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L`importanza dell`inadempimento
Mauro Grondona* Gravità dell’inadempimento, buona fede contrattuale, clausola risolutiva espressa, poteri del giudice sul contratto: per una difesa antidogmatica dell’autonomia privata e alla ricerca di un criterio di giudizio** Sommario: 1. I problemi – 2. Il principio di non scarsa importanza dell’inadempimento – 3. L’approccio solidarista alla buona fede – 4. Assiologia solidarista e buona fede contrattuale – 5. La buona fede solidarista quale veicolo di giustizia sostanziale – 6. L’autonomia privata tra individuo e società – 7. Una lettura assiologica dell’autonomia privata – 8. I problematici fondamenti della buona fede solidarista – 9. Per un approccio individualista alla teoria generale del contratto – 10. Giudizio di gravità dell’inadempimento e clausola risolutiva espressa: il ruolo della buona fede 1. I problemi. Il tema oggetto di questo scritto ha due prospettive: una più ristretta e una più generale. Nella prospettiva più ristretta, il tema è quello del rapporto tra il principio espresso dall’art. 1455 cod. civ. it. («Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra»), e la clausola risolutiva espressa, disciplinata all’art. 1456 («I contraenti possono convenire espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola risolutiva»). * Docente di Istituzioni di diritto privato e di Diritto privato europeo dell’Università di Genova. Avvocato in Genova. E-mail: [email protected]. ** Consiglio Nazionale Forense/Scuola Superiore dell’Avvocatura – VIII Congresso giuridico-forense per l’aggiornamento professionale. Roma, Complesso monumentale di S. Spirito in Sassia, 14-17 marzo 2013. 1 Di qui il problema: il principio di cui all’art. 1455 si applica anche in presenza di una clausola risolutiva espressa? Oppure l’esercizio di autonomia privata concretatosi nell’inserimento nel contratto di una clausola risolutiva è sovrano fino al punto di escludere ogni controllo giudiziale circa la gravità dell’inadempimento? Nella prospettiva più generale, il tema è quello dei poteri del giudice sul contratto esercitati attraverso l’applicazione delle disposizioni (e quindi attraverso la produzione in via interpretativa di norme) appena citate; cioè, il tema del controllo giudiziale sul contratto, che è ovviamente riconducibile alla fisiologica tensione tra autonomia privata ed ordinamento giuridico1; detto ancora in altre parole, tra ordine giuridico dei privati ed ordine giuridico dello Stato2. 2. Il principio di non scarsa importanza nell’inadempimento. Partiamo dall’art. 1455: letteralmente prevede che la risoluzione giudiziale del contratto è subordinata al giudizio circa la gravità dell’inadempimento3. Dottrina e giurisprudenza italiane hanno letto e leggono questa disposizione nel senso che essa esprime criteri oggettivi e criteri soggettivi ai quali ancorare tale giudizio4. Consideriamo innanzitutto il criterio oggettivo: prima facie, esso non è altro che la gravità dell’inadempimento stesso, letta alla luce dell’economia del contratto5. 1 In tema, cfr. ad esempio H. Dagan, The Limited Autonomy of Private Law, in The American Journal of Comparative Law, 2008, vol. 56, p. 809 e ss. 2 Sulla questione, volendo, si può vedere il mio libro: L’ordine giuridico dei privati. Premesse teoricogenerali per uno studio sul diritto dispositivo in ambito contrattuale, Soveria Mannelli-Bergamo, Rubbettino-Leonardo Facco, 2008; e si veda invece senz’altro l’ampio e dettagliato saggio di A. Gentili, Invalidità e regole dello scambio, in S. Pagliantini (a cura di), Le forme della nullità, Torino, Giappichelli, 2009, p. 217 e ss. 3 Trattano ex professo il tema i seguenti studi monografici: G. Collura, Importanza dell’inadempimento e teoria del contratto, Milano, Giuffrè, 1992; M.G. Cubeddu, L’importanza dell’inadempimento, Torino, Giappichelli, 1995; C. Turco, L’imputabilità e l’importanza dell’inadempimento nella clausola risolutiva espressa, Torino, Giappichelli, 1997; F. Sartori, Contributo allo studio della clausola risolutiva espressa, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012. 4 Nell’abbondante letteratura, v. ad esempio la sintesi di C.M. Bianca, Diritto civile, 5. La responsabilità, Milano, Giuffrè, 1994, pp. 272-273: «La gravità dell’inadempimento dev’essere valutata in relazione all’interesse del creditore secondo un criterio oggettivo dovendosi reputare grave un inadempimento che pregiudichi in misura normalmente intollerabile le legittime aspettative del creditore. Dottrina e giurisprudenza ammettono la rilevanza anche di un criterio soggettivo, che tenga conto della particolare importanza che la prestazione può avere per il creditore. La particolare importanza della prestazione deve tuttavia risultare dal contratto, non potendosi rimettere all’incontrollato apprezzamento dello stesso creditore un requisito previsto dalla legge come limite al suo potere di risoluzione». Amplius, v. G. Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, V, Rimedi – 2, a cura di V. Roppo, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 123-131, e G. Sicchiero, La risoluzione per inadempimento. Artt. 1453-1459, in Il Codice Civile. Commentario fondato da P. Schlesinger, diretto da F.D. Busnelli, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 553-573. 2 Quindi, il primo elemento di cui bisogna tenere conto è il valore della prestazione inadempiuta, da rapportarsi al valore complessivo delle prestazioni contrattuali6. In questo modo si può accertare se vi sia stata un’alterazione del sinallagma contrattuale7, cioè dell’equilibrio economico, dell’assetto economico del contratto per come previsto, voluto e realizzato dalle parti. Parlare di equilibrio del contratto, naturalmente, non significa fare riferimento ad una situazione di equilibrio ideale, astratto; al contrario, significa riferirsi all’economia in concreto del contratto, in altri termini, alla sua funzione economico-individuale, per usare una formula ormai entrata nell’uso corrente dei giuristi8. Il criterio soggettivo riguarda invece l’interesse del creditore ad ottenere un adempimento esatto, cioè una prestazione da cui consegua un adempimento conforme a quanto indicato nel contratto. È dunque sì un criterio soggettivo, perché si riferisce alla pretesa soggettiva del creditore, ma occorre intendersi: la valutazione circa la sussistenza di un interesse del creditore giuridicamente tutelabile attraverso lo strumento della risoluzione non può essere rimessa al creditore stesso. Di talché, l’interesse soggettivo, per poter essere giudizialmente concretizzato e ricostruito, ha necessariamente bisogno di indici oggettivi di giudizio. La strada è dunque quella di un interesse bensì soggettivo, ma oggettivato alla luce dell’assetto economico del contratto, e che dunque sia configurabile come qualcosa di 5 Osserva infatti V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, Giuffrè, 2001, pp. 961-962, che il criterio oggettivo deve essere riferito «alla funzione e al peso che la prestazione inadempiuta ha nel quadro dell’economia complessiva del contratto, valutata in concreto» (corsivo dell’a.). Ma v. ora la II ed. dell’opera (2011), p. 900. 6 Così L. Nanni, Sub art. 1455, in L. Nanni-M. Costanza-U. Carnevali, Della risoluzione per inadempimento, t. I, 2. Artt. 1455-1459, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, BolognaRoma, Zanichelli-Soc. ed. Foro italiano, 2007, p. 9, ove ampi riferimenti giurisprudenziali. 7 F. Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova, Cedam, 2004 (IV ed.), vol. II, t. I, p. 563, rileva che dall’art. 1455 emerge «un principio di proporzionalità fra le prestazioni contrattuali». 8 L’espressione, come ben noto, risale a G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico, Milano, Giuffrè, 1966, in particolare il Capitolo IV («L’interesse meritevole di tutela»), pp. 345-412, spec. pp. 371: «La causa come funzione economico-individuale sta appunto ad indicare il valore e la portata che all’operazione economica nella sua globalità le parti stesse hanno dato. Valore che può essere solo se si considerano, veramente, tutti gli elementi di cui si compone il negozio giuridico; perché il negozio concreto, da tutti questi elementi primari e secondari viene caratterizzato», e 372: «Considerare la causa come la funzione economica individuale non significa riproporre una definizione di causa che riecheggi da vicino quella per la quale causa del negozio era lo scopo meramente soggettivo degli autori del negozio stesso. Si vuole soltanto mettere in luce che, se il negozio esprime una regola privata, la causa è l’elemento che collega l’operazione economica oggettiva ai soggetti che ne sono autori; e che quindi la causa è l’indice di come il regolamento negoziale di interessi sia l’espressione oggettiva di talune finalità soggettive». 3 diverso dalla generica pretesa del creditore all’adempimento: l’assetto economico del contratto è ciò che qualifica la pretesa del creditore come interesse soggettivo rilevante ai sensi dell’art. 14559. Con altre parole, si potrebbe dire che l’interesse del creditore in discorso è un interesse qualificato sotto un triplice, ma strettamente unitario, profilo: è qualificato dall’assetto giuridico-contrattuale (regolamento); è qualificato dall’economia del contratto (programma economico); è qualificato dalla funzione economica individuale del contratto (causa in concreto). Questa prospettiva, evidentemente, è quella adottata dalla moderna – cioè novecentesca – teoria generale del contratto10, che guarda alla volontà delle parti come ad una volontà che si oggettivizza nel regolamento contrattuale. Emerge allora che il criterio oggettivo ed il criterio soggettivo sono appunto due facce della stessa medaglia: due aspetti di ciò che gli studiosi sono ormai soliti chiamare «economia del contratto»11; l’affare, per come configurato dai legali delle parti attraverso il regolamento contrattuale. Di qui del resto derivano i ben noti dibattiti sui limiti del controllo giudiziale dell’assetto economico del contratto12 e sulle tecniche di contrasto a tale «attivismo giudiziario». 3. L’approccio solidarista alla buona fede. Il fatto che il programma economico cui il contratto dà una veste giuridica sia la base del giudizio ex art. 1455 ci spiega perché una parte significativa della dottrina più 9 In questo senso, v. P. Trimarchi, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, Giuffrè, 2010, pp. 67-68: «La valutazione dell’interesse del contraente insoddisfatto dovrà farsi con riferimento alla specificità del caso concreto, tenendo conto di quanto risulta dal contratto e dalle circostanze note o conoscibili dall’altra parte. Naturalmente, nel dubbio si può presumere che una valutazione condotta secondo criteri generali e oggettivi corrisponda all’interesse del caso concreto». 10 Una lettura di riferimento è il volume di É. Savaux, La théorie générale du contrat, mythe ou réalité?, Paris, L.G.D.J, 1997; sullo specifico fenomeno dell’oggettivazione del contratto, molto incisive le pagine di E. Roppo, Il contratto, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 266-278. Va ora visto il bel quadro di sintesi tracciato da G. Alpa, Le stagioni del contratto, Bologna, Il Mulino, 2012. 11 Nella letteratura italiana in materia, uno tra gli studi più celebri è quello di M. Bessone, Adempimento e rischio contrattuale, Milano, Giuffrè, 1969 (rist. inalt. 1975), in particolare il Capitolo 5 («La cernita delle circostanze apprezzabili e i criteri di distribuzione del rischio contrattuale»), pp. 343-403. 12 In tema, si veda soprattutto il saggio di P.G. Monateri, Ripensare il contratto: verso una visione antagonista del contratto, in Rivista di diritto civile, 2003, I, p. 409 e ss., spec. p. 415, ove il rilievo che il giudice «non è più lì per rifare il contratto per le parti, per la buona ragione che le parti non sono una coalizione unitaria, che unitariamente chiede aiuto al giudice, ma rappresentano poli antagonisti, onde se il giudice rifà il contratto, lo rifà non per le parti, ma per una delle parti. Il che è politicamente giustificato solo in casi determinati di protezione, ma non nella generalità dei casi» (corsivo dell’a.). 