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L`importanza dell`inadempimento

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L`importanza dell`inadempimento
Mauro Grondona*
Gravità dell’inadempimento, buona fede contrattuale, clausola risolutiva espressa,
poteri del giudice sul contratto: per una difesa antidogmatica dell’autonomia
privata e alla ricerca di un criterio di giudizio**
Sommario: 1. I problemi – 2. Il principio di non scarsa importanza dell’inadempimento
– 3. L’approccio solidarista alla buona fede – 4. Assiologia solidarista e buona fede
contrattuale – 5. La buona fede solidarista quale veicolo di giustizia sostanziale – 6.
L’autonomia privata tra individuo e società – 7. Una lettura assiologica dell’autonomia
privata – 8. I problematici fondamenti della buona fede solidarista – 9. Per un approccio
individualista alla teoria generale del contratto – 10. Giudizio di gravità
dell’inadempimento e clausola risolutiva espressa: il ruolo della buona fede
1. I problemi.
Il tema oggetto di questo scritto ha due prospettive: una più ristretta e una più generale.
Nella prospettiva più ristretta, il tema è quello del rapporto tra il principio espresso
dall’art. 1455 cod. civ. it. («Il contratto non si può risolvere se l’inadempimento di una
delle parti ha scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse dell’altra»), e la clausola
risolutiva espressa, disciplinata all’art. 1456 («I contraenti possono convenire
espressamente che il contratto si risolva nel caso che una determinata obbligazione non
sia adempiuta secondo le modalità stabilite. In questo caso, la risoluzione si verifica di
diritto quando la parte interessata dichiara all’altra che intende valersi della clausola
risolutiva»).
*
Docente di Istituzioni di diritto privato e di Diritto privato europeo dell’Università di Genova.
Avvocato in Genova. E-mail: [email protected].
**
Consiglio Nazionale Forense/Scuola Superiore dell’Avvocatura – VIII Congresso giuridico-forense per
l’aggiornamento professionale. Roma, Complesso monumentale di S. Spirito in Sassia, 14-17 marzo
2013.
1
Di qui il problema: il principio di cui all’art. 1455 si applica anche in presenza di una
clausola risolutiva espressa? Oppure l’esercizio di autonomia privata concretatosi
nell’inserimento nel contratto di una clausola risolutiva è sovrano fino al punto di
escludere ogni controllo giudiziale circa la gravità dell’inadempimento?
Nella prospettiva più generale, il tema è quello dei poteri del giudice sul contratto
esercitati attraverso l’applicazione delle disposizioni (e quindi attraverso la produzione
in via interpretativa di norme) appena citate; cioè, il tema del controllo giudiziale sul
contratto, che è ovviamente riconducibile alla fisiologica tensione tra autonomia privata
ed ordinamento giuridico1; detto ancora in altre parole, tra ordine giuridico dei privati
ed ordine giuridico dello Stato2.
2. Il principio di non scarsa importanza nell’inadempimento.
Partiamo dall’art. 1455: letteralmente prevede che la risoluzione giudiziale del contratto
è subordinata al giudizio circa la gravità dell’inadempimento3.
Dottrina e giurisprudenza italiane hanno letto e leggono questa disposizione nel senso
che essa esprime criteri oggettivi e criteri soggettivi ai quali ancorare tale giudizio4.
Consideriamo innanzitutto il criterio oggettivo: prima facie, esso non è altro che la
gravità dell’inadempimento stesso, letta alla luce dell’economia del contratto5.
1
In tema, cfr. ad esempio H. Dagan, The Limited Autonomy of Private Law, in The American Journal of
Comparative Law, 2008, vol. 56, p. 809 e ss.
2
Sulla questione, volendo, si può vedere il mio libro: L’ordine giuridico dei privati. Premesse teoricogenerali per uno studio sul diritto dispositivo in ambito contrattuale, Soveria Mannelli-Bergamo,
Rubbettino-Leonardo Facco, 2008; e si veda invece senz’altro l’ampio e dettagliato saggio di A. Gentili,
Invalidità e regole dello scambio, in S. Pagliantini (a cura di), Le forme della nullità, Torino,
Giappichelli, 2009, p. 217 e ss.
3
Trattano ex professo il tema i seguenti studi monografici: G. Collura, Importanza dell’inadempimento e
teoria del contratto, Milano, Giuffrè, 1992; M.G. Cubeddu, L’importanza dell’inadempimento, Torino,
Giappichelli, 1995; C. Turco, L’imputabilità e l’importanza dell’inadempimento nella clausola risolutiva
espressa, Torino, Giappichelli, 1997; F. Sartori, Contributo allo studio della clausola risolutiva espressa,
Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012.
4
Nell’abbondante letteratura, v. ad esempio la sintesi di C.M. Bianca, Diritto civile, 5. La responsabilità,
Milano, Giuffrè, 1994, pp. 272-273: «La gravità dell’inadempimento dev’essere valutata in relazione
all’interesse del creditore secondo un criterio oggettivo dovendosi reputare grave un inadempimento che
pregiudichi in misura normalmente intollerabile le legittime aspettative del creditore. Dottrina e
giurisprudenza ammettono la rilevanza anche di un criterio soggettivo, che tenga conto della particolare
importanza che la prestazione può avere per il creditore. La particolare importanza della prestazione deve
tuttavia risultare dal contratto, non potendosi rimettere all’incontrollato apprezzamento dello stesso
creditore un requisito previsto dalla legge come limite al suo potere di risoluzione». Amplius, v. G.
Amadio, Inattuazione e risoluzione: la fattispecie, in Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, V,
Rimedi – 2, a cura di V. Roppo, Milano, Giuffrè, 2006, pp. 123-131, e G. Sicchiero, La risoluzione per
inadempimento. Artt. 1453-1459, in Il Codice Civile. Commentario fondato da P. Schlesinger, diretto da
F.D. Busnelli, Milano, Giuffrè, 2007, pp. 553-573.
2
Quindi, il primo elemento di cui bisogna tenere conto è il valore della prestazione
inadempiuta, da rapportarsi al valore complessivo delle prestazioni contrattuali6.
In questo modo si può accertare se vi sia stata un’alterazione del sinallagma
contrattuale7, cioè dell’equilibrio economico, dell’assetto economico del contratto per
come previsto, voluto e realizzato dalle parti.
Parlare di equilibrio del contratto, naturalmente, non significa fare riferimento ad una
situazione di equilibrio ideale, astratto; al contrario, significa riferirsi all’economia in
concreto del contratto, in altri termini, alla sua funzione economico-individuale, per
usare una formula ormai entrata nell’uso corrente dei giuristi8.
Il criterio soggettivo riguarda invece l’interesse del creditore ad ottenere un
adempimento esatto, cioè una prestazione da cui consegua un adempimento conforme a
quanto indicato nel contratto.
È dunque sì un criterio soggettivo, perché si riferisce alla pretesa soggettiva del
creditore, ma occorre intendersi: la valutazione circa la sussistenza di un interesse del
creditore giuridicamente tutelabile attraverso lo strumento della risoluzione non può
essere rimessa al creditore stesso. Di talché, l’interesse soggettivo, per poter essere
giudizialmente concretizzato e ricostruito, ha necessariamente bisogno di indici
oggettivi di giudizio.
La strada è dunque quella di un interesse bensì soggettivo, ma oggettivato alla luce
dell’assetto economico del contratto, e che dunque sia configurabile come qualcosa di
5
Osserva infatti V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato, a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano,
Giuffrè, 2001, pp. 961-962, che il criterio oggettivo deve essere riferito «alla funzione e al peso che la
prestazione inadempiuta ha nel quadro dell’economia complessiva del contratto, valutata in concreto»
(corsivo dell’a.). Ma v. ora la II ed. dell’opera (2011), p. 900.
6
Così L. Nanni, Sub art. 1455, in L. Nanni-M. Costanza-U. Carnevali, Della risoluzione per
inadempimento, t. I, 2. Artt. 1455-1459, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca, BolognaRoma, Zanichelli-Soc. ed. Foro italiano, 2007, p. 9, ove ampi riferimenti giurisprudenziali.
7
F. Galgano, Diritto civile e commerciale, Padova, Cedam, 2004 (IV ed.), vol. II, t. I, p. 563, rileva che
dall’art. 1455 emerge «un principio di proporzionalità fra le prestazioni contrattuali».
8
L’espressione, come ben noto, risale a G.B. Ferri, Causa e tipo nella teoria del negozio giuridico,
Milano, Giuffrè, 1966, in particolare il Capitolo IV («L’interesse meritevole di tutela»), pp. 345-412,
spec. pp. 371: «La causa come funzione economico-individuale sta appunto ad indicare il valore e la
portata che all’operazione economica nella sua globalità le parti stesse hanno dato. Valore che può essere
solo se si considerano, veramente, tutti gli elementi di cui si compone il negozio giuridico; perché il
negozio concreto, da tutti questi elementi primari e secondari viene caratterizzato», e 372: «Considerare
la causa come la funzione economica individuale non significa riproporre una definizione di causa che
riecheggi da vicino quella per la quale causa del negozio era lo scopo meramente soggettivo degli autori
del negozio stesso. Si vuole soltanto mettere in luce che, se il negozio esprime una regola privata, la causa
è l’elemento che collega l’operazione economica oggettiva ai soggetti che ne sono autori; e che quindi la
causa è l’indice di come il regolamento negoziale di interessi sia l’espressione oggettiva di talune finalità
soggettive».
3
diverso dalla generica pretesa del creditore all’adempimento: l’assetto economico del
contratto è ciò che qualifica la pretesa del creditore come interesse soggettivo rilevante
ai sensi dell’art. 14559.
Con altre parole, si potrebbe dire che l’interesse del creditore in discorso è un interesse
qualificato sotto un triplice, ma strettamente unitario, profilo: è qualificato dall’assetto
giuridico-contrattuale (regolamento); è qualificato dall’economia del contratto
(programma economico); è qualificato dalla funzione economica individuale del
contratto (causa in concreto).
Questa prospettiva, evidentemente, è quella adottata dalla moderna – cioè novecentesca
– teoria generale del contratto10, che guarda alla volontà delle parti come ad una volontà
che si oggettivizza nel regolamento contrattuale.
Emerge allora che il criterio oggettivo ed il criterio soggettivo sono appunto due facce
della stessa medaglia: due aspetti di ciò che gli studiosi sono ormai soliti chiamare
«economia del contratto»11; l’affare, per come configurato dai legali delle parti
attraverso il regolamento contrattuale. Di qui del resto derivano i ben noti dibattiti sui
limiti del controllo giudiziale dell’assetto economico del contratto12 e sulle tecniche di
contrasto a tale «attivismo giudiziario».
3. L’approccio solidarista alla buona fede.
Il fatto che il programma economico cui il contratto dà una veste giuridica sia la base
del giudizio ex art. 1455 ci spiega perché una parte significativa della dottrina più
9
In questo senso, v. P. Trimarchi, Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, Giuffrè, 2010, pp. 67-68:
«La valutazione dell’interesse del contraente insoddisfatto dovrà farsi con riferimento alla specificità del
caso concreto, tenendo conto di quanto risulta dal contratto e dalle circostanze note o conoscibili
dall’altra parte. Naturalmente, nel dubbio si può presumere che una valutazione condotta secondo criteri
generali e oggettivi corrisponda all’interesse del caso concreto».
10
Una lettura di riferimento è il volume di É. Savaux, La théorie générale du contrat, mythe ou réalité?,
Paris, L.G.D.J, 1997; sullo specifico fenomeno dell’oggettivazione del contratto, molto incisive le pagine
di E. Roppo, Il contratto, Bologna, Il Mulino, 1977, pp. 266-278. Va ora visto il bel quadro di sintesi
tracciato da G. Alpa, Le stagioni del contratto, Bologna, Il Mulino, 2012.
11
Nella letteratura italiana in materia, uno tra gli studi più celebri è quello di M. Bessone, Adempimento
e rischio contrattuale, Milano, Giuffrè, 1969 (rist. inalt. 1975), in particolare il Capitolo 5 («La cernita
delle circostanze apprezzabili e i criteri di distribuzione del rischio contrattuale»), pp. 343-403.
