Il ruolo dei militari nella Turchia contemporanea di Ilaria Casillo
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Il ruolo dei militari nella Turchia contemporanea di Ilaria Casillo
Il ruolo dei militari nella Turchia contemporanea di Ilaria Casillo Abstract: L’esercito, figura dominante e ambigua nella storia dello Stato turco, oggi costituisce l’ennesimo punto di frizione nei rapporti tra Turchia e Unione Europea. La riforma delle forze armate, infatti, sembra tra le più delicate dal momento che il potere militare è sempre intervenuto nella vita politica turca andando ben oltre le questioni di sicurezza e permeando più settori della vita politica e sociale del paese. In questo breve elaborato, si cercherà di descrivere il processo politico che negli ultimi due decenni ha caratterizzato la politica turca: il rafforzamento del ruolo dei militari come guardiani dei principî dello stato. Si partirà dalla proiezione storica del ruolo dei militari, cercando di capire i nodi in cui tale ruolo si è rafforzato e consacrato. Si passerà, infine, a rintracciare le attuali prospettive del potere militare alla luce della vittoria del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) nel 2003 e degli impegni richiesti dai criteri di adesione all’UE. Una singolare traiettoria politica Da sempre quando si cerca di analizzare la vita politica turca, si è costretti a compiere un richiamo al ruolo delle forze armate e al loro peso. Un tale riferimento è indispensabile per una qualsiasi analisi aderente alla realtà del paese. I militari hanno da sempre avuto un ruolo di attore politico, talvolta esplicito talaltra nascosto ma in ogni caso decisivo nella storia della Turchia. Per capire come, a partire da questo dato storico, si sia costruita una traiettoria politica singolare e diversa rispetto a quella che ha caratterizzato altri paesi in cui i militari hanno avuto un ruolo predominante1, lo schema interpretativo più utile sembra quello del kemalismo2. 1 Si pensi, ad esempio, alle dittature militari dell’America Latina ma anche a quelle che caratterizzano alcuni regimi del Vicino Oriente e del Maghreb. 2 Per kemalismo si intende, generalmente, una sorta di ideologia che ha nel Nutuk (Discorso pronunciato da Mustafa Kemal nel 1927) il suo manifesto. Il kemalismo si basa, oltre che sulla figura del padre della nazione Atatürk, sulla missione di preservare la nazione. I principî attraverso cui raggiungere questa missione sono: il nazionalismo, il repubblicanesimo, il populismo, lo statalismo, il laicismo, il rivoluzionarismo, le cosiddette “sei frecce” dell’ideologia nazionale. 1 Innanzitutto, bisogna dire che pur inscrivendosi nella continuità di una tradizione che ha visto l’esercito invadere la sfera politica – basti pensare al ruolo dei giannizzeri e alla loro pratica di fare e disfare i sultani – ciò che ha fatto del kemalismo la chiave di volta del ruolo delle forze armate nella vita del paese è stata la polivalenza della sua retorica, oggetto di interpretazione per diversi kemalismi. All’indomani della prima guerra mondiale Mustafa Kemal orientò il paese verso un’occidentalizzazione all’europea, abolendo l’uso del fez e il califfato, riconoscendo il diritto di voto alle donne nel 1934, imponendo il codice civile svizzero, tagliando insomma, gli ultimi precari fili che legavano la Turchia, ormai Repubblica, all’impero ottomano. Non fu necessario aspettare la morte (1938) del grande leader turco perché il kemalismo diventasse ideologia di stato. Garante di questa eredità sarà l’esercito, incaricatosi di assicurarne continuità e rispetto e sentendosi dunque in dovere di intervenire direttamente nella vita politica ogni qualvolta tale eredità sia minacciata o messa in discussione. È così che il kemalismo ha fornito la legittimazione di azioni politiche, culturali ed economiche di matrice militare. Sono diversi gli elementi che conferiscono al kemalismo la polisemicità politica che oggi fa della Turchia un paese ancora sotto il controllo vigile dell’esercito. Tra questi elementi il più controverso e ambiguo è probabilmente quello del rapporto tra laicismo e islam3. Sebbene dall’irtica (islam reazionario) all’islam politico, la religione musulmana sia stata considerata dai militari un vero e proprio nemico interno, essi hanno dovuto sempre fare i conti con quella che Michel Marian 4 definisce la doppia natura della Turchia: in particolare una natura islamolaica sui generis e una pienamente musulmana. Secondo Marian, non sarebbe tanto la religione l’aspetto più problematico quanto il laicismo incompleto che si appoggia su una forte identità religiosa. Il kemalismo usò il laicismo come un’ideologia antireligiosa e l’europeizzazione come una modernizzazione ottenuta con metodi da dispotismo asiatico. Oggi, sostiene Marian, si assisterebbe a un paradosso: la reislamizzazione individualista e portatrice di un riformismo meno violento. Al di là delle interpretazioni del laicismo turco, quello che appare utile in questa sede è la sua rivendicazione da parte dell’esercito, il quale ne ha fatto uno dei cavalli di battaglia del suo presentarsi come guardiano dell’autorità di uno stato laico e turco. 3 In merito si veda anche Massicard E., “L’Islam en Turquie, pays musulman et laïc” in Roy O., (a cura di), 2004, La Turquie aujourd’hui, Paris, Universalis,pp. 41-54. 4 Marian M., Les deux natures de la Turquie in “Esprit Revue Internazionale”,n. 1,2003, pp. 16-20. 