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O Notte. Viaggio nelle notti di Ungaretti

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O Notte. Viaggio nelle notti di Ungaretti
XV edizione
I Colloqui Fiorentini – Nihil Alienum
Giuseppe Ungaretti. “Quel nulla d’inesauribile segreto”
Firenze, Palazzo dei Congressi
25 - 27 febbraio 2016
PRIMO CLASSIFICATO
SEZIONE TESINA TRIENNIO
O NOTTE. VIAGGIO NELLE NOTTI DI UNGARETTI
Studenti: Lucrezia Battaglia, Alessia Bellachioma, Benedetta Paoletti, Alessandra Sciuga, Nicoletta Maria Zappa
delle classi III C classico e V G linguistico del Liceo Classico e Linguistico “Mariano Buratti” di Viterbo
Docente Referente Prof.ssa Carla Lamanna
Una notte, tante notti
Il nostro lavoro si basa sull’attenta analisi dello spettacolo naturale che ha fornito più ispirazione ad
Ungaretti. Questa fonte di ispirazione è, secondo il nostro parere, la notte.
Il poeta sembra quasi ossessionato da questo momento della giornata e, in effetti, analizzando le sue poesie,
abbiamo registrato la frequente presenza della parola notte con i suoi derivati (nottata, stanotte,
notturno).Essa ricorre 18 volte nei versicoli dell’Allegria, 25 volte nel Sentimento del tempo, 10 volte del
Dolore, 3 volte nella Terra Promessa e 8 volte negli Ultimi cori per la Terra Promessa. In totale 64 volte.
Quindici liriche dell’Allegria e nove del Sentimento hanno un’ambientazione sicuramente notturna; in quattro
liriche dell’Allegria la parola notte è inserita nel titolo.
La presenza è più massiccia se si considerano le parole del campo semantico della notte (sonno, sogno, stelle,
luna, tenebre, ombra, chiaroscuro, dormiveglia, veglia). Inoltre, alcune poesie celeberrime come Veglia e
Fratelli, I fiumi e Mio fiume anche tu si svolgono di notte. La prima e l’ultima lirica di Sentimento del tempo
hanno un’ambientazione notturna come anche l’ultimo degli Ultimi cori per la Terra Promessa. Insomma, la
notte, con i suoi sinonimi, è fondamentale per Ungaretti.
Essa ha un valore polisemico. Tratteremo nella nostra tesina alcuni dei suoi significati principali: essa è bella e
amica (La notte bella, Segreto del poeta); arida (Popolo), acre (Giunone), violentata (In dormiveglia), urbana e
afosa (Primo amore); si illumina (Perché?), porta rimorso (Godimento), con le sue stelle incarna il desiderio ed
evoca l’infinito (Stelle). In alcuni casi il poeta desidera che passi (Giugno), in altri invoca che duri (O notte)
oppure si chiede come poterle sopravvivere (Giorno per giorno). Infine, la notte permette di vedere e sapere
(Mio fiume anche tu).
In Ungaretti la notte compare dunque sotto diversi aspetti, primo tra tutti come fonte di ispirazione. Spesso
però è un dramma, esprime la certezza e il sentimento che l’uomo è misero e piccolo nell’infinità
dell’universo; in seguito riflette l’illusione o la tentazione, tanto ricorrenti nel Sentimento del Tempo. Infine
essa appare come il momento in cui si raggiunge la consapevolezza che l’uomo non è solo nel suo percorso di
vita e che è necessario aprirsi ad una Presenza amica e “pensosa” di lui.
A noi è sembrato che la notte fosse come la chiave per decifrare il segreto di questo grande poeta.
Nel fondo delle notti
Per Ungaretti, fin dall’infanzia, l’elemento principale di ispirazione poetica è stata la notte con il suo “traffico”
e le voci dei guardiani notturni che “si rincorrevano, venivano, s’allontanavano […] Era il primo percepire
dell’infinito, d’un infinito cerchio, come già gli antichi egiziani usavano rappresentarlo nel mordersi la coda di
un serpente” (da “Note” in Vita d’un uomo, pag. 560). Un altro elemento di ispirazione poetica furono le “urla
da ossessi” degli operai arabi che venivano svegliati nella notte. Dunque nell’immaginazione di Ungaretti la
notte è associata a grida e urli che svegliano e spaventano, tanto da diventare una sorta di ossessione. A
questi sgradevoli ricordi d’infanzia si sarebbero poi aggiunti quelli di tante altre notti straziate dalla presenza
del dolore e della morte.