12
In tema, si veda soprattutto il saggio di P.G. Monateri, Ripensare il contratto: verso una visione
antagonista del contratto, in Rivista di diritto civile, 2003, I, p. 409 e ss., spec. p. 415, ove il rilievo che il
giudice «non è più lì per rifare il contratto per le parti, per la buona ragione che le parti non sono una
coalizione unitaria, che unitariamente chiede aiuto al giudice, ma rappresentano poli antagonisti, onde se
il giudice rifà il contratto, lo rifà non per le parti, ma per una delle parti. Il che è politicamente giustificato
solo in casi determinati di protezione, ma non nella generalità dei casi» (corsivo dell’a.).
4
recente sia orientata nel senso di una lettura interpretativa dell’art. 1455 conforme alla
regola di buona fede oggettiva, cioè alla regola di correttezza contrattuale13.
Qui si apre evidentemente un punto molto delicato, perché, come del resto è ben noto, il
ricorso alla buona fede si presta ad usi molteplici: c’è infatti un uso della buona fede che
potremmo qualificare «solidarista»14, contrapposto ad un uso che potremmo qualificare
«individualista»15.
Altrettanto noto è che, almeno nelle intenzioni dichiarate, la maggior parte della dottrina
e della giurisprudenza aperta alla valorizzazione della buona fede ha un approccio
solidarista16. Che in breve vuol dir questo: il contenuto economico del contratto, e
13
Il riferimento è in particolare al libro di C. Turco, L’importanza e l’imputabilità dell’inadempimento,
cit., passim, ma spec. p. 143: «[L]a buona fede oggettiva [concorre] in particolare a specificare la
prestazione dovuta, includendovi (ed identificandosi con) l’impegno comportamentale del debitore a
porre in essere tutto ciò che si palesi per l’appunto indispensabile al conseguimento, nell’interesse del
creditore e secondo un criterio di normalità, del “risultato utile” quale scopo dell’obbligazione» (corsivo
dell’a.).
14
Cfr. A. Somma, Buona fede contrattuale e gestione del conflitto sociale, in And. D’Angelo-P.G.
Monateri-A. Somma [con la collaborazione di C. Amodio], Buona fede e giustizia contrattuale. Modelli
cooperativi e modelli conflittuali a confronto, Torino, Giappichelli, 2005, p. 75 e ss., spec. pp. 93-94, ove
una connotazione del modello di buona fede solidale, caratterizzato dalla «valorizzazione del conflitto e
[dalla] tipizzazione del contesto», e come tale contrapposto al modello politico-giuridico ordoliberale. Ad
avviso di Somma, «la valorizzazione del conflitto avviene in vista di esiti certamente riconducibili al
proposito di incidere sui termini della dialettica tra le forze del mercato, tuttavia non con l’imposizione di
un determinato ordine, bensì attraverso un rafforzamento della posizione della parte ritenuta
strutturalmente più debole. Altrimenti detto, la buona fede solidale incide sul conflitto sociale realizzando
un’equa distribuzione delle armi tra le parti in causa e non anche indirizzando l’esito del confronto»; di
più, l’impiego della buona fede conflittuale e solidale «mira a rendere effettivo il gioco democratico in
termini che – utilizzando la terminologia della carta fondamentale italiana – comportano una rilettura del
dovere privato “di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) alla luce del dovere pubblico di
“rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei
cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3). Dovere pubblico che, sia detto per
inciso, potrebbe anche essere direttamente posto a fondamento della conformazione dell’attività privata».
15
Cfr. And. D’Angelo, La buona fede ausiliaria del programma contrattuale, in And. D’Angelo-P.G.
Monateri-A. Somma, Buona fede e giustizia contrattuale, cit., p. 1 e ss., spec. p. 8: «Poiché la buona fede
implica il valore di fedeltà dei contraenti al vincolo che hanno reciprocamente assunto, il giudice, nel
decidere la controversia alla stregua di essa, deve ermeneuticamente ricostruire l’assetto complessivo di
interessi stabilito dalle parti nella convenzione, il “programma contrattuale”, e risolvere il caso mediante
la costruzione di una regola, non espressa nella convenzione, che sia coerente, o quantomeno compatibile,
con la pattuita composizione degli interessi antagonisti. Ancorando il giudizio a un vincolo di congruenza
con le direttive convenzionali, pur non specificamente regolatrici del conflitto concretamente insorto, si
tende a temperare i rischi di arbitrio, e l’inconveniente di imprevedibilità, di decisioni fondate su di una
“clausola generale” che, in quanto tale, attribuisce al giudice ampi ambiti di discrezionalità». Amplius,
cfr. Id., La buona fede, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, vol. XIII, Il contratto in
generale, t. IV**, Torino, Giappichelli, 2004; nonché Id., Contratto e operazione economica, Torino,
Giappichelli, 1992.
16
Tra gli scritti più recenti, si vedano le puntuali e incisive analisi giurisprudenziali di R. Natoli, Abuso
del diritto e abuso di dipendenza economica, in Contratti, 2010, p. 524 e ss., e di C. Restivo, Abuso del
diritto e autonomia privata. Considerazioni critiche su una sentenza eterodossa, in Rivista critica del
diritto privato, 2010, p. 341 e ss.; in senso più generale, cfr. altresì lo scritto di A. Gnani, Contrarietà a
buona fede e invalidità del contratto: spunti ricostruttivi, in Rivista di diritto civile, 2009, II, p. 435 e ss.
5
quindi l’equilibrio economico del contratto, è messo in relazione non con se stesso, in
quanto espressione e prodotto dell’autonomia privata, in quanto unità di misura della
ratio economica del contratto, in quanto assetto economico che viene reso (almeno in
gran parte) esplicito attraverso il regolamento contrattuale17, ma con i valori
inderogabili dell’ordinamento, ed inderogabili in quanto tendenzialmente contrapposti
all’autonomia privata18, cioè agli esiti che l’autonomia privata ha prodotto all’interno di
quello specifico contratto. Tra questi valori, inevitabile il richiamo alla solidarietà
economica e sociale19.
A questo punto, un chiarimento si impone (pur non potendo in questa sede essere
approfondito): una visione moderna del rapporto contratto/Stato (e quindi del rapporto
contratto/mercato20) non sottoscrive la tesi secondo la quale l’autonomia privata è fonte
di se stessa ed è regola di giudizio di se stessa; è ovvio, infatti, che l’autonomia privata
è soltanto uno dei fattori di produzione dell’ordinamento giuridico, al cui interno va
collocata e compresa.
Questa doverosa cautela (onde evitare dogmatismi libertari: come se l’autonomia
privata fosse sempre e comunque sotto attacco da parte dell’ordinamento statuale; come
se l’autonomia privata fosse per propria natura sempre in conflitto con l’ordinamento
17
Un illustre autore italiano quale è Rodolfo Sacco ha osservato, proprio in riferimento alla risoluzione,
che, per capirne il senso, «bisogna capire il senso del contratto, nel cui campo il contraente è la misura di
tutte le cose»: R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, in Trattato di diritto civile, diretto da R.
Sacco, Torino, Utet, 2004 (III ed.), t. II, p. 633.
18
Tra gli autori che più approfonditamente hanno studiato il tema, va certamente richiamata l’opera di
Pietro Perlingieri e della sua Scuola; in particolare, v. P. Perlingieri, Il diritto civile nella legalità
costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane,
2006 (III ed. del tutto rinnovata e corredata di note), spec. il Capitolo VIII («L’autonomia nella pluralità e
gerarchia delle fonti e dei valori»), pp. 289-429; cfr. soprattutto p. 299, a proposito dell’apporto
interpretativo desumibile dalla prassi, ed ivi il rilievo critico per cui i precedenti giurisprudenziali, le
prassi giudiziaria e notarile «sono da accogliere nei limiti della loro rispondenza ai princípi giuridicoformali, evitando cioè di attribuire all’effettivo modo nel quale funziona il sistema la virtù di
contraddirlo»; p. 306, a proposito della gerarchia dei valori, ove il rilievo che «[i]l valore è unitario, i suoi
aspetti molteplici: politici, sociali, etici, filosofici, giuridici. […] Il valore è espressione non di un unico
criterio (quello della razionalità o quello sociale o politico o economico), ma di un criterio sincretico,
dovuto a tanti profili tutti concorrenti. Al di fuori di questa soluzione problematica v’è soltanto un criterio
al quale il giurista può e deve far riferimento: il dato normativo, espressione e sintesi della molteplicità
dei criteri che tendono ad individuare il valore»; pp. 327-328: «[G]li atti di autonomia hanno un comune
denominatore nella necessità di essere volti a realizzare interessi e funzioni meritevoli di tutela e
socialmente utili; e nell’utilità sociale v’è sempre e comunque l’esigenza che atti e attività non siano in
contrasto con la sicurezza, la libertà, la dignità umana (art. 41, comma 2, cost.)»; p. 376: «L’autonomia si
colloca tra libertà e giustizia contrattuale».
19
L’art. 2 della Costituzione italiana del 1948 recita: «La Repubblica riconosce e garantisce i diritti
inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e
richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale».
20
V. ancora A. Gentili, Invalidità e regole dello scambio, cit., passim.
6
statuale; come se l’autonomia privata fosse sempre e unicamente il simbolo della libertà
individuale e l’ordinamento sempre e unicamente il simbolo dell’oppressione collettiva)
vuole anche sottolineare come il rapporto individuo/Stato (sotto il profilo
dell’autodeterminazione economico-negoziale) sia dinamico; di talché, è quantomeno
discutibile l’idea per cui l’ordinamento giuridico, esterno all’autonomia privata in
quanto ordine statuale, o conforma quest’ultima ai suoi valori, oppure la reprime.
Più corretto, e realistico, è invece ritenere che tale rapporto sia biunivoco ed inclusivo: i
valori dell’ordinamento, alla luce dei quali sarà certamente filtrato il prodotto
dell’autonomia privata, sono costruiti (anche) attraverso il continuo esercizio
(individuale o collettivo) dell’autonomia privata stessa. Quindi, la relazione autonomia
privata/ordinamento non è da vedersi soltanto in senso unidirezionale (l’ordinamento
approva o reprime l’autonomia privata, in base ad un giudizio di meritevolezza degli
interessi perseguiti)21, ma anche (e io direi, pur con qualche cautela, soprattutto) in
senso bidirezionale22, perché l’innegabile e indispensabile contenuto assiologico del
diritto dipende pure dall’esercizio dell’autonomia privata, cioè dall’azione umana23.
Tornando allora all’uso solidaristico della buona fede, sotto il profilo della politica del
diritto (di cui il giurista non deve disinteressarsi, rifugiandosi feticisticamente nel
tecnicismo giuridico, illusorio e quindi mai davvero appagante24), non si tratta di
un’operazione di poco momento: lo scopo di tale approccio, che del resto non è celato, è
21
Cfr. spec. P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., pp. 376-377: «L’autonomia negoziale si conforma alle
scelte di fondo che caratterizzano l’ordinamento italo-comunitario, secondo i dati normativi (princípi e
regole) desumibili dall’ordinamento stesso nella sua unitarietà e completezza. L’autonomia negoziale si
collocherebbe altresì tra libertà e mercato libero. Ma il mercato è uno statuto normativo, sì che il
problema è quale sia lo statuto normativo conformativo del mercato e quindi dell’autonomia negoziale: la
medesima regolamentazione dell’autonomia negoziale diventa ad un tempo regolamentazione del
mercato».
22
Cfr. spec. H. Dagan, The Limited Autonomy of Private Law, cit., spec. pp. 811: «Private law theory
can be told as a story of the competition between two accounts of the relationships between private law
and social values» e 812: «[M]any so-called public values do, and in fact should inform private law,
without undermining the normative significance of its bipolarity. In this sense, then, private law can never
be autonomous from the state whose values it is supposed to promote».
23
In tema, il riferimento doveroso, pur nella sua alta problematicità, è alla monumentale ricerca di L. von
Mises, Human Action: A Treatise on Economics, San Francisco, Fox & Wilkes, 1996 (4th rev. ed.; I ed.
1949; rev. ed. 1963; esiste anche una trad. castigliana pubblicata da Unión Editorial).
24
Cfr. il saggio lucido e appassionato di R. Marra, Per una scienza di realtà del diritto (contro il feticismo
giuridico), in Materiali per una storia della cultura giuridica, 2008, p. 317 e ss. [prima parte], e 2009, p. 5
e ss. [seconda parte].
7
quello di utilizzare il contratto per realizzare obiettivi di giustizia sostanziale tra le parti
e all’interno della società25.