2 Nel diagramma qui di seguito sono riportati gli elementi che hanno caratterizzato il discorso kemalista e che nel corso del tempo e dello spazio politico di tutto il Novecento si sono trasformati adattandosi ai contesti e alle alleanze del momento, dalla seconda guerra mondiale passando per la guerra fredda e per i tre colpi di stato interni, e dando vita alla sintesi turco-islamico-occidentale che conobbe il suo apice negli anni Ottanta. 3 Laicismo Inteso come controllo della religione da parte dello stato Sintesi turcoislamicooccidentale Nazione turca Appartenenza basata su: religione (islam) e lingua (turco) Occidente Inteso come consolidato orizzonte di modernizzazione e come “partner internazionale” 4 Dai colpi di stato allo “stato profondo” Le diverse modifiche dell’eredità kemalista, non ultima la sintesi turcoislamico-occidentale, hanno visto così il paese crescere economicamente, aderire al Consiglio Europeo nel 1949 e alla Nato nel 1952, poi alla Banca Mondiale, all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico e al Fondo Monetario Internazionale. Intanto l’esercito, con il suo ruolo e le sue funzioni, si è modificato restando sempre una figura di riferimento sia all’esterno che all’interno del paese. La politica turca degli ultimi cinquanta anni è stata caratterizzata da tre colpi di stato (1960, 1971, 1980). Tuttavia il rapporto tra esercito e autorità civile si pone al di fuori dei tradizionali schemi di classificazione. Come alcuni analisti hanno evidenziato infatti, se si guarda ai tre colpi di stato in chiave comparativa rispetto a quelli succedutisi in altri regimi dell’America Latina o dell’Asia ci si rende conto delle differenze. I militari turchi hanno usato e ridotto al minimo la violenza verso la società civile turca, quest’ultima non ha subito grandi cambiamenti e spesso si è chiusa in un silenzio assenso, i militari hanno fatto brevi soggiorni al potere senza mai restarvi per più di tre anni consecutivi e hanno quasi sempre promosso il ritorno a un processo democratico. Tali caratteristiche dell’intervento delle Forze Armate nei governi democraticamente eletti permettono di comprendere meglio anche quella sorta di legittimazione sociale di cui i militari hanno goduto nel corso degli anni e che ha permesso loro nel 1997, a distanza di un solo anno dallo scandalo del caso Susurluk5, di intervenire direttamente nella vita politica a seguito della prima vittoria elettorale di un partito islamico6 “indotto” poi alle dimissioni. In realtà, gli anni Settanta e Ottanta furono determinanti nel rafforzare il ruolo inibitore dell’esercito nei confronti delle sensibilità politiche emergenti e di rivendicazioni delle minoranze (ad esempio quella curda7). Il susseguirsi di crisi 5 L’affaire Susurluk scoppiò nel novembre 1996, quando alcune inchieste ufficiali partirono a seguito di un incidente automobilistico che coinvolse Hüseyn Kocadağ, un funzionario di polizia di Istanbul, Abdullah Çatli un militante della destra radicale (ricercato dall’Interpol per una serie di omicidi e coinvolto nell’attentato a Giovanni Paolo II), e Sedat Bucak, capo di una tribù curda e collaborazionista. Un rapporto ufficiale denunciò i legami esistenti tra gli ambienti mafiosi e i servizi segreti nel sud-est del paese dove le Forze Speciali erano dedite al racket, all’usura e a traffici di droga. 6 Si tratta del partito Refah, Partito della Prosperità guidato da Necmedin Erbakan. Il 4 febbraio 1997 i carri armati sfilarono nella città di Sincan, vicino Ankara come atto di risposta ai dimostranti islamisti. Qualche settimana più tardi il Consiglio Nazionale di Sicurezza lanciò un ultimatum al governo islamico che si dimise pochi mesi dopo. Questo intervento dei militari fu definito da un generale in pensione come un colpo di stato “postmoderno”. 7 La questione curda ufficialmente non esiste per il governo turco. L’identità e l’esistenza di uno stato turco sono stati sempre repressi dai governi turchi,partendo da quello dei Giovani Turchi e di Mustafa Kemal. All’origine del conflitto ci sarebbe il rifiuto turco di riconoscere i curdi, soprannominati i “Turchi delle montagne”. Le ribellioni curde, sin dalla prima del 1925, sono state represse. Anche se passi in avanti sono stati fatti con la legalizzazione dell’uso della lingua curda e con la liberazione della parlamentare curda Leyla Zana nel 2004, lo stato turco 5 economiche e i disordini provocati dai serrati confronti sul campo delle diverse componenti politiche8, e la violenza a “dimensione comunitaria”9 fecero del colpo di stato del 1980 il nodo storico determinante capace di consolidare il peso dei militari nella scena politica del paese. “Indipendentemente dai suoi protagonisti, la violenza era comunque il risultato dell’incapacità di un sistema politico di integrare i giovani, di riconoscere come legittime le risorse simboliche delle comunità in conflitto e più in generale, di negoziare un progetto politico e sociale. Mostrava inoltre quanto si fosse indebolito il tessuto sociale del paese in seguito a una frammentazione della società che a sua volta accelerava” 10 Attraverso la volontà dichiarata di voler mettere fine alla violenza nel paese, l’esercito restò al potere tre anni durante i quali il kemalismo fu portato alle sue estreme conseguenze. Gli anni Ottanta, dunque, consacrarono almeno due processi: da parte dell’esercito