4 recente sia orientata nel senso di una lettura interpretativa dell’art. 1455 conforme alla regola di buona fede oggettiva, cioè alla regola di correttezza contrattuale13. Qui si apre evidentemente un punto molto delicato, perché, come del resto è ben noto, il ricorso alla buona fede si presta ad usi molteplici: c’è infatti un uso della buona fede che potremmo qualificare «solidarista»14, contrapposto ad un uso che potremmo qualificare «individualista»15. Altrettanto noto è che, almeno nelle intenzioni dichiarate, la maggior parte della dottrina e della giurisprudenza aperta alla valorizzazione della buona fede ha un approccio solidarista16. Che in breve vuol dir questo: il contenuto economico del contratto, e 13 Il riferimento è in particolare al libro di C. Turco, L’importanza e l’imputabilità dell’inadempimento, cit., passim, ma spec. p. 143: «[L]a buona fede oggettiva [concorre] in particolare a specificare la prestazione dovuta, includendovi (ed identificandosi con) l’impegno comportamentale del debitore a porre in essere tutto ciò che si palesi per l’appunto indispensabile al conseguimento, nell’interesse del creditore e secondo un criterio di normalità, del “risultato utile” quale scopo dell’obbligazione» (corsivo dell’a.). 14 Cfr. A. Somma, Buona fede contrattuale e gestione del conflitto sociale, in And. D’Angelo-P.G. Monateri-A. Somma [con la collaborazione di C. Amodio], Buona fede e giustizia contrattuale. Modelli cooperativi e modelli conflittuali a confronto, Torino, Giappichelli, 2005, p. 75 e ss., spec. pp. 93-94, ove una connotazione del modello di buona fede solidale, caratterizzato dalla «valorizzazione del conflitto e [dalla] tipizzazione del contesto», e come tale contrapposto al modello politico-giuridico ordoliberale. Ad avviso di Somma, «la valorizzazione del conflitto avviene in vista di esiti certamente riconducibili al proposito di incidere sui termini della dialettica tra le forze del mercato, tuttavia non con l’imposizione di un determinato ordine, bensì attraverso un rafforzamento della posizione della parte ritenuta strutturalmente più debole. Altrimenti detto, la buona fede solidale incide sul conflitto sociale realizzando un’equa distribuzione delle armi tra le parti in causa e non anche indirizzando l’esito del confronto»; di più, l’impiego della buona fede conflittuale e solidale «mira a rendere effettivo il gioco democratico in termini che – utilizzando la terminologia della carta fondamentale italiana – comportano una rilettura del dovere privato “di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) alla luce del dovere pubblico di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3). Dovere pubblico che, sia detto per inciso, potrebbe anche essere direttamente posto a fondamento della conformazione dell’attività privata». 15 Cfr. And. D’Angelo, La buona fede ausiliaria del programma contrattuale, in And. D’Angelo-P.G. Monateri-A. Somma, Buona fede e giustizia contrattuale, cit., p. 1 e ss., spec. p. 8: «Poiché la buona fede implica il valore di fedeltà dei contraenti al vincolo che hanno reciprocamente assunto, il giudice, nel decidere la controversia alla stregua di essa, deve ermeneuticamente ricostruire l’assetto complessivo di interessi stabilito dalle parti nella convenzione, il “programma contrattuale”, e risolvere il caso mediante la costruzione di una regola, non espressa nella convenzione, che sia coerente, o quantomeno compatibile, con la pattuita composizione degli interessi antagonisti. Ancorando il giudizio a un vincolo di congruenza con le direttive convenzionali, pur non specificamente regolatrici del conflitto concretamente insorto, si tende a temperare i rischi di arbitrio, e l’inconveniente di imprevedibilità, di decisioni fondate su di una “clausola generale” che, in quanto tale, attribuisce al giudice ampi ambiti di discrezionalità». Amplius, cfr. Id., La buona fede, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XIII, Il contratto in generale, t. IV**, Torino, Giappichelli, 2004; nonché Id., Contratto e operazione economica, Torino, Giappichelli, 1992. 16 Tra gli scritti più recenti, si vedano le puntuali e incisive analisi giurisprudenziali di R. Natoli, Abuso del diritto e abuso di dipendenza economica, in Contratti, 2010, p. 524 e ss., e di C. Restivo, Abuso del diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche su una sentenza eterodossa, in Rivista critica del diritto privato, 2010, p. 341 e ss.; in senso più generale, cfr. altresì lo scritto di A. Gnani, Contrarietà a buona fede e invalidità del contratto: spunti ricostruttivi, in Rivista di diritto civile, 2009, II, p. 435 e ss. 5 quindi l’equilibrio economico del contratto, è messo in relazione non con se stesso, in quanto espressione e prodotto dell’autonomia privata, in quanto unità di misura della ratio economica del contratto, in quanto assetto economico che viene reso (almeno in gran parte) esplicito attraverso il regolamento contrattuale17, ma con i valori inderogabili dell’ordinamento, ed inderogabili in quanto tendenzialmente contrapposti all’autonomia privata18, cioè agli esiti che l’autonomia privata ha prodotto all’interno di quello specifico contratto. Tra questi valori, inevitabile il richiamo alla solidarietà economica e sociale19. A questo punto, un chiarimento si impone (pur non potendo in questa sede essere approfondito): una visione moderna del rapporto contratto/Stato (e quindi del rapporto contratto/mercato20) non sottoscrive la tesi secondo la quale l’autonomia privata è fonte di se stessa ed è regola di giudizio di se stessa; è ovvio, infatti, che l’autonomia privata è soltanto uno dei fattori di produzione dell’ordinamento giuridico, al cui interno va collocata e compresa. Questa doverosa cautela (onde evitare dogmatismi libertari: come se l’autonomia privata fosse sempre e comunque sotto attacco da parte dell’ordinamento statuale; come se l’autonomia privata fosse per propria natura sempre in conflitto con l’ordinamento 17 Un illustre autore italiano quale è Rodolfo Sacco ha osservato, proprio in riferimento alla risoluzione, che, per capirne il senso, «bisogna capire il senso del contratto, nel cui campo il contraente è la misura di tutte le cose»: R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da R. Sacco, Torino, Utet, 2004 (III ed.), t. II, p. 633. 18 Tra gli autori che più approfonditamente hanno studiato il tema, va certamente richiamata l’opera di Pietro Perlingieri e della sua Scuola; in particolare, v. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2006 (III ed. del tutto rinnovata e corredata di note), spec. il Capitolo VIII («L’autonomia nella pluralità e gerarchia delle fonti e dei valori»), pp. 289-429; cfr. soprattutto p. 299, a proposito dell’apporto interpretativo desumibile dalla prassi, ed ivi il rilievo critico per cui i precedenti giurisprudenziali, le prassi giudiziaria e notarile «sono da accogliere nei limiti della loro rispondenza ai princípi giuridicoformali, evitando cioè di attribuire all’effettivo modo nel quale funziona il sistema la virtù di contraddirlo»; p. 306, a proposito della gerarchia dei valori, ove il rilievo che «[i]l valore è unitario, i suoi aspetti molteplici: politici, sociali, etici, filosofici, giuridici. […] Il valore è espressione non di un unico criterio (quello della razionalità o quello sociale o politico o economico), ma di un criterio sincretico, dovuto a tanti profili tutti concorrenti. Al di fuori di questa soluzione problematica v’è soltanto un criterio al quale il giurista può e deve far riferimento: il dato normativo, espressione e sintesi della molteplicità dei criteri che tendono ad individuare il valore»; pp. 327-328: «[G]li atti di autonomia hanno un comune denominatore nella necessità di essere volti a realizzare interessi e funzioni meritevoli di tutela e socialmente utili; e nell’utilità sociale v’è sempre e comunque l’esigenza che atti e attività non siano in contrasto con la sicurezza, la libertà, la dignità umana (art. 41, comma 2, cost.)»; p. 376: «L’autonomia si colloca tra libertà e giustizia contrattuale». 19 L’art. 2 della Costituzione italiana del 1948 recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». 20 V. ancora A. Gentili, Invalidità e regole dello scambio, cit., passim. 6 statuale; come se l’autonomia privata fosse sempre e unicamente il simbolo della libertà individuale e l’ordinamento sempre e unicamente il simbolo dell’oppressione collettiva) vuole anche sottolineare come il rapporto individuo/Stato (sotto il profilo dell’autodeterminazione economico-negoziale) sia dinamico; di talché, è quantomeno discutibile l’idea per cui l’ordinamento giuridico, esterno all’autonomia privata in quanto ordine statuale, o conforma quest’ultima ai suoi valori, oppure la reprime. Più corretto, e realistico, è invece ritenere che tale rapporto sia biunivoco ed inclusivo: i valori dell’ordinamento, alla luce dei quali sarà certamente filtrato il prodotto dell’autonomia privata, sono costruiti (anche) attraverso il continuo esercizio (individuale o collettivo) dell’autonomia privata stessa. Quindi, la relazione autonomia privata/ordinamento non è da vedersi soltanto in senso unidirezionale (l’ordinamento approva o reprime l’autonomia privata, in base ad un giudizio di meritevolezza degli interessi perseguiti)21, ma anche (e io direi, pur con qualche cautela, soprattutto) in senso bidirezionale22, perché l’innegabile e indispensabile contenuto assiologico del diritto dipende pure dall’esercizio dell’autonomia privata, cioè dall’azione umana23. Tornando allora all’uso solidaristico della buona fede, sotto il profilo della politica del diritto (di cui il giurista non deve disinteressarsi, rifugiandosi feticisticamente nel tecnicismo giuridico, illusorio e quindi mai davvero appagante24), non si tratta di un’operazione di poco momento: lo scopo di tale approccio, che del resto non è celato, è 21 Cfr. spec. P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., pp. 376-377: «L’autonomia negoziale si conforma alle scelte di fondo che caratterizzano l’ordinamento italo-comunitario, secondo i dati normativi (princípi e regole) desumibili dall’ordinamento stesso nella sua unitarietà e completezza. L’autonomia negoziale si collocherebbe altresì tra libertà e mercato libero. Ma il mercato è uno statuto normativo, sì che il problema è quale sia lo statuto normativo conformativo del mercato e quindi dell’autonomia negoziale: la medesima regolamentazione dell’autonomia negoziale diventa ad un tempo regolamentazione del mercato». 22 Cfr. spec. H. Dagan, The Limited Autonomy of Private Law, cit., spec. pp. 811: «Private law theory can be told as a story of the competition between two accounts of the relationships between private law and social values» e 812: «[M]any so-called public values do, and in fact should inform private law, without undermining the normative significance of its bipolarity. In this sense, then, private law can never be autonomous from the state whose values it is supposed to promote». 23 In tema, il riferimento doveroso, pur nella sua alta problematicità, è alla monumentale ricerca di L. von Mises, Human Action: A Treatise on Economics, San Francisco, Fox & Wilkes, 1996 (4th rev. ed.; I ed. 1949; rev. ed. 1963; esiste anche una trad. castigliana pubblicata da Unión Editorial). 24 Cfr. il saggio lucido e appassionato di R. Marra, Per una scienza di realtà del diritto (contro il feticismo giuridico), in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2008, p. 317 e ss. [prima parte], e 2009, p. 5 e ss. [seconda parte]. 