENEROSO DE MARTINO. Quando sono entrato in carcere, a 41 anni (ne ho
105
compiuti 58 il 16 maggio 2010) ero in ottima salute, non sapevo cosa
significasse prendere una pillola.
Avevo tolto l’ingessatura alla gamba dx e avevo bisogno di fisioterapia. Non ne ho mai fatto. Controlli periodici? Nessun controllo periodico, mai.
Il mio calvario è iniziato nel ‘97/98 e qualche cura mi è stata fatta
dopo due o tre mesi fino a che non sono stato visitato dallo specialista. Senza risolvere mai niente, e mai nessuno che mi abbia fatto capire la gravità dei primi malanni.
Nel ‘95 mi fu diagnosticato il diabete “melito” con colesterolo a 300.
Sono stato curato con pillole, ma era sempre quel medicinale fino al
‘97, ebbi la prima trombosi con la rottura di capillari al pene e fino ad
oggi il problema non è risolto perché all’epoca, come ho spiegato, non
fui curato bene, come pure quando ebbi una trombosi all’ascella dx a
Natale del 1997. La mia fortuna è stata di non capire la gravità della
situazione, e con tanta ginnastica riuscii (involontariamente) a far dilatare i capillari, cosa che ha agevolato la circolazione. Ma Mai! Nessuno che mi abbia detto del rischio che incorrevo riguardo la cardiovascolarizzazione.
Nel 2003 fui soggetto a infarto al miocardico sx e da allora tutto è
stato un calvario, perché all’inizio del 2004 caddi in una forte depressione senza rendermene conto e di circa 2 anni non ricordo niente,
ma da quello che ho appreso dalla cartella clinica addirittura ero a rischio suicidio, e per questo fui sottoposto all’alta sorveglianza; non
potei essere neppure declassificato dal così detto regime E.I.V, perché
l’alta sorveglianza per la malattia fu scambiata per pericolosità sociale. Posso anche fornire il mio diario clinico.
Tutto quello che ho passato come malattie spesso viene ignorato e
chissà, qualche volta, se non mi faranno morire per claustrofobia. Già
più di una volta hanno tentato di farmi viaggiare con furgoni ordinari, e quello che è successo durante il trasporto, non so se è stato evidenziato. C’è ancora tanto da dire?
Le parti del mio corpo che hanno iniziato per prime a soffrire? Il pe-
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ne e la spalla dx, il cuore per conseguenza diabetica. E poi psicologicamente e mentalmente.
Credo che la maggiore responsabilità è dovuta al regime carcerario
perché c’è stata negligenza da parte degli organi dirigenti, e ogni persona al disotto di chi vuole condurre un gioco duro è soggetto e diventa succube dei comandi, per non perdere il posto di lavoro (chi intende capisce).
La notte non riesco a riposare. A volte sogno, a volte no. Sogni ricorrenti, li cerco ma non vengono mai.
Ho paure. Tante che non so spiegare, incubi quando dormo ma che
non ricordo, e tante persecuzioni uditive che non riferisco più, ma
spesso mi portano ansie e paure.
Il cibo non è buono, i pasti sono incompleti, e quanto a proteine di
quello che ci danno dovrebbe essere almeno il 50% ma dato che tutto è conservato male, credo che se ne possano assumere il 15 o il 20%.
Non faccio attività fisica, perché sono pieno di artrosi e non vengo
curato. Entrai che pesavo 75 Kg. Ero sotto peso nel giro di 5 o 6 mesi
persi circa 15 Kg e così sono rimasto fino a che non caddi in depressione, che da come ho letto da referti medici calai a 49 Kg. Ora, da
qualche anno, sono circa 70 Kg.
Non faccio incontri con uno psicologo, e non esiste alcun supporto
psicologico. Al contrario, specie la notte, se si riesce ad addormentarsi
per qualche ora c’è pronta a svegliarci la pila che i sorveglianti usano per
controllarci, e svegliarci di soprassalto. Giacché già si dorme per finta,
cioè una sorta di “dormiveglia”, ci si sveglia e non ci si addormenta più.
SEBASTIANO MILAZZO. Sono entrato in carcere in buona salute, a 41 anni.
106
Ora ne ho 58. Sono stato sottoposto a controlli periodici, e se sostanzialmente sono stato curato sul piano fisico, sono stati incuranti e insensibili dei drammi psicologici che in certi periodi mi affliggevano.
Sul piano fisico ho avuto problemi agli occhi. Non credo che il regime carcerario abbia avuto responsabilità a riguardo.
La notte riesco a riposare. A volte sogno, a volte no. Faccio sogni di
vario genere. Ho anche incubi, paure, legati ai miei affetti.
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Com’è il cibo? Commestibile, i pasti sono completi, forniscono proteine.
Non faccio regolare attività fisica. Sono ingrassato.
Gli psicologi?– desaparecidos.
107
GIUSEPPE SORRENTINO. Sono entrato in buona salute, a 31 anni. Ora ne
ho 47. Non sono stato sottoposto a controlli periodici. Dopo tempo si
sono interessati ai primi problemi che ho avuto. Cardiopatia precoce,
colite ulcerosa con polipetti sospetti e gravità perdurante. Ho avuto
problemi al cuore e penso che maggiormente abbia influito il regime
41 bis, a cui sono stato sottoposto.
La notte non riesco a riposare. Se sogno, sogno famiglia e figli.
Incubi, paure? La sottoposizione carceraria e la lunga restrizione.
Il cibo? Indesiderabile, no, no.
Non faccio attività fisica, riguardo la mia invalidità fisica, da tempo
dimagrisco e ingrasso. Non ho mai incontrato uno psicologo.
Attività manuali? No, a riguardo la mia invalidità no! Ad ogni richiesta dicono che non è ammessa dall’A.S.1.
Mi piacerebbe svolgere attività culturale e attività fisica, che purtroppo è impossibile.
Che cosa mi manca di più? Non potere usare la mia sensibilità verso la famiglia.
Cosa desidero, a parte la libertà? Un mondo diverso per la sensibilizzazione umana.
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La rieducazione
Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. Anche questo è stabilito dalla Costituzione, all’articolo 3, dopo
aver chiarito anche che queste pene “non possono consistere in
trattamenti contrari al senso di umanità”. Ma i programmi di
recupero, anche quando attuati, rischiano di fallire, se non si ha
la possibilità di pensare un futuro che in qualche modo riavvicini alla società. E se pene davvero rieducative sono quelle che
conducono a riappacificarsi con la società, un’ipotesi di pena
potrebbe anche essere quella di “lavorare tutta la vita per le famiglie delle vittime”.
Della rieducazione, del recupero e di proposte alternative
all’ergastolo
GIUSEPPE IOVINELLA. Quale programma di recupero? Nessuno. Mi han-
no buttato in una cella per 22 ore al giorno… quando ti trovi a Napoli, a Poggioreale, vi lascio immaginare come si può vivere…
GENEROSO DE MARTINO. Attività creative, manuali? Manuali non posso
farle perché invalido, creativa niente, non ci danno la possibilità.
Uguale per le attività intellettuali, per l’A.S.1 non esiste niente. Solo la
scuola ma che scuola: un bidone, cioè chiusa come un silos dove si
conserva il grano e dato che soffro di claustrofobia mi è impossibile
anche studiare.
108
PASQUALE DE FEO. Programmi di recupero, in modo serio nessuno. La
riforma del 1975, la legge Gozzini e il Regolamento di Esecuzione del
2000, indicavano la via maestra per la progressiva acquisizione della
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libertà da parte del detenuto. Era una responsabilità che andava accettata e condivisa a tutti i livelli, operativi e politici, ma non c’è la volontà di realizzare e applicare le riforme in linea con l’art. 27 della Costituzione.
Quello che viene fatto è solo per dare l’impressione che è in atto la
rieducazione, affinché politici e organi europei in visita recepiscono
una realtà artificiosa. In Italia hanno creato alcune carceri che servono
per i giornalisti, tv e visite istituzionali, il resto sono baronie feudali che
applicano ciò che arbitrariamente interpretano, e quando c’è questo
potere assoluto, non c’è limite all’oppressione e alle torture fisiche e
psicologiche. Finché non capiscono che il carcere che funziona è quello che produce libertà abbassando la recidiva, nulla cambierà.
Le carceri sono fabbriche di delinquenti e scuole di perfezionamento dei malfattori. Lo diceva Filippo Turati, il 18 marzo del 1904.1 Non
è cambiato molto da allora.
Personalmente ho lavorato su me stesso; ci ho messo molto tempo
per ripulire i pensieri, correggere comportamenti radicati, rielaborare errori per metabolizzarli nella giusta dimensione, cambiare il linguaggio e vedere l’orizzonte con la corretta prospettiva. Ma dal sistema penitenziario non ho avuto nessun aiuto, anzi solo limitazioni e
istigazioni ad essere peggiore.
La cultura e il dialogo con persone del volontariato mi hanno aiutato molto, aprendo orizzonti nuovi; dove prima sguazzava e imperava la mia ignoranza, ora c’è una visione nuova della vita. Sono convinto che la cultura, il lavoro e il contatto con la società porterebbero
risultati più soddisfacenti di quelli del carcere di Bollate.2
1
109
Dal sepolcro dei vivi, discorso con il quale Filippo Turati interviene sui temi delle
carceri. Su questo tornerà anche in seguito, affermando che bisogna avere il coraggio
“di gettare aria e luce a profusione in questa zona buia ed anche fracida, in questa regione inesplorata, dove si dice di far opera di risanamento morale e dove si uccide,
moralmente se non anche materialmente, una popolazione permanente di 60 mila
cittadini”.
2
Bollate, carcere-modello, alla periferia nord-ovest di Milano, fiore all’occhiello del
sistema penitenziario italiano, un circuito a custodia attenuata, dove l’aspetto rieducativo della pena prevale su quello punitivo.
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CIRO BRUNO. Il problema non è quale programma mette in atto il carcere, ciò che manca in Italia è un patto di inclusione sociale dei detenuti. Una rete integrata, qualificata e diffusa su tutto il territorio nazionale, con l’obiettivo di realizzare percorsi di reinserimento. È necessario rinnovare il patto sociale per avviare rapporti con le Regioni,
gli Enti Locali ed il volontariato, il cui raggio d’azione si concentra nei
campi della esecuzione penale studiando interventi integrati. Potrebbero essere avviati progetti tesi a sensibilizzare la collettività sui temi
della pena e della cultura della legalità, migliorando la qualità della vita degli istituti di pena, presenza di scuole di ogni ordine e grado, formazione professionale connessa al sistema produttivo esterno, sostenendo e accompagnando i percorsi di inserimento.
SEBASTIANO PRINO. Il carcere ha il solo “privilegio” di fornire profondi
momenti di riflessione che credo sia impossibile trovare in altri luoghi o altri contesti.
In una dimensione a parte qual è il carcere, in cui le uniche notizie
sul proseguo dell’umanità giungono da un oblò costituito dalla tv,
dalla lettura in generale e dallo stretto contatto quotidiano con “reietti” di tutto il cosmo, è molto più semplice analizzare i propri simili e
se stessi. E di conseguenza spesso capita da qui dentro di immaginare
una società diversa; senza egoismi, paure, guerre, padroni, servi ed
esclusi. Cioè una società basata sull’eguaglianza e la cultura, dove la
forza venga sostituita dal buon senso. E in una società basata su questi princìpi probabilmente non ci sarebbe bisogno di prigioni, o di
mura in generale, per una pacifica convivenza tra uomini e popoli.
Ma come pensare un carcere rieducativo?
110
ALFIO FICHERA. Rispondo con concetti semplici (quelli complicati li ho
finiti da un pezzo). La scienza di settore ci insegna che la materia
umana, ma forse l’intera materia vivente, se non si combina con un
interesse, un lavoro, lo studio, gli hobbies, degrada rovinosamente e si
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perde l’educazione alla stessa vita. La premessa, forse barbosa, è utile
per dire che costruire nuove carceri serve a danneggiare soltanto le
pubbliche finanze, occorrerebbe invece, con una spesa al confronto irrisoria e con migliori ritorni, ampliare le aree pedagogiche, riaprire le
“lavorazioni”, in molti casi dotate di attrezzature nuovissime e mai
usate, e comunque rimuovere le situazioni di ozio. Sono un comunista impenitente, la vera pericolosità di quelli come me è che soffrono
in maniera rivoluzionaria, la repressione spesso li esalta fino al martirio. Mi darei qualunque pena se avessi la certezza che questa servisse
ai miei cari e al mio prossimo.
ANGELO TANDURELLA. Per un carcere veramente rieducativo, prima di tut-
to dovrebbero ripristinare la Legge Gozzini; più educatori che facciano il proprio lavoro, e non aspettare solo il fine mese per rubare, “metaforicamente” parlando, lo stipendio. Noi detenuti non siamo seguiti da nessuno, come si fa a capire se una persona abbia avuto un cambiamento interiore se non si conosce neanche il nome di quella persona? Io mi darei una pena alta, proporzionata al tipo di reato per il
quale sono stato condannato, ma che abbia una Fine. Poi se devo dire
la pura verità, come se parlassimo a quattr’occhi, io in questo preciso
momento mi sento pronto per essere immerso nella vita sociale, rispettando le sue regole e pagando le tasse come tutte le persone normali: questi anni in più che io faccio, perché per me sono anni in più,
non fanno altro che incattivire l’animo e la persona.
PINO REITANO. La prima cosa, far lavorare tutti anche con la forza, così
se c’erano mafiosi non solo non potevano usare i soldi se ne avevano,
ma dovevano lavorare per ripagare il male commesso. Non è la pena
che sana i mali commessi. Può servire se ti smuove la coscienza, se rimani un criminale neppure la pena di morte può servire. La pena che
mi darei è quindi solo il tempo necessario per dimostrare che hai capito cosa devi fare per non commettere gli stessi errori.
GIROLAMO RANNESI. I cambiamenti positivi in me ci sono stati e conti-
111
nuano ad esserci. Io li attribuisco alla mia donna, Francesca. Altresì lo
devo a persone che fanno parte delle istituzioni e che io amo definire
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persone di buona volontà. Ma un carcere davvero educativo lo penso
senza sbarre alle finestre, con gli educatori messi nelle condizioni di
poter fare il loro lavoro. Che apra le porte alle ore affettive, così come
accade già da tempo nelle carceri di altre nazioni europee. Un carcere
che non induca alla distruzione delle famiglie, altresì che non istighi i
detenuti al suicidio.
Io che pena mi darei? La morte. E subito.
CIRO BRUNO. Il carcere sopravvive per ragioni che non hanno molto a
che vedere con la rieducazione. In Italia il degrado e la perversione
riescono persino a squarciare la cortina di invisibilità che normalmente rende cieca la società civile e la protegge dallo spettacolo della
vergogna.
Parte della colpa da imputare alla politica italiana, è quella di esser
riuscita a rendere l’esecuzione penale un fenomeno di illegalità, in
contrasto manifesto con le regole che ci siamo dati: un fenomeno criminoso, perché il trattamento rieducativo si converte in maltrattamenti. Il recupero della legalità ha un percorso obbligato: “La garanzia della persona detenuta”.
Se si parla di garanzie si parla di Giudice. Certo non dell’attuale funzione del Magistrato di Sorveglianza, ridotto a spettatore del degrado,
ma un Giudice posto in grado di vincolare l’amministrazione penitenziaria al rispetto dei diritti inviolabili della persona detenuta. È un
programma minimo, ma essenziale, perché il carcere non assuma una
funzione criminogenetica.
PASQUALE DE FEO. In alternativa all’ergastolo, proporrei 20 anni di car-
112
cere, il tempo di una generazione, credo sia un periodo adeguato. La
pena deve compensare un torto e non deve essere una vendetta sociale per tutta la vita.
Il carcere deve poter trasformare i detenuti in cittadini. Libero accesso ai volontari, per non sottostare ai diktat delle direzioni, perché
le relazioni sociali aiutano a creare persone e situazioni nuove. Trasparenza nell’amministrazione del carcere, con controlli e l’entrata
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dei giornalisti con più facilità. Conservare e rispettare tutti i diritti del
cittadino-detenuto non è una concessione, è un dovere dello Stato democratico.
GIUSEPPE IOVINELLA. Il modo giusto per far scontar la pena è avere un la-
voro dignitoso in carcere, dare la possibilità a chi vuole studiare di essere in un penitenziario dove si può studiare. Non portare il detenuto lontano dalla propria famiglia, togliendogli l’affetto dei propri cari, aiutarlo con veri educatori e assistenti sociali che aiutino anche gli
ergastolani ostativi, chi è condannato con 416 bis e altri reati ostativi,
e non solo ai codini!
Credo che una condanna a 20 anni è più che sufficiente, con benefici effettivi a partire dai 10. Al compimento dei 20 anni, essere un uomo libero.
SEBASTIANO PRINO. Innanzitutto credo che dovrebbe cambiare la conce-
113
zione stessa della pena, sia questa connaturata a periodi lunghi o brevi di carcerazione. Infatti, di solito il detentore di lunghe pene proviene da altri periodi di detenzione, spesso cominciati nei riformatori
per poi in un crescendo di vicissitudini giungere al “fine pena mai”.
Determinando in tal modo il fallimento del sistema penale italiano, –
o forse proprio il suo obiettivo – poiché questo incontrovertibile dato di fatto equivale al classico proverbio: “di chiudere la stalla quando
i buoi sono scappati”.
Dunque un sistema politico-penale a cui realmente interessa stroncare i fenomeni criminali, dovrebbe innanzitutto cercare di rispondere a queste devianze con nuovi concetti penali rivolti soprattutto a tutela dei giovani che entrano per la prima volta in carcere, per evitare
che tanti ragazzi a loro volta diventino come noi: dei “fine pena mai”,
in un vortice senza fine.
Il nuovo sistema sanzionatorio dovrebbe innanzitutto, al contrario
di ciò che avviene attualmente, tenere in carcere solo soggetti che costituiscono un reale pericolo per la società. E credetemi, questi soggetti sono molto meno di quel che si pensa e si dice.
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Poi impiegare questi uomini in lavori socialmente utili sul territorio,
che sono infiniti. Infine dovrebbe utilizzare, in quello che a prima vista
può apparire un paradosso ma non lo è affatto, noi detentori di lunghe
pene come educatori delle fasce giovanili che abitano in carcere o nei
quartieri a rischio. Infatti, chi meglio di noi può sconsigliare un giovane
dall’intraprendere una via che inevitabilmente dopo un breve percorso
riconduce al punto di partenza? Naturalmente mi rendo perfettamente
conto che questa è utopia, che gli interessi politici ed economici in gioco
che stornerebbe una riforma del genere sono al momento impensabili.
Però credetemi, se ciò avvenisse, questo sarebbe un Paese migliore,
per noi e per voi.
114
CARMELO MUSUMECI. Il modo giusto di fare scontar una pena dovrebbe
essere lavorare per le vittime del reato. Il colpevole in alternativa all’ergastolo per tutta la vita dovrebbe lavorare per mantenere la sua famiglia e quella del morto.
Non è un’utopia come non lo era neppure quando molti pensavano
che le donne non potessero fare il lavoro degli uomini. È solo una
questione culturale e in tutti i casi l’utopia è il motore dell’umanità.
Ricordo che quando era uscita la legge dei permessi ai prigionieri
pochi pensavano, pure gli stessi detenuti, che i prigionieri sarebbero
rientrati da soli in carcere suonando il campanello del portone. Invece rientrano tutti.
Io per esempio preferirei spazzare le strade della mia città che stare
chiuso in questa cella a rispondere a queste domande. Il bene e il male convivono in ognuno di noi ma una lunga pena tira fuori da noi solo il peggio. È inutile girarci intorno, il carcere è criminogeno, è come
chi è ammalato invece di portarlo all’ospedale lo portano direttamente al camposanto.
Si dice che si nasce tutti innocenti, ma non è vero. Molti nascono
culturalmente già colpevoli come il titolo del mio libro Nato colpevole. E in tutti i casi la pena dovrebbe servire a migliorare e non a distruggere chi la subisce, ma come fa a migliorare una pena che non finisce mai?
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Morire in carcere
Nelle carceri ci si suicida molto più che se si è fuori. Nel 2011 si
sono suicidate 66 persone. Il 3 gennaio di quest’anno eravamo
già a quota 3. Nel momento in cui scrivo queste righe, il 20 gennaio del 2012, leggo dell’ultimo suicidio, ieri, nel carcere fiorentino Gozzini. Un giovane di 29 anni si è impiccato alle tendine
delle finestre. Sarebbe uscito nel 2014.
E per le persone il cui fine pena è ‘mai’, la vita in carcere è già
una sorta di morte. Condannati alla “morte viva”, dicono gli ergastolani ostativi. Tanto che per provocazione, ma forse no, nel
maggio del 2007 hanno inoltrato al Presidente della Repubblica questa domanda: “Signor Presidente della Repubblica, siamo
stanchi di morire un pochino tutti i giorni. Abbiamo deciso di
morire una volta sola, le chiediamo che la nostra pena dell’ergastolo sia tramutata in pena di morte” .
Poesia per un suicida
Dedicata da GIUSEPPE PERRONE “all’amico Nazareno Matina morto il 3 giugno 2011
nel carcere di Spoleto”. I parenti di Matina comunque hanno contestato il fatto che di
suicidio si sia trattato, e chiesto l’apertura di un’inchiesta.
115
“Posso immaginarmelo/ tranquillamente crepato nel cuore / squassato nell’animo e tremante / davanti a tanto ferro grigio.
Posso credermelo ormai sfibrato / davanti a quelle regole diaboliche/ che non aiutano nessuno/ …ed anzi spesso inducono / ad “infernali pratiche”.
Posso senza sforzo alcuno immaginare/ quella molle / morta corda
/ animarsi di colpo /“stiracchiaaarsi” / tirarsi sempre più / fin sulla
barba / e poi oscillare fino a fermarsi…
Povero Nazareno! / Forse non riuscirà più a difendersi / ed ha scam-
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biato il suo ultimo / tenue filo di speranza /con una robusta corda / da
collo”.