La prima di queste notti è quella rappresentata in Veglia, la celeberrima poesia del Porto sepolto. L’attacco
della lirica ci fa sentire immediatamente la tragedia di un lungo tempo (“Un’intera nottata”) trascorso a
contatto con la morte, accanto ad un compagno d’armi massacrato e il suono della parola ritorna
continuamente nella lirica, in rima o in assonanza con gli altri participi (buttato, massacrato, digrignata,
penetrata, attaccato). La notte è qui il tempo ossessivamente ricordato in cui il poeta-fante Ungaretti fa
un’esperienza terribile che per reazione produce l’attaccamento viscerale alla vita terrena.
Nella lirica In dormiveglia troviamo uno scenario simile. Ungaretti si trova in trincea durante una notte di
guerra. I soldati sono contratti e in posizione difensiva, appaiono come lumache che appena avvertono un
pericolo si ritraggono nel loro guscio e non escono se non dopo un po’ di tempo. Durante l’assalto notturno il
poeta ascolta il susseguirsi serrato dei colpi di fucile. Da questi colpi nasce nella sua mente un’immagine
lontana della guerra e delle sue atrocità; paragonato quindi al rumore di scalpellini al lavoro sulle strade della
sua città, ascoltato nel dormiveglia. Il primo verso recita: “Assisto la notte violentata”. L’aggettivo è
fortemente espressivo e di nuovo mette in collegamento l’ora notturna con l’ora della tragedia e della
violenza estrema. Ungaretti non è più il bambino che si svegliava di soprassalto a causa degli urli risuonanti
nelle tenebre, ma è l’uomo che si sveglia sconvolto al rumore sconvolgente dei colpi di fucile.
Nelle poesie dell’Allegria la violenza dei rumori della guerra non colpisce il poeta solo dall’esterno, ma risuona
anche all’interno del suo cuore. E’ la situazione rappresentata in Perché?, un’altra lirica dall’ambientazione
notturna. Dove gioca un ruolo fondamentale l’opposizione tra il buio del cuore che non riesce ad illuminarsi e
a spiegarsi come faccia il mondo ad essere così spietato nella guerra, e la luce di “zampilli di razzi”. Il cuore
allora “s’incaverna/ e si schianta e rintrona/ come un proiettile/ nella pianura”: la notte porta ancora con sé
suoni strazianti e angosciosi, che trovano eco nello sgomento del cuore.
Questa notte straziata, così tipica delle poesie dell’Allegria, torna in quelle del Dolore, il libro nato “fuori di
ogni meditazione, d’ogni capacità di pianificazione di significato o di simbolo, per l’urgenza degli avvenimenti
esterni” (Leone Piccioni, “Una perpetua poesia maggiore”, in Vita d’un uomo, pag. XXIX).
In Tutto ho perduto, il tema è la confessione dello strazio di Ungaretti alla notizia della morte dell’amato
fratello; si tratta di una perdita assoluta, che comporta disperazione e alienazione.
Questa scomparsa, oltre ad essere una sciagura familiare, è la perdita dell’ultimo testimone dell’ infanzia. Per
due volte il poeta ripete un’espressione che dà il senso di un perdersi e di un annullarsi nella notte infinita:
“L’infanzia ho sotterrato/ Nel fondo delle notti […] Ed eccomi perduto/ In infinito delle notti”.
Quando il dolore umano, come qui, arriva al culmine della disperazione, neanche il conforto della memoria
aiuta più e il lamento prende la forma di una “non parola”. La sinestesia “roccia di gridi” dell’ultimo verso
indica il “grumo” di grida e lamenti che, in questo brutto momento, il poeta non riesce a esprimere perchè
appunto bloccato al fondo della gola ed evoca ancora una volta i gridi ascoltati da un bambino angosciato
nelle sue notti egiziane.