quello di autopercepirsi come estraneo ai conflitti politici e proporsi come ultimo baluardo della sicurezza nazionale; da parte della società civile e delle forze politiche, quello di evitare il confronto diretto e affidarsi “all’aggiramento dello stato come regola generale per la sopravvivenza, la protezione e l’autonomia di individui, dei quartieri, delle comunità”11 Per capire come si è passati ad una situazione in cui l’esercito divenne nel corso del decennio del rafforzamento (gli anni Novanta) il “partito-stato” o “stato profondo” è indispensabile guardare alla sua organizzazione interna nonché ai modi di esercizio del potere. Struttura e organizzazione delle Forze Armate L’organo principale attraverso il quale i militari hanno esercitato il proprio ruolo e la propria autorità è stato il Consiglio Nazionale di Sicurezza (MGK). Istituito nel 1961 e composto per lo più da membri civili, tale organo serviva inizialmente da piattaforma per dare voce concerta alle opinioni dell’esercito in materia di sicurezza nazionale. Ma nel 1973 le sue funzioni furono ampliate, oltre a quelle di difesa, infatti, esso provvedeva ad emettere “raccomandazioni” al governo. Con le continua a negare i diritti di tale minoranza. 8 Si pensi ai radicalismi degli anni settanta: destra radicale del Mhp (Partito dell’Azione Nazionalista) la sinistra giovanile sostenuta dai movimenti operai, i militari islamici del partito d’Ordine Nazionale, i movimenti nazionalisti curdi. 9 Espressione usata dallo storico e sociologo turco Hamit Bozarslan in Bozarslan H.,2006, La Turchia contemporanea, Bologna, Il Mulino. 10 Ibidem, pag. 74. 11 Ibidem, pag. 94. 6 modifiche intervenute attraverso la costituzione del 1982, esso divenne una diretta emanazione delle Forze Armate intervenendo anche in altre questioni. Le raccomandazioni si trasformarono in “avvisi” la cui priorità doveva essere riconosciuta dal Consiglio dei Ministri e che davano vita ad un’agenda politica parallela a quella dei governi in carica; il numero dei membri civili si ridusse considerevolmente; l’MGK era presente in seno al Consiglio di orientamento dell’Università e della Comunicazione; esso determinava i curricula scolastici, stabiliva gli orari delle trasmissioni televisive; entrava a piene mani nella vita politica parlamentare abolendo, ad esempio, l’immunità penale per i soli parlamentari del Partito curdo della Democrazia.12 Nel corso del tempo tale situazione non è cambiata, anzi durante gli anni Novanta l’importanza dell’esercito si è rafforzata. Le Forze Armate turche composte da 40.000 ufficiali e 800.000 uomini, esercitano il controllo assoluto ed esclusivo sul loro funzionamento, reclutamento e sul sistema di carriere nonché sulla determinazione e la gestione del budget che gli è consacrato. Ancora oggi questo trattamento speciale si traduce in una separazione dal resto della società che è anche fisica: i militari vivono in "site", piccoli quartieri circondati da filo spinato, con i propri negozi, hanno il proprio sistema educativo e un sistema di selezione ideologica ufficiale e semi-ufficiale (secondo quanto previsto dal regolamento, per essere promosso ai gradi superiori bisogna avere una moglie che non porta il velo). Un budget ad hoc L’esercito gode di un’autonomia anche economica che va ben oltre il dato del 4,5% del PIL, cioè il 16% del bilancio statale. Le spese per la difesa, infatti, non sono soggette a dibattito parlamentare, né discusse o criticate dalla stampa. Un dato su tutti è emblematico: un ricercatore che studi la questione del budget dei militari non ha nessuna fonte interna di riferimento dovendo ricorrere prevalentemente al NATO’s Comparison of Defense Expenditure. Ma l’intervento dell’esercito nella vita economica del paese non si ferma qui. Oltre a controllare le industrie di difesa (con un fatturato annuo di circa 5 miliardi di dollari) e dunque la produzione di armi, ai militari è attribuito un “Fondo di sostegno all’industria e alla difesa” costituito dal 5% delle imposte sulle professioni, dal 10% delle tasse sulle bevande alcoliche e sulla benzina e dagli utili della lotteria nazionale. 13 Ma quello che fa dell’esercito un vero e proprio attore economico è Oyak (“Fondazione di assistenza dell’esercito” con un fatturato di più di 5 miliardi di 12 Per un approfondimento di tali questioni si veda anche: Harris G., “The role of the military in Turkey in the 1980s: guardians or decision-makers” in Heper M. e Evin A., (a cura di), 1988, State Democracy and the miltary in Turkey in the 1980s, Berlin, De Gruyter, pp. 177-200. 13 Cfr. Bozarslan H., op.cit. 7 dollari) e che attraverso la sua holding è attiva nei settori bancari, assicurativi, edili, immobiliari (vedi Allegato 1). Servizi segreti L’art. 35 del regolamento interno dell’esercito prevede la nozione-categoria di “nemico interno” che è servita da contenitore per legittimare i diversi interventi dell’esercito via via nei confronti dei curdi, degli islamisti dell’irtica, dei comunisti, degli aleviti, dei greci, degli armeni, e per rendere operativo il concetto di sicurezza nazionale. A fianco dell’esercito nella lotta al nemico interno, c’è anche il MIT cioè l’Agenzia Nazionale di Intelligence Turca. Nonostante il carattere civile di questa agenzia, ufficialmente sotto il controllo del primo ministro, di fatto i suoi quadri dirigenziali e i suoi capi sono stati sempre scelti e reclutati