“Quasi nessun giornale ne ha parlato, e questa morte è passata ancor più inosservata delle altre tra l’indifferenza di chi non vuole rendersi conto della carneficina che si sta consumando dentro le nostre
galere. Matina, condannato all’ergastolo, era in carcere da 22 anni.
Due giorni prima aveva avuto conferma di avere una pena ostativa
ai benefici penitenziari. Sapete che significa allo stato attuale? Nessuna possibilità di uscire, MAI, tutti i santi giorni in carcere fino alla morte. Nazareno non ce l’ha fatta e due giorni dopo averlo saputo, alla prima occasione in cui è rimasto solo, ha preferito la morte.
È desolante e demoralizzante tutto questo, oltre che profondamente
ingiusto, di un’ingiustizia che urla. L’urlo questa volta è quello di un
morto; non ci rimane che l’assurda speranza che questa morte possa toccare il cuore di qualche giudice e legislatore. Sì, lo so, non lo
saprà nessuno, tutto già è nell’oblio e la morte di Nazareno forse è
stata vana, ma noi siamo dei sognatori, lasciateci sognare: sogniamo
un fine pena per tutti che non sia la morte” (da urladalsilenzio, giugno 2011).
Del suicidio
Rispondendo a Vittoria, che chiede: Qualcuno, ha mai pensato
al suicidio?
GERTI GJENERALI. Che domandone! Complimenti, signora; dritti al pun-
116
to! Siamo sicuri che lei faccia l’impiegata? Sembra più una domanda
da psichiatra!
Premetto che io parlo per me, gli altri non lo so.
Anche se so per la mia stessa esperienza di vita che uccidersi o fare
male a se stessi non è facile, anzi, è una cosa durissima.
La risposta alla domanda è Sì.
Ho pensato al suicidio, più di una volta, e a dirla tutta ho anche tentato.
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È stato nel giorno del mio arresto, ma per mia fortuna, o forse grazie al fato o al destino, o forse perché lassù in cielo qualcuno non voleva ancora che la mia vita terminasse…
Ho fallito Vittoria, e dunque eccomi qua.
Però so anche che chi ha deciso di volerla fare finita davvero, lo fa!
Chi decide di farla finita è già prima di uccidersi un morto che cammina. E non è che lo decide un mese prima, o che ci rifletta a lungo.
È un attimo, e in quell’attimo nella mente si realizza la convinzione che ogni sofferenza scompaia. È una via d’uscita, un atto di
resa.
Il mio modesto parere da ergastolano, con una vita alle spalle sicuramente un po’ movimentata, è che la vita è sacra e preziosa, e vale la
pena di viverla anche in galera, soprattutto se sei cosciente del fatto
che c’è più mondo dentro di te che non intorno a te, e cosciente del
fatto che aprire le porte della mente e del cuore ti conduce a percorrere molte più strade di quante non possa invece aprirne lo spalancarsi dei blindati che imprigionano i corpi.
È questo il motivo fondamentale per cui non ho più riprovato, ho
preso coscienza dell’infinito che abita nel mio piccolo spazio.
Ci sarebbe poi anche da aggiungere che il suicidio è un atto egoistico. Come si può non pensare al male che fai e al dolore che dài con un
gesto simile alle persone che ti amano? Quelle persone che non hanno colpe né pene da scontare, quelle persone che non hanno nulla a
che fare con la vita che io ho scelto e vissuto, quelle persone care a cui
per essere felici basta sapere che esisto e che le amo, anche se non possiamo stare insieme.
C’ho pensato e c’ho provato Vittoria, ma non ci penso più e non ci
provo più.
SEBASTIANO PRINO. Non ho mai preso in seria considerazione l’idea del
117
suicidio, anche se più di una volta questa ipotesi è balenata nella mia
mente.
Non l’ho fatto un po’ per vigliaccheria, ma soprattutto perché penso che dovrebbero essere quelli come te a sporcarsi le mani stringen-
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domi un cappio al collo o iniettandomi nelle vene una soluzione di
veleni.
Avendola sfidata più volte non temo la morte, se a darmela sono
mani altrui. Anzi, alcuni anni fa, assieme a tanti altri nelle mie stesse
condizioni, l’ho richiesta a gran voce al capo dello Stato e spero che
quanto prima la mia istanza venga accolta. Magari utilizzando lo stesso criterio che si usa per comporre le giurie delle Corti d’Assise – le
stesse che danno questo tipo di pene – composte da una maggioranza di giudici popolari, che però al posto dell’inchiostro utilizzino forche o scuri. Poi mi auguro che tu sia una di quegli esecutori popolari
e che il compito di decapitarmi o impiccarmi o avvelenarmi sia affidato a te. Scoprirai che la vendetta non ha quel sapore dolce di cui si
narra nei romanzi.
Io, se ho ucciso, ne sto pagando le conseguenze con una pena ben
più dolorosa della morte. Un’esistenza costituita da minuti, ore, giorni e anni resi tremendamente uguali dalla ferocia della consuetudine.
E tu non puoi pretendere dalle mie mani il doppio compito di assassino e vittima. Concludo dicendoti che mi piacerebbe conoscerti, perché sono sicuro che se avessimo l’occasione di parlarci per soli dieci
minuti, cambieresti la tua opinione su molti di noi.
EMANUELE INTERLICI. Non ho mai pensato al suicidio, perché amo la vita
e anche grazie al sostegno della mia cara famiglia, una mamma favolosa, ma, soprattutto, grazie a mia moglie, una donna a dir poco speciale, con un amore magico, che è una ragione per vivere.
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CARMELO MUSUMECI. Ci penso sempre, l’ultima volta questa notte. Se
non l’ho ancora fatto è perché non amo ancora abbastanza la vita se
mi accontento solamente di sopravvivere fra queste quattro mura.
Vittoria, l’ergastolano è uno strano fantasma che non riesce a morire
e ha più paura di vivere che di morire.
Non è scandaloso se in carcere ci si toglie spesso la vita, è più scandaloso se uno non se la toglie.
Spesso la morte è la nostra unica speranza. Probabilmente togliersi
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la vita è peccato, ma quando non ce la fai più forse è giusto così.
Quando si vive in questo modo, chiusi in una cella come una belva da
venti anni e quando le persone “perbene” continuano ad odiarti, non
è poi così importante vivere o morire. Almeno per me.
L’ergastolano ostativo è tenuto in vita solo per farlo morire in catene.
In un commento del film “Il segreto dei suoi occhi” ho letto sulla
stampa: lui non si accontenta di condannarlo a morte. Troppo poco.
Lui non vuole ucciderlo una volta, ma ucciderlo ogni giorno. Non vederlo morire e amen, ma vederlo morire minuto per minuto, all’infinito. E questo lo dà soltanto l’ergastolo. L’ergastolo è una morte interminabile, che ti fa sognare la morte istantanea come un regalo della pietà.
Della pena di morte
MARIO TRUDU. Ho chiesto la morte al posto dell’ergastolo per dare sod-
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disfazione a tutti quelli che i delinquenti li vogliono vedere morti, anche dopo 32 anni di carcere.
Il due settembre del 2009 il Tribunale di Sorveglianza di Perugia, alla mia richiesta di tramutare la mia condanna all’ergastolo in pena di
morte (da consumarsi con fucilazione in piazza Duomo a Spoleto) ha
risposto così: “Poiché la pena di morte non è prevista dall’Ordinamento né ammessa dalla Costituzione, si dichiara inammissibile l’istanza in oggetto”.
All’ergastolano, viene dunque proibito anche di scegliere di morire
perché si vuole che affronti la vendetta dello Stato fino all’ultimo dei
suoi giorni. Io ho sempre creduto che gli unici che avrebbero potuto
pretendere vendetta nei miei confronti fossero la famiglia Gazzotti,
l’uomo che ho sequestrato, e a causa di quella mia azione quel povero uomo morì. Solo loro credo che possano fare e dire tutto ciò che
vogliono nei miei confronti, ne hanno tutti i diritti.
La pena dell’ergastolo per chi la vive come me, è crudele e più disumana della pena di morte, perché quest’ultima dura un istante ed ha bisogno di un attimo di coraggio, mentre la pena dell’ergastolo ha biso-
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gno di coraggio per tutta la durata dell’esistenza di un individuo, un’esistenza che rende l’uomo “schiavo a vita”. Occorre prendere coscienza
che l’ergastolano ha una vita uguale al nulla e anche volendo spingere
la fantasia verso previsioni future, resta tutto più cupo del nulla.
Si parla spesso del problema delle carceri, ma non cambia mai nulla (o forse qualcosa cambia in peggio e il problema del sovraffollamento lo dimostra). I suicidi nelle carceri sono proporzionalmente in
numero maggiore di diciassette volte rispetto a quelli che avvengono
nel “mondo esterno”. I “signori” politici dovrebbero pensare veramente per un attimo al disgraziato detenuto, che non può morire in
carcere per vecchiaia. Parlo dei politici perché la responsabilità è loro,
perché se la legge del 4 bis non viene cambiata siano consapevoli che
noi ergastolani ostativi dal carcere non potremo uscire mai: che diano risposta a questa domanda questi “signori”! Sto sognando, lo so!
Purtroppo un ergastolano può solo sognare.
SALVATORE DIACCIOLI. La pena dell’ergastolo supera i limiti della ragione.
120
Non è facile ripetere ogni giorno per sette giorni alla settimana, per
quattro settimane al mese, per dodici mesi l’anno per diciassette anni
sempre le stesse e identiche cose.
Io sono un figlio della strada, la mia infanzia l’ho vissuta in vari collegi, l’adolescenza in case di recupero, sono diventato adulto in carcere, mi sono sposato in carcere nel lontano 1975, ho quattro figli che
ho cresciuto poco (e il risultato oggi è quello che è), ho otto nipoti e
pure una pronipote che non sto crescendo per niente, nel 2000 ho festeggiato anche il mio 25esimo anniversario di matrimonio. Il carcere, i figli che sono cresciuti senza avere accanto la figura paterna, mi
sono stancato di morire tutti i giorni.
Ho chiesto al nostro Presidente della Repubblica la pena di morte
ma la mia richiesta è stata vana perché lui mai potrà fare quello che io
ho chiesto. Chi sa, magari un giorno mi sentirò più stanco del solito e
potrei farlo anche da me.
D’altronde a che serve vivere se non potrai più vedere i colori dell’orizzonte.
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PASQUALE DE FEO. La gente non sa che in Italia esiste una pena di morte
chiamata carcere ostativo. È conosciuto appena dagli addetti ai lavori.
I media, alimentati dai politici demagoghi, hanno addirittura inculcato nella gente che i condannati all’ergastolo scontano mediamente
7-8 anni di carcere. La disinformazione è totale. L’ostatività che deriva dall’entrata nel girone dantesco dell’art 4 bis è una condanna a
morte, non solo per gli ergastolani, ma anche per i condannati di una
certa età, che dovranno trascorrere 20-30 anni senza benefici.
È questa la civile e democratica Italia culla del diritto?
Un ricordo
CARMELO MUSUMECI, giugno 2009. Khalid Hussein, 79 anni, il più anziano
121
prigioniero politico palestinese rinchiuso nelle carceri italiane, è morto lunedì scorso in una cella del carcere di Benevento. Ho conosciuto
Khalid, combattente per la libertà della Palestina e dei palestinesi,
condannato all’ergastolo in contumacia per il sequestro della nave
Achille Lauro, nel carcere di Parma nel 1998. Parlava perfettamente
diverse lingue: russo, arabo, israeliano, inglese, francese, italiano e greco. Giocavo a scacchi con lui, io ero più bravo, ma lui era più anziano
e qualche volta lo facevo vincere, perché altrimenti ci rimaneva male
e non giocava più. In tutti questi anni non l’ho mai perso di vista, gli
ho sempre mandato e mi sono sempre arrivati i suoi saluti da un carcere all’altro.
In tutti questi anni Khalid ha sempre partecipato a tutte le iniziative del movimento degli ergastolani in lotta per la vita per l’abolizione
dell’ergastolo. Ha partecipato a due scioperi della fame, quello dal primo dicembre 2007 ad oltranza e quello del primo dicembre del 2008
a staffetta.
Nell’anno del 2007 anche lui ha fatto parte di quei 310 ergastolani
che hanno chiesto la pena di morte in sostituzione dell’ergastolo al
Presidente della Repubblica.
Molti, troppi, di quella famosa lista sono morti di suicidio o di morte naturale, ma l’ergastolo ostativo a tutti i benefici esiste ancora. Il
carcere in questo strano Paese viene usato solo come un luogo dove
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s’invecchia e si muore. L’ergastolo in Italia trasforma la giustizia in
vendetta e violenza.
Io e Khalid nelle nostre passeggiate all’aria parlavamo spesso di politica, di Dio e della morte. La pensavamo quasi allo stesso modo, tutti e due atei, lui comunista, io anarchico, e della morte, quando capita ad un ergastolano, dicevamo che è giusta, bella e buona.
Khalid, se tutte e due ci siamo sbagliati ed esiste l’aldilà e incontri il
diavolo, salutamelo, sicuramente sarà molto più giusto e umano dei
politici e dei giudici italiani che ti hanno fatto morire, stanco e malato fra quattro mura. Un uomo che combatte per la libertà del suo popolo non dovrebbe mai morire in carcere, lontano dalla sua terra, dalla sua gente e dalla sua famiglia.
Una frase che ha scritto Maria su Aziz, un ragazzo morto suicida nel
carcere di Spoleto: “Ogni uomo che si toglie la vita in carcere lo fa anche per causa mia, per un qualcosa che io non ho fatto, per un’attenzione ad una sofferenza che non ho voluto o saputo vedere”.
In un certo modo la stessa cosa è accaduta anche per te. Addio Khalid, riposa in pace, ora sarai di sicuro in un posto migliore dell’Italia,
un Paese crudele che tiene e fa morire una persona anziana e malata
di 79 anni chiuso a chiave in una cella. Buona morte.
Agosto 2011. Con una lettera al presidente Napolitano viene
rinnovata ‘ufficialmente’ la richiesta di introdurre la pena di
morte. La firma, quasi a comporre un ossimoro: gli ergastolani
in lotta per la vita.
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Signor Presidente della Repubblica,
ci sono delle sere che il pensiero che possiamo rimanere in carcere
per tutta la vita non ci fa dormire. E la speranza è un’arma pericolosa. Si può ritorcere contro di noi. Se però avessimo un fine pena… Se
sapessimo il giorno, il mese e l’anno che potessimo uscire… Forse riusciremo a essere delle persone migliori… Forse riusciremo a essere
delle persone più umane… Forse riusciremo a non essere più delle
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belve chiuse in gabbia. Signor Presidente della Repubblica, noi “uomini ombra” non possiamo avere un futuro migliore, perché noi non
abbiamo più nessun futuro. E per lo Stato noi non esistiamo, siamo
come dei morti. Siamo solo come carne viva immagazzinata in una
cella a morire. Eppure a volte, quando ci dimentichiamo di essere delle belve, noi ci sentiamo ancora vivi. E questo è il dolore più grande
per degli uomini condannati ad essere morti. A che serve essere vivi
se non abbiamo nessuna possibilità di vivere? Se non sappiamo quando finisce la nostra pena? Se siamo destinati a essere colpevoli e cattivi per sempre? Signor Presidente della Repubblica, molti di noi si sono già uccisi da soli, l’ultimo proprio in questo carcere il mese scorso,
altri non riescono ad uccidersi da soli, ci aiuti a farlo Lei. E come abbiamo fatto quattro anni fa, Le chiediamo di nuovo di tramutare la
pena dell’ergastolo in pena di morte.
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GLI ERGASTOLANI IN LOTTA PER LA VITA DEL CARCERE DI SPOLETO.
luglio 2011
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L’opinione pubblica
Cattivi per sempre. È il giudizio che l’opinione pubblica normalmente ha di persone che compiono delitti particolarmente
efferati. Una propensione favorita e a volte esasperata sull’onda
emotiva di campagne anche mediatiche per la sicurezza, legate
a momenti di vere o presunte emergenze di vario tipo. Ma
quando si parla di criminalità organizzata, mafia e quant’altro, questo giudizio, cattivi per sempre, diventa pregiudizio, difficile da modificare.
Delle argomentazioni per convincere l’opinione pubblica
del proprio cambiamento
ANTONIO PRESTA. Come convincere l’opinione pubblica della non peri-
124
colosità sociale?
Attraverso l’unico strumento che lo Stato ci ha messo a disposizione per dimostrarlo, sperimentandolo anche concretamente: l’espiazione di una pena adeguata, il trattamento intramurario, fatto dello
studio della personalità, dell’indagine psicologica, criminologica e sociale che il detenuto supporta aderendo spontaneamente affinché ciò
arrivi al compimento. Poi, il lavoro, lo studio, e tutte quelle attività che
il carcere mette a disposizione (seppur nei limiti di risorse sempre minori) e che il detenuto utilizza per migliorarsi e cambiarsi in meglio.
La pericolosità è un sinonimo dell’ergastolo, perché un ergastolano
è ritenuto pericoloso solo per il fatto di esserlo.
Dare giudizi sull’onda emotiva induce a considerazioni sconsiderate, alla stregua di chi si è macchiato di gravi reati non ragionando sulla conseguenza delle proprie azioni. Negli ultimi anni, proprio l’onda
emotiva “forcaiola” dell’opinione pubblica, ferita da quella definita
micro-criminalità che quotidianamente offende e lede la libertà e la
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legalità dei cittadini, ha indotto molti magistrati, e lo Stato, attraverso leggi e decreti in tema di sicurezza, a buttare quasi la chiave, e proprio per noi ergastolani, che nonostante 10-20-30 anni di carcerazione già espiata veniamo ulteriormente puniti, tanto da chiedere noi
stessi al Capo dello Stato la pena di morte: e posso assicurare che per
molti di noi non è solo una provocazione.
Se non sono bastati 10-20-30 anni di prigione a indurre la Società a
riflettere che nessuno può ragionevolmente decidere di chiudersi a vita in carcere, qualunque sia il motivo, se non un disvalore che ha circuito la persona, allora fate come decise il Concilio di Toledo del 675,
per i sacerdoti che avevano emesso o eseguito condanne a morte o a
mutilazione.1
Inviterei piuttosto i cittadini a formare un loro comitato cittadino e
conoscere da vicino se e come sono pericolosi gli ergastolani. In verità
scoprirebbero con loro grande stupore che assomigliamo molto a loro, in quanto persone con dei sentimenti e soprattutto con un grande
dolore e rimorso per i nostri errori, perché siamo cambiati dentro e
invecchiati fuori, ma purtroppo maledetti in modo perpetuo.
Restiamo nel nostro limbo preda del vostro sfogo, implorandovi di
farci almeno esalare l’ultimo respiro da persone, con l’illusione di essere esistiti come tali.
ANGELO SALVATORE VACCA. Purtroppo non è facile oggi convincere l’opi-
nione pubblica dato quello che subisce giornalmente. La gente però
non sa che chi combina i guai tutti i giorni, non sono persone cosiddette “mafiose”, ma persone che hanno problemi con la droga o con la
centralina che hanno in testa. Giustamente le persone sono stanche di
parcheggiare l’auto e di non trovarla più, o di sentirsi violata la privacy della propria casa, o peggio ancora di essere sequestrati e pic-
125
1
Il riferimento è all’introduzione dell’ergastolo come pena perpetua, intesa come
ozio forzato, avvenuto nel Medioevo, in particolare nella Chiesa medievale. Il termine compare ad esempio in un canone del Concilio di Toledo del 675, per il quale i sacerdoti che avevano emesso o eseguito condanne a morte o a mutilazione, erano rinchiusi in “ergastula” a far penitenza delle loro colpe “vita natural durante”.
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chiati nella propria casa. Quelli che compiono questi tipi di reati però
non fanno parte delle associazioni criminali, e quelli che commettono tali reati se vengono presi dopo un po’ sono di nuovo fuori. Ma le
persone ci considerano tutti uguali.
Io posso affermare che quando ero fuori con i miei compagni si andava a caccia delle persone che commettevano questi reati e quando li
prendevamo erano botte. Con questo non voglio affermare che i nostri gesti erano corretti perché in qualche modo ci sostituivamo alla
giustizia, ma posso affermare che come metodo funzionava.
Comunque una persona come noi può convincere l’opinione pubblica della nostra non pericolosità dimostrandolo fuori, lavorando, rispettando la società e le sue leggi ed anche dedicando parte del suo
tempo alla società stessa per rimediare in qualche modo agli errori
commessi.
Dateci quest’ultima possibilità.
GIOVANNI LENTINI. Abbiamo bisogno di fiducia, di far conoscere il buono
che c’è in ognuno di noi mettendolo a disposizione della Società; come possiamo dimostrare la nostra non pericolosità sociale chiusi 20
ore al giorno in una cella isolati dal resto del mondo?
LUIGI PECICCIA. Chiediamo allo Stato che ci sia un’opportunità anche
per noi. Un vero Stato Democratico non ha paura di rieducare e reinserire. L’opinione pubblica potrebbe essere convinta solo vedendo all’opera le persone, perciò se le leggi rimangono repressive e non rispettano l’art. 27 della Costituzione italiana, nessuno potrà dimostrare mai niente.
PAOLO AMICO E ALFREDO SOLE. Come dimostrare la nostra non pericolosità
126
sociale? Trent’anni di carcere non basterebbero a dimostrarlo? A meno di non essere impazziti, quale essere umano dopo aver scontato
una vita di carcere e riottenuta la libertà, tornerebbe a fare del male?
Siamo consapevoli dei nostri errori e non cerchiamo un gesto di
“pietà”, ma il rispetto della Costituzione. Non chiediamo allo Stato di
liberarci, chiediamo una data sul calendario.
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SALVATORE DIACCIOLI. Non dobbiamo essere noi a convincere l’opinione
pubblica della nostra non pericolosità sociale, ma lo deve fare chi ogni
giorno segue il nostro trattamento rieducativo. Noi non chiediamo di
essere messi in libertà, perché siamo pienamente consapevoli e d’accordo che ognuno di noi deve espiare le proprie colpe (se colpe abbiamo), noi desideriamo solo di avere una speranza di luce.