In altre parole, si tratta di una funzionalizzazione del contratto in vista del
perseguimento della giustizia contrattuale (dimensione endo-contrattuale) e della
giustizia sociale (dimensione eso-contrattuale).
Se il contratto, in quanto operazione economica, è «giusto», non soltanto il rapporto tra
i contraenti sarà in equilibrio economico (giustizia commutativa), e come tale conforme
ai valori dell’ordinamento innestati all’interno del contratto (da cui l’approvazioneautorizzazione dell’operazione economica da parte dell’ordinamento), ma saranno in
equilibrio assiologico26 anche le azioni economico-negoziali attuatesi nella società,
considerata quale aggregato istituzionale derivante dalle condotte individuali, da cui un
assetto sociale «giusto»27.
Detto altrimenti, i risultati delle interazioni tra condotte individuali saranno giudicati, ex
post, soddisfacenti a parte ordinamenti.
L’idea, dunque, è che, per realizzare siffatto obiettivo, il contratto debba sempre più
perdere la sua matrice individualistica per arricchirsi di un plusvalore di carattere
pubblicistico28, che gli è imposto ab externo.
25
In chiave critica, ed anche per indispensabili ulteriori riferimenti, cfr. soprattutto l’efficace scritto di S.
Mazzamuto, Il contratto europeo nel tempo della crisi, in Europa e diritto privato, 2010, p. 601 e ss., in
particolare pp. 636-637: «La tesi che attribuisce al giudice la funzione di integrare il contenuto del
contratto in attuazione del principio di solidarietà ha […] il sapore di un’appropriazione indebita a scapito
del legislatore, al quale solo è demandato il compito di predisporre le regole di attuazione di tale principio
cui l’autonomia privata è tenuta ad uniformarsi e di consentire l’intervento del giudice nel caso in cui tali
regole non vengano rispettate»; e p. 612: «Se è già fondato il sospetto di una forzatura riguardo alla
pretesa di rintracciare nelle disposizioni normative sull’intervento giudiziale nel contratto una comune
vocazione alla giustizia contrattuale, è ancora più fondato il sospetto che il perseguimento della giustizia
sociale per il tramite dell’arricchimento del contenuto del contratto si collochi nell’area dell’utopia
piuttosto che in quella della realtà effettuale». Amplius, sul tema, cfr. il corposo saggio di G. Smorto,
Autonomia contrattuale e diritto europeo, in Europa e diritto privato, 2007, p. 325 e ss.
26
Nel senso del testo, l’equilibrio assiologico è il genus al quale è riconducibile la species dell’equilibrio
economico, in base al rilievo per cui i rapporti economici sono funzione dell’assiologia generale della
società.
27
V. l’ampia ricerca di U. Perfetti, L’ingiustizia del contratto, Milano, Giuffrè, 2005, passim ma spec. il
Capitolo II («Giustizia materiale del contratto e strumenti funzionali»), pp. 229-372.
28
Sono parole, citate quasi alla lettera, di F. Longobucco, Violazione di norma antitrust e disciplina dei
rimedi nella contrattazione “a valle”, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2009, p. 51. In questo senso,
cfr. l’approfondita analisi di G. Marini, Distribuzione e identità nel diritto dei contratti, in Rivista critica
del diritto privato, 2010, p. 63 e ss., il quale, nell’ambito di una riflessione circa l’asimmetria di potere
contrattuale, che «non è più il frutto della relazione ineguale dei contraenti, ma è ricondotta invece
all’esistenza delle cd. market failures, cioè di situazioni che impediscono al mercato di funzionare
correttamente. […] E, nelle versioni più estreme, la presenza di una market failure è diventata il
principale, quando non l’unico fattore, che legittima l’intervento regolamentare» (p. 79), in particolare
osserva: «Se il carattere regolamentare dell’intervento non viene più negato, allora, l’interferenza
8
4. Assiologia solidarista e buona fede contrattuale.
Se, sul piano descrittivo, questo è ciò che sta avvenendo nel tempo presente, sul piano
critico occorre tuttavia rilevare che non si tratta di una riedizione dell’antiindividualismo contrattuale così tipico degli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso,
perché inevitabilmente impregnato di marxismo29.
Oggi c’è qualcosa di più e di diverso: il conflitto (del tutto fisiologico, e come tale
ineliminabile, anche perché benefico) tra autonomia privata ed ordinamento giuridico è
impiegabile come strumento, «a spontaneismo moderato», della trasformazione
giuridica in senso pluralistico30. Le conseguenze: una presenza assiologica che connota
in senso forte l’ordinamento e che si esprime ed attua soprattutto attraverso l’azione
pratica della giurisprudenza31. Di più: il conflitto tra valori ed interessi permane, ma non
ci si prefigge l’obiettivo di un suo superamento in chiave ideologica e di necessità
storica, quale reazione contro l’oppressione borghese, rispecchiata nelle categorie
giuridiche del modo capitalistico di produzione32, da sconfiggersi per il tramite di un
uso alternativo del diritto33; l’ordinamento giuridico è visto come inevitabile momento
(pubblico) viene però resa molto meno problematica per il mercato (privato), poiché ora serve a restaurare
le condizioni per il suo corretto funzionamento. La contrapposizione fra pubblico e privato, che aveva
costituito il tratto caratteristico del sociale, tende così ad essere ricomposta; una parte del pubblico
(l’intervento regolamentare) viene attratta e metabolizzata nel privato e la questione cruciale della
riallocazione del potere contrattuale, esercitata attraverso le regole del diritto privato, viene ricacciata in
un cono d’ombra, nel quale fatica ormai anche ad essere percepita».
29
Cfr. gli interessantissimi saggi contenuti in L. Nivarra (a cura di), Gli anni settanta del diritto privato,
Milano, Giuffrè, 2008, e in particolare si veda quello di F. Macario, L’autonomia privata, p. 119 e ss.
Adde lo scritto di M. Barcellona, L’«idea sociale» nella teoria del diritto privato: il caso italiano (ma non
solo), in Rivista trimestrale di diritto e procedura civile, 1997, p. 717 e ss.
30
Al solito preziose le indagini di R. Sacco, Antropologia giuridica. Contributo ad una macrostoria del
diritto, Bologna, Il Mulino, 2007, spec. p. 80: «Oggi il giurista pensa che dove c’è società c’è diritto; e
non sempre dove c’è società c’è lo stato, carico di tutte le sue funzioni»; p. 83: «Alla visione statalista e
lagalista del diritto è seguita una reazione, vissuta e scientificamente costruita da antropologi. Essa porta
il nome di pluralismo giuridico»; p. 84: «Il pluralismo giuridico si pronuncia sulla teoria generale del
diritto, sulla dottrina delle fonti, e proclama una sua politica del diritto». Si vedano anche gli ariosi saggi
raccolti ora in P. Grossi, Società, diritto, Stato. Un recupero per il diritto, Milano, Giuffrè, 2006.
31
Cfr. l’osservazione di L. Nivarra, Diritto privato contemporaneo. Regole giuridiche e paradigmi di
mercato, Napoli, Editoriale Scientifica, 2010, p. 131: «[I]l profilo di giudice che il nascente diritto
europeo dei contratti rimanda allo sguardo dell’osservatore è quello di un soggetto attivamente coinvolto
nell’attuazione delle policy di volta in volta considerate più idonee a promuovere, se non a raggiungere,
stante il suo carattere di ideale puramente regolativo, la concorrenza perfetta […]».
32
Così L. Nivarra, Ipotesi sul diritto privato e i suoi anni settanta, in Id. (a cura di), Gli anni settanta del
diritto privato, cit., p. 1 e ss., a p. 24.
33
Il riferimento è ovviamente all’opera di P. Barcellona (a cura di), L’uso alternativo del diritto, RomaBari, Laterza, 1973 (2 voll.). Tuttavia, è a mio avviso certamente condivisibile l’idea che, comunque, gli
anni Settanta «rappresentino […] uno spartiacque decisivo nella storia della cultura giuridica del ’900
9
di sintesi tra contratto e mercato, tra individuo e società, donde la frattura tra interesse
privato e interesse pubblico, che continuamente ritorna, può – ed anzi «deve», in questa
prospettiva assiologica – essere ricomposta: il fattore assiologico unificante è la
centralità dei diritti fondamentali dell’individuo in quanto strumenti di promozione
sociale34, che come tali permeano anche il contratto35, superando la concezione del
conflitto quale ostacolo, e riconducendolo alla condizione di opportunità, cioè
presupposto dell’intervento statuale.
Detto in breve, l’autonomia privata, secondo questa impostazione, attraverso la fase di
metamorfosi tipica del tempo presente36, sempre più spesso diventa strumento
preordinato anche alla realizzazione dell’interesse pubblico37.
segnando la fine di qualsiasi discorso in punto di neutralità ed oggettività dei discorsi della scienza del
diritto, intesa come dogmatica»: sono ancora parole di L. Nivarra, Ipotesi sul diritto privato, cit., p. 24.
34
Cfr. in particolare le incisive e precorritrici parole di M. Cappelletti, La giurisdizionale delle libertà,
Milano, Giuffrè, 1955, a proposito dei diritti di libertà, cioè i diritti fondamentali dell’uomo (p. 1), la cui
caratteristica «è il fatto che essi, i quali pur usano attribuirsi all’“uomo” anzi all’“individuo” […], sono in
realtà permeati di un valore che trascende [l’] uomo singolo e investe tutta intera la società. […] E invero
sì vaste ripercussioni assume oggi una violazione dei diritti fondamentali dell’individuo, da sembrar quasi
che essi tutelino interessi che trascendono gli stessi singoli popoli ed ordinamenti (oltreché i singoli
uomini), come si vede anche dai tentativi di realizzare su[l] piano internazionale una tutela giurisdizionale
di essi» (pp. 1-2).
35
V. spec. la sintesi di M. Barcellona, L’«idea sociale» nella teoria del diritto privato, cit., p. 721: «[I]
valori solidaristici proclamati dalla costituzione, la crescita civile che in essi si è espressa e la
moltiplicazione della legislazione interventistica che ne è conseguita hanno prodotto una nuova
percezione sociale dell’autonomia privata; […] di questa nuova percezione deve prendersi atto,
riconoscendo che la struttura del contratto si è ribaltata: da veste giuridica della volontà privata, esso si è
trasformato in contenitore di un regolamento che risulta dal concorso di una pluralità di fonti [...]»
(corsivo dell’a.). Più recentemente, cfr. G. Alpa, Autonomia delle parti e libertà contrattuale, oggi, in
Rivista critica del diritto privato, 2008, p. 571 e ss., in particolare p. 573, ove, a proposito del rapporto
dialettico libertà/autorità, il riferimento ad «una sorta di crasi, che qualifica il contratto come un accordo
“regolato” – piuttosto che governato completamente ab externo – nel quale l’autonomia non confligge ma
si armonizza con l’intervento [rie]quilibratore, che tiene conto appunto degli interessi tutelati dalla sfera
pubblica, soprattutto quando le parti deboli sono i lavoratori subordinati, i consumatori, i risparmiatori, i
conduttori, e così via», nonché i bei saggi raccolti in G. Vettori (a cura di), Contratto e Costituzione in
Europa. Convegno di studio in onore del Prof. Giuseppe Benedetti, Padova, Cedam, 2005.
36
Ne discorra ora, con molte suggestioni e con accenti non ottimistici, L. Nivarra, Diritto privato e
capitalismo, cit., il quale appare soprattutto preoccupato da ciò: «Il mercato non è più un presupposto ma
un obiettivo perché la concorrenza, suo nuovo principio ispiratore, può funzionare soltanto a patto che si
creino e si conservino le condizioni del suo esistere: e ciò esige una ininterrotta produzione di norme
giuridiche di vario tipo ma tutte dedite alla tutela di un dispositivo tanto delicato quanto inafferrabile»
(pp. 85-86). Nivarra è allarmato dalla attuale fase del capitalismo («capitalismo.3»), in primo luogo
perché il «primato dei diritti fondamentali come fonte di legittimazione etico-politica dell’Unione
Europea assume un significato particolare se posto accanto dell’indubbio deficit di democrazia di cui la
medesima Unione soffre rinviando ad un modello di rapporto tra governanti e governati o, se si
preferisce, tra potere pubblico e società civile, di impianto decisamente verticale. In ogni caso, mi pare
del tutto evidente che oggi, nell’area del mondo in cui l’istanza democratica si era fatta valere con più
vigore e con più successo, si stia assistendo alla costruzione ed al consolidamento di un’entità politica per
la quale, al di là della facciata, il principio democratico è decisamente recessivo, traendo esso alimento, in
primo luogo, dal trinomio tecnocrazia-mercato-diritti fondamentali» (p. 79).