tra ufficiali e generali anche in pensione. Sebbene alcuni tentativi da parte delle autorità civili siano stati compiuti per ridurre il peso dei militari 14, perché qualcosa effettivamente si muovesse si è dovuto aspettare la fine del cosiddetto “regime di sicurezza nazionale”, un capitolo questo che si aprì con le elezioni del governo Eçevit del Partito della Sinistra Democratica (1998-2002) ma che è stato realmente approfondito dal successivo governo Erdoğan del partito dello Sviluppo e della Giustizia (2003-2007). Il “correttivo kemalista” del partito dell’AKP di Erdo ğan Oggi la Turchia è retta dal partito del cosiddetto “islam moderato”, l’Akp di Recep Tayyip Erdoğan, ex sindaco di Istanbul. Il governo Erdoğan è stato da molti salutato entusiasticamente avendo promosso una coraggiosa riforma del Consiglio Nazionale di Sicurezza. Tuttavia, va detto che tale governo è riuscito a raggiungere alcuni importanti risultati anche perché si è inserito in una congiuntura storica particolare segnata dalla fine della vecchia classe politica turca e dall’inizio di nuove alleanze e coalizioni di cui l’Akp è l’espressione più emblematica. Si tratta di un sistema nuovo rispetto a quello dominante negli anni Ottanta: nel corso dei 20 anni successivi al colpo di stato del 1980 i partiti politici si erano trasformati in un cartello, che si assicurava la sopravivenza solo grazie alla vicinanza con lo stato (esercito, amministrazione pubblica). Queste strutture politiche avevano perduto qualunque capacità di produrre una reale attività politica, limitandosi a coltivare interessi clientelari locali o nazionali. Il nazionalismo aggressivo e […] l’antislamismo virulento erano diventati la loro unica fonte di legittimazione. 15 14 Si pensi ad esempio alla nomina del capo di Stato Maggiore Torumatay voluta dal primo ministro Özal nel 1987 a dispetto delle indicazioni del Consiglio Nazionale di Sicurezza. 15 Bozarslan H.,op cit., pag. 107. 8 Al contrario, il governo Erdoğan ha saputo trarre la sua legittimità dall’ancoraggio all’Europa, con la prospettiva di adesione all’UE, e da un nuovo discorso politico capace di integrare i liberali, gli islamisti, e una parte dell’elettorato filo-curdo. Come sottolinea Sophie Bessis16 , La Turchia sembra essere entrata nell’era post-kemalista e i Turchi sembrerebbero alla ricerca di un nuovo compromesso socio-culturale piuttosto conservatore che riconcilierebbe tutte le componenti della società. In effetti, dagli anni Novanta e fino al 2002 la “politica dell’inerzia” era il paradigma dominante nel paese: assenza di alternative politiche e una classe politica assolutamente disattenta agli interessi dell’elettorato. In una simile atmosfera e in una congiuntura storica molto particolare (settembre 2001), l’AKP di Erdoğan si è proposto quale attore politico prima ancora che religioso, capace di smuovere lo status quo. Due sono stati i cavalli di battaglia che hanno conferito la vittoria elettorale del 2002 al Partito della Giustizia e dello Sviluppo. Si tratta di due argomenti attorno ai quali l’AKP ha strutturato tutta la sua prima legislatura e che gli hanno conferito quella capacità di differenziarsi da tutte le altre formazioni religiose che lo hanno preceduto ma dalle quali, comunque, esso proviene. Il primo argomento è riassumibile nello slogan “effective governance” usato a più riprese dal partito per poter proporre un’immagine di sé lontana da ogni stereotipo e soprattutto lontana dai partiti che hanno governato la Turchia. Essendo una formazione di ispirazione religiosa affacciatasi sulla scena politica in un momento di grande disordine internazionale in cui il terrorismo di matrice islamica costituisce un tema molto delicato, la prima preoccupazione dell’AKP è stata quella di non essere assimilato, al livello interno e internazionale, come un partito religioso ma come un partito politico. Per fare questo, esso si è dotato di un restyling che è passato prima di tutto per un linguaggio nuovo e trasversale a diversi orientamenti. Parole come democratizzazione, riforme, pluralismo, pace sono entrare nel vocabolario della competizione elettorale sostituendo quelle di sicurezza e di nemico interno care all’establishment kemalista. A questo poi c’è da sommare la nuova personalizzazione della politica inaugurata da Erdoğan. È lui l’uomo che in soli quattro anni è passato dalla cella di un carcere alla conduzione di un paese, l’uomo del popolo e che parla direttamente alla gente; l’uomo che considera l’etichetta di “Islam moderato” come ridondante visto che, nella sua concezione, 16 Bessis S., La Turquie: un état sous tension, in “Questions internationales”, n. 3, 2003, pp. 82-90. 