Il tempo, il lungo tempo trascorso in carcere cambia le persone, ci
fa maturare. Vivere in carcere per 20-30 anni non è cosa facile; tanti di
noi lo hanno già fatto, siamo entrati grandi e stiamo diventando vecchi, eravamo solo dei papà e oggi siamo nonni e magari bisnonni, i
giovani invecchiando e qualcuno non ha neppure i figli. A che serve
questa pena, se non mi dai tu Stato modo di dimostrarti che sei riuscito a cambiarmi?
GIANNI ZITO. Abolendo l’art. 4 bis si può avere la speranza di dimostra-
re che l’ergastolo può cambiare una persona, perché l’art. 27 della Costituzione lo prevede per legge. L’opinione pubblica non può tenere
un uomo fattosi vecchio dentro quattro mura, perché per lui si spengono le luci della vita e del tramonto. Ogni recupero possibile e immaginabile deve essere fatto e affrontato con mezzi adeguati.
Quando Gesù fu messo in croce chi fu condannato, Roma o i romani?
Di un confronto con Omar ed Erika
Perché l’opinione pubblica accetta che Omar non sia più il feroce assassino che aiutò Erika ad uccidere madre e fratellino e
non accetta che cambi chi ha commesso reati in odor di mafia?
GIOVANNI MARCO AVARELLO. È difficile da dire, probabilmente perché
127
Omar, all’epoca, era un ragazzino, e quindi facilmente perdonabile
dall’opinione pubblica. Oppure perché si tratta di un duplice omicidio commesso dentro le pareti domestiche, in famiglia, per cui si
pensa più ad una tragedia che ad un crimine vero e proprio. La gente dovrebbe sapere che il cambiamento interiore di un omicida può
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avvenire indipendentemente dalla tipologia del reato in questione,
che siano mafiosi, che siano brigatisti, che siano serial killer, tutti
possono cambiare. Il ravvedimento fa parte della crescita morale,
etica, di ogni individuo.
GIUSEPPE PULLARA. Omar ed Erika sono due giovani ragazzi che han-
no commesso un orrendo ed indegno delitto perché volevano vivere la vita bruciando i tempi. Tutti siamo stati giovani e tutti abbiamo mal tollerato i vincoli e le rimembranze al dovere di ascoltare
papà e mamma perché vogliono soltanto il bene dei figli. Ma “nessuno” pur non sopportando le imposizioni ha deciso di eliminarli
fisicamente. Ciò avviene per una forte debolezza psichica, per l’uso
di stupefacenti che privano di razionalità, oppure perché si è privi
di anima (inteso spiritualmente). I nostri legislatori ritengono che
gli autori di un tale crimine (questo vale anche per i pedofili assassini omicidi comuni, in famiglia, in banca, ecc.) possono ritornare
in libertà. Mentre per i soggetti condannati per reati di sangue e ritenuti affiliati ad una consorteria mafiosa, che si difendono la vita,
viene preclusa ogni possibilità di libertà se non si collabora con la
giustizia!
PASQUALE DE FEO. L’opinione pubblica è influenzata dai media e pertan-
128
to sono questi che decidono contro chi veicolare i bassi istinti della
popolazione, i professionisti dell’odio, che hanno fatto carriera e fortuna al servizio dei potenti, alimentando teoremi e aizzando gli istinti primordiali della gente, facendo sospendere la legalità e i diritti nei
tribunali e nelle carceri, hanno talmente instillato un odio atavico, da
farlo identificare con il pregiudizio ancestrale contro gli zingari, gli
ebrei, gli stranieri, etc. Sono circa 20 anni che si va ripetendo come
una litania che tutti i mali dello Stato sono da attribuire a chi è finito
in carcere. Ancora oggi questi signori continuano, anche dopo che più
soggetti autorevoli hanno dichiarato che le stragi degli anni ‘90, che
hanno causato tutte queste leggi emergenziali e la tortura legalizzata
del 41bis, sono stragi di Stato, una sorta di strategia della tensione si-
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mile a quella degli anni ‘60-‘70.2 Per questi fatti i detenuti sono stati
messi alla gogna, oppressi e compressi tutti i loro diritti, mentre i poteri forti hanno saccheggiato e imperversato nella cosa pubblica; la
politica ha pensato a coprire le sue malefatte e ad aumentare i privilegi. Purtroppo si continua a plasmare la realtà secondo gli interessi
funzionali della politica e dei poteri dell’alta finanza; mentre noi “poveri cristi” siamo destinati come sempre ad essere animali da macello.
ELIO ROTONDALE. L’opinione pubblica ha ragione, guarda la mafia come
aggregazione del male, quasi come un’ “istituzione del male”. Secondo
me, però, se si soffermasse un attimo sul fatto che anche la mafia è costituita da persone, adotterebbe lo stesso metro di paragone che adotta con persone come Omar. Il concetto è: tutte le persone possono
cambiare. Altrimenti le bolleremo tutte come “irrecuperabili” e Omar
sarebbe in prigione.
DOMENICO PACE. L’opinione pubblica rappresenta la società civile e co-
me tale si deve comportare verso tutti quelli che hanno avuto un passato poco chiaro ma desiderano un futuro chiarissimo per dimostrare che anche un condannato per mafia può essere un Omar del domani con tutti i requisiti che la società civile richiede.
GIOVANNI ZITO. …non credo si possano fare dei paragoni con persone
come noi ergastolani ostativi per tanti motivi: 1 – perché se il reato
commesso da Omar ed Erika è feroce nel vero senso della parola, visto che hanno inflitto 99 coltellate divenendo loro stessi vittime e car-
129
2
Le stragi degli anni 1992-93 (l’uccisione dei giudici Falcone e Borsellino con le loro
scorte, le bombe di Firenze, Roma e Milano) vengono comunemente pensate come
stragi di mafia. Ma dopo le rivelazioni del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza si torna a parlare di “trattativa” tra Stato e mafia. Recentemente i pm di Caltanissetta, che seguono la pista che nelle stragi mafiose degli anni ‘90 vede accanto Cosa
nostra e Servizi segreti, hanno chiesto di far cadere il segreto di Stato su alcuni fascicoli e l’inchiesta di Caltanissetta punta oggi sugli apparati dello Stato, su alcuni funzionari della sicurezza che avrebbero collaborato o partecipato alle stragi.
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nefici così come le loro famiglie, resta sempre un reato commesso da
minorenni nella mente lucida e preda della giovinezza. 2 – non sono
del Sud e quindi l’opinione pubblica accetta il loro reato ma non la
colpa o il rimorso che prima o poi espieranno davanti a Dio onnipotente. 3 – per noi gente del Sud basta un niente, non solo perché già
in partenza si suppone che abbiamo commesso il reato, ma poi subito si inizia con la storia “presi i mafiosi di Tizio e Caio”, subito fanno
un processo nel processo e, per qualsiasi punto un uomo si voglia o si
possa difendere, si condanna all’ergastolo, che diventa ostativo; e questo lo dico come opinione personale visto che al sottoscritto, più cercava di difendersi, e più gli hanno tolto vita ed esistenza.
SEBASTIANO MILAZZO. L’opinione pubblica accetta di perdonare Omar,
130
perché è stato rappresentato come chi ha avuto un attimo di blackout nel cervello e la gente ha finito di vedere in Omar la propria immagine riflessa.
Anche i coniugi di Erba, se sono realmente colpevoli, hanno commesso qualcosa di atroce come Omar e Erica, ma nessuno accetterebbe il fatto che possano cambiare, perché la reazione della gente dipende dal modo in cui viene presentata la notizia.
Lo stesso discorso vale per chi è stato condannato per reati di mafia. Anche quando non c’è stato niente, nei suoi confronti realtà e
finzione si equivalgono per tutto quel gioco di circostanze che gli
costruiscono intorno politici, scrittori, pensatori di corte e tribuni
d’ogni genere, i quali, anche quando le circostanze non lo giustificano, descrivono universi di eventi e di misteri, opinioni, e pregiudizi,
per poi ridurre la complessità in uno slogan che crea un clima d’attesa del peggio che deve ancora venire, per creare quel clima di ansia e di paura che rende sempre più florida l’industria più grande
che oggi esiste in Italia, l’industria dell’antimafia, utile anche per alzare una cortina fumogena sugli scandali pubblici forniti dalla cronaca quotidianamente.
Provate a contare quante volte viene pronunciata ogni volta in Italia la parola mafia sui media e poi provate a contare quante di quelle
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indagini sugli scandali pubblici si concludono con una condanna, e
dal confronto si capisce perché “non si deve” accettare che un accusato di mafia cambi.
Del cambiamento e dell’umanizzazione delle pene
SALVATORE GUZZETTA. Ma il cambiamento è sempre un evento atteso, da
quando esiste l’uomo è stato una prerogativa delle cose, è cambiato
l’uomo, da Neanderthal a uomo Sapiens, cambiano le stagioni i tempi, anche la radicata cultura omertosa del Sud sta cambiando ed è un
bene per le nuove generazioni, l’istruzione e la fiducia aiutano il cambiamento.
PASQUALE DE FEO. …è un lento e inesorabile cambiamento di se stessi.
Nel tempo il processo arriverà alla conclusione. Ma è difficile senza
l’aiuto di qualcuno; la determinazione e la volontà sopperiscono alla
sterilità del luogo e di chi lo gestisce. Se lo Stato usasse le sue strutture per ridare fiducia, per ricostruire l’autostima e responsabilizzare, il
processo di cambiamento sarebbe più agevolato. Purtroppo la paura
e l’insicurezza sono moneta sonante in politica, e non c’è nessun interesse ad applicare al sistema penitenziario il modello del carcere di
Bollate.
Io continuo a cambiare me stesso per trasformare il mondo che mi
circonda.
GIOVANNI ZITO. Io credo nel cambiamento di un detenuto ergastolano
131
ostativo.
Il mutare nel tempo e nelle circostanze, il luogo in cui si deve vivere fanno riflettere e rispecchiare la propria identità. L’uomo davanti a
Dio Onnipotente può trovare il perdono sia dell’anima e sia fisico. La
sofferenza però è perpetua…
Bisogna riformare tutto il Codice penale da ogni punto di vista. Non
servono pene più aspre, non servono più carceri da fare; ci vogliono
nuove regole, ci vuole un lavoro, ma se la politica continua per come
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sta facendo adesso si resta sempre nello stesso brodo e si mangia la solita minestra riscaldata. Non bisogna fare processi sommari e non bisogna giudicare prima del processo. Nessuno ha il diritto di puntare il
dito verso il proprio simile; lo sbaglio, l’errore è ammesso, lo dice anche il codice.
Ognuno di noi sa di scontare la propria pena con dignità e onestà.
Non si cerca una giustizia ma solo l’abolizione del 4 bis, perché non
siamo animali né tanto meno bestie da trasportare da un carcere all’altro; siamo umani e abbiamo diritto di avere ciò che rimane della
nostra vita.
GIUSEPPE PULLARA. Noi chiediamo allo Stato di non vendicarsi su uomi-
ni o donne, sepolti vivi da oltre 20 anni, perché sono persone svuotate del passato e abbiamo bisogno di una carezza paterna, senza paternale, perché un soggetto che perde la libertà per 20 anni e più, perde
tutti gli “amici”, perde gran parte della famiglia, se non tutta, tra lutti
e lontananza, perde il senso della realtà e cerca una rinascita, iniziata
in carcere, interiormente, fuori nel mondo e per il mondo, anche se
sarà solamente quella zolla di terra in cui gli è concesso di vivere. L’opinione pubblica avrà sempre timore del soggetto che ha o avrebbe
commesso un delitto di sangue, se non si comincia ad avvicinare le distanze che ci separano con degli approcci umani, volti a farci conoscere come uomini e non indicati con il nome del reato, assassini,
ecc… Basta una lacrima d’amore per spazzare via l’odio, la paura, la
diffidenza dai cuori!
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SEBASTIANO PRINO. Reputo difficile per un uomo a distanza di un lungo
periodo di tempo, sia questo trascorso in cattività o libertà, non attraversare fasi di rivalutazione della propria vita. Poiché ciò significherebbe contrapporsi all’evoluzione stessa dell’uomo, negare quel
principio di rinascita morale decantato dai romantici dell’illuminismo europeo nella vasta letteratura che ci hanno lasciato in eredità e
da cui abbiamo tratto le fondamenta del nostro modello di vita sociale.
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133
Infatti, basta leggere i Promessi Sposi di Manzoni, Delitto e Castigo di
Dostoevskij e tanti altri scrittori di quell’epoca, per capire l’importanza che essi davano a personaggi come l’Innominato o Raskolnikov,
che in un primo momento emergono dalle pagine dei loro libri come
figure negative per poi incarnare il simbolo della redenzione.
Personaggi forse di fantasia, ma quanto attinenti alla realtà di ieri e
di oggi, creati allo scopo di far capire ai propri contemporanei e alle
generazioni future il fatto che qualsiasi uomo non è malvagio per
sempre. Anzi spesso chi viene aiutato a “rialzarsi” diventa migliore di
tanti altri per il semplice motivo che ha “vissuto”.
In questi anni nel mio girovagare da un istituto all’altro, ho incontrato uomini che si trovano ininterrottamente in carcere da oltre 30
anni, ad espiare pene anacronistiche, per colpe superate non solo dal
nuovo concetto di vita acquisito, ma dal tempo stesso, e quindi irripetibili!
E credetemi, in tutti gli ergastolani che ho incontrato c’è stato un
profondo cambiamento, pur se consapevoli, in quanto ostativi, di dover morire in carcere. Nel luogo dove d’altronde hanno vissuto più a
lungo.
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Il Perdono
La parola ‘perdono’, così come il termine ‘pentito’, dopo le norme emergenziali introdotte anche per favorire la collaborazione
con la giustizia di persone legate alla criminalità organizzata,
sembra muoversi entro confini incerti. Ritorna l’esigenza di distinguere: fra i moti dell’animo e i meccanismi della Giustizia.
Del perdono degli uomini, del perdono di Dio.
Settanta volte sempre…
ANTONIO PRESTA. Il perdono è un percorso interiore che spetta solo e
unicamente alle vittime dei reati. Il come (?) e il quando (?) è tutt’altro percorso, perché una vittima, prima che il “come” e il “quando”, si
chiede “perché?”. E allora sarà la coscienza di chi si macchia di determinati reati a rispondere in prima persona a se stesso e alle vittime a
questa domanda. Per quanto mi riguarda faccio una distinzione tra la
pena, che riguarda una sanzione giuridica, e l’offesa del reato, che investe una condotta morale del reo. Se si vuole soddisfare entrambi i
requisiti, per dirsi pentito con se stesso, e si è nelle condizioni di farlo, è doveroso almeno cercare il perdono e fare una credibile revisione critica della propria condotta.
134
SALVATORE VACCA. Ricordo che anni fa un detenuto anziano mi disse: “Il
vero mafioso è quello che non ottiene il rispetto incutendo terrore,
ma conquistandoselo; soprattutto il vero mafioso rispetta donne e
bambini, non farebbe loro del male per nessun motivo”.
Per quanto riguarda il perdono la nostra società si definisce cattolica, ma pochi sanno che per essere buoni cristiani bisogna saper perdonare. Il perdono è alla base del cattolicesimo. Basti pensare a San
Paolo che ha sterminato un numero elevato di cristiani, ma alla fine
si è pentito di quello che ha commesso ed è diventato Santo.
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CIRO BRUNO. Non è facile perdonare chi ti ha provocato del male, que-
sto proprio perché il male che uno ha subìto acquista dimensioni in
cui il perdono non solo può apparire impossibile, ma risultare quasi
colpevole. Approvo il perdono, e proprio perché lo considero difficile, quasi inarrivabile, ne sono affascinato. Affrontarlo diventa quasi
una sfida con la propria coscienza, forse è anche per questo motivo
che non condivido l’espressione “occhio per occhio”.
Io vorrei veramente dire “ti perdono”, perché quel gesto potrebbe seriamente cambiare chi ha commesso il male e far sì che il tempo che
dovrà scontare rinchiuso dietro le sbarre non diventi occasione per
farlo sentire solo, maledetto e osceno, il che lo renderebbe ancora più
disumano. Sarebbe bello e anche necessario saper promuovere un’azione positiva. Il perdono allora mostrerebbe il volto dell’uomo fatto
di comprensione, senza dimenticare un serio riconoscimento del dolore.
PASQUALE DE FEO. Cosa è il perdono? Non so dare una giusta definizio-
ne. Credo che le parole di Gesù, “perdonare settanta volte, sempre…”
momentaneamente sono un po’ difficili da applicare, ma rispettare il
prossimo aiuterebbe ad essere più concilianti e concedere il perdono.
GIUSEPPE IOVINELLA. Il perdono è un sentimento che può nascere solo
quando dentro l’animo di un uomo c’è la pace e la serenità. Fino ad
allora quel sentimento non può sbocciare e fino ad allora si vive con
un dolore lancinante al cuore.
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GIROLAMO RANNESI. Chi ha fede direbbe, ti saranno perdonati i tuoi peccati nella stessa misura con cui tu hai perdonato, altresì chi giudica con
durezza sarà giudicato con durezza dal padre mio che sta nei cieli (Gesù). Chi scrive ha fede.
Perdonare se stessi è duro. Sì, è proprio duro. Tuttavia bisognerebbe
trovare la forza e il coraggio di darsi un’attenuante.
Certo che la società ha delle responsabilità nei confronti di chi sbaglia. Non siamo forse nati tutti bambini? Tanti di noi non sono forse
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cresciuti in quartieri dove la presenza delle istituzioni era assente?
Forse che chi ha sbagliato non è figlio di questa società?
GIOVANNI ZITO. Il perdono arriva quando si dimostra quanto un essere
umano mette in gioco quello che gli resta da vivere, chiedendo ancora una volta la propria fiducia dimostrando che il cambiamento esiste
se gli si dà la possibilità di vivere nella speranza di un domani migliore.
CARMELO MUSUMECI. Il perdono è il sentimento che ti fa stare bene e ti fa
andare d’accordo con l’universo. Il perdono, secondo me, è nel cuore
di tutte le persone, basta cercarlo.
Ma uccidere gente e scioglierla nell’acido, come può essere
perdonato?
SALVATORE DIACCIOLI. Sì è vero, come si può perdonare una persona che
si è macchiata di un così feroce crimine; per una mamma, un papà, un
familiare è cosa inconcepibile e prima che avvenga, se avviene, ci vorrà
del tempo. Ma in un Paese democratico e civilizzato come il nostro
non si può rimanere colpevoli per tutta la vita. Brusca il pentito di
mafia (l’autore di questo meschino e feroce assassinio)1 è stato perdonato perfino dai signori giudici, non vedo perché non dobbiamo essere perdonati noi che rispetto ai delitti di cui si è macchiato Brusca
(fra cui la morte del piccolo Matteo) siamo molto ma molto più lontani. Ci sono collaboranti (come Brusca) che con centinaia di morti
1
136
Giovanni Brusca, l’ex capomafia di San Giuseppe Jato, ha svolto un ruolo fondamentale nella strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie
e gli uomini della scorta. Giovanni Brusca si è autoaccusato di un centinaio di omicidi tra i quali quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio di un pentito, strangolato e sciolto nell’acido per vendetta nei confronti del padre. Arrestato nel 1996,
nel 2004 gli viene concessa la possibilità di ottenere permessi premio per uscire dal
carcere. L’autorizzazione è motivata con la buona condotta del detenuto. Successivamente perde i benefici per violazione delle norme sui benefici carcerari.
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che hanno alle spalle già sono fuori, e fra di noi (uomini ombra con
l’ergastolo ostativo) ci sono giovani che per aver venduto una pistola
si trovano in carcere con un “fine pena mai”. Questa non è giustezza
né mai lo sarà.
PAOLO AMICO e ALFREDO SOLE. …di cosa stiamo parlando, di quale penti-
mento? Forse che chi ha commesso questi reati deve stare libero perché “pentito”, e chi non ha commesso reati dello stesso genere, ma che
non collabora, deve anche pagare le loro colpe? Giustamente si chiede: “Come potrebbe essere perdonata una persona del genere?”. Ma è
stato già fatto! Sono quei “pentiti” di cui tanto l’Italia si gloria.
ALFIO FICHERA. …risponderei che lo Stato italiano è stato capace di per-
donare stragi come quelle di Bologna…2 Io, che non ho mai disciolto
nell’acido nessuno, non porrei la questione sotto l’aspetto del “perdono”, bensì io Stato e popolo mi prenderei una parte di responsabilità
per non aver saputo prevenire ed evitare che taluni fatti criminosi si
verificassero. Non cavalcherei il fenomeno del disagio per costruirvi
sopra luminose carriere. Il crimine colpisce quasi allo stesso modo chi
lo subisce e chi lo commette, e negli ultimi 20 anni abbiamo visto che
la strada della sola repressione non è servita che ad amplificare il fenomeno. Rimane di rimuovere le condizioni di ingiustizia economica
e sociale, se vogliamo davvero liberarci tutti.
GIUSEPPE PULLARA. Il perdono a tale gente non può essere dato, ma nem-
meno gli si può dare una morte silenziosa agli occhi dell’opinione
pubblica, per torturarlo psicologicamente tutti i giorni togliendogli la
2
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Nel 2004 Il Tribunale di sorveglianza di Roma concede la libertà condizionata a Valerio Fioravanti, condannato all’ergastolo per la strage di Bologna, beneficio previsto
qualora “il detenuto abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo
ravvedimento”. Nel 2008 Francesca Mambro, condannata all’ergastolo per quella
strage, ottiene la libertà condizionata, e a Luigi Ciavardini, condannato a 30 anni di
carcere, è concessa la semilibertà. Al termine dei cinque anni di libertà condizionata, Valerio Fioravanti torna in libertà.
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speranza di dimostrare il cambiamento interiore. Un “Padre” guarisce
i propri figli con l’amore, perché sa di perderli del tutto se li castiga
ogni giorno per un male commesso nel passato lontano. Così comincia a dargli un po’ di fiducia alla volta…
LUIGI PECICCIA. Certo, chi uccide bambini e li scioglie nell’acido non è
perdonabile. Ciò non toglie che si possa fare uno sforzo per superare
questa affermazione. L’importante è che il reo sia cosciente dell’abominio commesso e segua un cammino di cambiamento, da non
confondere con il pentimento davanti alla Magistratura.