10
5. La buona fede solidarista quale veicolo di giustizia sostanziale.
Chi allora teorizza un uso della buona fede in funzione solidarista, lo fa per introdurre
nel contratto, in via interpretativa/integrativa/completiva, un assetto economico diverso
da quello che le parti hanno delineato; diverso, perché non squilibrato, cioè più giusto,
cioè conforme a certi valori, come quello di solidarietà e di proporzionalità tra le
prestazioni e quello di uguaglianza tra gli individui, destinati a prevalere su quello della
libertà di autodeterminazione contrattuale in forza di un bilanciamento assiologico38;
diverso, perché difforme dall’economia del contratto, difforme dal piano economico e
dal piano dei rischi che le parti avevano cercato di costruire con il regolamento
contrattuale.
Anche sotto questo profilo un chiarimento si impone: la fedeltà dell’interprete ai valori
del contratto non comporta un asservimento assiologico del giudice al contenuto del
37
Nel solco dell’insegnamento di Pietro Perlingieri (cfr. infatti P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., p. 410:
«L’interesse pubblico, preminente in assoluto e nel contesto relativo al regolamento predisposto, finisce
con l’incidere sulla negoziazione. E tale prevalenza non può non rispondere ad un giudizio di
meritevolezza che ha il suo parametro nella tavola costituzionale degli interessi e dei valori», e p. 413:
«[L]’interesse pubblico, da elemento negativo a tutela delle situazioni acquisite o più forti, assurge a
strumento positivo di promozione delle situazioni più meritevoli»), v. ad esempio il recente lavoro di F.
Longobucco, Violazione di norma antitrust, cit., spec. pp. 51-59, ove, alle pp. 51-56, il rilievo
metodologico per cui la funzione del contratto si spoglia «progressivamente della sua matrice
individualistica (in senso classico) per arricchirsi di un plusvalore di carattere pubblicistico, fino a
condizionare il sistema e l’andamento dei traffici. Quanto testé rilevato scaturisce, infatti, da una
considerazione in chiave di convergenza e di implicazione reciproca, da un lato, dell’interesse pubblico a
garantire e a tutelare la libera concorrenzialità del mercato da meccanismi distorsivi e, dall’altro,
dell’interesse privato, sotteso al singolo atto di scambio, alla luce dei princìpi di correttezza, trasparenza,
ragionevolezza, equità ed uguaglianza sostanziale tra i soggetti. Sì che interesse privato e interesse
pubblico trovano un inevitabile momento di sintesi nell’ordinamento giuridico e l’interesse pubblico
finisce per riguardare, con sempre maggiore pregnanza, il piano dell’attività giuridica dei privati,
conformandone i contenuti, le patologie e i rimedi esperibili. [T]ale constatazione presuppone esistente un
innegabile nesso tra mercato e strumento negoziale, ovvero tra mercato e contratto, nonché tra mercato e
valori della persona. […] Sì che l’autonomia dei privati attraversa una fase di evidente trasformazione
rispetto al passato e, sempre più spesso, assurge a uno strumento (anche) preordinato alla realizzazione
dell’interesse pubblico». Per ampi ragguagli sulla recente produzione scientifica italiana (e in parte
europea) in tema di contratto, cfr. la sezione «Bibliografia» dell’Annuario del contratto 2009, diretto da
Andrea D’Angelo e Vincenzo Roppo, coordinamento di Alberto M. Benedetti, Torino, Giappichelli,
2010, in particolare pp. 365-414. Da segnalarsi, per l’attenzione prestata al piano della politica del diritto
e per l’incisiva analisi del ruolo del giudice, il volume di M. Farneti, La vessatorietà delle clausole
«principali» nei contratti del consumatore, Padova, Cedam, 2009.
38
Cfr. infatti ancora P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., passim, ad vocem «bilanciamento» dell’indice
analitico, ma spec. p. 465, ove l’a. rileva come il problema sia quello «dell’applicazione diretta delle
norme costituzionali nei rapporti di diritto civile. […] Certo il diritto privato tradizionale ne resta
scardinato, ma ciò significa fondazione appunto di un diritto civile nella legalità costituzionale, per il
quale occorre ragionevolezza e adeguata capacità ermeneutica nel c.d. bilanciamento dei valori secondo
criteri di proporzionalità».
11
contratto stesso. Specialmente nella prospettiva dinamica ed evoluzionista39, cui poco
sopra mi sono brevemente riferito, non è condivisibile l’idea che il contratto, una volta
sorto, appartenga esclusivamente alle parti, e come tale ne imponga, ai contraenti ed
agli interpreti, una difesa contro l’ordinamento (e contro l’opera concretizzatrice del
giudice) volta a salvaguardare l’assiologia contrattuale.
Questa linea argomentativa, oggi, è difficilmente sostenibile40, in particolare perché
sempre più si registrano l’esigenza ed i segnali di una rinnovata concezione in senso
pluralistico delle fonti del diritto41 che guardi al contratto come ad una delle fonti
dell’ordinamento, da analizzarsi in un contesto di diritto vivente particolarmente
arricchito dall’approccio ermeneutico42. In questa direzione, la lezione di Friedrich
Hayek è vitalissima, e richiede agli studiosi ulteriori sforzi di analisi43.
Orbene, la clausola generale di buona fede, interpretata alla luce dei principi di
solidarietà, uguaglianza sostanziale e proporzionalità, da strumento (prevalentemente
descrittivo) di accertamento e conseguente valutazione della condotta contrattuale delle
parti (pensiamo all’art. 1337 per la fase della trattativa44 ed all’art. 1375 per la fase
39
In lingua italiana, un contributo di riferimento è il volume di M. Barberis, L’evoluzione nel diritto,
Torino, Giappichelli, 1998, spec. p. 223 e ss.
40
Ma si vedano già le critiche di S. Rodotà, Le fonti di integrazione del contratto, Milano, Giuffrè, 1969
(rist. integrata 2004, con Introduzione dell’a., pp. V-XIII), spec. pp. 2-14, e in particolare il rilievo di p.
4, a proposito della «netta separazione dei due mondi, quello della legge e quello retto dalla volontà dei
privati, ciascuno dei quali non abbisognava di alcun intervento esterno per il suo integrale funzionamento
[…] [e del] principio che la natura stessa dei rapporti interprivati (contrattuali), escludendo la necessità di
interventi esterni che ne consentissero il pieno svolgimento, si opponeva ad ogni forma di etero
integrazione (sì che i casi in cui ciò avveniva non potevano non ritenersi anomali; o almeno eccezionali)».
41
In particolare, cfr. V. Roppo, Il contratto, e le fonti del diritto, in Id., Il contratto del duemila, Torino,
Giappichelli, 2005 (II ed.), p. 1 e ss. [ma v. ora la III ed. (2011), p. 1 e ss. ], e U. Breccia, voce «Le fonti
del contratto», in Enciclopedia del diritto, Annali, III, Milano, Giuffrè, 2010, p. 394 e ss.
42
Tra i civilisti, v. il colto e meditato libro di V. Calderai, Interpretazione dei contratti e argomentazione
giuridica, Torino, Giappichelli, 2008, passim, ma spec. i Capitoli IX [«Il contratto fonte del diritto
(Interpretazione, qualificazione, integrazione)»] e X («Il circolo ermeneutico di argomentazione e
interpretazione»), pp. 377-490.
43
Anche una rivisitazione assai critica del pensiero hayekiano come quella recentemente proposta da
M.W. Hesselink, A spontaneous order for Europe? Why Hayek’s libertarianism is not the right way
forward for European private law, in H.-W. Micklitz-F. Cafaggi (eds.), European Private Law after the
Common Frame of Reference, Cheltenham (UK)-Northampton (MA, USA), Edward Elgar, 2010, p. 123
e ss., riconosce tuttavia ad Hayek alcuni meriti, ad esempio la difesa di un’idea di storicità in senso forte
del diritto, in quanto «contingent phenomenon» (p. 146). I contributi di Hayek allo studio della
formazione dell’ordine giuridico sono affascinanti e meritano la massima attenzione (anche critica) da
parte degli studiosi del diritto privato: in questa direzione, segnalo al lettore due miei scritti nei quali ho
raccolto alcuni (provvisori) risultanti di ricerca: L’ordine giuridico dei privati, cit., nonché Il giudice e le
regole nella teoria e nella politica del diritto di Friedrich August von Hayek, in Politica del diritto, 2009,
p. 341 e ss.
44
In tema, v. ora l’analitica indagine, di taglio comparatistico e sensibile alla metodologia dell’analisi
economica del diritto, di G. Afferni, Il quantum del danno nella responsabilità precontrattuale, Torino,
Giappichelli, 2008.
12
dell’esecuzione45), diviene strumento (prevalentemente costruttivo) di correzione e di
controllo del regolamento contrattuale.
6. L’autonomia privata tra individuo e società.
Correzione e controllo contro qualcosa o a garanzia di qualcosa?
Non ci possono essere dubbi: a garanzia di un esercizio dell’autonomia privata limitato
non in ragione dello strumento (contrattuale) cui si ricorre, ma in ragione degli effetti
assiologici (intesi in senso latissimo: politici e filosofici; economici e sociologici;
giuridici ed etici) da esso prodotti.
La tutela dell’autonomia privata da parte dell’ordinamento è certa, ma a condizione che
il contratto non sia inteso unicamente quale ordine giuridico autonomo, ed in quanto
tale destinato, o ad una indifferenza rispetto al contenuto di valore dell’ordinamento
(fisiologia), oppure ad uno scontro con quest’ultimo, quando il giudizio di
meritevolezza e di conformità assiologica si concluda in senso contrario al contenuto
contrattuale (patologia).
In questa prospettiva46, il contratto che fa propria l’effettiva bilateralità dell’autonomia
privata delle parti47 è un contratto rispettoso dei contraenti in quanto individui, dunque
45
In tema, v. l’approfondita ricerca di G.M. Uda, La buona fede nell’esecuzione del contratto, Torino,
Giappichelli, 2004; più recentemente, offre una prospettiva di ampio respiro il volume di A. Spadafora,
La regola contrattuale tra autonomia privata e canone di buona fede. Prospettive di diritto europeo dei
contratti e di diritto interno, Torino, Giappichelli, 2007.
46
Ampiamente illustrata soprattutto da C. Turco, L’imputabilità e l’importanza, cit., passim, e in
particolare p. 211 e ss.
47
È appunto l’idea alla base del volume di C. Turco, L’imputabilità e l’importanza, cit., spec. pp. 220221, ove il rilievo che «il recupero di una benintesa e “bilaterale” autonomia negoziale de[ve]
necessariamente passare attraverso un riferimento costante al contenuto essenzialmente ed
inscindibilmente unitario del principio costituzionale di uguaglianza formale e sostanziale: tanto come
fondamentale criterio informatore dell’intero sistema giuridico; quanto come parametro interpretativoapplicativo di verifica della piena rispondenza tra fattispecie astratta e fattispecie concreta e, a un tempo,
rimedio atto a correggere le eventuali e, per certi versi, inevitabili discrasie di siffatta rispondenza.
[Peraltro, anche in assenza di una applicazione immediata e diretta dell’art. 3 della Costituzione italiana
(«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di
razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e
l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione
di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese»)], un risultato
sostanzialmente analogo potrebbe parimenti attingersi, nei rapporti negoziali interprivati, alla stregua di
un costante ed oculato impiego della buona fede che rappresenta […] un efficace tramite attuativo, sul
piano codicistico, del principio di solidarietà ex art. 2 Cost. e, conseguentemente, di quella uguaglianza
(non solo formale, ma altresì) sostanziale ex art. 3 Cost., che di quel principio costituisce la “prima
espressione”: ponendosi in tal guisa la stessa buona fede quale regola e insieme criterio di (valutazione
del) comportamento, nonché strumento correttivo e di controllo a garanzia di un’effettiva “bilateralità”
dell’autonomia negoziale delle parti».