9 l’Islam ha una natura unitaria che non rischia affatto di mettere in discussione la laicità dello stato. Quest’ultima, al contrario, rappresenta l’unica possibilità di garantire quella neutralità religiosa di cui il paese, secondo l’ex sindaco di Istanbul, ha tanto bisogno. Il secondo argomento che ha permesso all’AKP di imporsi sulla scena politica turca è stato l’orizzonte europeo e il processo di riforme ad esso correlato. La necessità di avviare delle riforme concrete per allineare il paese agli standards dell’Unione Europea17 in vista di un possibile futuro ingresso ha formato, in effetti, una piattaforma politica in cui comporre le tensioni tra il nuovo partito al potere e il vecchio establishment di orientamento militare. L’argomento europeo, è stato determinante in Turchia anche perché si è proposto quale orizzonte politico praticabile per tutte quelle componenti della società e della politica turca che non riuscivano a trovare negli strumenti interni adeguate forme di riconoscimento e di rivendicazione. Non è difficile comprendere perché i militari siano stati da sempre restii al processo di integrazione europea salutato al contrario con entusiasmo dai liberali, che sperano di vedere il loro paese allo stesso livello di altre potenze europee; dai curdi che sperano di vedere i loro diritti garantiti, dai movimenti e dai partiti islamici moderati che si aspettano una maggiore emancipazione dall’esercito e un maggiore margine di manovra politica. Portavoce di queste istanze è stato soprattutto l’attivismo riformista del governo Erdoğan che è stato però messo in discussione in Europa da chi, come Drevet,18 sostiene che il candidato turco resta reticente a causa della politica 17 L’adesione all’Unione Europea e un più generale tropismo occidentale sono presenti in Turchia almeno da trenta anni. Risale al 1959 la prima domanda della Turchia per un accordo di associazione con la CEE, che fu però firmato solo nel 1963, prevedendo la possibilità di un’ulteriore adesione. La Turchia si affrettò e nel 1987 già pose la sua domanda di adesione. Ma fu costretta ad accontentarsi di un’unione doganale. Dopo essere stata esclusa dalla rosa dei candidati ad un ulteriore allargamento nel 1997, il suo turno arrivò nel 1999, quando assunse lo status di candidato, ma ciò non impedì all’Unione di posticipare la decisione relativa all’inizio delle negoziazioni al 2004. A proposito dell’inizio dei negoziati stabilito nel 2004, appaiono interessanti le considerazioni svolte da Dorothée Schmid in Schmid D., Europe/Turquie: en atttendant l’heure in “Revue du marché commun et de l’Union Européenne”, n. 481, 2004, pp. 492-495. Sia la Turchia che l’Unione, secondo Schmid, hanno dovuto affrontare negli ultimi tre anni rapidi cambiamenti: l’Unione ha dovuto preparare l’allargamento più grande della sua storia, la Turchia ha subito dei capovolgimenti legati non soltanto alla scadenza europea ma anche alla situazione della regione agitata dallo shock dell’11 settembre e dalla crisi irachena. Per questo il 2004 non era, secondo Schmid, il momento ideale per prendere decisioni irreversibili. L’intensità relazionale, dovuta al fatto che ognuno dei due protagonisti disponeva di un’ultima possibilità di conoscere l’altro proprio in un momento in cui sono diventati entrambi meno raggiungibili, ha spostato la questione turca dal versante tecnocratico a quello politico. 18 Le esitazioni messe in campo da Drevet in realtà si basano su diverse considerazioni. Una delle questioni più delicate e problematiche è quella demografica: con un tasso di crescita annuale elevatissimo, La Turchia provocherebbe dei costi di integrazione notevoli. Tanto più che il paese conosce delle forti disparità interne distribuite lungo la linea Sinop-Gaziantep, che tagli letteralmente in due il paese. Esternamente la Turchia rappresenta l’intersezione delle zone più turbolente del mondo: i Balcani, il Vicino Oriente, i conflitti israelopalestinese e quello iracheno. Infine, dal punto di vista dell’acquis di Schengen, la Turchia rappresenta, per Drevet, più un rischio che un partner potenziale, Nonostante la loro militarizzazione, infatti, le sue frontiere sarebbero mal controllate e i traffici illeciti di merci e di persone sarebbero numerosi. Drevet JF., 2001, L’élargissement del’Union Européenne, jusqu’où?, Paris, L’Harmattan. 10 “negazionista”19 e che induce a domandarsi se la Turchia persegua un’agenda nascosta. L’agenda europea, in realtà, è stata usata come vero e proprio strumento di governo, ma in maniera del tutto particolare. Gli otto pacchetti di riforme lanciati dal governo Erdoğan, infatti, sono stati presentati in modo deideologgizato sia alla popolazione sia all’establishment. Tuttavia, anche se l’attenzione all’agenda europea non è stata solo simbolica, le riforme non sono state inserite in una strategia politica capace di informare la popolazione della reale portata del processo europeo e delle sue implicazioni socio-culturali. Allo stesso modo, il processo di democratizzazione, timidamente avviato in Turchia, in realtà è avvenuto tralasciandone la dimensione sociale privilegiando, invece, solo la scala delle relazioni di potere tra le élites e non anche quella tra le diverse componenti della società. La “politica dell’armonia”, sempre presente nella retorica dell’AKP, ha fatto in modo che il processo di riforme sia stato vissuto come une vera e propria manovra di governo al pari di una riforma fiscale, del tutto svuotata di una qualsivoglia connotazione ideologica. Tuttavia, questo atteggiamento non va letto in maniera troppo critica. Del resto, il reale margine di manovra politica del governo rispetto alle numerose sfere di influenza dell’establishment militare era ed è ridottissimo. In una simile situazione la novità e la valenza delle riforme non sta tanto nelle riforme in se stese, che inoltre non sono nemmeno così audaci, ma nel semplice fatto di averle intraprese. Dunque, dal punto di vista del simbolismo politico, il loro valore è stato altissimo. Non bisogna dimenticare, infatti, che il “correttivo kemalista” dell’Akp ha dovuto fare i conti con due banchi di prova