ROCCO SPENA.3 “Perdonare” è un termine derivante dal Latino Medioe-
vale (XIII sec-1250 d.C.) di chiara matrice religiosa cristiana. L’indulgenza all’epoca era e veniva applicata ai peccatori, o rei colpevoli di
reati, attraverso la preghiera. E venivano perdonati reati ed eccidi anche atroci perché in quell’epoca molto diffusi erano i delitti determinati da duelli, d’onore, per propria difesa o difesa della proprietà, per
il potere e tante cause ancora. Naturalmente il grado di civiltà era
molto meno emancipato di quello odierno. Ciò non toglie che anche
oggi vengono commessi efferati e atroci delitti. E a meno che non si
tratti di pura insania, logica vorrebbe che sciogliere nell’acido una
persona dopo averla uccisa potrebbe equivalere a essere intenzionati a
far scomparire il corpo del reato. Comunque, eseguito o meno un gesto del genere, io già per essere perdonato pregherei. Pregherei molto!
Naturalmente Dio, affinché indulga il compimento del mio gesto, indipendentemente da quale sia il motivo o la ragione da cui possa essere scaturito.
Mi scuso, però, per la provocazione: il pentito Brusca Giovanni, che
ha sciolto nell’acido il dodicenne Di Matteo, oggi può essere libero e
gode di protezione e rendita per sé e la sua famiglia. Che oggi i giudici e lo Stato, avendolo perdonato, si sono sostituiti a Dio?
3
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Rocco Spena non ha condanna all’ergastolo, ma ha voluto dare alcuni contributi,
che volentieri accogliamo.
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Uccidere
Leggendo i nomi e i luoghi d’origine delle persone che compaiono in questo libro, vi accorgerete che provengono tutti da Sicilia,
Campania, Puglia, Calabria, Sardegna… insomma da terre del
Sud; a parte un albanese, ma anche l’Albania può essere ascritta a Paese del Sud. Non è una giustificazione, ma gli omicidi che
hanno portato in carcere i più sono maturati in ambienti dove
entrare nella spirale della violenza è tanto facile quanto difficile
poi uscirne, se non si conosce altra cultura. Ambienti “non così
salubri”, dove capita che “si ammazza per non essere uccisi”.
Dell’omicidio
Rispondendo a Giulia che chiede: quando hai ucciso sapevi
quello che facevi?
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GERTI GJENERALI. Premetto che chi ti scrive ha visto con i propri occhi, e
vissuto con le proprie speranze ambizioni e paure due guerre civili.
Chi scrive le ha combattute con il proprio corpo.
Una risale al 1991, tu forse eri molto piccola, è successo con la caduta del regime comunista nel mio Paese: l’Albania. Un’altra poi nel
1997 per motivi finanziari, per bancarotta delle casse dello Stato. Un
anno di follia, il Paese nel caos più totale.
Per quello che è la mia esperienza personale potrei dirti che ci sono
molte forze che possono essere in grado di portare un uomo a commettere un omicidio.
In alcune situazioni non hai molta scelta. In mezzo a tutto quel casino non è semplice parlare, discutere, ragionare. Ci sono momenti in
cui non hai il tempo per aspettare di esser preso dagli scrupoli di coscienza.
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Questo può accadere quando immagini di trovarti in un contesto,
ma quando ti ci trovi realmente nel vortice della vita, di quella vita,
non funziona così.
Sai come funziona?
Giulia, lo so che stai pensando che non posso avere la presunzione di
insegnarti niente, e visto che lo so, permettimi di chiamare rinforzi.
Conosci Fabrizio de André?
Sei giovane, ma forse ne hai sentito parlare. È stato uno dei più
grandi cantautori, poeti e pensatori del vostro secondo Novecento, e
in una sua bella canzone dice più o meno così: “E mentre marciavi
con l’anima in spalle, vedesti un uomo in fondo alla valle, che aveva il
tuo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore. Sparagli
Piero, sparagli ora e dopo un colpo sparagli ancora, fino a che tu non
lo vedrai esangue cadere in terra a coprire il suo sangue. E mentre gli
spari in fronte o nel cuore, soltanto il tempo avrà per morire, ma il
tempo a me resterà per vedere, vedere gli occhi di un uomo che muore. E mentre gli usi questa premura, quello si volta, ti vede, ha paura,
ed imbracciata l’artiglieria non ti ricambia la cortesia…”.
Giulia, a me puoi anche non credere, ma lui era uno intelligente,
sensibile e colto, lui è credibile, era una brava persona, a lui puoi credere. Capisci cosa intendo? Hai capito come funziona?
Giulia, o uccidi o muori in certe situazioni, senza tanta scelta, e Piero è morto mentre pensava di non voler uccidere.
Io non sono Piero, Giulia, ed essendo io un povero egoista ho fatto
quello che avrebbe fatto la maggioranza degli uomini al mio posto.
Certo, non tutti, ma gli eroi sono pochi Giulia, e io tra vivere da assassino o morire da eroe, cosa ho scelto lo sai.
E dunque ho sparato e accoltellato, per ragioni che oggi sicuramente sembrano sciocche visto che ormai i protagonisti antagonisti di
queste vecchie e brutte storie non sono più nemici, ora sono tutti amici e democratici.
Giulia voglio essere sincero con te, e aggiungo che non solo ero consapevole, a volte eravamo anche orgogliosi di essere stati disposti a lottare
e a distruggere tutto per lasciar spazio alla realizzazione di un ideale.
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Sì, sapevo cosa facevo, ed ero anche convinto che fosse giusto.
Credevo in quello che facevo come credono in quello che fanno i
militari Americani che combattono e uccidono in Iraq, o come ci credono i vostri militari Italiani in Afghanistan.
Ti dirò di più, a volte facevamo anche una bella festa alla faccia dei
nemici eliminati.
Se mi sento in colpa?
Beh! Questo magari non me lo hai neanche chiesto, ma lascia che te
lo dica ugualmente.
Queste non sono colpe, sono macigni, e mi ci vorrebbero venti vite
per rimediare, ma questa è un’altra storia.
Ero convinto che fosse giusto, non giusto in assoluto non fraintendermi; giusto relativamente al contesto. Il mio Paese stava bruciando,
ed io e tanti altri ragazzi eravamo la mano armata dei Signori “illuministi” che agivano per il bene e nell’interesse del popolo, o così dicevano.
Sono cattivo eh?
Io so molto bene dove andrò dopo la morte, ho già il posto prenotato all’inferno!
Ma so altrettanto bene che non sarà con la mia morte che queste
“cattiverie” avranno fine.
Sono sicuro che nonostante la mia morte, e nonostante la mia eternità all’inferno dopo una vita in galera, l’uomo continuerà ad uccidere.
Lo farà per vivere, per il potere, per possedere più cose, per la libertà,
per la democrazia, per la religione, per vendicarsi, per questioni economiche, per piacere o per follia, e per tante altre ragioni.
Giulia è così, credimi. E forse sarà così sempre, o almeno finché voi
che siete ancora là fuori, non sarete riusciti a realizzare questa tanto
agognata società perfetta.
Io credevo di poterci riuscire, credevo di avere un buon progetto e
invece ho fallito.
Tu invece che mi dici, ce l’hai un buon progetto? Tu ci riuscirai Giulia?
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Beh, che dire, sarò anche cattivo Signorina, ma credimi che te lo auguro con tutto il cuore.
SEBASTIANO PRINO. Recentemente mi è capitato di leggere l’intervista
fatta ad un vecchio partigiano, che ad una domanda simile a questa
rispondeva: non avevo la consapevolezza di uccidere, avevo la consapevolezza di dover combattere con tutti i mezzi per difendere la mia
terra e i miei ideali. Solo dopo la fine del conflitto ho preso coscienza delle mie azioni e del fatto di aver in più occasioni ucciso per non
morire.
Ora essendo io cresciuto in un periodo di relativa pace tra i popoli,
ma non tra gli uomini di quel lembo di terra dove sono nato e, vista
la mia condizione di servo-pastore non avendo terre da difendere ma
semmai da usurpare per migliorare il mio status economico a quei
tempi, non mi sono mai preso la briga di considerare il mio operato.
Al pari del partigiano, seppur per ideali ben più meschini, ero in
guerra e il mio unico scopo era raggiungere l’obbiettivo che mi ero
prefissato: il rispetto degli altri e il benessere.
Adesso dopo anni di riflessione e di una seppur generica cultura derivata da un lungo periodo di studi, ho preso coscienza di aspetti che
prima non solo non consideravo, ma che probabilmente neanche recepivo nella loro interezza.
In conclusione di questo scritto mi sento di dirti che la consapevolezza di ciò che si fa, deriva in gran parte dalla formazione culturale e
intellettiva che l’uomo acquisisce nel corso della vita. E tanti, credimi,
impiegano molto più tempo di altri per farla propria.
CARMELO MUSUMECI. Se anche avessi ucciso non ho mai ucciso un inno-
142
cente; ma sinceramente il fatto di non aver avuto scelta, non basta a
farmi sentire innocente. Detto questo, Giulia, sento il dovere di dirti,
non è il mio caso, che quando una persona si dedica al crimine nella
maggioranza dei casi è colpa dello Stato e della società.
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Della causa prima degli omicidi. Guardandosi dentro,
guardandosi intorno….
143
SEBASTIANO MILAZZO. Guardandomi in giro e guardando me stesso mi
viene da parafrasare le parole di un professore di filosofia, Giuseppe
Ferraro, che ogni tanto ci viene a trovare da Napoli, e ci illumina con
le sue parole: “Si sbaglia per mancanza di conoscenza e per gli ambienti
dove siamo cresciuti, dove non abbiamo mai avuto parola, per non
averla mai sentita o per non avere mai avuto modo di apprenderla”.
L’uomo diventa ciò che l’ambiente sociale in cui vive gli consente di
essere.
Quando l’ambiente crea delle trappole, da cui si intuisce che è difficile uscire vivi, quelle trappole determinano l’irreparabile, perché impediscono di stare a contatto con le proprie intime identità. Quelle
trappole creano delle catene che non consentono di vedere le menzogne che ognuno racconta a se stesso, menzogne che col tempo diventano talmente radicate da sembrare verità.
Premesso che non esisterà mai una società di tutti belli, biondi e con
gli occhi azzurri, perché l’uomo è una mistura di bene e di male, premesso anche che quelli in carcere non sono sempre necessariamente
colpevoli e premesso che ogni uomo è un universo unico e irripetibile, solo la vera giustizia – sociale e giudiziaria – può contribuire ad attenuare il male, anche se non ad eliminarlo del tutto.
Una giustizia sociale che non consenta di dover ricevere i diritti come favori e una giustizia giudiziaria capace di guardare tutte le facce
del male sin dal primo manifestarsi, perché anche il male ritenuto minore, se stroncato al suo nascere, non genererà il male maggiore.
Quando si parla di certi ambienti e delle condizioni di violenza che
questi determinano sull’individuo, ci si dovrebbe domandare quanto
influisce l’essere cresciuti senza occasione di lavoro, senza luoghi di
relazioni sociali, senza diritti e senza speranze.
Se la scuola, la politica, la giustizia e tutte le istituzioni mostrano
esempi di onestà e fanno fino in fondo il loro dovere, intere generazioni hanno la possibilità di apprendere il sapere che evita la grande
parte di male che l’ignoranza produce.
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A quel punto resterà quella parte di male legata all’istinto e alla
mancanza di ragione, per la quale l’uomo non può fare nulla.
La giustizia attuale, ad esempio, che si vorrebbe cieca, ma che in
realtà vede benissimo dove orientare sempre e solo il suo furore, è la
maggiore causa scatenante del male, soprattutto quando per consentire un riscatto dal passato chiede la collaborazione, in questo modo
agisce per alimentare gli odi, il ricatto e le infamie che faranno nascere altro male e lo alimentano in una spirale interminabile.
ALFREDO SOLE. Non è come la decisione, non so …di uccidere il vicino
144
di casa per rabbia, dove la causa prima è l’odio per una singola persona, oppure uccidere per gelosia dove la causa prima è proprio la gelosia, o per una banale lite dove la causa prima potrebbe essere ricercata nell’iracondia di una persona, tutto sommato disturbata mentalmente. Nel “nostro mondo” spesso si uccide per non essere uccisi, può
sembrare un tentativo di giustificazione, se mai ce ne potesse essere
una, ma non è così, è solo la verità.
Purtroppo, molto spesso, entrando in questa spirale ci si convince
che per risolvere qualunque “disputa”, basta solo abbattere l’avversario. Da qui nascono reazioni di vendetta che non fanno altro che alimentare una violenza che difficilmente avrà fine.
L’ambiente e la società dove si nasce caratterizza chi siamo, e cosa
vorremmo diventare. Non credo che l’ambiente del Sud sia così salubre da svolgere questo delicato compito in modo positivo. Non bisogna poi stupirsi così tanto, cosa pretendere da quelle regioni del Sud,
che dalla fine della seconda guerra mondiale sono state abbandonate
a se stesse? Lo Stato per molto tempo è stato assente, lasciando che generazioni e generazioni si formassero inseguendo uno stereotipo che
altro non era che quello che oggi viene chiamato mafioso, ma che allora non era altro che la persona da rispettare e da emulare perché era
colui che risolveva i problemi che in realtà spettava allo Stato risolvere. Questo tipo di mentalità si è diffusa come un virus, infettando le
giovani menti in formazione di intere generazioni.
Che cosa si dovrebbe riuscire a cambiare affinché altri non si trovi-
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no nella nostra stessa condizione? L’educazione scolastica! Non basta
insegnare ai ragazzi la storia, la geografia ecc. Quello che manca è la
spinta a insegnare i veri valori umani. La nostra scuola è vecchia, non
si è evoluta di pari passo alla società e non può far fronte alla nuova
mentalità giovanile. L’identità sociale di un essere umano inizia a formarsi nella scuola, se si fallisce si avrà un outsider che inizierà a frequentare un’altra scuola, quella della strada. Per completare questa
nuova formazione, lo Stato provvederà a mandarlo nelle scuole specializzate, le carceri!
Ho fatto molte scelte sbagliate che mi hanno fatto approdare in questo posto, ma per azzerarle tutte, credo che basterebbe cambiare quello che io definisco l’inizio di tutto: non abbandonare le scuole e, forse, la mia strada sarebbe stata diversa.
CARMELO MUSUMECI. Non si nasce delinquenti ci si diventa. Detto questo,
un tempo c’erano in carcere giovani interpreti delle lotte sociali e politiche. Oggi vi sono soprattutto giovani tossicodipendenti, immigrati e poi tante persone del Sud per reati di criminalità organizzata perché nel profondo Sud lo Stato è sempre stato assente e nella maggioranza dei casi è stato più mafioso dei mafiosi, che ha usato e sfruttato
per raggiungere consensi elettorali.
L’esperienza del collegio, una volta era l’anticamera del carcere. Fin
da bambino ho avuto sempre un senso di giustizia che mi ha portato
a commettere i reati perché c’erano bambini che avevano tutto e io
non avevo nulla, neppure una famiglia che mi voleva bene. In carcere, come fuori, non ci sono colpevoli e innocenti, ci sono solo persone. L’innocenza è in ognuno di noi, basta trovarla.
ALFIO FICHERA. Sì, sono un “somaro”, ma non fino al punto di credere
145
che i colpevoli esistono in natura. I “lombrosiani” sono stati scientificamente sconfitti dalle moderne teorie sulla predestinazione genetica.
L’acido desossiribonucleico non riporta informazioni tali da individuare un declivio di carattere criminale.
Detto ciò, la maggiore colpa è artificiale e quindi è nell’assetto sociale sempre meno attento al suo ruolo di prevenzione.
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Se una volta fuori dopo tanti anni si è liberi veramente o si deve
qualcosa a qualcuno? Non so. Non sono mai uscito. È un’esperienza
che mi manca.
EMANUELE INTERLICI. Terrei a precisare che personalmente non ho mai
ucciso nessuno, e poi permettetemi di dire che se si è in quei contesti,
come può un ragazzo poco più che ventenne essere consapevole o cosciente di quello che fa?! Quindi direi che sarebbe giusto, prima di
puntare il dito, sapere come sono realmente i fatti e poi magari esprimere il proprio parere.
Come si diventa colpevoli? Non voglio giustificarmi e nemmeno mi
ritengo un santo, ma è pur vero che non si può essere indifferenti, a
casi come il mio, e come me ce ne sono tanti altri cascati in disgrazia
da ragazzi, dove è difficile distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato! E come si diventa innocenti? Ho scontato 20 anni di carcerazione, ma la cosa grave è che a pagare è anche la mia famiglia, mia moglie, subendo danni morali e psicologici. Che c’entrano loro? Ecco
tutto questo mi fa sentire innocente, saldando il debito con la giustizia. Ma badate bene che il danno che sto subendo è che ancora sono
in carcere! Quanto ancora devo pagare?!
146
ALFREDO SOLE. Ai ragazzi che oggi possono vivere situazioni simili a
quelle da noi vissute nel passato e che ci hanno portato fin qui, direi
per prima cosa di non inseguire stereotipi. Ognuno di voi ha un’identità personale e cercare di essere qualcun altro è solo sminuire se stessi. La seconda, che la vita non è poi così lunga come sembra quando
si è giovani. Ben presto, in men che si dica, vi troverete ad affrontare
la vita da adulti e bisogna arrivarci con un’identità personale già formata e con dei sani princìpi, per non cadere nelle numerose trappole
che la vita riserva. La terza cosa che direi è che i “soldi facili” non sono altro che il biglietto per l’inferno, quell’inferno creato dall’uomo
per l’uomo: il carcere!
Non esiste il “delitto perfetto”, alla fine si tirano le somme e quello
che rimane è sempre lo stesso, nulla! Zero! Il passato appartiene a voi,
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il presente allo Stato, il futuro al popolo, ma il nostro popolo non ha
mai imparato cos’è il perdono e se sbagliate, per voi, non ci sarà più
nessun futuro.
SEBASTIANO MILAZZO. Io direi una parola detta, credo, da Eduardo De Fi-
lippo: Jativinni, sino a che siete in tempo, da quelle terre che vi fanno
crescere soli, se non ve ne andate rimarrete sempre degli strumenti
utili a chi saccheggia le vostre terre, le vostre città e le vostre vite, approfittando del sapere del vero, del sapere del giusto, del sapere del
buono che, non a caso, continuano a non darvi.
Dell’uccidere, guardando al passato
DOMENICO PACE. La leggenda dice che il primo omicidio è avvenuto tra
due fratelli “Abele e Caino” e si è protratto nel tempo fino ai giorni nostri. Commettere un tale fatto è aberrante, ma tali eccidi non sono terminati e lo dimostrano i fatti recenti dove i figli uccidono i genitori e
viceversa. Nessuno può dire: Io di questo pane non ne mangio.
GIOVANNI ZITO. Le guerre, quindi la storia si pone domande su doman-
de. Si cambia il metodo, la formula, ma uccidere resta un fatto sia di
storia e sia di sopravvivenza, che si vinca o si perda l’essere umano
combatte da sempre in modo sbagliato o crudele che sia. L’inizio sono stati Caino e Abele, due fratelli. Ancora oggi ci sono guerre nel
mondo e quello che mostrano nella TV sono solo le briciole di un
mondo che piange i suoi morti nella convinzione della democrazia,
perché così dicono tutti. È solamente ipocrisia. Perché ogni morte è
devastante da ogni punto di vista si voglia vedere e capire. Forse sarebbe anche ora di togliere queste bende dagli occhi e guardare bene
dentro l’anima di un popolo.
GIOVANNI MARCO AVARELLO. In epoche passate si uccideva di più per sva-
147
riati motivi, per esempio per eseguire un ordine del superiore (in
guerra), per sopravvivere alla fame, per non essere sopraffatti, per se-
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te di vendetta, per il potere e così via. In epoche moderne, oggi, possibilmente si uccide di meno perché vi è più democrazia, vi è più benessere, ogni Paese ha una propria Costituzione da rispettare e far rispettare. Si uccide di meno perché la gente non è più ignorante come
una volta, c’è più istruzione, vi è più informazione, e via dicendo…
Coloro che hanno vissuto la propria vita senza aver commesso i peggiori reati, l’omicidio, sicuramente sono da considerare innanzitutto
fortunati, in quanto non sono mai stati travolti dal male, o comunque
hanno avuto la forza o l’intelligenza di schivarlo o di resistergli e credo che sono la stragrande maggioranza. I colpevoli invece – per fortuna una piccola minoranza – sono coloro che sono caduti in tentazione, lasciandosi ingannare dal male. Ma dietro ogni delitto c’è sempre una motivazione, una tragedia, nessuno è immune dalle disgrazie,
tutti possono avere un attimo di follie, un attimo di debolezza specialmente quando si è giovani, privi di esperienza di vita, basta una distrazione e sei fregato per tutta la vita.
PASQUALE DE FEO. Togliere la vita a un essere umano è un atto disuma-
148
no, perché la vita di ogni persona è un dono divino da rispettare. Se
amare il prossimo come se stessi non è umanamente possibile, rispettare il prossimo è alla portata di tutti, e ciò dovrebbe essere sufficiente per allontanare ogni pensiero malvagio.
In epoche passate uccidere era ritenuto risposta al torto subìto; i tribunali hanno definito, con l’applicazione della legge, la pena per i torti subiti, civilizzando il vincolo sociale dei comportamenti dei membri della comunità; ne consegue che chi infrange il patto con la società
ne paga le conseguenze. I tribunali e le leggi servono: non si può vivere in una società dove ognuno possa applicare la vendetta “occhio
per occhio e dente per dente”... con il tempo rimarremmo tutti ciechi
e senza denti. Oggi capisco tutte queste cose, un tempo conoscevo solo la legge della giungla. Essendo definitivo, per la legge italiana sono
colpevole, anche se sono innocente; ma a questo punto ha poca importanza.