13
caratterizzati da una dignità onnicomprensiva che richiede una tutela trascendente il
profilo meramente patrimoniale48. Si tratta, quindi, di un contratto conformato ad una
assiologia dell’ordinamento a protezione di un uso dell’autonomia privata che non si
riduca alla sola determinazione economica dell’individuo, ma che possa anche essere
protettivo dell’individuo stesso (di qui, l’intervento giudiziale in funzione assiologica).
Le brevi considerazioni finora svolte mi pare possano giustificare l’affermazione per cui
l’attuale approccio solidarista non si traduce in un generico attacco contro
l’individualismo contrattuale in sé (nel segno, oggi superato, del rifiuto della libertà
individuale e quindi del mercato), ma piuttosto contro quella specifica concezione
dell’individualismo contrattuale fondata sull’assunto per cui il contratto è ordine
giuridico perché (tendenzialmente) è un prodotto della libertà e della scelta consapevole
(pur non necessariamente razionale, cioè massimizzatrice dell’utilità marginale)49
dell’individuo, e non (tendenzialmente) della prevaricazione e della sopraffazione
altrui50.
Conseguentemente, la prospettiva generale cui ricondurre tale «ordine nuovo» propone
invece una lettura dell’autonomia contrattuale fortemente permeabile a ciò che è esterno
al contratto ma vivo e vitale all’interno dell’ordinamento, inteso innanzitutto quale
luogo culturale ed antropologico, specchio delle trasformazioni politico-sociali, che
inevitabilmente
si
riflettono
anche
nell’ambito
delle
plurali
manifestazioni
dell’autonomia privata.
7. Una lettura assiologica dell’autonomia privata.
Concentrandoci sul profilo strettamente civilistico, riprendiamo l’intuizione che
attribuisce al contratto il ruolo di strumento con cui è davvero possibile attuare il
principio di bilateralità: nel senso che il contratto è bilaterale solo se le parti si trovano
effettivamente in una posizione di parità sostanziale, e non soltanto formale, laddove, se
48
V. i molti spunti contenuti nel recente scritto di G. Vettori, Il contratto del terzo millennio, 2010,
http://www.personaemercato.it/wp-content/uploads/2010/10/vettori-materiali.pdf, pp. 215-226, spec. pp.
220-224, sulla dignità della persona.
49
Su questi aspetti, v. ora l’approfondita analisi di F. Denozza, Mercato, razionalità degli agenti e
disciplina del contratto, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2012, p. 5 e ss.
50
Di qui, la ben nota tematica dell’abuso contrattuale, su cui v. il bel libro di C. Restivo, Contributo ad
una teoria dell’abuso del diritto, Milano, Giuffrè, 2007, in particolare il Capitolo IV («Abuso del diritto e
autonomia privata»), pp. 255-281.
14
si presta attenzione alla realtà delle cose – ci dice questa dottrina –, ciò che vedremo
non è l’uguaglianza ma la disuguaglianza sostanziale fra le parti51.
In sintesi: solo se c’è una uguaglianza sostanziale tra le parti ci potrà essere una
mediazione degli interessi dei contraenti52 (mediazione, che si compie nel regolamento
contrattuale e quindi attraverso l’esercizio di autonomia privata) che sia davvero
autonoma e bilaterale.
Sempre lungo questa linea si è allora sostenuto53 che sarebbe più corretto parlare di crisi
dell’atto di autonomia privata, o, in un senso ancora più generale, di crisi
dell’autonomia privata, piuttosto che, troppo genericamente, di crisi del contratto.
Crisi, discendente dall’illusione che l’atto di autonomia privata per eccellenza (appunto
il contratto) possa, nella pratica, sempre e comunque – in quanto tale, cioè in quanto
strumento dell’individualismo economico e giuridico –, realizzare la funzione che gli è
propria (cioè quella di mediare tra interessi economici contrapposti o quantomeno non
coincidenti), e di realizzare questa funzione in conformità al modello normativo astratto
di autonomia privata perfettamente bilaterale54 alla luce degli artt. 1321 (principio
dell’autonomia contrattuale) e 1322 (principio del contratto come accordo55).
Orbene, in questa prospettiva il recupero di un’autonomia privata bilaterale significa
ricondurre l’ordine giuridico dei privati all’ordine giuridico statuale per una via diversa
da quella dirigistica, espropriatrice dell’autonomia privata56. La via diversa è quella, per
dir così, di un paternalismo57 ermeneutico, che tutela bensì l’individuo, ma solo in
quanto fine in sé; come tale, da proteggere anche contro se stesso quando le sue scelte
confliggano con il principio di tutela integrale (materiale e morale) dell’individuo58.
51
Cfr. ancora C. Turco, L’imputabilità, cit., spec. p. 211 e ss., e in particolare p. 223.
Ibidem, p. 216.
53
Ibidem, spec. pp. 12-13 e 216-217.
54
Ibidem, pp. 214 e 216-217.
55
Su ciò, v. in particolare V. Roppo, Il contratto [2001], cit., pp. 23-24, [= ed. 2011, pp. 23-24] il quale,
peraltro, non aderisce all’orientamento solidarista.
56
Cfr. in particolare C. Turco, L’imputabilità, cit., il quale, a p. 214, evoca infatti le «palesi distorsioni di
un eccessivo ed indiscriminato dirigismo statale, che ha finito con “l’espropriare l’iniziativa privata pure
del suo nucleo essenziale e vitale di autonomia”».
57
Una vigorosa, argomentatissima critica al paternalismo è ora in V. Calderai, Interpretazione, cit., p.
250, ove, in conclusione dell’analisi, l’auspicio «che ci si sbarazzi una buona volta della zavorra delle
ideologie del paternalismo (per definizione) solidale e dell’antipaternalismo (per definizione) libertario»
(ma va letto e meditato l’intero Capitolo VI del libro, pp. 221-273, intitolato al «paradosso della giustizia
contrattuale»).
58
Cfr. ad esempio P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., p. 55: «[I] rapporti tra pubblico e privato, individuo
e società, politica, economia e diritto assumono valore paradigmatico di un assetto complessivo dove le
scelte di fondo, ispirate al superamento dello statalismo, del monismo ideologico, dell’individualismo e
52
15
Ecco che allora la piena attuazione del principio di uguaglianza sostanziale, anche nella
prospettiva del contratto, va letta quale tecnica di concretizzazione di un principio
generale dell’ordinamento, a partire dal quale costruire specifici criteri di giudizio
utilizzabili quali parametri interpretativi e integrativi per corregge le discrasie e le
dissociazioni, tra fattispecie astratta (il contratto come accordo bilaterale) e fattispecie
concreta (il contratto come regolamento di interessi che invece rispecchiano l’assetto
imposto dal contraente più forte)59.
All’interno di questa visione, la buona fede diventa quindi un criterio assiologico di
controllo diretto al riequilibrio di situazione contrattuali ab origine sperequate, non già
ostile all’autonomia privata, ma agli «abusi assiologici» di essa, quali effetti negoziali
che pregiudicano l’individuo, a tutela del quale si erge l’ordinamento giuridico,
attraverso l’opera del giudice60.
Richiamando il linguaggio degli studiosi dell’analisi economica del diritto, possiamo
dire che, attraverso l’applicazione giudiziale della buona fede correttiva, la parte che ha
subito gli effetti dell’«abuso di posizione dominante» e che quindi non ha potuto
concorrere in modo paritario alla determinazione del regolamento contrattuale avrà
diritto a recuperare quelle opportunità economiche perdute61 a causa dello squilibrio
contrattuale originario discendente da una disparità di potere economico.
del corporativismo, del liberismo e del marxismo, caratterizzano anche l’operare del giurista, volto a
cogliere il movimento del reale ma pur sempre ancorato alla visione del mondo, al patto di convivenza.
La centralità del valore della persona impone di rileggere i rapporti economici, e soprattutto quelli
macroeconomici, in una chiave moderna dove la tutela della salute, l’ambiente, il paesaggio sono
indispensabili per il pieno sviluppo della persona. In ciò è la ragione prima della tendenza che,
strategicamente e provocatoriamente, si propone la “depatrimonializzazione” del diritto civile
atavicamente imperniato sulla centralità dei rapporti patrimoniali», e p. 730: «Quel che rileva è il valore
della persona unitariamente inteso».
59
Cfr. ancora C. Turco, L’imputabilità, cit., p. 221.
60
V. ancora P. Perlingieri, Il diritto civile, cit., p. 724: «La personalità ha positiva rilevanza non tanto nel
momento processuale – cioè nei rimedi ai quali ricorrere per la cessazione dell’attività lesiva, per la
reintegrazione in forma specifica, per l’accertamento, per il risarcimento –, quanto nella valutazione
sostanziale dell’interesse meritevole di attuazione, destinato a modificare, dall’interno, la maggior parte
degli istituti giuridici mutandone la funzione. L’esigenza del rispetto della personalità, del suo libero
sviluppo, incide sulla nozione di ordine pubblico, sui limiti e sulla funzione dell’autonomia negoziale,
sull’interpretazione degli atti che ne sono manifestazione, sull’individuazione dei confini dell’illecito e
del suo fondamento, sulle configurazioni non soltanto dei rapporti familiari ma anche di quelli
patrimoniali, sulla concezione e la tutela del rapporto di lavoro, sul giudizio di meritevolezza
dell’associazionismo e dei suoi possibili scopi; incide, insomma, su tutto l’assetto del vivere in
“comunità”».
61
Cfr. in particolare S.J. Burton, L’esecuzione del contratto secondo buona fede (trad. it. a cura di S. Di
Paola e R. Pardolesi), in Rivista critica del diritto privato, 1984, p. 13 e ss., alle pp. 34-35: «L’esecuzione
contraria a buona fede è data dall’esercizio della discrezionalità in executivis per riappropriarsi delle
opportunità perse nel momento della formazione. Le aspettative del promissario dipendente comprendono
16
La buona fede è quindi uno strumento di correzione di quelle disfunzioni connesse ad
un uso unilaterale e distorto dell’autonomia privata contrattuale, a vantaggio del
contraente «più forte».
Per realizzare questa operazione di politica del diritto, sotto il profilo strettamente
tecnico la dottrina italiana ha da tempo elaborato una formula che, nella sua sinteticità,
ben esprime le potenzialità correttivo-integrative della buona fede: come noto, si tratta
di una formula definitoria (ma non priva di margini di elasticità) ideata da Cesare
Massimo Bianca62 e che è stata con successo recepita dalla giurisprudenza italiana:
nell’esecuzione del contratto la buona fede, cioè la cosiddetta buona fede in executivis,
impone a ciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non
comporti un apprezzabile sacrificio a suo carico.
È certamente una buona fede esecutiva, ma al tempo stesso (anzi, in quanto buona fede
in executivis) è interpretativa e integrativa, perché concorre direttamente alla
determinazione del contenuto della prestazione dovuta.
In altre parole, la buona fede impone al debitore di fare tutto ciò che risulta
indispensabile al conseguimento, da parte del creditore, del cosiddetto risultato utile
quale scopo dell’obbligazione.
8. I problematici fondamenti della buona fede solidarista.
Arrivati a questo punto della riflessione va sottolineato un aspetto che, se, come credo,
non arbitrario, mette (almeno in parte) in crisi il fondamento argomentativo
tanto l’oggetto da ricevere in forza del contratto quanto i costi preventivati di esecuzione di controparte.
La riappropriazione di una parte delle opportunità perse necessariamente danneggia controparte. Per tutta
conseguenza, una persona ragionevole stipulerebbe un contratto che conferisce discrezionalità a
controparte soltanto sulla base del convincimento che la discrezionalità non sarà usata per riappropriarsi
delle opportunità perse».
62
Cfr. C.M. Bianca, La nozione di buona fede quale regola di comportamento contrattuale in Rivista di
diritto civile, 1983, I, p. 205 e ss., spec. pp. 209-210: «Nell’esecuzione del contratto e del rapporto
obbligatorio, la buona fede si specifica anche come obbligo di salvaguardia. Qui la buona fede impone a
ciascuna delle parti di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra a prescindere da specifici
obblighi contrattuali e dal dovere extracontrattuale del neminem laedere. Questo impegno di solidarietà,
che si proietta al di là del contenuto dell’obbligazione e dei doveri di rispetto altrui, trova il suo limite
nell’interesse proprio del soggetto. Il soggetto è tenuto a far salvo l’interesse altrui ma non fino al punto
di subire un apprezzabile sacrificio, personale o economico. In mancanza di una particolare tutela
giuridica dell’interesse altrui non si giustificherebbe infatti la prevalenza di esso sull’interesse proprio del
soggetto. Quale obbligo di salvaguardia la buona fede può dunque essere identificata come l’obbligo di
ciascuna parte di salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti in cui ciò non importi un apprezzabile
sacrificio a suo carico» (corsivo dell’a.).