importanti circa l’autonomia nei confronti della componente storica della società turca, l’esercito: l’integrazione di Cipro20 all’UE e la guerra del golfo. I militari si sono dichiarati da sempre contrari all’entrata di Cipro nell’UE e al consolidamento di un’entità curda in Iraq, 19 Drevet si riferisce alla questione dell’eccidio armeno, dell’identità curda e dell’isola di Cipro. Terza isola del Mediterraneo, dopo la conquista da parte degli ottomani (1571), Cipro vide l’installazione di una minoranza turcofona. Passata sotto il controllo britannico (1878), l’isola è stata annessa alla corona nel 1914. La comunità greca e quella turca hanno coabitato senza difficoltà sino al 1950, quando la lotta per l’indipendenza greca sosteneva la Enosis (il ricongiungimento alla Grecia). La minoranza turca propose allora il Taksim (la divisione dell’isola). Il Trattato di indipendenza del 1960 prevedeva a Cipro la presenza di una base militare britannica e di un contingente turco e o greco. Tuttavia, la Costituzione, pur attribuendo alla parte turca la vicepresidenza, il diritto di veto, e il 30%dei seggi, non ha determinato un adeguato equilibrio politico. La situazione è andata precipitando dopo il colpo di stato che riattivò i partigiani dell’Enosis. Così nel 1974 l’esercito turco occupala parte Nord dell’isola autoprolcamandola Repubblica turca di Cipro Nord, riconosciuta solamente dalla Turchia. La parte sud dell’isola è attualmente più sviluppata e dal 2004 fa parte dell’Unione Europea. La parte Nord invece risente di forti carenze dovute anche all’embargo imposto dall’Unione. Dal 1974 molte mobilitazioni si sono succedute per risolvere la questione cipriota che attualmente resta aperta. 20 11 considerandoli vera e propria dinamite politica. Sebbene non ci sia stato nessuno scontro diretto, il Consiglio Nazionale di Sicurezza obbligò il governo a rifiutare il piano di pace proposto da Kofi Annan nel 2002, ma Cipro nel 2004 è comunque entrata a far parte dell’Unione Europea. Allo stesso modo, quando alla fine del 2002 gli Stati Uniti d’America chiesero alla Turchia la disponibilità ad usare il suo territorio per aprire un secondo fronte contro l’Iraq, i militari, per buona parte contrari alla guerra, “intervenirono evitando di intervenire” cioè non fornirono alcuna indicazione al governo. La volontà del governo Erdoğan di tentare una strada parallela rispetto a quella indicata dal Consiglio Nazionale di Sicurezza e di percorrerla appena se ne è presentata l’occasione ha comunque preso corpo attorno alla cosiddetta “politica dei piccoli passi” confermata dall’approvazione della legge di riforma del funzionamento del MGK nel 2003. Tale legge in realtà prevede essenzialmente due modifiche: riunioni bimestrali al posto che mensili per il Consiglio Nazionale di Sicurezza e istituzione di un segretario generale civile. Ma nella sostanza le funzioni effettive del Consiglio non sono cambiate. Dove va la Turchia? L’innegabile svolta del governo Erdoğan e il processo di consolidamento democratico degli ultimi dieci anni, promosso anche grazie alla prospettiva europea, hanno fatto della Turchia un interlocutore affidabile. Seppure ambigue e incerte alcune riforme del governo dell’Akp hanno permesso alla Turchia di iniziare una reale emancipazione interna. È innegabile, però, che l’euforia europea della prima campagna elettorale di Erdoğan sembra oggi lontana. Le elezioni del prossimo novembre dovranno fare i conti con un nazionalismo dai sondaggi crescente mentre le simpatie per l’UE che rivendica il rispetto dei criteri di adesione, primo tra tutti il rispetto dei diritti umani, calano vertiginosamente. La prossima campagna elettorale di Erdoğan sarà probabilmente senza l’UE e impostata, come suggerisce la recente visita in Siria del leader dell’Akp, su nuove relazioni diplomatiche con i paesi “orientali”, impensabili fino a qualche anno fa e che fanno apparire la situazione profondamente magmatica. Inoltre, il ruolo dei militari nella vita politica del paese non sembra essere diminuito soprattutto alla luce dei recenti avvenimenti. La capacità del governo di procedere verso una reale indipendenza nei confronti delle Forze Armate e verso un consolidamento del ruolo delle autorità civili sembra, infatti, essersi per 12 il momento ridotta. Non sono pochi i segnali che permettono di esprimersi in questo senso. Durante la conferenza stampa del 12 Aprile 2007, il Capo di stato Maggiore Yaşar Büyükanit, ha toccato tutti i punti caldi della politica estera e interna turca sottolineando la necessità del rispetto di quello che potrebbe essere definito un Army consensus. Egli ha inoltre chiaramente manifestato la volontà dell’esercito di intervenire contro i separatisti curdi nel nord dell’Iraq e di non preferire Erdoğan come candidato alle presidenziali. Lo stesso governo sembra aver cambiato alcuni degli orientamenti sui quali aveva basato la sua vittoria nel 2003: uno su tutti l’ancoraggio all’Europa, mettendo fine – sembra – alla rivoluzione silenziosa che aveva permesso ai curdi, almeno ufficialmente, di usare la propria lingua e di procedere ad una serie di riforme del codice penale. Questioni troppo delicate, come la costituzione di un Kurdistan iracheno forte e più indipendente da Ankara, un islamismo radicale che non risparmia le città turche attraverso i suoi attentati terroristici, fanno sì che l’esercito si senta chiamato a