7 quello di utilizzare il contratto per realizzare obiettivi di giustizia sostanziale tra le parti e all’interno della società25. In altre parole, si tratta di una funzionalizzazione del contratto in vista del perseguimento della giustizia contrattuale (dimensione endo-contrattuale) e della giustizia sociale (dimensione eso-contrattuale). Se il contratto, in quanto operazione economica, è «giusto», non soltanto il rapporto tra i contraenti sarà in equilibrio economico (giustizia commutativa), e come tale conforme ai valori dell’ordinamento innestati all’interno del contratto (da cui l’approvazioneautorizzazione dell’operazione economica da parte dell’ordinamento), ma saranno in equilibrio assiologico26 anche le azioni economico-negoziali attuatesi nella società, considerata quale aggregato istituzionale derivante dalle condotte individuali, da cui un assetto sociale «giusto»27. Detto altrimenti, i risultati delle interazioni tra condotte individuali saranno giudicati, ex post, soddisfacenti a parte ordinamenti. L’idea, dunque, è che, per realizzare siffatto obiettivo, il contratto debba sempre più perdere la sua matrice individualistica per arricchirsi di un plusvalore di carattere pubblicistico28, che gli è imposto ab externo. 25 In chiave critica, ed anche per indispensabili ulteriori riferimenti, cfr. soprattutto l’efficace scritto di S. Mazzamuto, Il contratto europeo nel tempo della crisi, in Europa e diritto privato, 2010, p. 601 e ss., in particolare pp. 636-637: «La tesi che attribuisce al giudice la funzione di integrare il contenuto del contratto in attuazione del principio di solidarietà ha […] il sapore di un’appropriazione indebita a scapito del legislatore, al quale solo è demandato il compito di predisporre le regole di attuazione di tale principio cui l’autonomia privata è tenuta ad uniformarsi e di consentire l’intervento del giudice nel caso in cui tali regole non vengano rispettate»; e p. 612: «Se è già fondato il sospetto di una forzatura riguardo alla pretesa di rintracciare nelle disposizioni normative sull’intervento giudiziale nel contratto una comune vocazione alla giustizia contrattuale, è ancora più fondato il sospetto che il perseguimento della giustizia sociale per il tramite dell’arricchimento del contenuto del contratto si collochi nell’area dell’utopia piuttosto che in quella della realtà effettuale». Amplius, sul tema, cfr. il corposo saggio di G. Smorto, Autonomia contrattuale e diritto europeo, in Europa e diritto privato, 2007, p. 325 e ss. 26 Nel senso del testo, l’equilibrio assiologico è il genus al quale è riconducibile la species dell’equilibrio economico, in base al rilievo per cui i rapporti economici sono funzione dell’assiologia generale della società. 27 V. l’ampia ricerca di U. Perfetti, L’ingiustizia del contratto, Milano, Giuffrè, 2005, passim ma spec. il Capitolo II («Giustizia materiale del contratto e strumenti funzionali»), pp. 229-372. 28 Sono parole, citate quasi alla lettera, di F. Longobucco, Violazione di norma antitrust e disciplina dei rimedi nella contrattazione “a valle”, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, p. 51. In questo senso, cfr. l’approfondita analisi di G. Marini, Distribuzione e identità nel diritto dei contratti, in Rivista critica del diritto privato, 2010, p. 63 e ss., il quale, nell’ambito di una riflessione circa l’asimmetria di potere contrattuale, che «non è più il frutto della relazione ineguale dei contraenti, ma è ricondotta invece all’esistenza delle cd. market failures, cioè di situazioni che impediscono al mercato di funzionare correttamente. […] E, nelle versioni più estreme, la presenza di una market failure è diventata il principale, quando non l’unico fattore, che legittima l’intervento regolamentare» (p. 79), in particolare osserva: «Se il carattere regolamentare dell’intervento non viene più negato, allora, l’interferenza 8 4. Assiologia solidarista e buona fede contrattuale. Se, sul piano descrittivo, questo è ciò che sta avvenendo nel tempo presente, sul piano critico occorre tuttavia rilevare che non si tratta di una riedizione dell’antiindividualismo contrattuale così tipico degli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso, perché inevitabilmente impregnato di marxismo29. Oggi c’è qualcosa di più e di diverso: il conflitto (del tutto fisiologico, e come tale ineliminabile, anche perché benefico) tra autonomia privata ed ordinamento giuridico è impiegabile come strumento, «a spontaneismo moderato», della trasformazione giuridica in senso pluralistico30. Le conseguenze: una presenza assiologica che connota in senso forte l’ordinamento e che si esprime ed attua soprattutto attraverso l’azione pratica della giurisprudenza31. Di più: il conflitto tra valori ed interessi permane, ma non ci si prefigge l’obiettivo di un suo superamento in chiave ideologica e di necessità storica, quale reazione contro l’oppressione borghese, rispecchiata nelle categorie giuridiche del modo capitalistico di produzione32, da sconfiggersi per il tramite di un uso alternativo del diritto33; l’ordinamento giuridico è visto come inevitabile momento (pubblico) viene però resa molto meno problematica per il mercato (privato), poiché ora serve a restaurare le condizioni per il suo corretto funzionamento. La contrapposizione fra pubblico e privato, che aveva costituito il tratto caratteristico del sociale, tende così ad essere ricomposta; una parte del pubblico (l’intervento regolamentare) viene attratta e metabolizzata nel privato e la questione cruciale della riallocazione del potere contrattuale, esercitata attraverso le regole del diritto privato, viene ricacciata in un cono d’ombra, nel quale fatica ormai anche ad essere percepita». 29 Cfr. gli interessantissimi saggi contenuti in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, Milano, Giuffrè, 2008, e in particolare si veda quello di F. Macario, L’autonomia privata, p. 119 e ss. Adde lo scritto di M. Barcellona, L’«idea sociale» nella teoria del diritto privato: il caso italiano (ma non solo), in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1997, p. 717 e ss. 30 Al solito preziose le indagini di R. Sacco, Antropologia giuridica. Contributo ad una macrostoria del diritto, Bologna, Il Mulino, 2007, spec. p. 80: «Oggi il giurista pensa che dove c’è società c’è diritto; e non sempre dove c’è società c’è lo stato, carico di tutte le sue funzioni»; p. 83: «Alla visione statalista e lagalista del diritto è seguita una reazione, vissuta e scientificamente costruita da antropologi. Essa porta il nome di pluralismo giuridico»; p. 84: «Il pluralismo giuridico si pronuncia sulla teoria generale del diritto, sulla dottrina delle fonti, e proclama una sua politica del diritto». Si vedano anche gli ariosi saggi raccolti ora in P. Grossi, Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Milano, Giuffrè, 2006. 31 Cfr. l’osservazione di L. Nivarra, Diritto privato contemporaneo. Regole giuridiche e paradigmi di mercato, Napoli, Editoriale Scientifica, 2010, p. 131: «[I]l profilo di giudice che il nascente diritto europeo dei contratti rimanda allo sguardo dell’osservatore è quello di un soggetto attivamente coinvolto nell’attuazione delle policy di volta in volta considerate più idonee a promuovere, se non a raggiungere, stante il suo carattere di ideale puramente regolativo, la concorrenza perfetta […]». 32 Così L. Nivarra, Ipotesi sul diritto privato e i suoi anni settanta, in Id. (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato, cit., p. 1 e ss., a p. 24. 33 Il riferimento è ovviamente all’opera di P. Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto, RomaBari, Laterza, 1973 (2 voll.). Tuttavia, è a mio avviso certamente condivisibile l’idea che, comunque, gli anni Settanta «rappresentino […] uno spartiacque decisivo nella storia della cultura giuridica del ’900 9 di sintesi tra contratto e mercato, tra individuo e società, donde la frattura tra interesse privato e interesse pubblico, che continuamente ritorna, può – ed anzi «deve», in questa prospettiva assiologica – essere ricomposta: il fattore assiologico unificante è la centralità dei diritti fondamentali dell’individuo in quanto strumenti di promozione sociale34, che come tali permeano anche il contratto35, superando la concezione del conflitto quale ostacolo, e riconducendolo alla condizione di opportunità, cioè presupposto dell’intervento statuale. Detto in breve, l’autonomia privata, secondo questa impostazione, attraverso la fase di metamorfosi tipica del tempo presente36, sempre più spesso diventa strumento preordinato anche alla realizzazione dell’interesse pubblico37. segnando la fine di qualsiasi discorso in punto di neutralità ed oggettività dei discorsi della scienza del diritto, intesa come dogmatica»: sono ancora parole di L. Nivarra, Ipotesi sul diritto privato, cit., p. 24. 34 Cfr. in particolare le incisive e precorritrici parole di M. Cappelletti, La giurisdizionale delle libertà, Milano, Giuffrè, 1955, a proposito dei diritti di libertà, cioè i diritti fondamentali dell’uomo (p. 1), la cui caratteristica «è il fatto che essi, i quali pur usano attribuirsi all’“uomo” anzi all’“individuo” […], sono in realtà permeati di un valore che trascende [l’] uomo singolo e investe tutta intera la società. […] E invero sì vaste ripercussioni assume oggi una violazione dei diritti fondamentali dell’individuo, da sembrar quasi che essi tutelino interessi che trascendono gli stessi singoli popoli ed ordinamenti (oltreché i singoli uomini), come si vede anche dai tentativi di realizzare su[l] piano internazionale una tutela giurisdizionale di essi» (pp. 1-2). 35 V. spec. la sintesi di M. Barcellona, L’«idea sociale» nella teoria del diritto privato, cit., p. 721: «[I] valori solidaristici proclamati dalla costituzione, la crescita civile che in essi si è espressa e la moltiplicazione della legislazione interventistica che ne è conseguita hanno prodotto una nuova percezione sociale dell’autonomia privata; […] di questa nuova percezione deve prendersi atto, riconoscendo che la struttura del contratto si è ribaltata: da veste giuridica della volontà privata, esso si è trasformato in contenitore di un regolamento che risulta dal concorso di una pluralità di fonti [...]» (corsivo dell’a.). Più recentemente, cfr. G. Alpa, Autonomia delle parti e libertà contrattuale, oggi, in Rivista critica del diritto privato, 2008, p. 571 e ss., in particolare p. 573, ove, a proposito del rapporto dialettico libertà/autorità, il riferimento ad «una sorta di crasi, che qualifica il contratto come un accordo “regolato” – piuttosto che governato completamente ab externo – nel quale l’autonomia non confligge ma si armonizza con l’intervento [rie]quilibratore, che tiene conto appunto degli interessi tutelati dalla sfera pubblica, soprattutto quando le parti deboli sono i lavoratori subordinati, i consumatori, i risparmiatori, i conduttori, e così via», nonché i bei saggi raccolti in G. Vettori (a cura di), Contratto e Costituzione in Europa. Convegno di studio in onore del Prof. Giuseppe Benedetti, Padova, Cedam, 2005. 36 Ne discorra ora, con molte suggestioni e con accenti non ottimistici, L. Nivarra, Diritto privato e capitalismo, cit., il quale appare soprattutto preoccupato da ciò: «Il mercato non è più un presupposto ma un obiettivo perché la concorrenza, suo nuovo principio ispiratore, può funzionare soltanto a patto che si creino e si conservino le condizioni del suo esistere: e ciò esige una ininterrotta produzione di norme giuridiche di vario tipo ma tutte dedite alla tutela di un dispositivo tanto delicato quanto inafferrabile» (pp. 85-86). Nivarra è allarmato dalla attuale fase del capitalismo («capitalismo.3»), in primo luogo perché il «primato dei diritti fondamentali come fonte di legittimazione etico-politica dell’Unione Europea assume un significato particolare se posto accanto dell’indubbio deficit di democrazia di cui la medesima Unione soffre rinviando ad un modello di rapporto tra governanti e governati o, se si preferisce, tra potere pubblico e società civile, di impianto decisamente verticale. In ogni caso, mi pare del tutto evidente che oggi, nell’area del mondo in cui l’istanza democratica si era fatta valere con più vigore e con più successo, si stia assistendo alla costruzione ed al consolidamento di un’entità politica per la quale, al di là della facciata, il principio democratico è decisamente recessivo, traendo esso alimento, in primo luogo, dal trinomio tecnocrazia-mercato-diritti fondamentali» (p. 79). 