17
(apprezzabile in concreto esclusivamente attraverso l’analisi della ratio decidendi delle
sentenze63) della buona fede quale veicolo di giustizia sostanziale.
Come infatti dimostrano le analisi delle argomentazioni dottrinali ma soprattutto
giurisprudenziali64, troppo spesso la formula della buona fede solidarista è soltanto
evocata, non applicata.
Non basta ovviamente ripetere che il principio di autonomia privata deve essere
interpretato in senso conforme al principio di solidarietà; questa è una pura
declamazione, pur se connotata in senso prescrittivo; occorre invece che il giudice, e
prima del giudice l’avvocato che difende la parte che invoca l’applicazione della regola
della buona fede correttiva, svolga un’analisi minuziosa dell’economia del contratto, e
soprattutto del rapporto economico tra le prestazioni, onde rinvenire quegli spazi di
manovra assiologica che, almeno sotto il profilo teoretico (se non di politica del diritto),
giustificano il ruolo correttivo della buona fede.
Ma ciò, appunto, di solito non avviene, né da parte dei giudici, che troppo spesso
richiamano la buona fede soltanto retoricamente, né da parte degli avvocati: il che, forse
è ancora più grave, considerato il ruolo primario che l’avvocato svolge nel processo, e
che è destinato inevitabilmente a ripercuotersi sulla trasformazione del diritto65.
63
Nonostante l’abbondanza di materiale giurisprudenziale oggi ormai facilmente reperibile, occorre
tuttavia rilevare come l’analisi casistica, fonte privilegiata del discorso sul diritto e quindi anche del
contenuto del diritto, sia piuttosto deludente. Non mancano ovviamente ottime ricostruzioni degli
orientamenti giurisprudenziali, ma ciò che manca è uno studio civilistico di carattere e di respiro teoricogenerale. Fondatissime e dettagliate sono infatti le critiche (da leggersi peraltro in prospettiva assai più
generale) alla «cultura italiana del precedente» che un eminente comparatista italiano ebbe a formulare
non troppi anni fa; e non a caso si tratta di uno scritto per lo più ignorato: M. Lupoi, L’interesse per la
giurisprudenza: è tutto oro?, in Contratto e impresa, 1999, p. 234 e ss.
64
V. ancora il volume di C. Restivo, Contributo ad una teoria dell’abuso del diritto, cit., in particolare il
Capitolo III («Abuso del diritto e buona fede. Le ragioni di una distinzione»), pp. 147-254.
65
Cfr. in particolare il rilievo di F. Galgano, Il contraddittorio processuale è ora nella Costituzione, in
Contratto e impresa, 2000, p. 1081 e ss., spec. p. 1082, per una critica all’idea della subordinazione del
difensore rispetto al giudice: «Questa pur diffusa convinzione è però frutto di una visione autocratica
della giustizia, basata sull’idea che la magistratura trovi in se stessa, e solo in se stessa, l’autorità per
promuovere (magistratura inquirente) e per rendere (magistratura giudicante) la giustizia. È un
atteggiamento mentale presente, non di rado, in quei magistrati che manifestano insofferenza per l’opera
dell’avvocato, che concepiscono come un intralcio all’attuazione della giustizia, come una sorta di
fastidiosa appendice del processo». Di qui, la domanda: «Dove risiede allora la legittimazione ad
esercitare così estesi poteri, tali da incidere fortemente sulle libertà e sui beni dei singoli? […] È il
contraddittorio processuale, ossia la dialettica del processo, il fondamento della giustizia: la sentenza, che
separa il torto dalla ragione, non nasce dalla mente del giudice come Minerva dalla testa di Giove; è,
invece, la risultante del contraddittorio, dell’aperto confronto fra le parti. Chi ha ragione e chi ha torto il
giudice potrà dirlo solo dopo che le parti avranno messo a confronto le proprie posizioni; e potrà dirlo
solo perché la ragione e il torto sono scaturiti da questo confronto» (pp. 1083-1084).
18
D’altronde, è sufficiente una modesta e circoscritta esperienza giudiziaria o forense (del
tutto confermata dall’analisi delle sentenze edite) per rilevare che, non episodicamente
(ed anzi sempre più frequentemente, in misura direttamente proporzionale al successo
accademico e giurisprudenziale della buona fede), gli avvocati evocano bensì, nei propri
atti processuali, la buona fede contrattuale, ma, in realtà, o lo fanno pensando a condotte
contrattuali facilmente qualificabili in termini di inadempimenti dolosi di obbligazioni
espresse nel contratto66, oppure lo fanno attribuendo alla regola di buona fede non altra
funzione che quella di rafforzare il vincolo contrattuale: il contratto vincola non soltanto
perché ha forza di legge tra le parti, ma anche perché la buona fede contrattuale impone
alle parti l’obbligo di rispettare il contratto.
Ciò che invece soprattutto servirebbe (anzi, ciò che è indispensabile, nella prospettiva di
un dialogo serio tra accademia-foro-giurisprudenza), da parte degli avvocati, è la
consapevolezza che un’argomentazione fondata sulla buona fede ha una dignità
teoretica di prim’ordine (come gli studi ad essa da tempo dedicati da giuristi
appartenenti a diversi sistemi mostrano)67, e può dunque produrre rilevanti effetti sul
giudizio individuale pratico che ha ad oggetto la pattuzione; ma per non fallire sotto il
profilo metodologico, richiede uno sforzo di analisi economica del contratto, che è però
raro vedere impiegato nelle decisioni concrete.
9. Per un approccio individualista alla teoria del contratto.
Ritorniamo allora, avvicinandoci alla conclusione, all’art. 1455.
Sono in effetti partito di qui rilevando che, non episodicamente, il principio della non
scarsa importanza dell’inadempimento è interpretato alla luce della buona fede in senso
oggettivo68.
Ma quali sono le conseguenze? Sostanzialmente due, e sono entrambe conseguenze che
non mi paiono pienamente soddisfacenti.
66
Per riferimenti e per qualche spunto ulteriore, si può vedere, volendo, il seguente mio scritto: I contratti
di cooperazione: mandato, agenzia, mediazione. Responsabilità per inadempimento e potenzialità della
clausola generale di buona fede, in Trattato della responsabilità contrattuale, diretto da G. Visintini, vol.
II, I singoli contratti. Applicazioni pratiche e disciplina specifica, Padova, Cedam, 2009, p. 451 e ss.
67
Cfr. ad esempio gli scritti raccolti in R. Zimmermann-S. Whittaker (edited by), Good Faith in European
Contract Law, Cambridge, Cambridge University Press, 2000.
68
Cfr. in particolare M.G. Cubeddu, L’importanza dell’inadempimento, cit., spec. pp. 38-43, ed alle pp.
40-41 il seguente rilievo: «[I]l principio di buona fede svolge rispetto alla regola dell’importanza
dell’inadempimento una duplice funzione. Oltre ad operare come parametro per giudicare l’effettiva
19
La prima è che una buona fede correttiva che abbia di mira solamente il riequilibrio del
contratto è destinata in radice al fallimento: non esistono i contratti in equilibrio; quindi
non è possibile riequilibrare il contratto in senso assoluto, pur guidati da valori «forti»
quali quelli di solidarietà e di uguaglianza.
L’equilibrio contrattuale appartiene alle parti, nel senso che esse hanno programmato un
determinato assetto prima face soddisfacente, fatti salvi eventuali fattori esogeni od
endogeni perturbanti il procedimento di formazione del contratto e la fase della
esecuzione.
La linea argomentativa per cui il contenuto del contratto andrebbe dunque piuttosto
ancorato e conformato a valori extracontrattuali, a loro volta discendenti da principi
generali dell’ordinamento di rilevanza costituzionale (italiana ed europea) risulta a mio
avviso piuttosto debole: in questa prospettiva, infatti, la clausola generale di buona fede
non può che svolgere una funzione soltanto repressiva dell’autonomia privata
(nonostante la prospettiva sincretica che appare caratterizzare la teoria generale del
contratto nel tempo presente): infatti, se il contratto non è in equilibrio, cioè se una parte
ottiene (o sembra ottenere dal contratto) più di quanto non ottenga l’altra, allora si
tratterà di uno squilibrio patologico discendente dall’abuso di potere economico
dell’una parte a danno dell’altra; di qui, la necessità di riequilibrare la pattuizione.
In contrario, osservo che, a mio avviso, in casi come questi l’operazione di analisi e di
costruzione ermeneutica che il giudice dovrebbe compiere è proprio quella di accertare
le ragioni di tale squilibrio, onde valutare se esso sia (o possa essere) ragionevolmente
giustificato in forza di uno stringente esame dell’economia del contratto69. Analisi
economica del contratto, che non può limitarsi al piano descrittivo (l’accertamento della
sussistenza di uno squilibrio), ma che deve spingersi sul piano critico e prescrittivo (la
comprensione delle ragioni e delle eventuali giustificazioni di tale squilibrio; le
conseguenze regolative di tale squilibrio). Altrimenti, avremo l’effetto (prima di tutto
culturale) di ritenere il contratto, in tutti casi in cui sia ravvisabile uno squilibrio, un
gioco a somma zero, o addirittura a somma negativa70.
portata del regolamento contrattuale, esso funge da strumento per sindacare la legittimità della condotta
del creditore rispetto ai principi che regolano l’istituto della risoluzione».
69
Paradigmatica in questo senso è la ricerca di M. Bessone, Adempimento, cit., spec. il Capitolo V («La
cernita delle circostanze apprezzabili e i criteri di distribuzione del rischio contrattuale»), pp. 343-403).
70
Cfr. le lucidissime considerazioni di R. Sacco, in R. Sacco-G. De Nova, Il contratto, cit., t. I, pp. 17-18:
«Le parti escono dal contratto arricchite. […] È una prima gravissima svista, pensare che il contratto sia
20
Assumendo quindi quale programma minimo di politica del diritto della moderna (o di
una rinnovata) teoria generale del contratto l’applicazione diretta del principio di
solidarietà e di uguaglianza, la conseguenza sarà quella dell’alterazione dell’equilibrio
originario (è la funzione distruttiva della buona fede, cui potrà conseguire certamente un
utilizzo di essa in funzione ricostruttiva, ma il vizio originario non potrà sanarsi, perché
la ricostruzione avviene in conseguenza di una affermata patologia sinallagmatica, e
repressa come tale).
Di più, alterare in questo senso l’equilibrio originario non vuol certo dire riequilibrare il
contratto, ma vuol dire assegnare al contratto un equilibrio diverso da quello espresso
nel regolamento contrattuale71; vuol dire sottrarre ex post ad una delle parti alcune
utilità economica sulle quali ha fatto affidamento in sede di conclusione, in ragione del
fatto che la sussistenza di uno squilibrio è prova certa di patologia, e quindi di condotte
(precontrattuali e/o contrattuali) contra bonam fidem.
È però possibile attribuire un senso più specifico e più pregnante alla espressione
«riequilibrare il contratto».
Se infatti viene condotta un’analisi incentrata sull’economia del contratto, onde stabilire
se la condotta esecutiva di una o di entrambe le parti sia in contrasto non con un’astratta
idea di proporzionalità o di equilibrio o di uguaglianza, ma con l’idea di equilibrio
contrattuale concreto, allora sì che al termine di questa analisi il giudice potrà dire se le
condotte esecutive delle parti contrastino o no con l’assetto economico contrattuale72.
Naturalmente – e sul punto ho già brevemente detto qualcosa supra, § 3 –, ciò non
significa affatto sottrarre il contratto all’assiologia dell’ordinamento ed al giudizio di
un’operazione in cui la somma dei vantaggi e delle perdite delle parti è pari a zero. Chi in buona fede ha
in mente questo strafalcione passerà poi il suo tempo a cercare una regola onesta, che impedisca al primo
contraente di guadagnare, onde impedire che il secondo contraente perda. Chi ragiona così vede poi in
ogni scambio una estorsione, operata da un contraente (chiamato contraente forte) ai danni dell’altro
(chiamato contraente debole)».