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GIUSEPPE PULLARA. Uccidere un’altra persona è sbagliato senza “se” o
“ma”! Però l’uomo uccide da sempre, cioè da quando vive su questo
pianeta. Ad ogni epoca sono state applicate regole o Leggi, scritte o
non, che consentono e consentivano il diritto alla difesa o vendetta
qualora si subiva l’offesa. Tutt’oggi esistono culture dove la vendetta è
obbligata dalla famiglia come avviene nel popolo albanese, mentre nel
popolo italiano, avendo una cultura a macchia di leopardo, si distingue il Sud dal Nord per il carattere infuocato e reattivo alla violenza,
per via della mancanza della Legge e per il soverchiamento di coloro
che la detengono nei confronti dei soggetti comuni.
ELIO ROTONDALE. La gente uccide in tanti modi: ignoranza, cattiveria, di-
fesa, sete di potere e in nome delle religioni ecc... Tuttora si continua
a farlo, forse perché non ancora si è raggiunto un buon grado di civiltà.
SALVATORE GUZZETTA. Si uccide per dominare, per gelosia, per denaro. Le
guerre ci hanno insegnato tanto sull’argomento: i popoli si uccidevano, per dominare, per i territori, per l’arricchimento. Sicuramente a
nessuno gli viene il pallino di uccidere la gente, quando lo si fa, dietro
c’è sempre un motivo talvolta anche banale.
La maggior parte delle persone nel corso della sua esistenza non uccide, cosa che non era vero in epoche passate… Meno male, se fosse il
contrario sarebbe una carneficina.
CARMELO MUSUMECI. Credo che si uccida più di prima, solo in maniera
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differente. Per esempio trasformare le persone in uomini ombra è
peggio che ucciderle.
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Giustizia o vendetta?
In un Paese dove con tanta frequenza, a torto o a ragione, si dibatte della certezza della pena, per qualcuno “la pena è così certa da arrivare fino alla morte”. E questo finepenamai è giustizia o vendetta?
Della vendetta e della Giustizia, e della risposta
a chi dubiti che in Italia esista la certezza della pena
ROCCO SPENA. Vendetta. Dal latino Vindicta. Tale termine indicava la
verga con la quale si toccava lo schiavo che doveva essere libero.1 Paradossalmente oggi, ridendoci su, ognuno di noi detenuti potrebbe
invocare ai giudici: VINDICTA! Metaforicamente resta invece una
forma di liberazione. Infatti, secondo la moderna terminologia, la
vendetta non è altro che un danno, più o meno grave, inflitto a qualcuno per fargli scontare un torto o un’ingiustizia da lui provocati. In
questa terminologia pura del termine, io personalmente tollero la
vendetta come una forma di giustizia, perché va esercitata a seguito di
un’ingiustizia subita e a danno di chi l’ha provocata. A condire poi o
aggravare il danno possono subentrare l’ira, l’orgoglio, la furia, ecc.
tutte peculiarità della razza umana che la contraddistinguono sin dalla comparsa del genere.
ALFIO FICHERA. La vendetta? Posso dire senza esitazioni che ho finito di
individuare il mio “nemico” in uno o più uomini. Se ne avessi la for1
150
Vindicta. Diritto romano. Era la festuca con cui ciascuna delle parti, toccando l’oggetto conteso in segno di dominio, pronunciava la solenne dichiarazione di esserne
il padrone (vindicatio). Con il termine manomissione vindicta (manumissio) si indica in diritto romano l’atto con cui il proprietario libera un servo dalla schiavitù.
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za, condurrei una ferma lotta contro i “sistemi” di potere che di fatto
organizzano le condizioni perché i poveri diavoli si scannino tra di
loro.
EMANUELE INTERLICI. Premetto che nessuno mi ha fatto del male. Oggi,
per la persona matura e cambiata che sono, penso che non ci debba
essere nessuna forma di vendetta; ma poniamo che mi avessero fatto
del male, non nutrirei alcun rancore; una sola cosa desidererei: godermi, per quei pochi anni di vita che mi sono rimasti, bei momenti
insieme a mia moglie.
CARMELO MUSUMECI. La migliore vendetta è il perdono, ma lo Stato, la
Chiesa e la Società non sono dei buoni maestri per insegnarcelo. Noi
non siamo solo quello che siamo stati; potremmo anche essere, se la
società ci desse una speranza, quello che riusciremo ad essere in futuro. Chi cerca vendetta vuole la sofferenza dell’autore del reato. Chi
cerca giustizia vuole la verità di un reato.
GIUSEPPE IOVINELLA. Secondo me oggi giorno in questo Stato non esiste
una giustizia, ma solo vendetta da parte delle istituzioni, che puniscono l’assassinio con un assassinio legalizzato, facendo invecchiare i giovani in carcere e gli anziani farli morire da soli (vedi Molè Antonio,
Albanese Francesco, Domenico, Raco Francesco… ecc. ecc.).
CIRO BRUNO. La giustizia molte volte aiuta a commettere ingiustizia an-
151
cora prima di esprimersi. Io non ho grande fiducia nella giustizia, a
differenza di quanto dicono molti, in modo anche scontato. Sono anzi spaventato da un apparato in cui può emergere tutto il suo esatto
contrario e in cui è possibile che si consumano le più grandi ingiustizie spesso mascherate da legalità. Non aggiungo nulla poiché ognuno
di noi può avere esempi da fornire, esperienze dolorose da raccontare,
mentre ci son potenti che sembrano “seccati” del dovere perdere tempo in tribunale con un sistema che probabilmente finirà per non toccarli.
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Nella forma vi è una netta differenza fra giustizia e vendetta, nella
sostanza no! Non ricordo chi disse che nelle migliori intenzioni spesso si nascondono le atrocità più grandi, come per esempio il persistere nell’ottenere giustizia a tutti i costi. Questa è una forma latente di
vendetta, per cui direi che le due cose possono essere, o meglio sono,
le due facce della stessa medaglia e purtroppo questo avviene sempre
più spesso nei palazzi dove si dovrebbe amministrare la giustizia.
Quando il nostro sistema di assistenza sociale fallisce, si ha la tentazione di trasformare i problemi sociali in problemi di ordine pubblico, di sicurezza, e invece a questa ondata giustizialista bisogna contrapporre l’dea di un diritto penale mite. Pene certe ma brevi. Non
possiamo eludere i diritti della persona detenuta, né il senso di giustizia delle vittime e la sicurezza dei cittadini. Ma questo non vuol dire
accanirsi contro chi ha commesso reato.
Io credo che la società dovrebbe fare uno sforzo di riconciliazione.
Io non credo che il dolore delle vittime venga rispettato solo se condanniamo i responsabili con pene dure come l’ergastolo. Lo dico visto che l’Italia è l’unico Paese in Europa che ha trasformato l’ergastolo in una pena eterna, l’Italia, che è la patria del diritto romano, si potrebbe adeguare all’Europa dando un segno di grande civiltà e umanità al senso della pena.
ALFIO FICHERA. La Giustizia, secondo il mio sconclusionato pensiero, dal
1991 in avanti, con l’istituzione dei “tribunali speciali”, non ha più
rappresentato l’elemento cardine dei processi. La Giustizia, quando si
riesce a realizzarla, sosteneva Calamandrei, e, se mi è consentito, lo sostengo anch’io, è “gradita” anche al reo a cui è assegnata la pena.
Ma in Italia esiste la certezza della pena?
PASQUALE DE FEO. L’Italia è l’unico Paese europeo che ha il massimo ri-
152
gore scientifico nella certezza della pena, talmente precisa che supera
la precisione teutonica tedesca. Se i nostri politici fossero così precisi
come certa è la pena, i tedeschi e gli svizzeri potrebbero venire da noi
a imparare la precisione delle cose pubbliche…
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In Italia c’è l’impunità per uomini di certe caste, e quando non possono salvarli, vengono concessi tutti i benefici. Viceversa per il popolino c’è il massimo rigore nello scontare la pena: un giorno in più, mai
in meno.
GIUSEPPE IOVINELLA. Secondo me l’Italia, oltre a garantire solo per certi
detenuti (napoletani, calabresi siciliani, pugliesi) la certezza della pena, garantisce che li fa morire e che li consegna dopo morti alle famiglie dopo 20 giorni. L’Italia è l’unico Paese ad avere l’ergastolo ostativo perché è un Paese giustizialista, che, per avere delle informazioni,
ricatta chi sfortunatamente si trova con l’ergastolo ostativo come me.
CARMELO MUSUMECI. Purtroppo sì, l’Italia garantisce la certezza della pena,
però solo per i poveracci. La legge non è uguale per tutti, altrimenti non
si capirebbe come mai il carcere è pieno di poveracci e non di persone
ricche e potenti. I ricchi rubano di più dei poveri ma fra pescecani non
si arrestano, si organizzano per mangiarsi i pesci piccoli.
Per me, prima della certezza della pena, dovrebbe esserci la certezza
del diritto, del perdono, del futuro. L’Italia è l’unico Paese, in Europa,
ad avere l’ergastolo ostativo, perché gli piace fare la faccia da cattivo
ed essere forte con i deboli e debole con i forti. E poi, se uno è contro
l’ergastolo ostativo, i mass media lo accusano di essere colluso con la
mafia…
MARIO TRUDU. Spesso si sente nei salotti televisivi qualche politico che
batte i pugni sul tavolo inneggiando alla certezza della pena. A questi
vorrei gridargli in faccia che la mia pena è talmente certa da giungere
fino alla morte.
Lettera aperta alle vittime dei reati
La prima vittima di un delitto è chi l’ha commesso. (Dostoevskij)
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Dovrebbe essere più facile amare che odiare e dovrebbe essere meno
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doloroso perdonare che chiedere giustizia per pretendere vendetta.
L’uomo dovrebbe essere più dei reati che ha commesso, perché il male si sconfigge con il bene e non con altro male.
Nella vendetta, anche quando è prevista dalla legge e dal consenso
popolare, non ci potrà mai essere giustizia. Invece può nascere più bene dal perdono che dalla certezza della pena.
Chi cerca giustizia non dovrebbe desiderare il male degli autori dei
reati. Invece molte persone chiedono giustizia, ma in realtà vogliono
vendetta perché chi cerca veramente giustizia dovrebbe chiedere solo
la verità processuale del reato che ha subìto.
Se vuoi veramente punire un criminale, perdonalo, se invece lo vuoi
fare sentire innocente, tienilo dentro. Il perdono ti punisce più di
qualsiasi pena.
Per questo molti criminali hanno più paura del perdono che della
vendetta sociale.
Una pena senza perdono, senza speranza, una pena disumana come
il carcere a vita senza possibilità di liberazione, non potrà mai rieducare nessuno.
L’ergastolo ostativo irrevocabile assume il significato della vendetta
come la pena di morte.
Dopo molti anni non dovrebbe importare a nessuno chi eravamo,
sarebbe più importante sapere chi siamo adesso.
Neppure Dio potrebbe condannare una persona per sempre.
Se lo facesse, smetterebbe di essere Dio e diventerebbe solo una persona “perbene” con la fedina penale pulita e che va tutte le domeniche
a messa.
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CARMELO MUSUMECI (agosto 2011)
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Riflessioni sulla vita
Dieci, venti, trenta anni di carcere, e le riflessioni sulla vita, sul
tempo che trasforma nel corpo e nello spirito, sono un groviglio di
sentimenti, di umori, anche di passioni, che non sempre la prigionia ha spento. I ritratti che seguono, nascono dall’invito a raccontare dei propri valori, quelli del passato, quelli del presente, della
speranza, di quale dio si affaccia, se si affaccia, nelle prigioni.
Del chi ero, del chi sono
ALFIO FICHERA. Chi sono. Uno uomo che di giorno aspetta che faccia
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notte e quand’è notte aspetta che faccia giorno (questa l’ho copiata da
qualche libro ma non ricordo quale). Un uomo incapace di girare la
testa davanti alle ingiustizie.
Non credo di essere cambiato, se non nel corpo, alquanto invecchiato. Unico ed importante cambiamento negativo, è quello di essermi disabituato alla vita: quella esterna, normale, quella che spesso osservo come un demente guardando la tv.
La speranza è il vero propulsore della vita, il seme che spera di diventare pianta, la pianta che spera di mettere rami foglie e frutti. È così che cresce la vita.
Se si può vivere senza speranza? Non saprei. Forse voi non mi avreste fatto domande, né mai io avrei dato risposte.
Ho vissuto dicendo sempre quello che penso. I nemici contro i quali ho lottato, non sono mai state persone del popolo, gente comune,
bensì forti e gradassi. Considero ancora intatto il bene dei miei famigliari (tanti, tantissimi)... No, va bene così. Non voglio cambiare nulla nella mia vita. Se un giorno avrò la libertà, andrà meglio. Almeno,
finirò come ho vissuto.
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156
Credo nell’enormità dello spazio e l’imprecisabile numero di corpi
celesti e di mondi mi hanno sempre convinto che non possiamo esserci fatti da soli. Qualcuno di certo tutto questo l’ha voluto. Ma, allo stesso tempo, non credo alle speculazioni religiose, di nessuna marca esse
siano. Ho una modesta conoscenza della storia umana, quanto basta
per dire che hanno fatto più stragi le verità armate delle “Chiese”, che
tutte le guerre e le criminalità di tutti i tempi sommate assieme.
Cosa aiuta a fare sera e mattina? Non lo so. Un po’ gioca il fatto che
ognuno si sforza di non lasciare vedere la propria sofferenza, per vergogna verso gli altri, e da ciò ne consegue una certa “circolarità” di durezza e di coraggio, realmente, inesistenti: un coraggio “creativo”.
Ho fiducia che prima o poi prevalgano le istanze di giustizia sociale; stupirebbe che un Popolo che conta quasi 70 milioni di cittadini rimanga ancora a lungo schiavo di un manipolo di oligarchi, neanche
eccezionalmente abili e intelligenti.
Amore, famiglia, amicizia, lealtà… La mia scala di valori? Io chiamerei tutto affettività. Non saprei dove mettere l’amore, un sentimento alto ma esigente, che necessita di vicinanza, di presenza, di frequenza.
Pensate alla situazione di chi riceve una visita una/due volte l’anno, con
una bella barriera in mezzo larga più di un metro e magari per sentirsi
dire che i figli non hanno scarpe e vestiti per andare a scuola, oppure che
hanno ricevuto lo sfratto e andranno sotto i ponti. A chi pensate che tutto ciò importi. Ad Alfano, impegnato com’è a farsi reimpiantare i capelli come il suo “capo”? A chi interessa, alle trombe dell’antimafia che a loro volta colpiscono linearmente tutti, sapendo (perché lo sanno) di colpire anche donne e bambini che nulla colpa hanno se non quella di essere spose e figli di un carcerato? Quale lealtà e quale giustizia insegna
tutto ciò? È giusto forse che un personaggio come il nostro presidente
del Consiglio si dica “perseguitato” dai giudici, quando nelle carceri del
suo Stato c’è gente che si toglie la vita anche prima di “godere” di un
processo, magari da cassa mutua giudiziaria, dove il giudice prima condanna poi magari chiede tra tanti chi è l’imputato. Nessuno immagina
da fuori la componente di superficialità con la quale si condannano i
poveri diavoli. Il giusto processo, le garanzie del contraddittorio, non so-
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no cose per i comuni mortali. Tutti amano fare i forti con i deboli, niente è uguale, né la Giustizia né il carcere: “lealtà”, “fedeltà”, “giustizia”,
“amore”, “famiglia”, sono cose bellissime, per ognuna di esse varrebbe di
morire. Ma mi viene un dubbio, non pensate che il carcere di per sé scoraggi lo sviluppo di tali nobili sentimenti? Io credo fermamente di sì,
specialmente da quando la delazione è stata eletta condicio sine qua non
per ottenere un beneficio o anche un turno di lavoro.
Le cause della mia condotta che mi hanno portato qui? L’aver creduto nella lealtà, nella fedeltà, nell’amicizia.
Alla gente fuori direi: esigete i diritti, ribellatevi, combattete, non
credete al gioco dei potenti e dei padroni che costruiscono galere e
chiudono fabbriche e scuole. Lottate!
Ai miei compagni: lottate ancora di più, nulla è peggio del carcere.
157
GIROLAMO RANNESI. Quando sono entrato ero uno che si sentiva bello,
ricco e famoso. Direi che oggi sono un numero: kk029201718.
La speranza? La speranza è sapere che c’è qualcuno che crede in te.
Senza la speranza non si può vivere. Cosa spera un uomo che non può
sperare? La morte.
Cosa cambierei, a parte il carcere nella mia vita? Domanda tardiva… quello che avrei voluto cambiare l’ho già cambiato, alla faccia dei
forcaioli.
Nei momenti di disperazione, per chi come il sottoscritto ha trovato la fede, ci si appella a Gesù Cristo, il quale ha il potere di intercedere presso il padre. In verità vi dico qualunque cosa chiederete al padre
mio nel mio nome egli ve la concederà.
Dio/Cristo è motivo di riscatto per molti, tuttavia però sono tanti
quelli che ignorano il fatto che Gesù ha dato la propria vita per il riscatto di tutti.
Certo, contatti con persone religiose sono motivo di sollievo e grazie a Dio a Spoleto questi contatti avvengono frequentemente.
Di fronte a quelle persone di buona volontà che pensano di venirci
in aiuto, non ci si sente affatto “compatiti”, tutt’altro, ci si sente capiti
e incoraggiati a lottare.
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Sì, credo nel “soprannaturale” anche se alla luce di quelle che sono
state le mie esperienze non userei mai il termine di “soprannaturale”
ma quello di naturale. Credo, perché come San Tommaso ho avuto la
fortuna di metterci il dito e anche il naso. Credo in Dio, credo in Gesù Cristo. So che dopo la morte materiale continuerà quella spirituale, che nello stato spirituale ognuno si porterà dietro il proprio inferno o il proprio purgatorio. Il Paradiso? Non è roba di questo mondo.
Ho scontato 20 anni di galera. Cosa aiuta a fare sera e mattina… Per
quanto mi riguarda la certezza di sapere che fuori qualcuno mi ama.
Quando mi sento abbattuto, cosa questa che ultimamente mi capita sovente, mi faccio una domanda. C’è un motivo per cui io debba
continuare a vivere? Ad oggi la risposta è sì. Sì, ho fiducia nella vita.
Non ho fiducia, invece, nella gran parte delle persone, specie in quelle che predicano bene e razzolano male.
La mia scala di valori… da 1 a 10. All’amore do 10. Alla famiglia 10.
All’amicizia (qui bisogna andare cauti: ho sofferto tanto per il fatto
che tanti amici si sono poi rivelati falsi) 4. Alla fedeltà 10. Alla lealtà
11. Alla giustizia 10.
Pensando al passato, le cause personali che mi hanno portato fin
qui? L’impulsività, l’aggressività, la voglia di rompere le corna a quelli che io ritenevo fossero dei prepotenti.
I sogni che si possono ancora coltivare? Beh! In primis il sogno di
non dover morire in carcere, sperare nell’incontro con la persona di
buona volontà che abbia il coraggio di cambiare la legge. Se così non
fosse, la speranza inesorabilmente si trasformerebbe in disperazione.
In un contesto simile è facile perdere la propria identità, e non solo
quella, i suicidi in carcere sono aumentati vertiginosamente, anche se
quasi nessuno ne parla.
Chi scrive non prova rancore nei confronti di chi lo ha indotto suo
malgrado a fare delle scelte sbagliate.
Alla gente fuori direi: Non giudicate con durezza, fate un esame di
coscienza e poi perdonate. Chi crede sa che: “Chi giudica con durezza
sarà giudicato con durezza dal padre mio che sta nei cieli” (Gesù). Stolto, non guardare la pagliuzza nell’occhio del tuo fratello, togli prima la
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trave che hai nel tuo di occhio per poi vedere meglio e togliere la pagliuzza al tuo fratello” (Gesù).
Mafioso è chi si comporta da mafioso. Mafiosi sono i grandi evasori, chi ruba la mercede agli operai, chi ha il potere e lo usa per fare
clientelismo. Mafiosi della peggior specie sono coloro che affondano
le piccole imprese a beneficio delle proprie. Chi induce gli operai alla
fame, istigandoli al suicidio: “In verità avete avuto la vostra ricompensa in questo mondo” (Gesù). Mafiosi sono gli organizzatori della corruzione organizzata che poi sono quelli che più di tutti incitano le
piazze all’imbarbarimento. Badate che i vostri figli non debbano trovarsi nelle mani di costoro.
Ai compagni direi: Forza e coraggio. A torto o a ragione noi stiamo
pagando. Tutti prima o poi dovremo morire, è una questione fisiologica, anche coloro che ci usano per nascondere le loro malefatte. Ed è
mia convinzione che noi non siamo peggiori di chi incita nelle piazze
all’odio e alla vendetta. Vi assicuro compagni che questi ultimi avranno meno attenuanti di noi davanti al Padre Eterno.
Cosa mi manca di più??? Mi manca maledettamente Nicolas e la sua
mamma. E infine la libertà, quella vera però.
PINO REITANO. Chi sono? Mi presenterei e direi: sono un ergastolano, Pino
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Reitano, non cerco giustificazioni per il mio passato, dato che per salvare una vita umana mi sono ritrovato in un vortice senza uscita, e solo
con il carcere ho potuto liberarmi da tutto il mio passato. Oggi posso dire con forza che non farei gli errori del passato, ma non serve a niente,
chi ti ascolta, chi ti accetta per quello che sei e ti dà un’opportunità?
Quando sono entrato ero una persona terrorizzata dal carcere, ma
se avessi saputo che il carcere mi avrebbe dato l’opportunità di poter
essere quello che sono sempre stato, sarei corso, quando ho salvato
quella vita umana. E non avrei commesso gli errori commessi.
I miei demeriti sono stati solo quelli di quando ho incontrato delle
persone criminali che non ti lasciavano scelta. I meriti dei miei cambiamenti positivi credo siano i miei familiari, che hanno sempre lavorato per portare avanti la famiglia, con l’insegnamento che si debbo-
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no rispettare anche le pietre, e mi hanno sempre assistito fino a ora. Il
carcere mi ha dato solo l’opportunità di essere me stesso.
Cos’è la speranza? È una malattia della debolezza umana, non si accetta la realtà e si cerca un modo per credere che ci può essere un futuro migliore… è come quelle persone che si drogano per fuggire dai
problemi quotidiani, poi se guardiamo bene la realtà, le persone che
sanno che non hanno speranza si attaccano alla vita più di una persona normale.