10 5. La buona fede solidarista quale veicolo di giustizia sostanziale. Chi allora teorizza un uso della buona fede in funzione solidarista, lo fa per introdurre nel contratto, in via interpretativa/integrativa/completiva, un assetto economico diverso da quello che le parti hanno delineato; diverso, perché non squilibrato, cioè più giusto, cioè conforme a certi valori, come quello di solidarietà e di proporzionalità tra le prestazioni e quello di uguaglianza tra gli individui, destinati a prevalere su quello della libertà di autodeterminazione contrattuale in forza di un bilanciamento assiologico38; diverso, perché difforme dall’economia del contratto, difforme dal piano economico e dal piano dei rischi che le parti avevano cercato di costruire con il regolamento contrattuale. Anche sotto questo profilo un chiarimento si impone: la fedeltà dell’interprete ai valori del contratto non comporta un asservimento assiologico del giudice al contenuto del 37 Nel solco dell’insegnamento di Pietro Perlingieri (cfr. infatti P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., p. 410: «L’interesse pubblico, preminente in assoluto e nel contesto relativo al regolamento predisposto, finisce con l’incidere sulla negoziazione. E tale prevalenza non può non rispondere ad un giudizio di meritevolezza che ha il suo parametro nella tavola costituzionale degli interessi e dei valori», e p. 413: «[L]’interesse pubblico, da elemento negativo a tutela delle situazioni acquisite o più forti, assurge a strumento positivo di promozione delle situazioni più meritevoli»), v. ad esempio il recente lavoro di F. Longobucco, Violazione di norma antitrust, cit., spec. pp. 51-59, ove, alle pp. 51-56, il rilievo metodologico per cui la funzione del contratto si spoglia «progressivamente della sua matrice individualistica (in senso classico) per arricchirsi di un plusvalore di carattere pubblicistico, fino a condizionare il sistema e l’andamento dei traffici. Quanto testé rilevato scaturisce, infatti, da una considerazione in chiave di convergenza e di implicazione reciproca, da un lato, dell’interesse pubblico a garantire e a tutelare la libera concorrenzialità del mercato da meccanismi distorsivi e, dall’altro, dell’interesse privato, sotteso al singolo atto di scambio, alla luce dei princìpi di correttezza, trasparenza, ragionevolezza, equità ed uguaglianza sostanziale tra i soggetti. Sì che interesse privato e interesse pubblico trovano un inevitabile momento di sintesi nell’ordinamento giuridico e l’interesse pubblico finisce per riguardare, con sempre maggiore pregnanza, il piano dell’attività giuridica dei privati, conformandone i contenuti, le patologie e i rimedi esperibili. [T]ale constatazione presuppone esistente un innegabile nesso tra mercato e strumento negoziale, ovvero tra mercato e contratto, nonché tra mercato e valori della persona. […] Sì che l’autonomia dei privati attraversa una fase di evidente trasformazione rispetto al passato e, sempre più spesso, assurge a uno strumento (anche) preordinato alla realizzazione dell’interesse pubblico». Per ampi ragguagli sulla recente produzione scientifica italiana (e in parte europea) in tema di contratto, cfr. la sezione «Bibliografia» dell’Annuario del contratto 2009, diretto da Andrea D’Angelo e Vincenzo Roppo, coordinamento di Alberto M. Benedetti, Torino, Giappichelli, 2010, in particolare pp. 365-414. Da segnalarsi, per l’attenzione prestata al piano della politica del diritto e per l’incisiva analisi del ruolo del giudice, il volume di M. Farneti, La vessatorietà delle clausole «principali» nei contratti del consumatore, Padova, Cedam, 2009. 38 Cfr. infatti ancora P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., passim, ad vocem «bilanciamento» dell’indice analitico, ma spec. p. 465, ove l’a. rileva come il problema sia quello «dell’applicazione diretta delle norme costituzionali nei rapporti di diritto civile. […] Certo il diritto privato tradizionale ne resta scardinato, ma ciò significa fondazione appunto di un diritto civile nella legalità costituzionale, per il quale occorre ragionevolezza e adeguata capacità ermeneutica nel c.d. bilanciamento dei valori secondo criteri di proporzionalità». 11 contratto stesso. Specialmente nella prospettiva dinamica ed evoluzionista39, cui poco sopra mi sono brevemente riferito, non è condivisibile l’idea che il contratto, una volta sorto, appartenga esclusivamente alle parti, e come tale ne imponga, ai contraenti ed agli interpreti, una difesa contro l’ordinamento (e contro l’opera concretizzatrice del giudice) volta a salvaguardare l’assiologia contrattuale. Questa linea argomentativa, oggi, è difficilmente sostenibile40, in particolare perché sempre più si registrano l’esigenza ed i segnali di una rinnovata concezione in senso pluralistico delle fonti del diritto41 che guardi al contratto come ad una delle fonti dell’ordinamento, da analizzarsi in un contesto di diritto vivente particolarmente arricchito dall’approccio ermeneutico42. In questa direzione, la lezione di Friedrich Hayek è vitalissima, e richiede agli studiosi ulteriori sforzi di analisi43. Orbene, la clausola generale di buona fede, interpretata alla luce dei principi di solidarietà, uguaglianza sostanziale e proporzionalità, da strumento (prevalentemente descrittivo) di accertamento e conseguente valutazione della condotta contrattuale delle parti (pensiamo all’art. 1337 per la fase della trattativa44 ed all’art. 1375 per la fase 39 In lingua italiana, un contributo di riferimento è il volume di M. Barberis, L’evoluzione nel diritto, Torino, Giappichelli, 1998, spec. p. 223 e ss. 40 Ma si vedano già le critiche di S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, Giuffrè, 1969 (rist. integrata 2004, con Introduzione dell’a., pp. V-XIII), spec. pp. 2-14, e in particolare il rilievo di p. 4, a proposito della «netta separazione dei due mondi, quello della legge e quello retto dalla volontà dei privati, ciascuno dei quali non abbisognava di alcun intervento esterno per il suo integrale funzionamento […] [e del] principio che la natura stessa dei rapporti interprivati (contrattuali), escludendo la necessità di interventi esterni che ne consentissero il pieno svolgimento, si opponeva ad ogni forma di etero integrazione (sì che i casi in cui ciò avveniva non potevano non ritenersi anomali; o almeno eccezionali)». 41 In particolare, cfr. V. Roppo, Il contratto, e le fonti del diritto, in Id., Il contratto del duemila, Torino, Giappichelli, 2005 (II ed.), p. 1 e ss. [ma v. ora la III ed. (2011), p. 1 e ss. ], e U. Breccia, voce «Le fonti del contratto», in Enciclopedia del diritto, Annali, III, Milano, Giuffrè, 2010, p. 394 e ss. 42 Tra i civilisti, v. il colto e meditato libro di V. Calderai, Interpretazione dei contratti e argomentazione giuridica, Torino, Giappichelli, 2008, passim, ma spec. i Capitoli IX [«Il contratto fonte del diritto (Interpretazione, qualificazione, integrazione)»] e X («Il circolo ermeneutico di argomentazione e interpretazione»), pp. 377-490. 43 Anche una rivisitazione assai critica del pensiero hayekiano come quella recentemente proposta da M.W. Hesselink, A spontaneous order for Europe? Why Hayek’s libertarianism is not the right way forward for European private law, in H.-W. Micklitz-F. Cafaggi (eds.), European Private Law after the Common Frame of Reference, Cheltenham (UK)-Northampton (MA, USA), Edward Elgar, 2010, p. 123 e ss., riconosce tuttavia ad Hayek alcuni meriti, ad esempio la difesa di un’idea di storicità in senso forte del diritto, in quanto «contingent phenomenon» (p. 146). I contributi di Hayek allo studio della formazione dell’ordine giuridico sono affascinanti e meritano la massima attenzione (anche critica) da parte degli studiosi del diritto privato: in questa direzione, segnalo al lettore due miei scritti nei quali ho raccolto alcuni (provvisori) risultanti di ricerca: L’ordine giuridico dei privati, cit., nonché Il giudice e le regole nella teoria e nella politica del diritto di Friedrich August von Hayek, in Politica del diritto, 2009, p. 341 e ss. 44 In tema, v. ora l’analitica indagine, di taglio comparatistico e sensibile alla metodologia dell’analisi economica del diritto, di G. Afferni, Il quantum del danno nella responsabilità precontrattuale, Torino, Giappichelli, 2008. 12 dell’esecuzione45), diviene strumento (prevalentemente costruttivo) di correzione e di controllo del regolamento contrattuale. 6. L’autonomia privata tra individuo e società. Correzione e controllo contro qualcosa o a garanzia di qualcosa? Non ci possono essere dubbi: a garanzia di un esercizio dell’autonomia privata limitato non in ragione dello strumento (contrattuale) cui si ricorre, ma in ragione degli effetti assiologici (intesi in senso latissimo: politici e filosofici; economici e sociologici; giuridici ed etici) da esso prodotti. La tutela dell’autonomia privata da parte dell’ordinamento è certa, ma a condizione che il contratto non sia inteso unicamente quale ordine giuridico autonomo, ed in quanto tale destinato, o ad una indifferenza rispetto al contenuto di valore dell’ordinamento (fisiologia), oppure ad uno scontro con quest’ultimo, quando il giudizio di meritevolezza e di conformità assiologica si concluda in senso contrario al contenuto contrattuale (patologia). In questa prospettiva46, il contratto che fa propria l’effettiva bilateralità dell’autonomia privata delle parti47 è un contratto rispettoso dei contraenti in quanto individui, dunque 45 In tema, v. l’approfondita ricerca di G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino, Giappichelli, 2004; più recentemente, offre una prospettiva di ampio respiro il volume di A. Spadafora, La regola contrattuale tra autonomia privata e canone di buona fede. Prospettive di diritto europeo dei contratti e di diritto interno, Torino, Giappichelli, 2007. 46 Ampiamente illustrata soprattutto da C. Turco, L’imputabilità e l’importanza, cit., passim, e in particolare p. 211 e ss. 47 È appunto l’idea alla base del volume di C. Turco, L’imputabilità e l’importanza, cit., spec. pp. 220221, ove il rilievo che «il recupero di una benintesa e “bilaterale” autonomia negoziale de[ve] necessariamente passare attraverso un riferimento costante al contenuto essenzialmente ed inscindibilmente unitario del principio costituzionale di uguaglianza formale e sostanziale: tanto come fondamentale criterio informatore dell’intero sistema giuridico; quanto come parametro interpretativoapplicativo di verifica della piena rispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta e, a un tempo, rimedio atto a correggere le eventuali e, per certi versi, inevitabili discrasie di siffatta rispondenza. [Peraltro, anche in assenza di una applicazione immediata e diretta dell’art. 3 della Costituzione italiana («Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»)], un risultato sostanzialmente analogo potrebbe parimenti attingersi, nei rapporti negoziali interprivati, alla stregua di un costante ed oculato impiego della buona fede che rappresenta […] un efficace tramite attuativo, sul piano codicistico, del principio di solidarietà ex art. 2 Cost. e, conseguentemente, di quella uguaglianza (non solo formale, ma altresì) sostanziale ex art. 3 Cost., che di quel principio costituisce la “prima espressione”: ponendosi in tal guisa la stessa buona fede quale regola e insieme criterio di (valutazione del) comportamento, nonché strumento correttivo e di controllo a garanzia di un’effettiva “bilateralità” dell’autonomia negoziale delle parti». 