71
Naturalmente, non ritengo patologico il fatto che, almeno in un buon numero di casi, possa esistere un
regolamento contrattuale il cui significato economico non sia interamente condiviso dalle parti, nel
momento successivo alla conclusione e quindi nella fase dell’esecuzione (da cui un eventuale contenzioso
giudiziario o arbitrale); ritengo anzi che, di fronte ad un problema di funzionalità del contratto, il rimedio
giurisdizionale sia sempre un rimedio a carattere costruttivo: a monte, non c’è una fotografia
dell’esistente, perché la stessa descrizione dell’esistente è il prodotto, a valle, di un giudizio, cioè
consegue ad una costruzione culturale e semantica (politica e giuridica).
72
Cfr. in questo senso il seguente rilievo di G.G. Auletta, La risoluzione per inadempimento, Milano,
Giuffrè, 1942 (rist. Edizioni Scientifiche Italiane, 1980), pp. 419-420: «[S]e il giudizio sulla gravità
dell’inadempimento deve compiersi tenendo presenti tutte le successive circostanze, bene esso potrà non
coincidere col giudizio che avrebbero formulato le parti al momento della conclusione, tenendo presenti
solo le circostanze allora esistenti».
21
concretizzazione ermeneutico-assiologica svolta dal giudice. Il contratto, come atto
giuridico e come atto economico (per di più con incidenza anche nella sfera personale
dell’individuo)73, è elemento sostanziale del fenomeno di edificazione progressiva
dell’ordinamento (di qui la necessità che l’analisi del giurista sia anche analisi
storicamente consapevole); il che, però, non può essere utilizzato come ragione
giustificativa di un’interpretazione dell’ordinamento a senso unico.
Per rovesciare un’incisiva immagine di un illustre civilista italiano, è opinabile
procedere nell’attività ermeneutica del contratto «di sopra in giù»74; è cioè opinabile
affermare la correttezza deontologica di un processo interpretativo che parta
dall’ordinamento e ricada sul contratto, secondo un moto perpetuo unidirezionale.
Questa prospettiva, se non altro, è criticabile perché nega in radice al contratto
qualsivoglia potenzialità normativa, e quindi costruttiva, rispetto al contenuto
assiologico dell’ordinamento, che invece – pur in misura differente a seconda del
momento storico – non è variabile indipendente dall’autonomia privata.
Il ricorso massiccio ad una buona fede distruttiva e repressiva, poi, presenta anche
ulteriori inconvenienti (e vengo così alla seconda conseguenza non soddisfacente), già
accennati poco sopra.
Quando lo squilibrio contrattuale emerga non già in ragione di condotte esecutive
risultate ex post contrarie all’economia del contratto (e dunque, non in base al solo
confronto tra i valori delle prestazioni), ma in ragione di condotte contrattuali già ex
ante qualificabili come inadempimento, il rimedio non dovrà essere reperito nella buona
fede oggettiva, ma nella risoluzione per inadempimento75, se non altro alla luce di un
banalissimo principio di economia argomentativa.
73
Si pensi al problema della configurabilità di un danno non patrimoniale da inadempimento, su cui v.
ora V. Tomarchio, Il danno non patrimoniale da inadempimento, Napoli, Jovene, 2009.
74
P. Grossi, Uno storico del diritto alla ricerca di se stesso, Bologna, Il Mulino, 2008, p. 27, ricorda che
Enrico Finzi «capovolgeva l’osservatorio da cui guardare l’universo giuridico; per usare una sua scultorea
ed efficace espressione, questo andava guardato “di sotto in su”, perché solo distendendosi sui fatti, sulle
cose, esso rivelava una dimensione che il giurista non può relegare nella mera irrilevanza».
75
Pur all’interno di una prospettiva generale non coincidente con quella di cui si discorre nel testo, cfr. le
significative considerazioni di G. Collura, Importanza dell’inadempimento, cit., pp. 18-24, ma spec. pp.
22-23, ove è detto che «la sovrapposizione dei giudizi di diligenza e di buona fede e di importanza
dell’inadempimento comporta necessariamente una unificazione del regime delle sanzioni
dell’inadempimento (risoluzione e risarcimento), che per contro andrebbe più attentamente considerata»,
e che «la determinazione delle circostanze da prendere in considerazione [ai fini della individuazione
della misura di buona fede e di diligenza richiesta nel caso concreto] ha bisogno di un criterio selettivo, di
una misura che consenta di discernere nella concretezza della vicenda esecutiva con quali profili concreti,
con quali sopravvenienze o con quali specificità integrare il giudizio sull’eventuale inadempimento del
22
Intendiamoci: è certamente vero che ogni problema di risoluzione contrattuale è anche
un problema di economia del contratto; tuttavia, la riduzione dell’inadempimento alla
fattispecie della condotta contrattuale esecutiva contraria alla buona fede ha il difetto di
banalizzare uno strumento sofisticato (quale appunto la buona fede) proprio in quelle
situazioni in cui la soluzione del caso può essere raggiunta per vie diverse (tramite
appunto l’applicazione delle regole in tema di risoluzione).
Di più: l’analisi dell’economia della pattuizione è alla base del giudizio di non scarsa
importanza dell’inadempimento; tuttavia non pare corretto applicare il rimedio della
buona fede solidarista onde giustificare (o quanto meno temperare) gli inadempimenti
debitorî in forza di un ragionamento incentrato sulla disparità di potere economicocontrattuale, riducendosi così l’analisi economica del contratto all’accertamento ed alla
conseguente repressione degli squilibri contrattuali «imputabili» alla «parte forte».
Ed allora, con particolare riferimento all’art. 1455, è indispensabile un’analisi
dell’economia della pattuizione condotta a tutto campo: un’analisi, cioè, diretta ad
accertare, se ve ne sono, le ragioni dell’economia delle pattuizioni e delle condotte
contrattuali fonte di difetti di funzionalità del contratto, e non soltanto a colpire gli
squilibri contrattuali a danno della «parte debole».
In questo senso, la buona fede individualista rivela le sue amplissime possibilità, quale
strumento non pregiudizialmente ostile né all’autonomia privata, né all’assiologia
dell’ordinamento, necessariamente caratterizzata dalla complessità tipica delle società
aperte.
Se però questa capillare analisi non viene svolta, il ricorso alla buona fede oggettiva,
cioè alla regola di correttezza contrattuale (che non sia attratta né nella sfera solidarista,
né in quella individualista), non sarà altro che un doppione inutile del principio della
non scarsa importanza dell’inadempimento: nel senso che il giudizio di buona fede sarà
ridotto ad un confronto tra il valore della prestazione inadempiuta e il valore
complessivo delle prestazioni, nonché all’accertamento dell’interesse soggettivo del
creditore a ricevere la prestazione76, senza che quindi l’argomentazione di buona fede
creditore. […] In realtà le circostanze del caso concreto sono in gran parte implicate nel programma
negoziale, dal quale scaturiscono i doveri di comportamento che si vogliono sottoporre a valutazione
secondo diligenza e buona fede».
76
Cfr. ad esempio L. Nanni, Sub art. 1455, cit., pp. 17-18, ove il rilievo che, «per quanto di particolare
utilità al fine di sollecitare il giudice a compiere un’accurata analisi dei valori in campo e degli effetti
dell’inadempimento sull’economia dell’operazione, il richiamo alla buona fede oggettiva non sembra
23
apporti un quid pluris utile per valutare le condotte contrattuali alla luce dell’assetto
economico ricostruibile soltanto attraverso una meticolosa analisi empirica, estesa
all’intera vicenda precontrattuale e contrattuale.
In dottrina si è scritto che la buona fede oggettiva ispira l’art. 1455 perché impedisce
che atteggiamenti pretestuosi, fondati su inadempimenti di poca consistenza,
consentano alla parte che si è pentita di sciogliersi dal vincolo77: ma in realtà questa è
un’ipotesi in cui il ricorso alla buona fede non arricchisce il contenuto normativo
dell’art. 1455, perché concentrata più sulle caratteristiche soggettive delle condotte (e
quindi sulla rimproverabilità delle stesse) che non sull’analisi dell’economia del
contratto.
La funzione costruttiva della buona fede, infatti, non è quella di reprimere le condotte
moralmente scorrette perché finalizzate alla lesione dell’affidamento di controparte78 ,
ma è quella di offrire al giudice un criterio di giudizio a base economica, il cui
contenuto e la cui efficacia normativa non possono essere predeterminati, ma debbono
essere rimessi all’evoluzione del diritto vivente.
10. Giudizio di gravità dell’inadempimento e clausola risolutiva espressa: ruolo della
buona fede.
Se ora pensiamo al principio di non scarsa importanza dell’inadempimento collegato
alla clausola risolutiva espressa, dottrina e giurisprudenza sono fermamente concordi
nell’escludere che l’art. 1455 possa operare in presenza di siffatta clausola79.
portare elementi di giudizio nuovi e diversi rispetto a quelli che si potrebbero ricavare dalla formulazione
dell’articolo in commento, cioè nuovi e diversi rispetto alla valutazione se l’inadempimento sia grave.
Detto altrimenti, il fatto in sé che l’articolo in commento richieda un inadempimento di non scarsa
importanza ai fini della risoluzione già vincola il giudice a decidere la domanda di risoluzione su
parametri ispirati alla buona fede oggettiva. In questo senso il ruolo della buona fede oggettiva sembra
essere condiviso dalla giurisprudenza, che ad essa fa richiamo, ma senza individuare con ciò criteri di
valutazione della gravità dell’inadempimento nuovi e diversi da quelli usuali. Per esempio in alcune
sentenze si è ritenuto fondato sulla buona fede il noto criterio di proporzione […], secondo cui la gravità
dell’inadempimento di una delle parti contraenti va commisurata “alla rilevanza della violazione del
contratto con riferimento alla volontà manifestata dai contraenti, alla natura e alla finalità del rapporto,
nonché al concreto interesse dell’altra parte all’esatta e tempestiva prestazione”» (corsivo dell’a.).
77
Parole, citate quasi alla lettera, di L. Nanni, Sub art. 1455, in L. Nanni et alii, Della risoluzione, cit., p.
18.
78
In questo senso pare anche V. Roppo, Il contratto [2001], cit., p. 961 [= ed. 2011, p. 900], spiegando la
regola ex art. 1455 anche in termini di prevenzione di comportamenti pretestuosi, e rilevando: «In questa
prospettiva, è giusto vedere alla base dell’art. 1455 anche il principio di buona fede contrattuale».
79
Per tutti, v. M. Dellacasa, Inattuazione e risoluzione: i rimedi, La clausola risolutiva espressa, in
Trattato del contratto, diretto da V. Roppo, vol. V, Rimedi – 2, cit., pp. 303-308. Amplius, v. ora F.
Sartori, Contributo, cit., spec. la Sezione II del Capitolo III, p. 128 e ss.
24
L’argomentazione, in sintesi, è questa: se, attraverso la clausola risolutiva espressa le
parti, facendo esercizio di autonomia contrattuale, inseriscono nel contratto il cosiddetto
automatismo della risoluzione, il giudice non ha alcun potere di sindacare l’importanza
dell’inadempimento ex art. 1455, perché questa valutazione interferirebbe con
l’esercizio dell’autonomia privata: ed infatti l’art. 1456 fa espresso riferimento alle
modalità di adempimento, che devono essere specificate nella clausola80.
Se le modalità di adempimento debbono dunque essere specificate nella clausola
risolutiva
espressa,
ciò
allora
significa
che
il
giudizio
circa
la
gravità
dell’inadempimento è rimesso alle parti, fatte naturalmente salve le eventuali
contestazioni che potranno essere sollevate in giudizio.
A partire da qui, si argomenta conseguentemente che la gravità dell’inadempimento, in
presenza di una clausola risolutiva espressa, è in re ipsa, quando le modalità
dell’adempimento siano difformi rispetto alle modalità stabilite.
Mi limito, in chiusura, ad alcuni rilievi critici onde sostenere che, se anche il giudice
effettuasse il controllo di gravità ex art. 1455 pure in presenza di una clausola risolutiva
espressa, ciò non significherebbe trasformare la risoluzione di diritto in risoluzione
giudiziale, sterilizzando quindi l’esercizio di autonomia contrattuale81.
Si tratterebbe invece di includere fra i presupposti della risoluzione di diritto anche il
criterio della non scarsa importanza dell’inadempimento, quale mezzo tecnico per
assicurare il rispetto dell’economia del contratto, e purché fondato sull’utilizzo della
buona fede individuale82.