Cosa cambierei nella mia vita, a parte il carcere? Di essere italiano:
se tornassi indietro andrei via dall’Italia fin da piccolo.
Certo che credo in qualcosa di sovrannaturale, se non fosse così io
non sarei vivo ma morto, quindi ci credo ciecamente.
Qui dentro si fa sera e si fa mattina come chi è incosciente e non si
rende conto di che fine dovrà fare. Io quando mi sento abbattuto prego e penso alla morte, l’unica cosa nobile e bella che il Signore ci ha
donato, ci libera da tutti i mali, da tutte le angosce e soprattutto dai
peccati, per questo la chiedo e spero che il Signore mi possa donare
questa nobile morte.
Ho poca fiducia negli esseri umani, nel Signore tanta!
Io non ho mai creduto al contesto sociale. Per quanto mi riguarda
so benissimo la causa che mi ha portato in carcere, come ho già detto: se non avessi salvato la vita di una persona non sarei qui e se lo Stato avesse saputo rieducare i delinquenti, io non mi sarei trovato a salvare la vita di nessuno e nello stesso tempo non sarei stato io e vittima e carnefice.
Cosa potrei dire io alla gente di fuori? Solo che la vita è una sola e non
devono buttarla alle ortiche, che se vogliono avere un futuro devono sudare sette camicie, che niente viene dai sogni o con la bacchetta magica, una persona se vuole essere giusta deve solo fare sacrifici.
Ai miei conoscenti di carcerazione non mi sento di dire niente, devono solo interrogare la propria coscienza e fare tutto secondo coscienza.
Cosa mi manca di più? Tutto e niente, forse solo di non poter donare tutto il mio amore al prossimo.
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ANGELO TANDURELLA. Sono un uomo che fra pochi mesi compie 40 anni,
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15 li ha trascorsi in carcere. Ho un “fine pena mai”, e se mi chiedi: chi
sei oggi? Io ti rispondo che non sono quella persona che tanti anni fa
ha distrutto in pochi secondi la sua vita e anche quella di altri.
Io mi sento una persona fortunata, perché ho una famiglia che mi
segue in tutto e per tutto. I cambiamenti ci sono, e devo dire grazie ai
miei genitori, ai miei fratelli e sorelle, ed in particolar modo ai miei
due nipotini, che amo più della mia vita, e li considero come i miei figli, quelli che non ho, e che mi piacerebbe molto avere, se qualcuno
me ne darà la possibilità. …Gli errori che mi hanno portato in carcere, li attribuisco solo ed esclusivamente ai miei 18 anni, ed alla mia inconsapevolezza.
La speranza, come dicono in tanti, è l’ultima a morire, ed io devo
ringraziare le persone della Comunità Papa Giovanni XXIII, che danno voce alla nostra lotta contro l’ergastolo ostativo ed in favore di una
speranza perduta.
Sì, credo in Dio, anche se non sono un praticante, non vado in Chiesa la domenica, ma tutte le sere prima di dormire faccio il segno della croce; spero che almeno nell’aldilà ci sia qualcuno che non solo ci
giudichi, ma che riesca a perdonarci; potrà sembrare strano, ma da
piccolo ho fatto pure il chierichetto, mi manca solo il “Boy Scout”…
A parte il carcere, cosa cambierei della mia vita? Il mio futuro!!!
La voglia di vivere è tanta, anche se certe volte preferiresti chiudere
gli occhi e non svegliarti la mattina, ma poi apri gli occhi e ti domandi quante persone faresti soffrire se la facessi finita, e quando sono veramente abbattuto, mi isolo dal mondo intero, ma dura poche ore,
non posso permettere che duri a lungo, sarebbe la fine.
Una scala di valori? Nella mia classifica immaginaria al primissimo
posto metto l’amore, perché racchiude diverse forme: c’è l’amore per
la compagna, che è diverso dall’amore per la famiglia, e poi c’è l’amore per l’amicizia, che io mettevo sempre al primo posto, ma ora non
più, troppe delusioni mi hanno portato a diffidare delle persone.
Vorrei parlare tanto dell’amore per una compagna e mi piacerebbe
tanto innamorarmi di nuovo di una persona, avrei tante cose da rac-
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contarle, ma tutto questo non è possibile. Sai, certe volte dimentico
che sono in carcere e sogno e viaggio con i pensieri, almeno questo
non sono riusciti a chiuderli con le chiavi, ma non ne parlare molto
in giro, non si sa mai...!
Alla gente fuori direi che qui dentro non ci sono dei mostri, neanche dei santi, ma delle persone che hanno fatto un percorso di vita,
ognuno diverso dall’altro, per tante ragioni che non posso io giudicare, io posso solo dirvi che oggi sono un’altra persona, che ha tanta voglia di confrontarsi con il mondo reale, cerco solo delle persone che
mi diano una, e dico una, piccola chance.
Ai miei compagni direi che questa vita porta solo dolore e tanta galera.
Cosa mi manca di più??? Vivere la normalità.
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PASQUALE DE FEO. Che anima sono? Non sono un’anima in pena, perché
gli anni trascorsi in carcere sono molti e questo lungo tempo ha prodotto una sorta di anestesia per stemperare le sofferenze e i dolori,
non essendoci stata la possibilità di scaricarli in modo diverso, perché
il mio spazio fisico è molto ristretto.
Prima del mio arresto vivevo nell’illegalità; purtroppo non vedevo
le cose come erano, ma come ero abituato a vederle. Ritenevo giusto e
naturale percorrere questa strada per uscire dalla povertà ed emergere nella società. In modo diverso cercavo di imitare le agevolazioni dei
figli dei potentati locali. Quando l’ignoranza fa da padrona e la miseria ti è compagna, l’unico strumento che riesci a concepire è usare
scorciatoie per arrivare subito.
Ora non sono più il ragazzo di un tempo; ormai sono cinquantenne
e il mio essere si è evoluto con determinazione nel ricostruire la mia
persona. Ho ripulito me stesso da certe logiche con cui sono cresciuto,
mi sento un uomo nuovo, ma rimango un detenuto, perché questo è il
mio mondo, anche se costruisco me stesso pensando al futuro.
Devo costruire nei miei pensieri il futuro, con l’aiuto della cultura e
lo studio, perché se anche ciò fosse annullato, alla speranza subentrerebbe la disperazione, l’abbrutimento, la rabbia contro il mondo inte-
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ro. Oppure trovare la pace nell’unico modo che ci è possibile qui dentro: togliersi la vita.
Una volta credevo che incutere timore rappresentasse il massimo dell’uomo forte. Oggi comprendo che solo l’ignoranza poteva farmi credere una stupidaggine del genere. È facile mettere paura a una persona
che deve pensare alla famiglia, al lavoro e ai problemi quotidiani.
Oggi ho capito che un uomo forte è chi ha una retta vita, lavora e si
dedica con dedizione alla sua famiglia, e nei momenti di difficoltà,
perdita di lavoro, sfratto, problemi di salute e problemi quotidiani,
tiene la barra diritta e non cede alla disperazione e non cerca di superare il confine che risolverebbe i problemi che l’affliggono. Questo è il
vero coraggio dell’uomo forte.
La dominanza improntata sulla paura è effimera, pertanto è vigliaccheria, come i branchi che dominano sentendosi forti. Credo nella
forza del sapere.
Ho usato la violenza, era l’unico strumento che conoscevo per raggiungere gli obiettivi che mi prefiggevo. Non potevo scegliere: solo
quando si conoscono le alternative si può scegliere.
ELIO ROTONDALE. Nella mia vita ho commesso molti errori e sto ancora
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pagando per questi. Voglio precisare, però, che essi sono dovuti più alle circostanze che alla natura della mia indole che, fondamentalmente, è buona. Sono una persona come tante, che si è trovata invischiata
in un cattivo contesto. Ora che ho avuto modo di riflettere molto,
posso dire che non sono lo stesso di prima.
In passato, la violenza era entrata prepotentemente nella mia vita.
Nell’ambiente dove io sono cresciuto era l’unico sistema per non essere sopraffatti. L’alternativa era solo quella di andarsene. Purtroppo,
quando si è giovani, si è anche immaturi.
Gli amici sono quelli che vogliono il mio “bene”, quelli che sanno richiamarmi se perdo il “sentiero”, quelli che mi fanno notare i miei “difetti”. I gruppi aiutano a crescere. Però un gruppo di persone “cosche”
aiuta a crescere nella barbarie.
Viviamo in un mondo in cui gli ideali sono quasi esauriti, un mon-
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do governato dal “Dio denaro”… La cosa importante è sapersi scegliere i gruppi giusti…
GIOVANNI MARCO AVARELLO. Leggendo la prima domanda “Che anima sei?”
il mio primo pensiero è andato alla configurazione realistica del
“viaggio” nei tre regni dell’oltretomba di Dante Alighieri. Potrei rispondere che sono un’anima in viaggio da circa 19 anni, la quale ripercorre a ritroso il cammino dal bene al male compiuto dall’umanità, giungendo dal male, la selva infernale dello smarrimento, al
sommo bene, la contemplazione di Dio, attraverso la visione dei castighi eterni, delle pene catartiche, delle beatitudini spirituali.
Un’anima un tempo peccatrice, purgata con la sofferenza della detenzione carceraria e oggi pronta per il salto finale verso il Paradiso
terrestre (l’amata libertà).
Prima dell’arresto ero un ragazzo giovanissimo, un pivello di 25 anni,
privo di cultura in quanto lascia la scuola in età adolescenziale, proiettato in una società dove prevaleva la legge del piombo, la legge del più
forte, l’arroganza, la stupidità, l’ignoranza e se vogliamo la presenza di
una classe politica corrotta e indifferente ai problemi del Paese.
Sono una persona diversa perché non sono più il ragazzino di un
tempo, perché ho trascorso quasi metà della mia vita ristretto nelle
patrie galere, perché ho scavato nel mio passato, andando a ritroso nel
tempo, e ho visto in faccia il male che ha deviato il percorso della mia
vita. Ora sono un uomo maturo, con tanti anni di carcere duro sulle
spalle, quindi sicuramente una persona sofferta, consapevole degli
sbagli passati, in cerca di una nuova identità, che spera di trovare attraverso l’art. 27 della Costituzione italiana, il quale recita “Le pene
non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato, non è ammessa la pena
di morte”. Aggiungerei “se non in casi di ergastolo ostativo”. L’ergastolano con il marchio ostativo è di fatto condannato a morire giorno
dopo giorno, in una piccola, angusta, tetra cella.
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GIUSEPPE PULLARA. Che anima sono? Beh, la risposta potrebbe essere
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multipla, però la posso sintetizzare dicendo che sono un’anima in
conflitto con se stessa perché nata libera e come tale vorrebbe morire,
invece subisce la protervia istituzionale che lo vuole annichilito o
“pentito”. Però se la soluzione del conflitto è farsi sentire con forza e
civilmente sono pronto!
Io ero un uomo felice, sposato, altruista e molto severo verso il soggetto prepotente, arrogante e violento verso una qualsiasi persona innocente.
Ora sono un uomo che il tempo lo ha cambiato interiormente, che
ripudia ogni forma di violenza e vive per far del bene.
Sedici anni di carcere, di cui tredici trascorsi al regime del 41 bis…
ho avuto tempo di riflettere sulle tematiche che mi hanno portato in
prigione. Altresì, il rapporto tra me e gli affetti, e gli interessi esterni,
sono mutati grazie al tempo di detenzione e all’introspezione.
L’uomo forte è colui che ottiene quello che vuole attraverso la pazienza cioè dando al tempo la cadenza naturale! Deve essere capace di
dominare l’impulsività e per ottenere tale forza si mortifica tutti i
giorni sapendo che solo così fortifica la sua mente e il suo spirito per
raggiungere gli obiettivi prefissati. Riuscire a dominare gli impulsi
violenti, anche verbali, è la forza interiore.
La violenza? Ha origini con la nascita dell’uomo agli albori della vita sia per la sopravvivenza sia per i sentimenti più abietti come l’invidia, lussuria, gelosia, avidità ecc. Dopo milioni di anni nulla è cambiato, tranne per l’evoluzione psicofisica che ha creato nuove civiltà e
culture dandosi ognuna le proprie regole e leggi per vietare o consentire alcuni usi ancestrali. Nella mia vita la violenza fu un mezzo per
ottenere un diritto; negli altri sarà stato lo stesso, anche se il diritto nei
contesti sociali in cui nacqui è diverso tra soggetti e soggetti.
L’utilità della violenza sta nell’appagamento dell’odio, rabbia o offesa subita nell’immediatezza dell’azione, sentendosi soddisfatto! Ma si
può ottenere lo stesso risultato (se non di più) attraverso la pazienza
e la parola. E poi, la violenza porta altra violenza e tanti guai giudiziari.
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GIOVANNI ZITO. Sono un’anima buona, serena, pacata, umile e ricca d’a-
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more. Divido il pane dei pensieri con tutti coloro che hanno bisogno
di un consiglio, un sorriso, una parola dolce che possa alleviare i dolori di questo cammino assurdo, crudele, e faticoso. Non cerco nulla
da nessuno e vivo come meglio posso il mio tempo senza fine, quest’anima solitaria piena di vita e di gioia che cerca affannandosi un
raggio di sole dove sole non c’è.
Prima dell’arresto ero un giovane di 25 anni, vivevo la mia vita come la maggior parte dei miei coetanei lavorando di quel poco che c’era di lavoro. Nel calore della mia casa materna avevo tutto per affrontare un futuro migliore e sereno.
Ora sono un uomo di 40 anni senza una vita, senza speranza, niente di niente. Sono solo un respiro nei respiri di tutti i giorni che vivrò
senza fine, senza meta. Perché un giovane di 25 anni il tempo lo forma, lo plasma, la vita continua finché si respira. Oggi, non c’è più quel
tempo e quel vento di giovinezza dove tutto era possibile, dove tutto
era credibile. Perché? Perché cambi il modo di vivere, regoli il tempo,
l’emozione, la fragilità. E a tutto ciò che rotola davanti alla propria esistenza non si pensa più come quando avevi il fiore dentro di te, e si
cerca la speranza con tutta la forza di un uomo di 40 anni.
Chi è un uomo forte? Colui che vive la vita con la propria famiglia.
Un uomo forte è colui che vince ogni giorno il proprio giorno. Un uomo forte è colui che ama nella vita tutti i suoi cari ogni momento. Un
uomo forte è chi supera le avversità, i dubbi, le perdite delle persone
amate con tutto il cuore fino all’ultimo respiro, un uomo forte è colui
che cresce con sani princìpi di vita, della buona educazione ricevuta e
data ai propri figli, colui che guida la casa, l’amore, la speranza di un
domani migliore. Vive il corso degli eventi anche se sono tortuosi, cerca sempre di fare o proporre il meglio e nutre ogni certezza del futuro migliorando se stesso con tutta la forza e il coraggio.
Se la forza è dominanza? Sì, se si usa nel modo adeguato, se si cerca
di riparare un torto, uno sbaglio. Io non ho mai subìto violenza nella
mia vita, e non l’ho procurata ad altre persone. Usare la violenza significa perdere il controllo di se stessi di non saper affrontare il cam-
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mino stabilito ogni giorno, e quindi ti fai un torto per ricevere uno
sbaglio. Senza violenza si vive meglio con se stessi e sai di dormire bene la sera, e quando ricevi un abbraccio dalla tua famiglia o figli, sai
di essere un uomo, o persona, onesta.
Gli amici… Gli amici sono come l’amore, c’è chi dura tutta una vita con lealtà e chi si perde nelle strade che si percorrono. Ricevere una
cartolina da un amico fa piacere, scrivere ad un amico ti dà gioia. Sapere che qualcuno si ricorda di un sepolto vivo è sempre un pensiero
bello.
I miei ideali? Non credo che ci siano tanti ideali nella mia vita, credo nelle tante speranze. Qualora vi diano queste, beh forse sarebbe
dolce come avere ideali.
SALVATORE GUZZETTA. Ero, prima dell’arresto, un uomo con due realtà e
due personalità. Una dedicata alla famiglia al lavoro e ai figli, l’altra alla mala vita organizzata. L’una nascondeva l’altra.
Ora sono uno che in tutti questi anni di detenzione e sofferenze ha riflettuto tanto ed è consapevole dei propri sbagli. Il frutto maturando
cade dall’albero, io sono maturato in queste patrie galere. Se fossi stato
più maturo fuori, sicuramente non avrei procurato sofferenze ad altri.
Chi è un uomo forte? L’uomo che anche nelle avversità non si scoraggia mai, che non butta la spugna, che non rinuncia a lottare, per
arrivare al traguardo che s’è prefissato.
E non perde mai la speranza e la fiducia in se stesso e negli altri.
La dominanza non è forza. No, è solo viltà, paura. Si domina per
non essere sopraffatti e per sopraffare gli altri.
La violenza? Non c’è mai stata violenza nella mia vita, né a subirla,
né a esternarla, ma tanta ne ho vista. Le cause: la dominanza, la vendetta, la frustrazione per averla subita.
SEBASTIANO MILAZZO. Credo di essere un’anima con un po’ di sensibilità.
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Prima del mio arresto mi rendo conto di avere sprecato tanta parte del
mio tempo nella vanità di tante fatiche e in attese di dubbio valore, a
scapito di momenti importanti e teneri come l’amore, l’amicizia, l’intimità dei rapporti. Sento di essere particolarmente sensibile verso i
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problemi degli ultimi e nutro disprezzo verso quanti speculano su di
loro. Perché ho sperimentato sulla mia pelle quanto pesa l’arroganza
del più forte.
L’uomo forte, in carcere, è chi, dopo aver acquisito coscienza del dolore provocato dai suoi reati, sconta la sua colpa, assumendosene la
dignitosa sofferenza senza chiedere una contropartita, cercando una
nuova innocenza nel tormento interiore, e non mettendo un altro al
proprio posto.
Cerco di essere me stesso, di vivere secondo le mie convinzioni e
non in relazione alle convenienze del momento.
La dominanza di se stessi è la sola forza che in carcere consente di
sopravvivere.
La violenza è sempre causata dagli istinti che sopraffanno la ragione. È sempre dannosa. È sempre inutile.
DOMENICO PACE. Ho sempre cercato di essere di animo buono perché so-
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lo così si sta bene con se stessi e con gli altri.
Prima dell’arresto ero una persona normalissima, che lavorava in
un panificio perché il bisogno economico familiare non era agiato e
quindi il mio aiuto era indispensabile per il bilancio familiare. I miei
genitori hanno fatto sempre i braccianti agricoli e con sei figli da crescere il mio aiuto, seppur piccolo, era importante.
Ora sono un uomo maturo in grado di stabilire il giusto e l’ingiusto. Perché l’esperienza insegna che con gli anni si deve maturare interiormente, e chi non percepisce tutto ciò ha perso una buona occasione.
La lealtà? Essere leali vuol dire saper convivere con la società cosiddetta civile e quindi sapersi comportare da leali è un buon segno di civiltà. E conta molto per migliorare il rapporto con il tuo prossimo che
si dimostra disponibile all’occorrenza del bisogno, di qualsiasi genere.
Gli amici… Sicuramente quando ero più piccolo consideravo i miei
amici quelli che crescevano insieme a me, oggi l’amico più grande che
ho è mio figlio, lo considero più che un amico perché fa parte di me
stesso.
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I miei ideali… la famiglia, a cui credo in modo sano e coerente. È il
gruppo a cui do più importanza, la mia famiglia, nella quale ci scambiamo l’amore che il Signore ci ha donato.
PASQUALE DE FEO. …Io sono stato sfortunato, e ho buttato via la mia vi-
ta. L’ignoranza è fonte di debolezza, perché si è soggetti ad essere manipolati e usati. Restringe gli orizzonti e ti fa seguire il primo pifferaio
che si incontra… come la favola del pifferaio magico.
I maestri hanno molta importanza; quelli cattivi ci hanno già rovinato la vita, pertanto li riconosciamo se li incontriamo e li evitiamo.
Oggi cerchiamo buoni maestri; alcuni li ho trovati e cerco di metabolizzare tutto quello che mi trasmettono, non si finisce mai di imparare. Purtroppo ho venerato persone che, come generali della Prima
Guerra Mondiale, mandavano al macello i soldati, per sete di potere.
Oggi non potrebbe più succedermi di avere venerazioni a sfondo cieco. L’ultima persona che veneravo era mia madre, l’essere umano più
buono che abbia mai conosciuto.
Gli amici? Da troppo tempo sono in carcere. Gli amici di un tempo
sono meno delle dita di una mano, anche loro a scontare pene lunghe;
eravamo ragazzi, ora hanno la mia età. Oggi la selezione nel concedere l’amicizia è più rigorosa e pertanto sono molto oculato nel darla.
Ho sempre vissuto gli ideali in modo totale e senza mezze misure.
Nel mio percorso ero convinto che ciò che facevo fossero nobili ideali; la bruttura vestita a festa… senza rendermi conto che ero lontano
dalla realtà, tutto era solo nella mia testa. Anche oggi vivo gli ideali in
modo passionale, ma non sono più quelli di un tempo. Seguo molto
la politica, anche se è motivo di sofferenza; sono molto attratto dal volontariato, dai volontari, e li ammiro molto… andare in posti sperduti nel mondo per fare del bene, sono ideali nobili che tramutano in
realtà. Il fuoco che gli ideali accendono ti aiuta a vedere le cose con occhi puri, ed è molto bello.
SALVATORE GUZZETTA. I gruppi a cui ci leghiamo, gli amori, i maestri, le fi-
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gure che veneriamo… hanno molta importanza, soprattutto quei
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gruppi dove ti danno fiducia, dove ti insegnano che la speranza è l’ultima a morire, dove ti sanno dare amore e affetto, dove ti fanno capire che Dio esiste in ognuno di noi.
La lealtà, come concetto e come principio da vivere? La lealtà non può
essere mai un concetto ma un principio di vita da vivere per chi ha dignità e coscienza. Conta moltissimo, essere leali è essere onesti con se
stessi. Se tu sei leale con te stesso lo sarai anche con il tuo prossimo.