13 caratterizzati da una dignità onnicomprensiva che richiede una tutela trascendente il profilo meramente patrimoniale48. Si tratta, quindi, di un contratto conformato ad una assiologia dell’ordinamento a protezione di un uso dell’autonomia privata che non si riduca alla sola determinazione economica dell’individuo, ma che possa anche essere protettivo dell’individuo stesso (di qui, l’intervento giudiziale in funzione assiologica). Le brevi considerazioni finora svolte mi pare possano giustificare l’affermazione per cui l’attuale approccio solidarista non si traduce in un generico attacco contro l’individualismo contrattuale in sé (nel segno, oggi superato, del rifiuto della libertà individuale e quindi del mercato), ma piuttosto contro quella specifica concezione dell’individualismo contrattuale fondata sull’assunto per cui il contratto è ordine giuridico perché (tendenzialmente) è un prodotto della libertà e della scelta consapevole (pur non necessariamente razionale, cioè massimizzatrice dell’utilità marginale)49 dell’individuo, e non (tendenzialmente) della prevaricazione e della sopraffazione altrui50. Conseguentemente, la prospettiva generale cui ricondurre tale «ordine nuovo» propone invece una lettura dell’autonomia contrattuale fortemente permeabile a ciò che è esterno al contratto ma vivo e vitale all’interno dell’ordinamento, inteso innanzitutto quale luogo culturale ed antropologico, specchio delle trasformazioni politico-sociali, che inevitabilmente si riflettono anche nell’ambito delle plurali manifestazioni dell’autonomia privata. 7. Una lettura assiologica dell’autonomia privata. Concentrandoci sul profilo strettamente civilistico, riprendiamo l’intuizione che attribuisce al contratto il ruolo di strumento con cui è davvero possibile attuare il principio di bilateralità: nel senso che il contratto è bilaterale solo se le parti si trovano effettivamente in una posizione di parità sostanziale, e non soltanto formale, laddove, se 48 V. i molti spunti contenuti nel recente scritto di G. Vettori, Il contratto del terzo millennio, 2010, http://www.personaemercato.it/wp-content/uploads/2010/10/vettori-materiali.pdf, pp. 215-226, spec. pp. 220-224, sulla dignità della persona. 49 Su questi aspetti, v. ora l’approfondita analisi di F. Denozza, Mercato, razionalità degli agenti e disciplina del contratto, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2012, p. 5 e ss. 50 Di qui, la ben nota tematica dell’abuso contrattuale, su cui v. il bel libro di C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, Milano, Giuffrè, 2007, in particolare il Capitolo IV («Abuso del diritto e autonomia privata»), pp. 255-281. 14 si presta attenzione alla realtà delle cose – ci dice questa dottrina –, ciò che vedremo non è l’uguaglianza ma la disuguaglianza sostanziale fra le parti51. In sintesi: solo se c’è una uguaglianza sostanziale tra le parti ci potrà essere una mediazione degli interessi dei contraenti52 (mediazione, che si compie nel regolamento contrattuale e quindi attraverso l’esercizio di autonomia privata) che sia davvero autonoma e bilaterale. Sempre lungo questa linea si è allora sostenuto53 che sarebbe più corretto parlare di crisi dell’atto di autonomia privata, o, in un senso ancora più generale, di crisi dell’autonomia privata, piuttosto che, troppo genericamente, di crisi del contratto. Crisi, discendente dall’illusione che l’atto di autonomia privata per eccellenza (appunto il contratto) possa, nella pratica, sempre e comunque – in quanto tale, cioè in quanto strumento dell’individualismo economico e giuridico –, realizzare la funzione che gli è propria (cioè quella di mediare tra interessi economici contrapposti o quantomeno non coincidenti), e di realizzare questa funzione in conformità al modello normativo astratto di autonomia privata perfettamente bilaterale54 alla luce degli artt. 1321 (principio dell’autonomia contrattuale) e 1322 (principio del contratto come accordo55). Orbene, in questa prospettiva il recupero di un’autonomia privata bilaterale significa ricondurre l’ordine giuridico dei privati all’ordine giuridico statuale per una via diversa da quella dirigistica, espropriatrice dell’autonomia privata56. La via diversa è quella, per dir così, di un paternalismo57 ermeneutico, che tutela bensì l’individuo, ma solo in quanto fine in sé; come tale, da proteggere anche contro se stesso quando le sue scelte confliggano con il principio di tutela integrale (materiale e morale) dell’individuo58. 51 Cfr. ancora C. Turco, L’imputabilità, cit., spec. p. 211 e ss., e in particolare p. 223. Ibidem, p. 216. 53 Ibidem, spec. pp. 12-13 e 216-217. 54 Ibidem, pp. 214 e 216-217. 55 Su ciò, v. in particolare V. Roppo, Il contratto [2001], cit., pp. 23-24, [= ed. 2011, pp. 23-24] il quale, peraltro, non aderisce all’orientamento solidarista. 56 Cfr. in particolare C. Turco, L’imputabilità, cit., il quale, a p. 214, evoca infatti le «palesi distorsioni di un eccessivo ed indiscriminato dirigismo statale, che ha finito con “l’espropriare l’iniziativa privata pure del suo nucleo essenziale e vitale di autonomia”». 57 Una vigorosa, argomentatissima critica al paternalismo è ora in V. Calderai, Interpretazione, cit., p. 250, ove, in conclusione dell’analisi, l’auspicio «che ci si sbarazzi una buona volta della zavorra delle ideologie del paternalismo (per definizione) solidale e dell’antipaternalismo (per definizione) libertario» (ma va letto e meditato l’intero Capitolo VI del libro, pp. 221-273, intitolato al «paradosso della giustizia contrattuale»). 58 Cfr. ad esempio P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., p. 55: «[I] rapporti tra pubblico e privato, individuo e società, politica, economia e diritto assumono valore paradigmatico di un assetto complessivo dove le scelte di fondo, ispirate al superamento dello statalismo, del monismo ideologico, dell’individualismo e 52 15 Ecco che allora la piena attuazione del principio di uguaglianza sostanziale, anche nella prospettiva del contratto, va letta quale tecnica di concretizzazione di un principio generale dell’ordinamento, a partire dal quale costruire specifici criteri di giudizio utilizzabili quali parametri interpretativi e integrativi per corregge le discrasie e le dissociazioni, tra fattispecie astratta (il contratto come accordo bilaterale) e fattispecie concreta (il contratto come regolamento di interessi che invece rispecchiano l’assetto imposto dal contraente più forte)59. All’interno di questa visione, la buona fede diventa quindi un criterio assiologico di controllo diretto al riequilibrio di situazione contrattuali ab origine sperequate, non già ostile all’autonomia privata, ma agli «abusi assiologici» di essa, quali effetti negoziali che pregiudicano l’individuo, a tutela del quale si erge l’ordinamento giuridico, attraverso l’opera del giudice60. Richiamando il linguaggio degli studiosi dell’analisi economica del diritto, possiamo dire che, attraverso l’applicazione giudiziale della buona fede correttiva, la parte che ha subito gli effetti dell’«abuso di posizione dominante» e che quindi non ha potuto concorrere in modo paritario alla determinazione del regolamento contrattuale avrà diritto a recuperare quelle opportunità economiche perdute61 a causa dello squilibrio contrattuale originario discendente da una disparità di potere economico. del corporativismo, del liberismo e del marxismo, caratterizzano anche l’operare del giurista, volto a cogliere il movimento del reale ma pur sempre ancorato alla visione del mondo, al patto di convivenza. La centralità del valore della persona impone di rileggere i rapporti economici, e soprattutto quelli macroeconomici, in una chiave moderna dove la tutela della salute, l’ambiente, il paesaggio sono indispensabili per il pieno sviluppo della persona. In ciò è la ragione prima della tendenza che, strategicamente e provocatoriamente, si propone la “depatrimonializzazione” del diritto civile atavicamente imperniato sulla centralità dei rapporti patrimoniali», e p. 730: «Quel che rileva è il valore della persona unitariamente inteso». 59 Cfr. ancora C. Turco, L’imputabilità, cit., p. 221. 60 V. ancora P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., p. 724: «La personalità ha positiva rilevanza non tanto nel momento processuale – cioè nei rimedi ai quali ricorrere per la cessazione dell’attività lesiva, per la reintegrazione in forma specifica, per l’accertamento, per il risarcimento –, quanto nella valutazione sostanziale dell’interesse meritevole di attuazione, destinato a modificare, dall’interno, la maggior parte degli istituti giuridici mutandone la funzione. L’esigenza del rispetto della personalità, del suo libero sviluppo, incide sulla nozione di ordine pubblico, sui limiti e sulla funzione dell’autonomia negoziale, sull’interpretazione degli atti che ne sono manifestazione, sull’individuazione dei confini dell’illecito e del suo fondamento, sulle configurazioni non soltanto dei rapporti familiari ma anche di quelli patrimoniali, sulla concezione e la tutela del rapporto di lavoro, sul giudizio di meritevolezza dell’associazionismo e dei suoi possibili scopi; incide, insomma, su tutto l’assetto del vivere in “comunità”». 61 Cfr. in particolare S.J. Burton, L’esecuzione del contratto secondo buona fede (trad. it. a cura di S. Di Paola e R. Pardolesi), in Rivista critica del diritto privato, 1984, p. 13 e ss., alle pp. 34-35: «L’esecuzione contraria a buona fede è data dall’esercizio della discrezionalità in executivis per riappropriarsi delle opportunità perse nel momento della formazione. Le aspettative del promissario dipendente comprendono 16 La buona fede è quindi uno strumento di correzione di quelle disfunzioni connesse ad un uso unilaterale e distorto dell’autonomia privata contrattuale, a vantaggio del contraente «più forte». Per realizzare questa operazione di politica del diritto, sotto il profilo strettamente tecnico la dottrina italiana ha da tempo elaborato una formula che, nella sua sinteticità, ben esprime le potenzialità correttivo-integrative della buona fede: come noto, si tratta di una formula definitoria (ma non priva di margini di elasticità) ideata da Cesare Massimo Bianca62 e che è stata con successo recepita dalla giurisprudenza italiana: nell’esecuzione del contratto la buona fede, cioè la cosiddetta buona fede in executivis, impone a ciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico. È certamente una buona fede esecutiva, ma al tempo stesso (anzi, in quanto buona fede in executivis) è interpretativa e integrativa, perché concorre direttamente alla determinazione del contenuto della prestazione dovuta. In altre parole, la buona fede impone al debitore di fare tutto ciò che risulta indispensabile al conseguimento, da parte del creditore, del cosiddetto risultato utile quale scopo dell’obbligazione. 8. I problematici fondamenti della buona fede solidarista. Arrivati a questo punto della riflessione va sottolineato un aspetto che, se, come credo, non arbitrario, mette (almeno in parte) in crisi il fondamento argomentativo tanto l’oggetto da ricevere in forza del contratto quanto i costi preventivati di esecuzione di controparte. La riappropriazione di una parte delle opportunità perse necessariamente danneggia controparte. Per tutta conseguenza, una persona ragionevole stipulerebbe un contratto che conferisce discrezionalità a controparte soltanto sulla base del convincimento che la discrezionalità non sarà usata per riappropriarsi delle opportunità perse». 62 Cfr. C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale in Rivista di diritto civile, 1983, I, p. 205 e ss., spec. pp. 209-210: «Nell’esecuzione del contratto e del rapporto obbligatorio, la buona fede si specifica anche come obbligo di salvaguardia. Qui la buona fede impone a ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del neminem laedere. Questo impegno di solidarietà, che si proietta al di là del contenuto dell’obbligazione e dei doveri di rispetto altrui, trova il suo limite nell’interesse proprio del soggetto. Il soggetto è tenuto a far salvo l’interesse altrui ma non fino al punto di subire un apprezzabile sacrificio, personale o economico. In mancanza di una particolare tutela giuridica dell’interesse altrui non si giustificherebbe infatti la prevalenza di esso sull’interesse proprio del soggetto. Quale obbligo di salvaguardia la buona fede può dunque essere identificata come l’obbligo di ciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile sacrificio a suo carico» (corsivo dell’a.). 