garantire in prima persona la sicurezza, la laicità e l’integrità della Turchia. Le Forze Armate sembrano restare, per il momento, un attore politico ineludibile. Ciononostante l’emancipazione rispetto all’esercito è avvenuta ed essa è un fatto nuovo nella vita politica turca. Essa ha preso corpo attraverso un nuovo tipo di convergenza politica. Il governo Erdoğan ha adottato una strategia in grado di assicurargli una discreta longevità politica. Esso infatti, procede per contrattazioni su singole questioni che possono suscitare particolare interesse da parte dell’esercito, evita di intervenire nelle questioni di sicurezza preferendo muoversi su terreni meno politicizzati e stando sempre attento a usare il parafulmine del processo di riforme imposto dall’UE per poter raggiungere obbiettivi prima impensabili. In questo l’AKP ha dimostrato una flessibilità e un’adattabilità assolutamente estranee ai precedenti partiti di orientamento religioso. 13 Il blocco egemonico che paralizza la Turchia Intervista a Hamit Bozarslan di Ilaria Casillo 30 Aprile 2007 Hamit Bozarslan, storico e sociologo, è maître de conférence all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales. Le sue ricerche riguardano la questione della violenza in Turchia e n medio Oriente e delle minoranze in Turchia. 1) In questi giorni la Turchia sta attraversando un momento molto delicato della sua vita politica. Il confronto tra governo e Forze Armate diviene sempre più serrato, qual è il reale margine di manovra politica dell’esercito? Cosa sta cambiando? Bozarslan: è davvero difficile rispondere a questa domanda dal momento che molti elementi sfuggono alla leggibilità. L’esercito continua ad essere un pilastro dello stato e allo stesso tempo esso è ben altra cosa rispetto al governo. I militari sono arrivati a creare un vero e proprio blocco egemonico in seno alla società costituito dall’intellighenzia kemalista, da una buona parte della destra radicale, da una parte della sinistra convertitasi al nazionalismo e, infine, da una parte della giustizia. Quando si evoca la questione dell’esercito, quindi, non bisogna pensare solo ai militari ma anche a questo blocco egemonico che vuole ridefinire la Turchia su basi nazionalista, anti-armena, anti-curda, anti-semita, anti-americana, anti-europea. In questo momento, le Forze Armate hanno assunto il ruolo d’opposizione diretta contro il governo, rilevandone praticamente tutti i compiti attraverso la politica estera e quella interna, esso si è costituito come partito politico della nazione contro il governo eletto dal popolo. 2) Lei ha evocato la questione della società civile. Essa può giocare un ruolo attivo o è completamente paralizzata da questo scontro tra l’esercito ed il governo? Bozarslan: Penso che una gran parte della società sia totalmente silenziosa e spaventata. La popolazione ha paura. Gli intellettuali liberali, coloro cha hanno votato per un partito filocurdo, o per gli islamisti, hanno tutti paura. Non dimentichiamo che ci sono stati degli omicidi fortemente simbolici. Per tutte queste ragioni, io non userei il termine di società civile, ma semplicemente quello di società. Credo che oggi una gran parte della società è marginalizzata, tanto più che il blocco nazionalista costituitosi attorno all’esercito si legittima attraverso la sacralità kemalista. Questa considera la nazione come una sorta di fortezza assediata e come un’etnia e una classe oppressa da altre etnie e classi (come i Curdi, gli Armeni, gli Ebrei). Tale blocco egemonico considera la possibile integrazione all’UE come un complotto contro la Turchia e l’America come il nemico per eccellenza. Si è veramente in una prospettiva nazionalsocialista nel senso proprio del termine. Il riflesso che essa provoca è quello di difendere la “turchità” 3) Più che l’islam è la “turchità”, allora, la vera religione di stato in Turchia? 14 Bozarslan: Esattamente. La battaglia politica, infatti, non è tra gli islamisti e i laici, contrariamente a quanto alcuni giornalisti vogliono far credere in questi giorni, ma tra i nazional-socialisti e un governo conservatore che è molto debole. 4) In un tale contesto qual è l’orizzonte politico praticabile per il partito islamico? Bozarslan: E’ difficile sapere cosa succederà. Se ci saranno delle elezioni e se il partito islamico otterrà, come l’ultima volta, il 35- 40%, effettivamente si può immaginare che esso godrà di una rinnovata legittimità. Di fronte a tale situazione l’esercito non ha altre soluzioni che il consenso oppure un colpo di stato. Certo, allo stesso tempo si può ipotizzare che la popolazione abbia talmente paura da non rinnovare il suo voto al partito islamico. 5) Di che tipo di colpo di stato potrebbe trattarsi questa volta? Di un colpo di stato classico o di un colpo di stato “postmoderno” come fu definito dagli stessi vertici militari, quello del 1997? Bozarslan: Per il momento credo che in Turchia il colpo di stato non sia nell’agenda militare. Tuttavia, non è possibile vedere al di là delle 24 ore! Se tra qualche mese gli islamisti dovessero vincere le elezioni, ci si può aspettare di tutto dall’esercito. 