Chi sono per me gli amici? Gli amici, sono sempre fonte di ricchezza interiore, non per niente c’è un detto che dice: chi trova un amico
trova un tesoro, ma soprattutto gli amici sono quelli che lottano insieme a me per la libertà.
Ognuno di noi vive i propri ideali nella misura della sua condizione
di vita. Io li vivo in una misura limitata perché sono conscio che nel
contesto in cui vivo non posso realizzarli.
GIUSEPPE PULLARA. L’ignoranza… è una fonte di forza per tutti coloro
170
che la manipolano e gestiscono; mentre è una debolezza per l’essere
che vive in un mondo con poche finestre rivolte alla luce.
La lealtà… tutti noi promettiamo lealtà, ma la stragrande maggioranza tradisce la promessa, e lo giustifica con concetti vari. Invece la
lealtà dovrebbe essere un principio di vita che dovrebbe essere concesso a poche tematiche o persone per non renderlo vano. “Meglio
non promettere che promettere e fallire indegnamente”. La lealtà è dovuta a tutti coloro con cui si ha un rapporto sincero, sia un amico, sia
un amore, sia sul lavoro, ecc… Perché la lealtà rende la persona libera dentro, anche se qualche volta (forse spesso) porta guai.
Gli amici? Oggi vivo in un contesto privo di affetti, prospettive future e vecchie amicizie, per cui le amicizie per me sono temporanee,
cioè durano il tempo che stiamo nello stesso istituto. Con qualcuno
rimane quel rispetto reciproco che ci consente di “spigolare” l’amicizia anche se poi siamo in istituti diversi. Quindi l’amicizia di oggi, per
me, è solo la famiglia.
Io vivo gli ideali nella misura poco sopra lo zero perché ho le ali
mozzate e una palla al piede. Essendo un soggetto privo della capacità
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di mettere su carta quanto ho nella mente, limito ancora di più gli
ideali. Ecco perché ammiro quanti lottano come leoni per ottenere un
proprio o altrui diritto.
SEBASTIANO MILAZZO. I gruppi a cui ci leghiamo hanno una grande im-
portanza, ma non sono determinanti, perché alla fine “un uomo” è ciò
che lui decide di essere, nei limiti in cui l’ambiente sociale in cui vive
gli consente di essere.
La lealtà… come principio di vita, verso se stessi e verso gli altri, ritengo sia il sentimento più nobile e più alto dell’uomo. Nei rapporti
interpersonali, con l’amico o con l’amata, permette di poter dire, in
modo aperto e con gioia autentica, “sì” a quello che si spera o ci si
aspetta e un “no” deciso a quello che si ha la certezza di non volere
dall’altro; nei rapporti istituzionali non chiede né accondiscendenza,
né indulgenza, nel dire o nel dare, senza finzione, ciò che si ritiene
giusto.
L’ignoranza? È sempre fonte di debolezza, anche quando il non sapere risparmia dalle amarezze della realtà.
L’amicizia? Il termine amicizia oggi è abusato. L’amicizia vera è un
sentimento raro che si alimenta di realtà e solidarietà reciproca fra
persone accomunate da un legame fatto di memorie, bisogni e desideri comuni. Per me gli amici veri sono solo quelli che disapprovano
quando mi comporto male, che sanno anche lottare contro di me per
farmi capire dove sto sbagliando.
Gli ideali… Oggi non esistono ideali, esiste andare nella direzione
nella quale viene tirato il guinzaglio. Lo sappiamo bene noi condannati, con l’ergastolo ostativo, che vediamo fare sui media i teneroni
per il cagnolino abbandonato, da quelle stesse persone che, sugli stessi canali televisivi, invocano, con la stessa passione, forche sempre più
alte.
CARMELO MUSUMECI. Chi sono? Sono quello che ho potuto essere, non
171
quello che mi sarebbe piaciuto essere. Quando sono entrato in carcere ero certamente un uomo migliore di adesso.
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Sono una persona difficile, poco presentabile, con una storia dura e
tanti reati nei fascicoli e nel cuore, eppure mi sento migliore di tante
persone per bene e soprattutto di chi mi governa e di molti miei presunti educatori.
Che anima sono? Sono un’anima che non trova pace, appesa al filo
dell’amore. Prima dell’arresto ero un’anima libera, felice e cattiva. Ora
sono un’anima viva ma morta perché prigioniera. Con il dolore nel
cuore, stanca e ancora più cattiva, perché non ha potuto realizzare
tutti i suoi sogni e non ha potuto amare come avrebbe voluto le persone a cui vuole bene.
Il cambiamento, da prigioniero, se è positivo, diventa un problema
perché ti fa soffrire di più. Penso di soffrire in carcere più di molti altri perché, maledizione, dopo venti anni di carcere non riesco ancora
a rassegnarmi di essere un prigioniero, quello della cella 154, il suo
cuore che sorride, anche, nel caso, con sorrisi di scorta.
Che cos’è la speranza? Secondo me la speranza può essere un bene
o un male secondo le probabilità di realizzarla. Perché una speranza
sbagliata ti può rubare la vita, perché mentre tu aspetti la speranza la
vita se ne va senza di te. Sì! Si può vivere senza speranza, io ci vivo da
venti anni. In carcere molti uomini senza speranza si nutrono per abitudine, dormono per noia, respirano per sopravvivere… io cerco io
stesso di vivere…
Che cambierei della mia vita? A parte il carcere non cambierei nulla.
Nulla! Vorrei la stessa compagna, gli stessi figli, gli stessi amici e lo
stesso angelo. Dio? No! Non credo in Dio, ma non ho mai smesso di
cercarlo. Vorrei che ci fosse un Dio per avere qualcuno nell’aldilà da
spaccargli la faccia.
L’amore è l’unica ragione che mi aiuta a continuare a vivere e a rimanere vivo.
Quando mi sento abbattuto vado in depressione, ma non lo dico a
nessuno, neppure a me stesso. Se ne accorge solo il mio cuore, ma lui
è scemo, piange lasciandomi gli occhi asciutti senza dirmi nulla.
Fiducia nella Vita? Quale vita? Non ho neppure più tempo, mi è rimasto solo un po’ d’amore e tanta rabbia e disperazione.
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Se penso al mio passato, a quello che mi ha portato in carcere… Sia
le cause caratteriali che quelle sociali le conoscevo ancora prima di
andare a compiere reati, ma non sono stato abbastanza forte per superarle. Per questo mi sento ancora colpevole di essere innocente, anche se ho commesso molti reati. L’uomo è un animale sociale, per
questo credo che non si è da soli innocenti o colpevoli.
Alla gente fuori direi: Buona vendetta! Provo pena per voi che mi
volete tenere chiuso in una cella per tutta la vita. Fin quando mi terrete prigioniero, mi sentirò più buono e più felice di voi.
Ai miei compagni: Lottiamo senza vivere di speranza. Viviamo il
presente e non il futuro. Cerchiamo di essere noi stessi. Per uscire prima dal carcere non cerchiamo di diventare peggiori di come siamo
entrati e di come ci vogliono le persone perbene.
Oggi, cosa mi manca di più? Prima erano i miei figli ora sono i miei
nipotini. E poi i sogni... non riesco più a sognare.
Qualcuno è convinto che l’amore salva il mondo, o almeno sani l’individuo. Ma quale amore?
CARMELO MUSUMECI. Di amore ce n’è uno solo. È quel sentimento radi-
173
cato nel cuore di tutte le persone anche quelle che pensano di non
averlo. È quel sentimento che a volte fa soffrire più di qualsiasi altra
cosa a parte il dolore di non avere amore.
L’amore è amare di più i cattivi che i buoni perché sono tutti buoni
ad amare i buoni.
Come essere uomini autentici anche se privi di libertà? Un uomo
che perde la libertà in carcere non è mai stato libero neppure fuori.
Incredibilmente, il momento in cui mi sono sentito più libero è
quando stavo morendo colpito da sei pallottole addosso e quando sono stato condannato all’ergastolo. Incredibilmente ti senti libero
quando lo Stato ti prende la vita con la pena dell’ergastolo ostativo e
ti rimane solo l’amore, quello non te lo può levare nessuno.
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Ricapitolando
Tirando le fila di quanto detto e raccontato finora, le ultime pagine sono scritte immaginando di parlare a un ragazzo che, influenzato dalla mentalità dominante, pensi e dica: “Se siete colpevoli è giusto che scontiate la vostra pena, per quanto dura
possa essere. Ve la siete cercata”.
Come spiegare, ancora, alla gente
GIOVANNI LENTINI. In primis tutti devono sapere cosa è l’ergastolo ostati-
174
vo e che è anticostituzionale. Quando tutti sapranno che equivale al
seppellimento di una persona ancora in vita, allora penso che sarà più
facile comprendere le nostre problematiche.
Ad un ragazzo che dice: “Ve la siete cercata, quindi marcite in galera”, bisogna spiegargli che tanti delitti puniti con questa maledetta
condanna, sono maturati in ambienti dove lo Stato non esisteva. In
questi ambienti vige la legge del più forte, il lavoro o l’istruzione sono
solo utopie, se non sei un duro, o ci diventi o muori. Ci sono tante faide nate per la fame, per motivi futili, enfatizzati dall’ignoranza; non
sono guerre nate tra il benessere di Piazza di Spagna a Roma o la lussuosa via Monte Napoleone di Milano; sono omicidi maturati in
quartieri dove il degrado regna su ogni cosa, dove si sopravvive giorno per giorno. Certe realtà bisogna viverle per capirle, non si può condannare con una pena così infausta, chi ha ucciso per non essere ucciso, e perché lo Stato non gli ha garantito nemmeno il minimo indispensabile, un lavoro, una casa o l’incolumità fisica.
Lo Stato non può arrivare quando la tragedia è successa, comminando condanne all’ergastolo, non può uno Stato democratico come
il nostro restare assente, in luoghi come la Calabria, la Sicilia o la
Campania, bisogna che faccia sentire la sua presenza. E non parlo di
presenza di forze dell’ordine, di queste ce ne sono fin troppe e non so
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fino a che punto siano efficaci; parlo di presenza culturale. Non può
uno Stato pensare di bonificare quartieri degradati, con carabinieri,
polizia o altre forze armate; ha il dovere di costruire scuole, teatri, centri sportivi, cercare di istruire i bambini fin dalla tenera età, tenerli il
più possibile impegnati e lontano dalla strada e dall’ozio. Non si può
risolvere il problema solo con le poche associazioni di volontariato
che per fortuna esistono.
È necessario prevenire la tragedia e non aspettare che succeda per
poi punire. Sono successi tanti omicidi e/o tentati omicidi, registrati
in diretta dalle microspie piazzate nelle macchine, allora mi chiedo: se
la polizia sta intercettando e pedinando la persona che sta per commettere un delitto, per quale motivo non impedisce di farlo eseguire?
Mi viene da citare una famosa frase detta in uno dei soliti film di mafia da qualche poliziotto: “Lasciamoli stare, finché si ammazzano tra loro facilitano il nostro lavoro”.
Finché ci sarà la miseria, la fame, l’ignoranza, ci saranno carceri strapiene di gente che vivono in condizioni al limite della dignità umana.
Credo che, se ci fosse più trasparenza da parte delle istituzioni verso
tutti i comuni cittadini, questi ragazzi che adesso dicono “Ve la siete cercata ora state in galera” non sarebbero così superficiali nelle loro risposte.
Cosa pensano questi ragazzi, di quei politici come il deputato leghista
Gianluca Buonanno che ha pubblicamente commentato un suicidio in
carcere, dichiarando: “Certo che se altri pedofili e mafiosi facessero la stessa cosa non sarebbe male” (articolo pubblicato sul quotidiano “Il Bologna” edizione del 16 giugno 2010, pag. 14). Chi ha più bisogno di rieducazione sociale? I detenuti che espiano le loro pene per errori commessi in passato, o un politico che dovrebbe dare esempio di buon
comportamento, invece di dire certe nefandezze? Certo è giusto che chi
ha commesso un reato deve pagare, ma con misure adeguate, con pene
temporanee, non con l’ergastolo che non consente mai di riscattare il
male fatto in passato. L’ergastolo va abolito dal Codice penale, se si vuole rispettare l’art. 27 della Costituzione, altrimenti bisogna trovare il coraggio di modificare la Costituzione italiana e avere la sfacciataggine di
ammettere che in Italia esiste la condanna a morte.
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IVANO RAPISARDA. …la pena deve tendere al reinserimento del condanna-
to …Ma nel mio caso, e come me siamo circa 1.400, con l’ergastolo
ostativo il citato articolo della Costituzione viene calpestato alla luce
del Sole.
Mi hanno arrestato che avevo appena 19 anni, oggi ho 39 anni e non
sono mai uscito.
Non sono colto, ma credo che nessuno possa sostituirsi a Dio. O
meglio, il male non si combatte con il male, ma dovrebbe essere respinto con il bene.
Sì, forse è anche vero che ce la siamo cercata, ma questo non toglie
che siamo tutti esseri umani e come tali la vita è fatta anche di errori
e tutti abbiamo il diritto ad una possibilità per dimostrare che siamo
cambiati, migliorati. La nostra condanna non finirà mai, avrà di nuovo inizio il giorno che saremmo fuori, vedendo le persone che hanno
perso i loro cari.
Secondo il mio punto di vista, l’ergastolo comunque va eliminato
dal Codice penale per un semplice motivo: quando un individuo
sconta 20-30 e più anni di carcere è totalmente un’altra persona, consapevole della vita sinistra che in passato aveva condotto. Solo gli stolti non cambiano.
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PAOLO LO DESERTO. In uno Stato civile la gente capirebbe cos’è l’ergastolo ostativo: la vendetta dello Stato stesso e della parte offesa, che non
restituisce comunque la persona indietro ai propri cari! Se la restituisse, la persona viva, sarebbe giusto anche l’ergastolo ostativo!
Convincere un soggetto influenzato da politica o media è semplice,
in quanto è privo d’intelletto e per inerzia segue il gregge. Purtroppo
sia politici che media non hanno mai un confronto con i diretti interessati e sono vincenti. Ma in un confronto alla pari di botta e risposta il discorso cambierebbe e solo allora un cittadino potrebbe capire
di cosa si parla. Nei numerosi dibattiti si nota l’ignoranza quando si
discute di codeste cose. Ecco perché a mio modesto parere bisogna
confrontarsi. Ormai la maggioranza dei cittadini per pigrizia non usa
il cervello. Le stesse persone che manifestano contro la pena di morte
sono favorevoli all’ergastolo ostativo!
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Per non dire quanti sono innocenti con questa pena ingiusta come me.
Alla gente bisogna far capire che il dolore che hanno loro lo abbiamo anche noi. È vero loro non hanno i propri cari e li vanno a trovare ogni settimana al cimitero, mentre i nostri cari noi li vediamo una
volta al mese con i minuti contati, e fanno migliaia di chilometri sperando un giorno di vederci liberi o ci vedranno morti dopo anni ed
anni di sofferenza e di carcere.
La gente deve capire che non ci sono né sconfitti né vinti ma solo
sofferenza. E per fortuna che nostro Signore Gesù nacque 2010 anni
fa, altrimenti quando pronunciò la frase per salvare Maria Maddalena “chi non ha peccato scagli la prima pietra”, politici e media l’avrebbero massacrato a sassate.
E con un condannato innocente non hanno vendicato il proprio caro, ma l’hanno ucciso due volte.
Ora io mi chiedo: per la parte lesa uccidere un vivo è stare meglio?
Che differenza c’è ora tra la vittima ed il carnefice? Se uno è colpevole è giusto che paghi con una pena a 20 o 30 anni, che è sempre una
eternità. Qui non è il gran Hotel. Ma entrare a 30 o 40 anni e farsene
20 o 30, noi che siamo esseri umani e non tartarughe, con tutti i disagi che ci sono in carcere… si deve essere fortunati ad uscire in piedi.
177
CARMELO MUSUMECI. Come spiegare, cosa ancora dire alla gente? L’uomo
è nato libero e imprigionare un uomo per sempre, qualunque cosa abbia fatto, è una sconfitta per tutta l’umanità.
Per tutti ci dovrebbe essere una giustizia che dia al condannato la
possibilità di riparare i danni del reato che ha commesso.
Mentre il condannato alla pena dell’ergastolo ordinario non è più
sottoposto a una pena fissa perpetua perché può beneficiare della
concessione di permessi premio, dopo aver espiato almeno dieci anni
di pena (i quali, per effetto della liberazione anticipata, possono ridursi a otto), può essere ammesso al regime di semilibertà dopo aver
espiato almeno venti anni di pena (che possono ridursi a sedici, sempre per effetto della liberazione anticipata), può essere ammesso alla
liberazione condizionale quando abbia scontato almeno ventisei anni
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di pena (che possono diventare ventuno, sempre per il meccanismo
della liberazione anticipata), invece l’ergastolano ostativo non potrà
mai uscire dal carcere se non collabora con la giustizia, se al suo posto in cella non ci mette un altro o se non muore prima possibile. Il
futuro dell’ergastolano ostativo è tutto scritto: una lenta agonia senza
rimedi, tranne la morte, ma per quella c’è sempre tempo. Per l’ergastolano ostativo il carcere è un cimitero e la cella una tomba.
Ai ragazzi, direi: Non fatevi condizionare dai mass media. L’ex Presidente della Repubblica Sandro Pertini che in galera passò lunghi anni diceva spesso: – Ricordatevi quando avete a che fare con un detenuto, che molte volte avete davanti una persona migliore di quanto
non lo siete voi.
LUIGI PECICCIA. Ma tutte le belle parole che si possono usare rimango-
no sempre parole. È difficile sradicare ciò che i media, la politica, e altre persone inculcano nella mentalità delle persone, specialmente nei
giovani. Forse l’unico modo sarebbe quello di fare un paragone, con
un errore che una persona compie nella vita e che solo per quell’errore venga classificato perpetuamente.
L’ergastolo è una pena da eliminare dal Codice penale, che sia normale o ostativo. Lo Stato deve fare uno sforzo per recuperare le persone e restituirle migliorate alla società. Uno Stato che non riesce in
questo è uno Stato che non ha carattere, uno Stato debole.
PASQUALE DE FEO. La storia ci insegna che uomini e sistemi politici in
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nome di un bene assoluto hanno istituzionalizzato leggi contrarie alla civiltà democratica; anche gli atti disumani di Stalin e Hitler erano
avallati da leggi, ma questo non vuol dire che erano giusti.
La politica odierna, aiutata dai media, per coprire i problemi, i loro
fallimenti e il loro malaffare, indirizzano sui detenuti un linciaggio mediatico, consapevoli che sono privi di difese. Anche l’ergastolo rientra in
questa ottica, e per di più viene propinato alla gente che l’ergastolo non
si sconta perché è solo virtuale. Se non c’è perché non abolirlo?
La rivoluzione francese abolì l’ergastolo e mantenne la pena di morte, perché ritenevano che l’ergastolo era disumano.
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In Italia abbiamo abolito la pena di morte, anche quella militare; ci
siamo adoperati affinché avvenga in tutto il mondo, e questo è molto
meritorio per il popolo italiano e l’Italia.
Dopo le stragi del 1992 e le leggi emergenziali, ci furono tre persone indicate a vario titolo da pentiti di essere collusi con la camorra e
cosa nostra siciliana: Andreotti, Scotti e Martelli, ne sono usciti puliti, come sempre lo sono personaggi del genere. Un povero cristo
avrebbe preso non solo l’ergastolo, ma l’avrebbero murato vivo.
Oggi si ritorna a dire che le stragi del 1992 furono stragi di Stato,
con collusioni di politici al governo e i servizi segreti, una sorta di
strategia della tensione come negli anni 1970. A pagare questa emergenza con ergastoli a pioggia e la figura dell’ergastolo ostativo, sono
centinaia di poveri cristi.
Gli ergastolani sono gli ultimi schiavi della nostra era; non sarebbe
umano avere un guizzo di civiltà e abolire questa arcaica sanzione indegna di un Paese che si ritiene la culla del diritto?
Le persone cambiano, non possono mai rimanere sempre le stesse,
ed è criminale pensare che non cambino.
Ci sono tanti ragazzi che sono stati arrestati a 18 anni, condannati
all’ergastolo; Magistrati e Presidenti di Tribunali di Sorveglianza rigettano i benefici anche con la motivazione di non aver collaborato
con la giustizia. Più che abitare in Italia sembra di vivere nell’ex Germania dell’Est: “Chi collaborava con la Stasi era un ottimo cittadino,
chi non collaborava era tutto il peggio”. L’Italia negli ultimi 20 anni
sotto questo aspetto sta emulando l’ex Germania dell’Est che aveva
creato “un popolo di delatori”.
Paradossalmente sarebbe più umano ucciderci subito, così evitiamo
di soffrire noi, le nostre famiglie ed è un risparmio per lo Stato.
L’ergastolo è da eliminare perché disumano, come lo era l’ergastulum1 degli antichi romani.
Chiudo con una citazione di Ignazio Silone: “La morte dura un attimo e richiede un coraggio momentaneo, l’ergastolo è un’esistenza”.
1
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Nel diritto romano, il termine denotava lo stabilimento di lavoro dove veniva scontata la condanna ai lavori forzati.
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Ancora una lettera dal buio
Come può l’uomo pensare di appropriarsi della terra?
Deve prendere coscienza che è solo un passeggero di transito, alimentato da un fragile alito di vita.
La risorsa sociale dell’uomo che vive la condizione dell’ergastolo
“ostativo”, è rappresentata dalle testimonianze, vere, sincere; non è il
comodo pentimento del Caino di turno che divora Abele. Per avere
dei privilegi da una giustizia bugiarda.
Dobbiamo ricordarci che siamo uomini e sappiamo che non si vive
di solo pane, ma anche di testimonianze di vita.
Io sono stato represso per trenta anni nelle carceri speciali, mi è stato impedito di avere un’istruzione, sono stato costretto ad abbrutirmi
ogni giorno di più con la repressione sadica del potere sbagliato dei
governanti di turno.
All’uomo che vive nella nostra società senza conoscere il proprio
razzismo e si crede migliore di qualsiasi uomo, in qualsiasi luogo si
trovi, gli dico che non ha capito nulla della vita, che si è chiuso dentro la sua bollicina fragilissima di sapone.