17 (apprezzabile in concreto esclusivamente attraverso l’analisi della ratio decidendi delle sentenze63) della buona fede quale veicolo di giustizia sostanziale. Come infatti dimostrano le analisi delle argomentazioni dottrinali ma soprattutto giurisprudenziali64, troppo spesso la formula della buona fede solidarista è soltanto evocata, non applicata. Non basta ovviamente ripetere che il principio di autonomia privata deve essere interpretato in senso conforme al principio di solidarietà; questa è una pura declamazione, pur se connotata in senso prescrittivo; occorre invece che il giudice, e prima del giudice l’avvocato che difende la parte che invoca l’applicazione della regola della buona fede correttiva, svolga un’analisi minuziosa dell’economia del contratto, e soprattutto del rapporto economico tra le prestazioni, onde rinvenire quegli spazi di manovra assiologica che, almeno sotto il profilo teoretico (se non di politica del diritto), giustificano il ruolo correttivo della buona fede. Ma ciò, appunto, di solito non avviene, né da parte dei giudici, che troppo spesso richiamano la buona fede soltanto retoricamente, né da parte degli avvocati: il che, forse è ancora più grave, considerato il ruolo primario che l’avvocato svolge nel processo, e che è destinato inevitabilmente a ripercuotersi sulla trasformazione del diritto65. 63 Nonostante l’abbondanza di materiale giurisprudenziale oggi ormai facilmente reperibile, occorre tuttavia rilevare come l’analisi casistica, fonte privilegiata del discorso sul diritto e quindi anche del contenuto del diritto, sia piuttosto deludente. Non mancano ovviamente ottime ricostruzioni degli orientamenti giurisprudenziali, ma ciò che manca è uno studio civilistico di carattere e di respiro teoricogenerale. Fondatissime e dettagliate sono infatti le critiche (da leggersi peraltro in prospettiva assai più generale) alla «cultura italiana del precedente» che un eminente comparatista italiano ebbe a formulare non troppi anni fa; e non a caso si tratta di uno scritto per lo più ignorato: M. Lupoi, L’interesse per la giurisprudenza: è tutto oro?, in Contratto e impresa, 1999, p. 234 e ss. 64 V. ancora il volume di C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., in particolare il Capitolo III («Abuso del diritto e buona fede. Le ragioni di una distinzione»), pp. 147-254. 65 Cfr. in particolare il rilievo di F. Galgano, Il contraddittorio processuale è ora nella Costituzione, in Contratto e impresa, 2000, p. 1081 e ss., spec. p. 1082, per una critica all’idea della subordinazione del difensore rispetto al giudice: «Questa pur diffusa convinzione è però frutto di una visione autocratica della giustizia, basata sull’idea che la magistratura trovi in se stessa, e solo in se stessa, l’autorità per promuovere (magistratura inquirente) e per rendere (magistratura giudicante) la giustizia. È un atteggiamento mentale presente, non di rado, in quei magistrati che manifestano insofferenza per l’opera dell’avvocato, che concepiscono come un intralcio all’attuazione della giustizia, come una sorta di fastidiosa appendice del processo». Di qui, la domanda: «Dove risiede allora la legittimazione ad esercitare così estesi poteri, tali da incidere fortemente sulle libertà e sui beni dei singoli? […] È il contraddittorio processuale, ossia la dialettica del processo, il fondamento della giustizia: la sentenza, che separa il torto dalla ragione, non nasce dalla mente del giudice come Minerva dalla testa di Giove; è, invece, la risultante del contraddittorio, dell’aperto confronto fra le parti. Chi ha ragione e chi ha torto il giudice potrà dirlo solo dopo che le parti avranno messo a confronto le proprie posizioni; e potrà dirlo solo perché la ragione e il torto sono scaturiti da questo confronto» (pp. 1083-1084). 18 D’altronde, è sufficiente una modesta e circoscritta esperienza giudiziaria o forense (del tutto confermata dall’analisi delle sentenze edite) per rilevare che, non episodicamente (ed anzi sempre più frequentemente, in misura direttamente proporzionale al successo accademico e giurisprudenziale della buona fede), gli avvocati evocano bensì, nei propri atti processuali, la buona fede contrattuale, ma, in realtà, o lo fanno pensando a condotte contrattuali facilmente qualificabili in termini di inadempimenti dolosi di obbligazioni espresse nel contratto66, oppure lo fanno attribuendo alla regola di buona fede non altra funzione che quella di rafforzare il vincolo contrattuale: il contratto vincola non soltanto perché ha forza di legge tra le parti, ma anche perché la buona fede contrattuale impone alle parti l’obbligo di rispettare il contratto. Ciò che invece soprattutto servirebbe (anzi, ciò che è indispensabile, nella prospettiva di un dialogo serio tra accademia-foro-giurisprudenza), da parte degli avvocati, è la consapevolezza che un’argomentazione fondata sulla buona fede ha una dignità teoretica di prim’ordine (come gli studi ad essa da tempo dedicati da giuristi appartenenti a diversi sistemi mostrano)67, e può dunque produrre rilevanti effetti sul giudizio individuale pratico che ha ad oggetto la pattuzione; ma per non fallire sotto il profilo metodologico, richiede uno sforzo di analisi economica del contratto, che è però raro vedere impiegato nelle decisioni concrete. 9. Per un approccio individualista alla teoria del contratto. Ritorniamo allora, avvicinandoci alla conclusione, all’art. 1455. Sono in effetti partito di qui rilevando che, non episodicamente, il principio della non scarsa importanza dell’inadempimento è interpretato alla luce della buona fede in senso oggettivo68. Ma quali sono le conseguenze? Sostanzialmente due, e sono entrambe conseguenze che non mi paiono pienamente soddisfacenti. 66 Per riferimenti e per qualche spunto ulteriore, si può vedere, volendo, il seguente mio scritto: I contratti di cooperazione: mandato, agenzia, mediazione. Responsabilità per inadempimento e potenzialità della clausola generale di buona fede, in Trattato della responsabilità contrattuale, diretto da G. Visintini, vol. II, I singoli contratti. Applicazioni pratiche e disciplina specifica, Padova, Cedam, 2009, p. 451 e ss. 67 Cfr. ad esempio gli scritti raccolti in R. Zimmermann-S. Whittaker (edited by), Good Faith in European Contract Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. 68 Cfr. in particolare M.G. Cubeddu, L’importanza dell’inadempimento, cit., spec. pp. 38-43, ed alle pp. 40-41 il seguente rilievo: «[I]l principio di buona fede svolge rispetto alla regola dell’importanza dell’inadempimento una duplice funzione. Oltre ad operare come parametro per giudicare l’effettiva 19 La prima è che una buona fede correttiva che abbia di mira solamente il riequilibrio del contratto è destinata in radice al fallimento: non esistono i contratti in equilibrio; quindi non è possibile riequilibrare il contratto in senso assoluto, pur guidati da valori «forti» quali quelli di solidarietà e di uguaglianza. L’equilibrio contrattuale appartiene alle parti, nel senso che esse hanno programmato un determinato assetto prima face soddisfacente, fatti salvi eventuali fattori esogeni od endogeni perturbanti il procedimento di formazione del contratto e la fase della esecuzione. La linea argomentativa per cui il contenuto del contratto andrebbe dunque piuttosto ancorato e conformato a valori extracontrattuali, a loro volta discendenti da principi generali dell’ordinamento di rilevanza costituzionale (italiana ed europea) risulta a mio avviso piuttosto debole: in questa prospettiva, infatti, la clausola generale di buona fede non può che svolgere una funzione soltanto repressiva dell’autonomia privata (nonostante la prospettiva sincretica che appare caratterizzare la teoria generale del contratto nel tempo presente): infatti, se il contratto non è in equilibrio, cioè se una parte ottiene (o sembra ottenere dal contratto) più di quanto non ottenga l’altra, allora si tratterà di uno squilibrio patologico discendente dall’abuso di potere economico dell’una parte a danno dell’altra; di qui, la necessità di riequilibrare la pattuizione. In contrario, osservo che, a mio avviso, in casi come questi l’operazione di analisi e di costruzione ermeneutica che il giudice dovrebbe compiere è proprio quella di accertare le ragioni di tale squilibrio, onde valutare se esso sia (o possa essere) ragionevolmente giustificato in forza di uno stringente esame dell’economia del contratto69. Analisi economica del contratto, che non può limitarsi al piano descrittivo (l’accertamento della sussistenza di uno squilibrio), ma che deve spingersi sul piano critico e prescrittivo (la comprensione delle ragioni e delle eventuali giustificazioni di tale squilibrio; le conseguenze regolative di tale squilibrio). Altrimenti, avremo l’effetto (prima di tutto culturale) di ritenere il contratto, in tutti casi in cui sia ravvisabile uno squilibrio, un gioco a somma zero, o addirittura a somma negativa70. portata del regolamento contrattuale, esso funge da strumento per sindacare la legittimità della condotta del creditore rispetto ai principi che regolano l’istituto della risoluzione». 69 Paradigmatica in questo senso è la ricerca di M. Bessone, Adempimento, cit., spec. il Capitolo V («La cernita delle circostanze apprezzabili e i criteri di distribuzione del rischio contrattuale»), pp. 343-403). 70 Cfr. le lucidissime considerazioni di R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., t. I, pp. 17-18: «Le parti escono dal contratto arricchite. […] È una prima gravissima svista, pensare che il contratto sia 20 Assumendo quindi quale programma minimo di politica del diritto della moderna (o di una rinnovata) teoria generale del contratto l’applicazione diretta del principio di solidarietà e di uguaglianza, la conseguenza sarà quella dell’alterazione dell’equilibrio originario (è la funzione distruttiva della buona fede, cui potrà conseguire certamente un utilizzo di essa in funzione ricostruttiva, ma il vizio originario non potrà sanarsi, perché la ricostruzione avviene in conseguenza di una affermata patologia sinallagmatica, e repressa come tale). Di più, alterare in questo senso l’equilibrio originario non vuol certo dire riequilibrare il contratto, ma vuol dire assegnare al contratto un equilibrio diverso da quello espresso nel regolamento contrattuale71; vuol dire sottrarre ex post ad una delle parti alcune utilità economica sulle quali ha fatto affidamento in sede di conclusione, in ragione del fatto che la sussistenza di uno squilibrio è prova certa di patologia, e quindi di condotte (precontrattuali e/o contrattuali) contra bonam fidem. È però possibile attribuire un senso più specifico e più pregnante alla espressione «riequilibrare il contratto». Se infatti viene condotta un’analisi incentrata sull’economia del contratto, onde stabilire se la condotta esecutiva di una o di entrambe le parti sia in contrasto non con un’astratta idea di proporzionalità o di equilibrio o di uguaglianza, ma con l’idea di equilibrio contrattuale concreto, allora sì che al termine di questa analisi il giudice potrà dire se le condotte esecutive delle parti contrastino o no con l’assetto economico contrattuale72. Naturalmente – e sul punto ho già brevemente detto qualcosa supra, § 3 –, ciò non significa affatto sottrarre il contratto all’assiologia dell’ordinamento ed al giudizio di un’operazione in cui la somma dei vantaggi e delle perdite delle parti è pari a zero. Chi in buona fede ha in mente questo strafalcione passerà poi il suo tempo a cercare una regola onesta, che impedisca al primo contraente di guadagnare, onde impedire che il secondo contraente perda. Chi ragiona così vede poi in ogni scambio una estorsione, operata da un contraente (chiamato contraente forte) ai danni dell’altro (chiamato contraente debole)». 