5) In un tale magma politico, l’ancoraggio all’Europa può influenzare le dinamiche interne del paese? Bozarslan: No. Penso che nel 2004 non si è voluta accettare la portata dei radicalismi che circolavano in Turchia, non si è preso in considerazione il nazionalismo radicale crescente. Piuttosto si è partiti dalla stessa prospettiva usata per la Spagna, il Portogallo o la Grecia negli anni Settanta, vale a dire: si tratta di democrazie che escono dall’autoritarismo e la democrazia si costruirà pian piano grazie anche all’Europa. Si è creduto che la Turchia fosse un caso analogo, quando, invece, era esattamente il contrario: era un vulcano in cui il nazionalismo era dormiente ma si potevano intravedere sempre più chiaramente i segnali di un’esplosione che ci porta dritti alla Turchia di questi giorni. Per questo credo che la prospettiva europea sia considerevolmente ritardata a causa anche della stessa Europa. Quest’ultima già nel 1999 avrebbe potuto sollevare più chiaramente la questione del nazionalismo, dei Curdi, del riconoscimento del genocidio armeno, promettendo in cambio un’adesione totale. L’Europa manca di strategia e di alternative: essa ha adottato una day to day policy. Ora esige, promette ma senza mantenere. La mancanza di una politica rispetto alla Turchia ha notevolmente discreditato l’Europa. 6) Dove va la Turchia? Bozarslan: Alcuni giornalisti hanno evocato la “prospettiva 33”: la fine dell’epoca di Weimar e l’inizio del nazismo. Non voglio essere così radicalmente pessimista. Spero che si eviti questa deriva e che il gioco democratico resti in piedi, ma niente è sicuro. Nel momento in cui ci sono migliaia di intellettuali, di giovani ufficiali, di giudici che si autoproclamano rappresentanti della nazione, vuol dire che c’è una divisione tra il popolo e la nazione. 7) E a voler essere ottimista? 15 Bozarslan: La prima condizione è che il governo resista, che inneschi un braccio di ferro con l’esercito marginalizzandolo. Ma, dopotutto, Erdogan non è Eltsin. L’unica alternativa civile è quella che si potrebbe formare dopo eventuali elezioni attorno all’AKP per il quale io non nutro alcuna simpatia. Si tratta di un partito ultraconservatore e nazionalista rispetto alla questione curda e armena, ma allo steso tempo si tratta della forza più europea, più pluralista e più democratica della Turchia attuale. 16 APPENDICE 17 ALLEGATO 1 OYAK Group Companies FINANCE OYAK BANK OYAK PORTFÖY YÖNETIMI OYAK EUROPEAN FINANCE (Ireland) OYAK ANKER BANK AXA-OYAK HOLD‹NG AXA OYAK SIGORTA AXA OYAK HAYAT S‹GORTA OYAK YATIRIM MENKUL DE ĞERLER OYAK EMEKLILIK HALK FINANSAL KIRALAMA INDUSTRY ATAER HOLD‹NG ERDEMIR-EREĞLI DEMIR ÇELIK* ISDEMIR ERDEMIR MADEI ERDEMIR LOJISTIK ERDEM‹R ROMANIA ERDEM‹R ÇELIK SERVIS MERKEZI ERENCO ÇELBOR ERDEMIR GAZ SOLLAC BORÇELIIK ADANA ÇIMENTO ADANA ÇIMENTO SANAYI VE TICARET LTD (TRNC) ADANA ÇIMENTO FREE PORT LTD (TRNC) OYCEM Ç‹MSA BOLU ÇIMENTO ÜNYE ÇIMENTO MARDIN ÇIMENTO ELAZI⁄-ALTINOVA ÇIMENTO BIRÇIM ÇIMENTO VE MADENCILIK OYSA ÇIMENTO OYKA KAĞIT AMBALAJ OYAK BETON OYAK RENAULT ISKEN OYAK ENERJI HEKTA Ş TU KA Ş TAM GIDA GOODYEAR** SERVICES MAIS OMSAN OMSAN Logistik GmbH (Germany) OMSAN BV (Holland) OMFESA Logistics SA (Spain) 18 OMSAN Logistique SARL (France) OTTI (France) OMSAN Lojistik EOOD (Bulgaria) OMSAN Lojistik OOO (Russia) OMSAN Logistica SRL (Romania) OMSAN Lojistik MMC (Azerbaijan) AZER-OMSAN Shipping MMC (Azerbaijan) OYTA Ş OYAK SAVUNMA VE GÜVENL‹K S‹STEMLER‹ OYAK TEKNOLOJ‹ OYAK ‹N ŞAAT OYAK KONUT OYAK PAZARLAMA HIZMET VE TURIZM OYAK TELEKOMÜNIKASYON H‹ZMETLERI ETI PAZARLAMA With direct or indirect stakes in more than sixty companies, OYAK today is a strong, major corporate group that generates increasingly more added value for the Turkish economy day after day. The employment, business turnovers, exports, and production capacities of OYAK's participations put each and every one of them in the front ranks of their respective sectors. * Wholly-owned subsidiary acquired by OYAK after submitting the winning bid in the tender held by the Privatization Administration on 4 October 2005. ATAER Holding (founded 13 December 2005) assumed control of OYAK stakes in ERDEM‹R and its subsidiaries on 27 February 2006. ** The OYAK-owned Goodyear shares were sold off in March 2005 Fonte: Annual Report 2005 OYAK Group Companies 19 ALLEGATO 2 Struttura delle Forze armate Fonte: www.tsk.mil.tr Sito ufficiale delle Forze Armate turche. 20 ALLEGATO 3 Partiti Politici in Turchia AKP (Adalet ve Kalkinma Partissi) Partito della giustizia e dello sviluppo, partito della destra islamico-moderata diretto da Recep Tayyip Erdogan. ANAP (Anavatan Partisi) Partito della madrepatria. Partito di destra diretto da Erkan Mumeu. CHP (Cumhuriyet Halk Partisi) Partito repubblicano del popolo. Partito socialdemocratico,fondato da Mustafa Kemal. Oggi il partito, all’opposizione, è diretto da Deniz Baykal. DEHAP (Demokratik Halk Partisi) Partito democratico del popolo. Partito filocurdo, diretto da Tuncer Bakirhan. DYP (Doğru Yol Partisi) Partito della giusta via, partito di destra diretto da Mehmet Ağar. GENÇ PARTI Partito della Gioventù, formazione nazionalista diretta da Cem Uzam. MHP (Milliyetçi Haraket Partisi) Partito dell’azione nazionalista, destra Radicale diretta da Devlet Bahçeli. 21 22 BIBLIOGRAFIA ALIBONI R. , 1999, Geopolitica della Turchia, Milano, Franco Angeli. BESSIS S., La Turquie : un état sous tension, in “Questions internationales”, n. 3, 2003, pp. 82-90. BOTA T., Nationalist Discourses in Turkey, in “The South Atlantic Quarterlt”, 2003,n. 102/2-3,pp. 283-292 BOZARSLAN H., 2006, La Turchia contemporanea, Bologna, Il Mulino. 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