E non vuole conoscere il mondo che lo circonda.
Per avere una collaborazione coi propri simili bisogna iniziare a non
cancellare la luce dalle menti delle persone.
È una vita che aspetto persone capaci, che sappiano farmi vedere la
luce che c’è oltre il buio.
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GIOVANNI FARINA
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APPENDICE
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Il diritto della pena
e la collaborazione sociale di giustizia
di Giuseppe Ferraro*
Se con questo libro i detenuti hanno risposto sulla condizione della
loro vita e sul perché non farsi collaboratori di giustizia, rinunciando
ai benefici della Legge, bisognerebbe pure da questa posizione, dalla
quale io stesso scrivo, domandarsi del perché di quelle condizioni e
dell’ergastolo a “fine pena mai”. Se questo è un libro di risposte, bisognerà pure, a leggerlo, farsi delle domande per rispondere in prima
persona su questa assenza di libertà e sui diritti di giustizia.
Il grado di democrazia di un Paese si misura dallo stato delle sue
carceri e delle sue scuole, quanto le carceri saranno più scuole e
quanto le scuole saranno meno carceri, tanto più alto sarà il livello di
democrazia di uno Stato. Porta amarezza costatare i punti in comune, a cominciare dal sovraffollamento, per arrivare alla mancanza di
personale e strutture, per finire alla cosiddetta dispersione ed evasione scolastica. C’è poi quel rimando, che non è solo di metafora, tra
inclusione e reclusione. Bisognerà allora mettere in discussione l’ordine e i confini di riconoscimento, di clandestinità e di devianza. I
margini dell’ordine sociale appaiono forse troppo stretti o forse ci
sarà da chiedersi come sia possibile stare entro i margini della legalità quando si è emarginati. Ancora più inquietante è la difficoltà di
distinguere i confini di legale e illegale. La sicurezza sociale si coniuga al benessere. Fuori di un tale rapporto i costi della sicurezza, tra
carceri, ordini e controlli diventano insostenibili e il diritto si separa
dalla giustizia. Quando poi si nomina la criminalità “organizzata” bi-
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* Il professor Giuseppe Ferraro insegna Filosofia della morale all’Università di Napoli Federico II, e in carcere tiene corsi di filosofia. Ha incontrato molte delle persone che intervengono in questo libro.
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sogna riconoscere che si è di fronte a un problema di ordine sociale.
Coinvolge tutti. Spesso in quell’“organizzata” si nomina l’effetto di
relazioni di comunità esposte alle degenerazioni perché rimaste senza società, poste fuori dalla mediazione istituzionale chiamata a garantire una comunità sociale e una società comune, dove ognuno è
persona.
Ed è questo il punto: che ne è in carcere della persona, quando il Diritto, nell’applicazione della pena, diventa disumano murando la Giustizia in un blindato. Anche il Diritto si educa. Si scrive. Si legge. Si fa
Legge. Si fa leggere. Va interpretato, di persona in persona, dal vivo.
L’ermeneutica, scienza dell’interpretazione, anche sul piano giuridico,
è sapere di ascolto. Un detenuto non è sempre, e solo, quello che ha
commesso un crimine. Il suo delitto non può essere indicato come la
data su una tomba della vita. Immutabile. Scolpito sul marmo del
proprio corpo. L’interpretazione è relazione. L’educazione è relazione.
La restituzione è racconto. Accade invece che chi entri in carcere perda la sua storia. Come un disco rotto, la sorveglianza ripete l’ostatività
al riconoscimento di ogni minima forma di resipiscenza e cambiamento. Potrà ferire la suscettibilità o apparire paradossale, e certo irriverente, ma l’ergastolo ostativo è come un’eutanasia rovesciata e ammessa. Si tiene in morte chi è in vita. La “persona” giuridica non può
sottrarsi all’espressione di persona umana. Né l’umano può sottrarsi
a ciò che non è umano perché sacro.
Senza andare oltre, basta fermarsi all’ipocrisia di un Paese, il Nostro,
che ha chiesto la moratoria per la pena di morte e continua a mantenere il carcere a vita. Se si guarda poi alla condizione delle carceri nel
cuore dell’Europa, lo scarto di democrazia è ancora più evidente. Accade allora che gli Stati Uniti denuncino come tortura il 41bis e accade che il Brasile a ragione del rifiuto di un’estradizione ci ricorda il “fine pena mai”. In fondo non è dissimile la vendetta del dente per dente con quella di vita per vita. In questione è la funzione della detenzione nell’ordine della democrazia.
Il carcere è lo specchio infranto della società. Quello in cui la democrazia s’infrange. Fino a quando la pena non sarà un diritto essa
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stessa, la giustizia sarà sempre rinviata, a vita. Se la sentenza è espressione dell’ordine del diritto, nella sua applicazione rischia ogni volta
di essere ingiusta. La sentenza è giusta di diritto solo quando la pena
è essa stessa un diritto, quella per ogni persona condannata di ripensare la propria colpa, il proprio gesto e restituire se stesso alla società,
restituendo in opera quel che ha sottratto alla società. Non si può immaginare altra forma di collaborazione di giustizia che non sia appunto espressione di una collaborazione di giustizia sociale. Accade
invece che il “pentimento” finisca col diventare un mezzo di scambio,
per cui si guadagna la propria libertà togliendola ad altri. L’Etica si rivolta, ed è paradossale, la dignità passa dall’altra parte, da chi non accetta di guadagnare la propria libertà incarcerando un altro cui è stato legato, un familiare o un amico o chi può nuocere amici e familiari. Bisognerà mettere nel numero dei motivi la perdita dell’identità.
L’essere doppiamente infame. La perdita del nome, della terra, della
comunità. Ricordo un agente di polizia penitenziaria, gli feci la domanda su quale momento ricordasse come più difficile. Rispose raccontando del reparto dei pentiti. Erano degli “spioni”, regrediti a bambini pronti a richiamare l’attenzione della guardia ad ogni minima
azione e gesto di altri. L’esasperazione massima di quello che è il clima carcerario: la diffidenza. Il carcere è l’accademia del sospetto.
Nessuno crede al detenuto. Chi entra in carcere presto sviluppa un
campo percettivo che intercetta ogni minimo, impercettibile, gesto
che porta a connotare uno stato e un’intenzione. Si è di fronte al criminale, al folle, al nemico. È come una rivista del male. Restano solo
le regole. Rigide. Vuote, quando non sanno più di relazione. Lo si
comprende presto in carcere come le regole senza relazioni siano vuote e come le relazioni senza regole siano selvagge e cieche. Non è dato
separare regole e relazioni senza perdere con la sicurezza anche la pratica dell’educazione e della cura, di sé come dell’altro. Se si vuole mettere qualcuno in difficoltà bisogna dargli fiducia e chiamarlo ad essere all’altezza della propria dignità di rispettarla e restituirla. Il lavoro
dell’agente di polizia penitenziaria è il più difficile, un corpo a corpo,
senza mediazioni, senza relazioni, senza parole.
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Siamo di fronte alla questione più importante della cultura della verità: la confessione cui segue il pentimento, la sua pena e il diritto. Occorre ripeterlo: il diritto alla pena non è un paradosso. Fin quando la
pena resta una punizione, non si potrà dire dell’educazione. Non ci
sarà restituzione. Non ci sarà perciò Giustizia nel Diritto che non restituisce.
Ho letto tante volte i libri di Agostino, le Confessioni. Ne ho più di
un’edizione tra i miei libri. Confesso, è il caso di scrivere, che non ne
avevo compreso il senso fino a quando non mi trovai di fronte Giuseppe. Mi chiese un colloquio personale, fuori del gruppo di classe del
corso di filosofia. Non chiedo mai delle azioni personali, delle colpe e
dei reati. Le persone sono chi e come sono nel loro volto, in presenza.
Nel tempo in cui siamo gli uni con gli altri. Giuseppe volle quel colloquio. Con mia sorpresa, mi raccontò tutto quello che lo aveva portato in carcere. Non gli avevo chiesto niente. Giuseppe però sentiva il
bisogno, doveva dirmi tutto quello che era stato. Capii allora il senso
della confessione. Era per stare in una relazione di amicizia vera, per
consegnarsi a quel che rappresentavo come regola di una relazione di
verità. Tenermi nascosta la sua storia sarebbe stato come avermi ingannato e se io avessi smesso di incontrarlo come prima dopo il suo
racconto, lo avrei ingannato. La nostra sarebbe stata una relazione
strumentale, non vera, non educativa, non di cura. Non poteva nascondermi nulla, confessarsi equivaleva a liberarsi e consegnarsi ad
un’espressione della regola di giustizia che si esprimeva nella relazione di amicizia segnata dalla filosofia. Senza interesse. Di verità. Di
esposizione. Sarebbe poi stato a me mantenere quella regola di relazione senza infrangerla e smentirla.
Capii solo allora la verità delle Confessioni di Agostino. Le scrisse per
consegnarsi alla regola di relazione che imponeva la sua fiducia in
Dio. Senza, non avrebbe potuto sentirsi accettato né mantenere il legame di fede. Confessarsi è parlare apertamente con l’altro che ti
ascolta e rilegarsi nella sua relazione assumendo la regola di amicizia
e di fiducia. È come rilegarsi allo stesso modo di un libro, come le
Confessioni, appunto, e trovarsi rilegato rispettando un ordine di di-
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scorso che chiunque può apertamente leggere e capire. Giuseppe ha
poi scritto davvero un libro e non di evasione, ma della realtà che
adesso rifiuta. Accade allora a Giuseppe di farsi espressione, in ogni
momento, del rispetto delle regole e della legalità. È accaduto tante
volte. Accade. Mariano mi confessò che nemmeno sapeva che ci fossero i diritti, lo ha capito in carcere. Prima c’erano solo le ragioni, che
diventano poi cattive, quando non si traducono nella grammatica del
diritto, diventavano vane e violente. Anche il diritto resta come una
regola senza relazione, vuota, quando non è in grado di accogliere le
ragioni.
Mi sorprese quel giorno Carmelo, quando mi consegnò il testo del
respingimento della sua richiesta di permesso. Vi erano elencate tutte
le sue vicende giudiziarie. C’era anche il rilievo che non si era fatto
pentito di giustizia, ovvero collaboratore di giustizia. Strano ancora,
viene da scrivere, non si usa l’espressione “pentito”, ma quella di “collaboratore di giustizia”. Evidente. Non si tratta di pentimento, come
possiamo intenderlo nella sua parola, perché “collaboratore di giustizia” è chi porta notizia delle colpe di altri, di quanto altri stanno tramando o abbiano tramato. È difficile sentire la parola “pentimento”
portata all’uso dello scambio di prigione. Che sia l’uno o l’altro il termine, farsi pentito o collaboratore di giustizia in questo modo si espone la Giustizia, sul piano sociale almeno, a un paradosso, che è di fatto una contraddizione che ne mina la funzione. Nello scambio di libertà, conseguente al pentitismo, può accadere di dar corso ad ingiustizie intollerabili sul piano sociale. La Giustizia in questi casi non si
può confondere e appiattire sul dettato giuridico del Diritto. Non c’è
giustizia senza restituzione sociale, senza un reinserimento nella comunità che porti ad una riconciliazione e una restituzione. Con pentitismo di giustizia si resta, purtroppo, su uno scambio di guerra. La
resipiscenza autentica, il dolore autentico, non si barattano. Reclamano un cambiamento di senso della propria vita.
Le persone che hanno scritto questo libro, quando sono entrate in
carcere, non sapevano scrivere. Hanno imparato a scrivere. Scrivendo
si sono iscritte nel testo, si sono fatti soggetti dentro il codice della co-
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municazione, dentro una grammatica che è linguistica quanto sociale, rispettandone le regole per comunicare, per legarsi a chi leggendo
può capire, ascoltare e domandare, chiedere a propria volta agli altri e
a se stesso. La pena dovrebbe essere innanzitutto questa, lo studio. La
lettura e la scrittura, sarebbe come una pena che libera e che nell’educazione alla cura di sé rende ancora più sofferta la colpa commessa, aprendo spazi interiori di libertà prima sconosciuti.
Giuseppe mi disse di quando fu catturato. Messo in carcere, non sapeva come comunicare con i suoi. Non sapeva scrivere. Giuseppe
adesso è laureato. Scrive. Ha una cultura sorprendente. Non è più
quello che è stato. Si trova in difficoltà con gli stessi suoi compagni di
ventura. È cambiato il suo linguaggio, sono altre le parole che danno
suono alla sua voce.
Spesso mi chiedo se continuare a tenere i corsi di filosofia in carcere. Il sapere fa più male. Saper leggere e scrivere e parlare, l’educazione fa più male a ripensare ai propri errori. Mi sono abituato a ripetere che i nostri sbagli sono tutti errori di scrittura. Ortografici. Sbagliano quando non rientriamo nel diritto dei segni a comporsi nell’ordine della comunicazione. Accade allora che ragione e diritto si separino. Accade di riconoscere le ragioni senza diritto di tanti che vivono nella marginalità della città. Accade però anche di riflettere che
bisogna tradurre le ragioni in diritto, ma questo è dare parola. E dare
parola è ascoltare. E ascoltare è aprire l’ordine dell’inclusione, estenderlo, modificarlo, renderlo capace di ben altro, del bene di tutti.
Allora è opportuno fare i conti. Siamo alla presenza di una guerra
data e non dichiarata. Non una guerra di un nemico esterno, nemmeno una guerra civile, nemmeno politica; siamo alla presenza di una
guerra sociale. Chi la combatte lo fa per sopravvivere a discapito della vita degli altri che si pongono sulla stessa rotta fuori dalla strada
delle regole. Si organizza contro altri organizzati per occupare un territorio di economia illegale. Non combatte contro lo Stato, danneggia
lo Stato, lo offende, ne uccide anche i rappresentanti che non si lasciano convincere a lasciar andare le cose come vanno.
Può ancora sorprendere, non più di tanto, che l’ergastolo ostativo,
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ma non solo, comprende gente del Meridione. Vorrà anche significare che una “questione meridionale”, se ancora esiste, passa anche per
la questione meridionale delle carceri.
Ogni guerra ha la sua fine. Prima o poi arrivano gli armistizi, i patteggiamenti. Le rese e le riconciliazioni, se si tratta di guerre intestine.
Anche l’esercito organizzato del terrorismo ha conosciuto fasi progressive fino alla chiusura di pagine di storia. Si può pensare a una riconciliazione, e comunque a una fine, anche della storia della mafia?
Sotto questo titolo “mafia” si comprende di certo più cose. Si comprende anche, e di più, una storia in atto, non finita, una pagina che
non si lascia ancora sfogliare. Ci sono però pagine concluse. Finite. Ci
sono le pagine di quanti scrivono questo libro che dicono di una storia che è finita. Il punto è questo.
Pensare ad una riconciliazione sociale significa attivare dei percorsi
di restituzione e riconciliazione. A partire dall’ammissione dei fatti di
cui si è stati autori, da parte degli autori stessi. Significa impegnarsi
sul piano dell’opera sociale di quanti si sono trovati ad essere autori
di quelle “imprese”. Sarebbe auspicabile un incontro popolare con la
gente del paese offeso, con la comunità che è la prima vittima dei danni che produce chi gli appartiene. Ci sono faide e lotte d’interessi che
coinvolgono persone di una comunità che resta offesa e tradita nella
sua interezza, pagandone le responsabilità al prezzo dell’esclusione e
della diffamazione, dell’emarginazione.
Si deve poter avviare un tale percorso. Accidentato quanto si vuole,
ma formativo, restitutivo del senso di comunità negata.
È la città che si fa scuola quando il grado di democrazia di un Paese viene elevato all’esigenza del benessere e della sicurezza di tutta la
comunità. Non sarà solo un’opera di mediazione, ma un’opera di ricostruzione morale dell’unità del Paese, che ritrovi lo Stato come garante del rapporto di comunità e società, vale a dire di un comune
sentire e di uno sviluppo economico comune.
L’etica non è solo un’esigenza sociale, ma lo sviluppo organizzato
di un percorso formativo. Chi ha scritto questo libro, aprendo il
blindato della detenzione sulla pagina della propria testimonianza
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di vita negata è già su questo percorso. È già avanti. Bisogna che questo libro non venga chiuso, bisogna che non resti recluso a quanti,
tutti, devono sentirsi chiamati a dare risposte ai tanti perché che, chi
ha risposto alle domande poste dall’esterno, deve dare di quell’inferno dell’interno che è l’inferno dell’ergastolo ostativo. Prima che
passino con gli anni tante altre vite, prima che giunga dalla Comunità Europea l’ingiunzione alla definizione certa della pena, perché
sia giusta e umana. La Costituzione del nostro Paese lo contempla,
l’ordinamento penitenziario lo ribadisce, tranne che per un’emergenza che può finire solo quando la si dichiari finita operandone la
sua conclusione sul piano della riconciliazione su terre bagnate dall’odio e non dal mare.
C’è tanto da fare e con le persone che parlano da questo libro si è
cominciato già da troppo tempo a farlo, bisogna che si costituisca un
fare comune, un’opera che impegni in un agire etico sociale ruoli di
giustizia, religiosi, filosofi, esperti di settori specifici, operatori sociali, scuole, amministrazioni locali, garantendo la partecipazione a decisioni che valorizzino luoghi e comunità del Paese negate e offese. Alla fine della conoscenza c’è l’innocenza.
L’adagio popolare dice che l’innocenza si perde e colpevoli si diventa. In una democrazia che salvaguarda il bene sociale della comunità
perseguendo un processo formativo di restituzione e di riconciliazione diventa un impegno istituzionale promuovere ogni azione che
porti a un rovesciamento dell’adagio popolare per affermare che la
colpa si può perdere perché innocenti si diventa.
Conosco molte di quelle voci che qui si scrivono nel libro. Conosco
i volti di queste voci. So pure della richiesta di qualcuno ad avere un
colloquio, Sebastiano, che non è stato ancora concesso. E non per diniego, ma per affollamento d’incombenza, e in questo caso, potrei
scrivere per l’esitazione e il rinvio senza fine che viene dalla natura di
pena senza diritto.
I detenuti sono in attesa di nulla. Quelli a “fine pena mai” aspettano, senza aspettarsi nulla. Ed è una condizione impossibile e reale. Ho
conosciuto detenuti in carcere da quarant’anni. Ne avevano poco più
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o poco meno di venti quando sono entrati in carcere. Se li mettessero
fuori del portone, riuscirebbero a mala pena a camminare lungo la
strada. Hanno movimenti ristretti, autistici.
Le carceri, così come ancora sono, rappresentano un anacronismo
storico nello sviluppo della democrazia in Europa. Così come sono
somigliano a magazzini di corpi ammassati e dimenticati.
Fin quando l’altro, il carcerato, sarà sempre “lo stesso”, fin quando
sarà sempre “carcerato”, fin quando non avrà storia, racconto di sé,
non potrà mai essere altro, non sarà mai un altro. Non potrà mai essere espressione, come ogni altro, dell’Altro, chi è più vicino a Dio di
me, scriveva un filosofo. L’altro è l’affaccio sulla vita, all’io si presenta
come domanda sul senso del proprio essere quello che si è e dove e come si vive, qui, fuori, all’aperto, in un fuori soffocato da un dentro
senza voce. L’altro recluso a fine pena mai è più vicino alla vita di
quanto possa esserlo io che scrivo nella mia stanza. E penso alle stanze delle case dei detenuti, ai figli, a quella fila indiana che attraversa il
cortile del carcere tra il cancello e il portone di ferro. Sono bambini,
padri, madri, donne. In fila con gli occhi che si abbassano allo sguardo che cerca di avvicinarli con cura, perché confondono cura e paura,
premura e castigo. Anche loro sono il carcere. Certe volte penso che
fingano una parte, quella di non voler sapere e capire.
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Indice
Prefazione di d. Luigi Ciotti ............................................................. 113
Il mondo considera bene il bene Questo è il suo male ....................... 19
Gli autori ...........................................................................................114
Fermoimmagine................................................................................ 25
L’ergastolo ostativo............................................................................. 28
Il pentimento, la collaborazione........................................................ 38
La vita in carcere ................................................................................ 46
La comunicazione .............................................................................. 63
La famiglia, gli affetti, i compagni di carcere, gli amori .................. 67
I permessi, i benefici .......................................................................... 90
Insomma, quali diritti... .................................................................... 97
La salute ............................................................................................ 102
La rieducazione ................................................................................ 108
Morire in carcere.............................................................................. 115
L’opinione pubblica ......................................................................... 124
Il Perdono ......................................................................................... 134
Uccidere ............................................................................................ 139
Giustizia o vendetta? ........................................................................ 150
Riflessioni sulla vita ......................................................................... 155
Ricapitolando ................................................................................... 174
Ancora una lettera dal buio............................................................. 180
Appendice ........................................................................................ 181
Il diritto della pena e la collaborazione sociale di giustizia
di Giuseppe Ferraro........................................................................... 182
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eretica S P E C I A L E
S T A M P A
direttore editoriale
A L T E R N A T I V A
MARCELLO BARAGHINI
http://www.stampalternativa.it
e-mail: [email protected]
CONTRO IL COMUNE SENSO DEL PUDORE, CONTRO LA MORALE CODIFICATA,
CONTROCORRENTE. QUESTA COLLANA VUOLE ABBATTERE I MURI EDITORIALI
CHE ANCORA SEPARANO E NASCONDONO COLORO CHE NON HANNO VOCE.
SIANO I MURI DI UN CARCERE O QUELLI, ANCORA PIÙ INVALICABILI
E RESISTENTI, DELLA VERGOGNA E DEL CONFORMISMO.
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A CURA DI FRANCESCA DE CAROLIS
URLA A BASSA VOCE
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ANYONE!
ROBERTA ROSSI
disegno di copertina di
VAURO
© 2012 Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri
Casella postale 97 – 01100 Viterbo
fax 0761.352751
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ISBN 978-88-6222-297-6
Finito di stampare nel mese di giugno 2012
presso la tipografia IACOBELLI srl via Catania 8 – 00040 Pavona (Roma)
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