71 Naturalmente, non ritengo patologico il fatto che, almeno in un buon numero di casi, possa esistere un regolamento contrattuale il cui significato economico non sia interamente condiviso dalle parti, nel momento successivo alla conclusione e quindi nella fase dell’esecuzione (da cui un eventuale contenzioso giudiziario o arbitrale); ritengo anzi che, di fronte ad un problema di funzionalità del contratto, il rimedio giurisdizionale sia sempre un rimedio a carattere costruttivo: a monte, non c’è una fotografia dell’esistente, perché la stessa descrizione dell’esistente è il prodotto, a valle, di un giudizio, cioè consegue ad una costruzione culturale e semantica (politica e giuridica). 72 Cfr. in questo senso il seguente rilievo di G.G. Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano, Giuffrè, 1942 (rist. Edizioni Scientifiche Italiane, 1980), pp. 419-420: «[S]e il giudizio sulla gravità dell’inadempimento deve compiersi tenendo presenti tutte le successive circostanze, bene esso potrà non coincidere col giudizio che avrebbero formulato le parti al momento della conclusione, tenendo presenti solo le circostanze allora esistenti». 21 concretizzazione ermeneutico-assiologica svolta dal giudice. Il contratto, come atto giuridico e come atto economico (per di più con incidenza anche nella sfera personale dell’individuo)73, è elemento sostanziale del fenomeno di edificazione progressiva dell’ordinamento (di qui la necessità che l’analisi del giurista sia anche analisi storicamente consapevole); il che, però, non può essere utilizzato come ragione giustificativa di un’interpretazione dell’ordinamento a senso unico. Per rovesciare un’incisiva immagine di un illustre civilista italiano, è opinabile procedere nell’attività ermeneutica del contratto «di sopra in giù»74; è cioè opinabile affermare la correttezza deontologica di un processo interpretativo che parta dall’ordinamento e ricada sul contratto, secondo un moto perpetuo unidirezionale. Questa prospettiva, se non altro, è criticabile perché nega in radice al contratto qualsivoglia potenzialità normativa, e quindi costruttiva, rispetto al contenuto assiologico dell’ordinamento, che invece – pur in misura differente a seconda del momento storico – non è variabile indipendente dall’autonomia privata. Il ricorso massiccio ad una buona fede distruttiva e repressiva, poi, presenta anche ulteriori inconvenienti (e vengo così alla seconda conseguenza non soddisfacente), già accennati poco sopra. Quando lo squilibrio contrattuale emerga non già in ragione di condotte esecutive risultate ex post contrarie all’economia del contratto (e dunque, non in base al solo confronto tra i valori delle prestazioni), ma in ragione di condotte contrattuali già ex ante qualificabili come inadempimento, il rimedio non dovrà essere reperito nella buona fede oggettiva, ma nella risoluzione per inadempimento75, se non altro alla luce di un banalissimo principio di economia argomentativa. 73 Si pensi al problema della configurabilità di un danno non patrimoniale da inadempimento, su cui v. ora V. Tomarchio, Il danno non patrimoniale da inadempimento, Napoli, Jovene, 2009. 74 P. Grossi, Uno storico del diritto alla ricerca di se stesso, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 27, ricorda che Enrico Finzi «capovolgeva l’osservatorio da cui guardare l’universo giuridico; per usare una sua scultorea ed efficace espressione, questo andava guardato “di sotto in su”, perché solo distendendosi sui fatti, sulle cose, esso rivelava una dimensione che il giurista non può relegare nella mera irrilevanza». 75 Pur all’interno di una prospettiva generale non coincidente con quella di cui si discorre nel testo, cfr. le significative considerazioni di G. Collura, Importanza dell’inadempimento, cit., pp. 18-24, ma spec. pp. 22-23, ove è detto che «la sovrapposizione dei giudizi di diligenza e di buona fede e di importanza dell’inadempimento comporta necessariamente una unificazione del regime delle sanzioni dell’inadempimento (risoluzione e risarcimento), che per contro andrebbe più attentamente considerata», e che «la determinazione delle circostanze da prendere in considerazione [ai fini della individuazione della misura di buona fede e di diligenza richiesta nel caso concreto] ha bisogno di un criterio selettivo, di una misura che consenta di discernere nella concretezza della vicenda esecutiva con quali profili concreti, con quali sopravvenienze o con quali specificità integrare il giudizio sull’eventuale inadempimento del 22 Intendiamoci: è certamente vero che ogni problema di risoluzione contrattuale è anche un problema di economia del contratto; tuttavia, la riduzione dell’inadempimento alla fattispecie della condotta contrattuale esecutiva contraria alla buona fede ha il difetto di banalizzare uno strumento sofisticato (quale appunto la buona fede) proprio in quelle situazioni in cui la soluzione del caso può essere raggiunta per vie diverse (tramite appunto l’applicazione delle regole in tema di risoluzione). Di più: l’analisi dell’economia della pattuizione è alla base del giudizio di non scarsa importanza dell’inadempimento; tuttavia non pare corretto applicare il rimedio della buona fede solidarista onde giustificare (o quanto meno temperare) gli inadempimenti debitorî in forza di un ragionamento incentrato sulla disparità di potere economicocontrattuale, riducendosi così l’analisi economica del contratto all’accertamento ed alla conseguente repressione degli squilibri contrattuali «imputabili» alla «parte forte». Ed allora, con particolare riferimento all’art. 1455, è indispensabile un’analisi dell’economia della pattuizione condotta a tutto campo: un’analisi, cioè, diretta ad accertare, se ve ne sono, le ragioni dell’economia delle pattuizioni e delle condotte contrattuali fonte di difetti di funzionalità del contratto, e non soltanto a colpire gli squilibri contrattuali a danno della «parte debole». In questo senso, la buona fede individualista rivela le sue amplissime possibilità, quale strumento non pregiudizialmente ostile né all’autonomia privata, né all’assiologia dell’ordinamento, necessariamente caratterizzata dalla complessità tipica delle società aperte. Se però questa capillare analisi non viene svolta, il ricorso alla buona fede oggettiva, cioè alla regola di correttezza contrattuale (che non sia attratta né nella sfera solidarista, né in quella individualista), non sarà altro che un doppione inutile del principio della non scarsa importanza dell’inadempimento: nel senso che il giudizio di buona fede sarà ridotto ad un confronto tra il valore della prestazione inadempiuta e il valore complessivo delle prestazioni, nonché all’accertamento dell’interesse soggettivo del creditore a ricevere la prestazione76, senza che quindi l’argomentazione di buona fede creditore. […] In realtà le circostanze del caso concreto sono in gran parte implicate nel programma negoziale, dal quale scaturiscono i doveri di comportamento che si vogliono sottoporre a valutazione secondo diligenza e buona fede». 76 Cfr. ad esempio L. Nanni, Sub art. 1455, cit., pp. 17-18, ove il rilievo che, «per quanto di particolare utilità al fine di sollecitare il giudice a compiere un’accurata analisi dei valori in campo e degli effetti dell’inadempimento sull’economia dell’operazione, il richiamo alla buona fede oggettiva non sembra 23 apporti un quid pluris utile per valutare le condotte contrattuali alla luce dell’assetto economico ricostruibile soltanto attraverso una meticolosa analisi empirica, estesa all’intera vicenda precontrattuale e contrattuale. In dottrina si è scritto che la buona fede oggettiva ispira l’art. 1455 perché impedisce che atteggiamenti pretestuosi, fondati su inadempimenti di poca consistenza, consentano alla parte che si è pentita di sciogliersi dal vincolo77: ma in realtà questa è un’ipotesi in cui il ricorso alla buona fede non arricchisce il contenuto normativo dell’art. 1455, perché concentrata più sulle caratteristiche soggettive delle condotte (e quindi sulla rimproverabilità delle stesse) che non sull’analisi dell’economia del contratto. La funzione costruttiva della buona fede, infatti, non è quella di reprimere le condotte moralmente scorrette perché finalizzate alla lesione dell’affidamento di controparte78 , ma è quella di offrire al giudice un criterio di giudizio a base economica, il cui contenuto e la cui efficacia normativa non possono essere predeterminati, ma debbono essere rimessi all’evoluzione del diritto vivente. 10. Giudizio di gravità dell’inadempimento e clausola risolutiva espressa: ruolo della buona fede. Se ora pensiamo al principio di non scarsa importanza dell’inadempimento collegato alla clausola risolutiva espressa, dottrina e giurisprudenza sono fermamente concordi nell’escludere che l’art. 1455 possa operare in presenza di siffatta clausola79. portare elementi di giudizio nuovi e diversi rispetto a quelli che si potrebbero ricavare dalla formulazione dell’articolo in commento, cioè nuovi e diversi rispetto alla valutazione se l’inadempimento sia grave. Detto altrimenti, il fatto in sé che l’articolo in commento richieda un inadempimento di non scarsa importanza ai fini della risoluzione già vincola il giudice a decidere la domanda di risoluzione su parametri ispirati alla buona fede oggettiva. In questo senso il ruolo della buona fede oggettiva sembra essere condiviso dalla giurisprudenza, che ad essa fa richiamo, ma senza individuare con ciò criteri di valutazione della gravità dell’inadempimento nuovi e diversi da quelli usuali. Per esempio in alcune sentenze si è ritenuto fondato sulla buona fede il noto criterio di proporzione […], secondo cui la gravità dell’inadempimento di una delle parti contraenti va commisurata “alla rilevanza della violazione del contratto con riferimento alla volontà manifestata dai contraenti, alla natura e alla finalità del rapporto, nonché al concreto interesse dell’altra parte all’esatta e tempestiva prestazione”» (corsivo dell’a.). 77 Parole, citate quasi alla lettera, di L. Nanni, Sub art. 1455, in L. Nanni et alii, Della risoluzione, cit., p. 18. 78 In questo senso pare anche V. Roppo, Il contratto [2001], cit., p. 961 [= ed. 2011, p. 900], spiegando la regola ex art. 1455 anche in termini di prevenzione di comportamenti pretestuosi, e rilevando: «In questa prospettiva, è giusto vedere alla base dell’art. 1455 anche il principio di buona fede contrattuale». 79 Per tutti, v. M. Dellacasa, Inattuazione e risoluzione: i rimedi, La clausola risolutiva espressa, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, vol. V, Rimedi – 2, cit., pp. 303-308. Amplius, v. ora F. Sartori, Contributo, cit., spec. la Sezione II del Capitolo III, p. 128 e ss. 24 L’argomentazione, in sintesi, è questa: se, attraverso la clausola risolutiva espressa le parti, facendo esercizio di autonomia contrattuale, inseriscono nel contratto il cosiddetto automatismo della risoluzione, il giudice non ha alcun potere di sindacare l’importanza dell’inadempimento ex art. 1455, perché questa valutazione interferirebbe con l’esercizio dell’autonomia privata: ed infatti l’art. 1456 fa espresso riferimento alle modalità di adempimento, che devono essere specificate nella clausola80. Se le modalità di adempimento debbono dunque essere specificate nella clausola risolutiva espressa, ciò allora significa che il giudizio circa la gravità dell’inadempimento è rimesso alle parti, fatte naturalmente salve le eventuali contestazioni che potranno essere sollevate in giudizio. A partire da qui, si argomenta conseguentemente che la gravità dell’inadempimento, in presenza di una clausola risolutiva espressa, è in re ipsa, quando le modalità dell’adempimento siano difformi rispetto alle modalità stabilite. Mi limito, in chiusura, ad alcuni rilievi critici onde sostenere che, se anche il giudice effettuasse il controllo di gravità ex art. 1455 pure in presenza di una clausola risolutiva espressa, ciò non significherebbe trasformare la risoluzione di diritto in risoluzione giudiziale, sterilizzando quindi l’esercizio di autonomia contrattuale81. Si tratterebbe invece di includere fra i presupposti della risoluzione di diritto anche il criterio della non scarsa importanza dell’inadempimento, quale mezzo tecnico per assicurare il rispetto dell’economia del contratto, e purché fondato sull’utilizzo della buona fede individuale82. Invece, la critica più diffusa contro la tesi favorevole all’intervento del giudice discende da quella visione dell’autonomia negoziale che identifica l’intervento del giudice sul contratto come un attacco alla libertà contrattuale83. 