Invece, la critica più diffusa contro la tesi favorevole all’intervento del giudice discende
da quella visione dell’autonomia negoziale che identifica l’intervento del giudice sul
contratto come un attacco alla libertà contrattuale83.
80
Cfr. la dettagliata analisi di C. Turco, L’imputabilità, cit., spec. pp. 149-157, ove ampi riferimenti di
dottrina e di giurisprudenza.
81
Ibidem, p. 153. Va peraltro osservato che Turco è autore certamente riconducibile al filone solidarista.
82
Una sentenza recente ammette il giudizio ex art. 1455, ma nella prospettiva solidarista: Tribunale di
Bergamo, sezione distaccata di Grumello del Monte, 7 luglio 2008, in Obbligazioni e contratti, 2009, p.
708 e ss, con nota di I.M. Gonnelli, La clausola risolutiva espressa tra principio di buona fede e
importanza dell’inadempimento.
83
Cfr. ad esempio le posizioni di due civilisti italiani quali G.B. Ferri, Autonomia delle parti e poteri del
giudice (2004), in Id., Il potere e la parola e altri scritti di diritto civile, Padova, Cedam, 2008, p. 293 e
ss., spec. p. 304: «[A] mio giudizio, culturalmente e politicamente, non vi è spazio, nel nostro sistema
giuridico, per l’idea di un giudice che svolga, invito domino e nel silenzio della legge, quasi il ruolo di un
invadente [,] e per questo spesso molesto, brasseur d’affaires di interessi privati. E tanto meno vi può
essere spazio per quella di un giudice che si muova, in forze, ad espugnare la “cittadella” dell’autonomia
privata, sulla quale si è sempre fondato il diritto civile; anche quello codificato dal legislatore del 1942»
25
Laddove, nella prospettiva solidarista, il giudizio sulla gravità dell’inadempimento
connesso all’eventuale intervento del giudice dovrebbe servire ad evitare abusi e
distorsioni dell’autonomia privata a danno del cosiddetto contraente più debole.
Lungo questa linea si è infatti espressamente scritto che il riconoscimento del potere del
giudice di intervenire sul contratto, inteso in senso ampio, sarebbe una via d’uscita
apprezzabile dal dualismo liberismo/dirigismo84. Nel senso che il giudice può
rappresentare uno strumento di controllo e di indirizzo dell’autonomia privata attraverso
l’impiego della regola di buona fede costituzionalizzata: in quest’ordine di idee,
l’autonomia privata non verrebbe repressa ma soltanto indirizzata a fini solidaristici.
Nella nostra prospettiva della clausola risolutiva espressa, questi fini possono
evidentemente estendersi fino alla preclusione dell’operatività della clausola stessa, se
(corsivo dell’a.), e S. Mazzamuto, Il contratto europeo nel tempo della crisi, cit., p. 637, a proposito del
duplice errore consistente «a) nel confondere tra il contratto quale fattispecie di autonomia privata – che
può essere variamente incisa e sottoposta ad ortopedia dal legislatore sia a fini di giustizia distributiva (v.
ad es. i prezzi imposti) sia nel perseguimento di altri valori apicali extramercantili – ed il contratto quale
sede elettiva della giustizia contrattuale […] che può essere solo rimessa alla libera volontà delle parti,
giacché il contratto è perfetto e, quindi, giusto se realizza inscindibilmente “nella realtà concreta i due
ideali della giustizia e della reciprocità; b) nel travisare il ruolo svolto dalla buona fede, la quale si
tramuterebbe in strumento di integrazione del giudizio anziché del contratto, attribuendole con ciò il ruolo
svolto dall’equità, la quale può guidare il potere del giudice esclusivamente nei casi previsti dalla legge»
(corsivo dell’a.). Cfr. altresì A.M. Benedetti, L’abuso della libertà contrattuale in danno del creditore, in
Id. (a cura di), I ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali – Profili sostanziali e commerciali,
Torino, Giappichelli, 2003, p. 109 e ss., il quale, riflettendo sull’art. 7 del decreto legislativo n. 231/2002,
che dà attuazione alla direttiva 2000/35/CE, relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle
transazioni commerciali, osserva, a p. 140: «Dietro l’angolo il rischio – di cui non sempre si ha
consapevolezza – di un’attenuazione o di un azzeramento del vincolo negoziale, dissolvendosi in
un’indefinita gamma di rimedi quella vis contrattuale cui allude la felice formula dell’art. 1372, 1°
comma, c.c.». Ed ivi, in nota 94, l’a. rileva: «Il “nuovo contratto” oscilla tra ius poenitendi e rimedi che
toccano l’equilibrio contrattuale, rischiando così di divenire facile preda di “aggressioni” giudiziarie:
lamentando “abusi” genericamente intesi o “disequilibri” di aleatoria individuazione, una delle parti
chiederà al proprio legale di scovare il modo migliore e più rapido per liberarsi, in buona sostanza, di un
contratto indesiderato o, comunque, che non risponde più – rispetto al tempo in cui fu concluso – alle
soggettive convenienze o aspettative della parte. Si immagini allora quale può essere la “forza” di un
vincolo così facilmente cancellabile; nessuna, o poco più».
84
Cfr. ancora C. Turco, L’imputabilità, cit., p. 214: «[L]a soluzione […] va dunque ricercata evitando
opposti radicalizzazioni in chiave sia incondizionatamente liberistica, sia rigidamente interventista e
statalista, tentando piuttosto di individuare strumenti alternativi di controllo atti a mediare fra l’esigenza
di salvaguardare la libertà contrattuale e di iniziativa privata, da un lato, e di evitarne, dall’altro, un abuso
funzionale, garantendone la piena compatibilità con l’utilità sociale: di guisa che la vicenda contrattuale
risulti strutturata su un modello di autonomia negoziale che sia effettivamente tale e, in ultima analisi,
rispondente alla configurazione desumibile dal combinato disposto degli artt. 1321-1322 c.c. e 41 Cost.
[«L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo
da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a
fini sociali»], atteggiandosi come espressione e risultato di una bilaterale ed equilibrata confluenza dei
contrapposti interessi delle parti nel contenuto reale dell’accordo».
26
riesca a provarsi che la clausola risolutiva si è in sostanza tradotta in un abuso
contrattuale a danno di una parte.
A mio avviso, non è invece impossibile conciliare la libertà delle parti di introdurre nel
contratto una clausola risolutiva espressa con il potere del giudice di accertare la non
scarsa importanza dell’inadempimento.
Tutto sta nel modo in cui il diritto è usato. La prospettiva di questo scritto è quella che
guarda alla buona fede non come strumento di repressione dell’autonomia contrattuale,
non come strumento di giustizia contrattuale, e neppure come strumento di repressione
delle condotte scorrette sia in senso morale che economico85, ma semplicemente come
una tecnica di analisi del significato economico della pattuizione.
L’economia del contratto è qualcosa che ha una sua propria oggettività, e quindi deve
essere nettamente separata dall’idea di contratto come prodotto delle volontà delle parti:
conseguentemente, la regola di buona fede può essere intesa non come un criterio per
alterare in un’unica direzione l’equilibrio originario del contratto (come se lo squilibrio
fosse sempre e soltanto un effetto dell’abuso di potere economico di controparte); può
diventare un criterio duttile attraverso il quale il giudice eserciterà bensì un controllo
sull’equilibrio del contratto, ma non per stravolgerlo, cioè non per alterarlo in senso
conforme alla gerarchia assiologica che si afferma vincolare ordinamento e contratto,
ma per ricavare proprio dall’economia del contratto, dall’assetto economico, quelle
regole giuridiche, inespresse nella pattuizione e tuttavia appropriate perché ragionevoli
rispetto all’economia del contratto86 in quanto istituzione della società aperta, e pur in
dialettico rapporto con l’assiologia dell’ordinamento.
Potrà anche trattarsi di regole giuridiche contrastanti con il tenore letterale di alcune
clausole contrattuali, ma che non possono per ciò solo essere qualificate come arbitrarie
creazioni giudiziali, proprio perché rispecchiano l’assetto degli interessi economici del
contratto.
Da questo punto di vista, nulla può dunque escludere che una clausola risolutiva
espressa possa essere soggetta al giudizio di cui all’art. 1455, quando vi siano buone
85
Cfr. L. Nanni, Sub art. 1455, in L. Nanni et alii, Della risoluzione, cit., p. 18: «Pare dunque corretto
concludere che la buona fede oggettiva ispira la norma [art. 1455], soprattutto perché evita che
atteggiamenti pretestuosi, fondati su inadempimenti di poca consistenza, servano alla parte che si è
pentita di aver dato il consenso di liberarsi dal vincolo contrattuale».
86
È la prospettiva di And. D’Angelo, La buona fede, cit., spec. il Capitolo I («Clausola generale di buona
fede e integrazione del contratto»), pp. 1-69.
27
ragioni economiche per sostenere che l’applicazione dell’art. 1455 è funzionale al
rispetto dell’assetto economico che emerge dal contratto.
In realtà, c’è una certa schizofrenia nella teoria generale del contratto contemporanea.
Da una parte, le prese di posizioni degli studiosi e della giurisprudenza favorevoli a
riconoscere al giudice un potere di intervento sul contratto hanno come obiettivo quello
di difendere una concezione dell’autonomia privata e del contratto che sia oggetto di un
controllo di costituzionalità da parte del giudice ordinario, onde garantire la «giustizia»
del contratto.
Dall’altra parte, le prese di posizioni contrarie all’intervento del giudice sono fondate
sulla discutibile equazione {potere del giudice = affossamento del contratto}, onde
garantire la «libertà» delle parti.
Ci può essere forse una terza via: quella della fiducia nel giudice.
Una fiducia temperata, nel senso che il giudice può certamente esercitare un sindacato
anche pesante sull’economia del contratto, ma i confini di questo sindacato devono
essere tracciati: più che dal legislatore, dalle prassi, dagli usi del diritto87; quindi, una
grossa quota di responsabilità spetta agli avvocati.
Sono infatti gli avvocati che per difendere le ragioni dei loro assistiti hanno un incentivo
onde individuare e portare alla luce quei problemi di economia del contratto sui quali
chiedono la pronuncia del giudice.
È troppo facile e deresponsabilizzante limitarsi a richiamare genericamente, negli atti, la
buona fede contrattuale, ma poi però dolersi perché il giudice fa un uso troppo
disinvolto delle clausole generali: il compito, non di reprimere ma, di indirizzare il
potere del giudice è unicamente dell’avvocato.
I nostri ordinamenti ben conoscono il tanto glorificato principio dispositivo88;
immaginiamolo non soltanto rilevante sotto il profilo della prova; pensiamolo anche
nella prospettiva dell’argomentazione, quindi degli avvocati e quindi del giudizio.
87
Sempre attualissimo l’insegnamento di A. Ross, Diritto e giustizia (trad. it.), Torino, Einaudi, 2001 (ed.
orig. ingl. 1958), spec. p. 104: «Dobbiamo […] analizzare la prassi delle corti per cercare di scoprire i
principî e le norme che effettivamente guidano le corti nel trarre da una norma generale la decisione del
caso particolare; questa attività metodo giudiziale, o, nel caso di applicazioni del diritto scritto (diritto
statuito o legge), interpretazione. […] Nell’interpretazione del diritto valido risulta molto chiaramente che
la conoscenza del diritto non può, in una analisi, venire separata dalla politica del diritto».
88
V. le opposte letture di due illustri e appassionati giuristi: M. Cappelletti, La testimonianza della parte
nel sistema dell’oralità – Contributo alla teoria della utilizzazione probatoria del sapere delle parti nel
processo civile, parte I, Milano, Giuffrè, 1962, spec. il Capitolo V («Principio della trattazione e principio
dispositivo inteso in senso sostanziale. L’interrogatorio con funzione inquisitoria», pp. 303-375), e F.
28
Avere fiducia nel giudice, sotto questo punto di vista, non significa affidarsi
all’argomentazione del giudice; significa collaborare con il giudice nella elaborazione
della motivazione.
Compito certamente non facile ma, sembra a me, di grande fascino intellettuale.
Cipriani, Autoritarismo e garantismo nel processo civile (A proposito dell’art. 187, 3° comma, c.p.c.)
(1994), in Id., Ideologie e modelli del processo civile, Napoli, ESI, 1997 (I rist. 2001), p. 121 e ss.
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