80 Cfr. la dettagliata analisi di C. Turco, L’imputabilità, cit., spec. pp. 149-157, ove ampi riferimenti di dottrina e di giurisprudenza. 81 Ibidem, p. 153. Va peraltro osservato che Turco è autore certamente riconducibile al filone solidarista. 82 Una sentenza recente ammette il giudizio ex art. 1455, ma nella prospettiva solidarista: Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Grumello del Monte, 7 luglio 2008, in Obbligazioni e contratti, 2009, p. 708 e ss, con nota di I.M. Gonnelli, La clausola risolutiva espressa tra principio di buona fede e importanza dell’inadempimento. 83 Cfr. ad esempio le posizioni di due civilisti italiani quali G.B. Ferri, Autonomia delle parti e poteri del giudice (2004), in Id., Il potere e la parola e altri scritti di diritto civile, Padova, Cedam, 2008, p. 293 e ss., spec. p. 304: «[A] mio giudizio, culturalmente e politicamente, non vi è spazio, nel nostro sistema giuridico, per l’idea di un giudice che svolga, invito domino e nel silenzio della legge, quasi il ruolo di un invadente [,] e per questo spesso molesto, brasseur d’affaires di interessi privati. E tanto meno vi può essere spazio per quella di un giudice che si muova, in forze, ad espugnare la “cittadella” dell’autonomia privata, sulla quale si è sempre fondato il diritto civile; anche quello codificato dal legislatore del 1942» 25 Laddove, nella prospettiva solidarista, il giudizio sulla gravità dell’inadempimento connesso all’eventuale intervento del giudice dovrebbe servire ad evitare abusi e distorsioni dell’autonomia privata a danno del cosiddetto contraente più debole. Lungo questa linea si è infatti espressamente scritto che il riconoscimento del potere del giudice di intervenire sul contratto, inteso in senso ampio, sarebbe una via d’uscita apprezzabile dal dualismo liberismo/dirigismo84. Nel senso che il giudice può rappresentare uno strumento di controllo e di indirizzo dell’autonomia privata attraverso l’impiego della regola di buona fede costituzionalizzata: in quest’ordine di idee, l’autonomia privata non verrebbe repressa ma soltanto indirizzata a fini solidaristici. Nella nostra prospettiva della clausola risolutiva espressa, questi fini possono evidentemente estendersi fino alla preclusione dell’operatività della clausola stessa, se (corsivo dell’a.), e S. Mazzamuto, Il contratto europeo nel tempo della crisi, cit., p. 637, a proposito del duplice errore consistente «a) nel confondere tra il contratto quale fattispecie di autonomia privata – che può essere variamente incisa e sottoposta ad ortopedia dal legislatore sia a fini di giustizia distributiva (v. ad es. i prezzi imposti) sia nel perseguimento di altri valori apicali extramercantili – ed il contratto quale sede elettiva della giustizia contrattuale […] che può essere solo rimessa alla libera volontà delle parti, giacché il contratto è perfetto e, quindi, giusto se realizza inscindibilmente “nella realtà concreta i due ideali della giustizia e della reciprocità; b) nel travisare il ruolo svolto dalla buona fede, la quale si tramuterebbe in strumento di integrazione del giudizio anziché del contratto, attribuendole con ciò il ruolo svolto dall’equità, la quale può guidare il potere del giudice esclusivamente nei casi previsti dalla legge» (corsivo dell’a.). Cfr. altresì A.M. Benedetti, L’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore, in Id. (a cura di), I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali – Profili sostanziali e commerciali, Torino, Giappichelli, 2003, p. 109 e ss., il quale, riflettendo sull’art. 7 del decreto legislativo n. 231/2002, che dà attuazione alla direttiva 2000/35/CE, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali, osserva, a p. 140: «Dietro l’angolo il rischio – di cui non sempre si ha consapevolezza – di un’attenuazione o di un azzeramento del vincolo negoziale, dissolvendosi in un’indefinita gamma di rimedi quella vis contrattuale cui allude la felice formula dell’art. 1372, 1° comma, c.c.». Ed ivi, in nota 94, l’a. rileva: «Il “nuovo contratto” oscilla tra ius poenitendi e rimedi che toccano l’equilibrio contrattuale, rischiando così di divenire facile preda di “aggressioni” giudiziarie: lamentando “abusi” genericamente intesi o “disequilibri” di aleatoria individuazione, una delle parti chiederà al proprio legale di scovare il modo migliore e più rapido per liberarsi, in buona sostanza, di un contratto indesiderato o, comunque, che non risponde più – rispetto al tempo in cui fu concluso – alle soggettive convenienze o aspettative della parte. Si immagini allora quale può essere la “forza” di un vincolo così facilmente cancellabile; nessuna, o poco più». 84 Cfr. ancora C. Turco, L’imputabilità, cit., p. 214: «[L]a soluzione […] va dunque ricercata evitando opposti radicalizzazioni in chiave sia incondizionatamente liberistica, sia rigidamente interventista e statalista, tentando piuttosto di individuare strumenti alternativi di controllo atti a mediare fra l’esigenza di salvaguardare la libertà contrattuale e di iniziativa privata, da un lato, e di evitarne, dall’altro, un abuso funzionale, garantendone la piena compatibilità con l’utilità sociale: di guisa che la vicenda contrattuale risulti strutturata su un modello di autonomia negoziale che sia effettivamente tale e, in ultima analisi, rispondente alla configurazione desumibile dal combinato disposto degli artt. 1321-1322 c.c. e 41 Cost. [«L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali»], atteggiandosi come espressione e risultato di una bilaterale ed equilibrata confluenza dei contrapposti interessi delle parti nel contenuto reale dell’accordo». 26 riesca a provarsi che la clausola risolutiva si è in sostanza tradotta in un abuso contrattuale a danno di una parte. A mio avviso, non è invece impossibile conciliare la libertà delle parti di introdurre nel contratto una clausola risolutiva espressa con il potere del giudice di accertare la non scarsa importanza dell’inadempimento. Tutto sta nel modo in cui il diritto è usato. La prospettiva di questo scritto è quella che guarda alla buona fede non come strumento di repressione dell’autonomia contrattuale, non come strumento di giustizia contrattuale, e neppure come strumento di repressione delle condotte scorrette sia in senso morale che economico85, ma semplicemente come una tecnica di analisi del significato economico della pattuizione. L’economia del contratto è qualcosa che ha una sua propria oggettività, e quindi deve essere nettamente separata dall’idea di contratto come prodotto delle volontà delle parti: conseguentemente, la regola di buona fede può essere intesa non come un criterio per alterare in un’unica direzione l’equilibrio originario del contratto (come se lo squilibrio fosse sempre e soltanto un effetto dell’abuso di potere economico di controparte); può diventare un criterio duttile attraverso il quale il giudice eserciterà bensì un controllo sull’equilibrio del contratto, ma non per stravolgerlo, cioè non per alterarlo in senso conforme alla gerarchia assiologica che si afferma vincolare ordinamento e contratto, ma per ricavare proprio dall’economia del contratto, dall’assetto economico, quelle regole giuridiche, inespresse nella pattuizione e tuttavia appropriate perché ragionevoli rispetto all’economia del contratto86 in quanto istituzione della società aperta, e pur in dialettico rapporto con l’assiologia dell’ordinamento. Potrà anche trattarsi di regole giuridiche contrastanti con il tenore letterale di alcune clausole contrattuali, ma che non possono per ciò solo essere qualificate come arbitrarie creazioni giudiziali, proprio perché rispecchiano l’assetto degli interessi economici del contratto. Da questo punto di vista, nulla può dunque escludere che una clausola risolutiva espressa possa essere soggetta al giudizio di cui all’art. 1455, quando vi siano buone 85 Cfr. L. Nanni, Sub art. 1455, in L. Nanni et alii, Della risoluzione, cit., p. 18: «Pare dunque corretto concludere che la buona fede oggettiva ispira la norma [art. 1455], soprattutto perché evita che atteggiamenti pretestuosi, fondati su inadempimenti di poca consistenza, servano alla parte che si è pentita di aver dato il consenso di liberarsi dal vincolo contrattuale». 86 È la prospettiva di And. D’Angelo, La buona fede, cit., spec. il Capitolo I («Clausola generale di buona fede e integrazione del contratto»), pp. 1-69. 27 ragioni economiche per sostenere che l’applicazione dell’art. 1455 è funzionale al rispetto dell’assetto economico che emerge dal contratto. In realtà, c’è una certa schizofrenia nella teoria generale del contratto contemporanea. Da una parte, le prese di posizioni degli studiosi e della giurisprudenza favorevoli a riconoscere al giudice un potere di intervento sul contratto hanno come obiettivo quello di difendere una concezione dell’autonomia privata e del contratto che sia oggetto di un controllo di costituzionalità da parte del giudice ordinario, onde garantire la «giustizia» del contratto. Dall’altra parte, le prese di posizioni contrarie all’intervento del giudice sono fondate sulla discutibile equazione {potere del giudice = affossamento del contratto}, onde garantire la «libertà» delle parti. Ci può essere forse una terza via: quella della fiducia nel giudice. Una fiducia temperata, nel senso che il giudice può certamente esercitare un sindacato anche pesante sull’economia del contratto, ma i confini di questo sindacato devono essere tracciati: più che dal legislatore, dalle prassi, dagli usi del diritto87; quindi, una grossa quota di responsabilità spetta agli avvocati. Sono infatti gli avvocati che per difendere le ragioni dei loro assistiti hanno un incentivo onde individuare e portare alla luce quei problemi di economia del contratto sui quali chiedono la pronuncia del giudice. È troppo facile e deresponsabilizzante limitarsi a richiamare genericamente, negli atti, la buona fede contrattuale, ma poi però dolersi perché il giudice fa un uso troppo disinvolto delle clausole generali: il compito, non di reprimere ma, di indirizzare il potere del giudice è unicamente dell’avvocato. I nostri ordinamenti ben conoscono il tanto glorificato principio dispositivo88; immaginiamolo non soltanto rilevante sotto il profilo della prova; pensiamolo anche nella prospettiva dell’argomentazione, quindi degli avvocati e quindi del giudizio. 87 Sempre attualissimo l’insegnamento di A. Ross, Diritto e giustizia (trad. it.), Torino, Einaudi, 2001 (ed. orig. ingl. 1958), spec. p. 104: «Dobbiamo […] analizzare la prassi delle corti per cercare di scoprire i principî e le norme che effettivamente guidano le corti nel trarre da una norma generale la decisione del caso particolare; questa attività metodo giudiziale, o, nel caso di applicazioni del diritto scritto (diritto statuito o legge), interpretazione. […] Nell’interpretazione del diritto valido risulta molto chiaramente che la conoscenza del diritto non può, in una analisi, venire separata dalla politica del diritto». 88 V. le opposte letture di due illustri e appassionati giuristi: M. Cappelletti, La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità – Contributo alla teoria della utilizzazione probatoria del sapere delle parti nel processo civile, parte I, Milano, Giuffrè, 1962, spec. il Capitolo V («Principio della trattazione e principio dispositivo inteso in senso sostanziale. L’interrogatorio con funzione inquisitoria», pp. 303-375), e F. 28 Avere fiducia nel giudice, sotto questo punto di vista, non significa affidarsi all’argomentazione del giudice; significa collaborare con il giudice nella elaborazione della motivazione. Compito certamente non facile ma, sembra a me, di grande fascino intellettuale. Cipriani, Autoritarismo e garantismo nel processo civile (A proposito dell’art. 187, 3° comma, c.p.c.) (1994), in Id., Ideologie e modelli del processo civile, Napoli, ESI, 1997 (I rist. 2001), p. 121 e ss. 29