L’idea di una notte associata inestricabilmente alla tragedia della vita ritorna in un frammento di Giorno per
giorno, la sezione del Dolore dedicata al figlio morto, il cui ricordo riaccende la disperazione del padre, che
sembra condurre una vita normale, ma che dentro ha il vuoto, il buio, che solo in un sogno può colmare
parzialmente, con un bacio sulle piccole e dolci mani del bimbo. E’ qui che il poeta lancia il suo grido
straziante: “Come si può ch’io regga a tanta notte?...”.
Nel “fondo delle notti”, dunque, il poeta sente il grido, l’urlo del dolore umano, del suo stesso dolore, ma non
solo. La notte è il momento dello smarrimento dell’identità e della propria personalità. In una delle Altre
poesie ritrovate, intitolata appunto Notte, leggiamo: “Il ragazzo/ che nelle vene ha i fiumi/ di tante umanità
diverse/ è scappato/ dalle cornici dove/ adornava/ il suo dolce tempo perduto/ e nell’ora uniforme/
smarrisce/ la sua ombra tra l’altre”.
Scappare dalle cornici significa smarrirsi e diventare come un’ombra indistinguibile tra tante altre.
L’esperienza della notte diventa qui un dramma tutto interiore che provoca la perdita del “dolce tempo”,
quindi della semplicità, della purezza, dell’ingenuità del bambino.
La notte di Ungaretti diventa inquietante non in quanto risuona di rumori esterni, ma di un grido interiore
d’angoscia.
La notte rosea e sulfurea
Cinque poesie che si susseguono nell’Allegria (Godimento, Sempre notte, Un’altra notte, Giugno e Sogno),
scritte da Ungaretti tra il febbraio e l’agosto del 1917 e caratterizzate dalla comune ambientazione notturna,
offrono a noi lettori una visione della notte legata alle tragiche esperienze vissute dal poeta e ai suoi stati
d’animo, spesso contrastanti e ambigui. Dai versi emergono infatti sentimenti come lo smarrimento, il
rimorso, l’abbandono.
In Sempre Notte l’infinito del cielo stellato visto dalla trincea non è descritto come un’immagine di grandezza
e possibile ascensione, ma di oppressione (“un/ infinito/ che mi calca e mi/ preme”). Nel verso conclusivo di
Giugno, Ungaretti, che ha aperto la poesia con un “Quando/ mi morirà/ questa notte”, si chiede, con una
evidente ripresa anaforica: “Mi morirà questa notte?’’ (domanda che a quel punto della lirica sembra
esprimere una profonda ambiguità). In Sogno, invece, troviamo immagini di leggerezza e freschezza. Nel giro
di poche liriche la notte si muove tra il sogno e l’angoscia o, addirittura, il rimorso (Godimento).
L’intrinseca ambiguità della poesia di Ungaretti, già rinvenibile nelle poesie dell’Allegria, diventa maggiore
nella stagione di Sentimento del Tempo, soprattutto a causa della potenza dell’amore, inteso non solo come
esperienza spirituale ma soprattutto come cruda esperienza sensuale.
Già Leone Piccioni, nel saggio “Una perpetua poesia maggiore’’ (in Vita d’un uomo, pp. XXIV-XXV), descriveva
Ungaretti come un poeta d’amore, con una spinta sensuale fortissima ed indomabile, il quale restò tale pur
entrando talvolta nella problematica del contrasto sentimento religioso-sensualità.
Riguardo all’amore lo stesso Ungaretti ebbe a dire che “subito si biforcò ambivalente: sulla strada della
tenerezza, del sogno incontaminato… e strada satanica dell’inferno, la strada che vi divora. E queste due
nature sono in me, sono contrastanti” (cit. in Paola Montefoschi, Album Ungaretti, Mondadori, I meridiani).
Dicevamo che è soprattutto nella raccolta Sentimento del tempo che si trovano le composizioni più permeate
da questi impulsi opposti In molte liriche della sua seconda raccolta Ungaretti registra con precisione uno
stato di malessere: si dibatte, cerca una soluzione, una quiete che non riesce a darsi da solo. Un giorno si è
persa la purezza nella cecità della carne, che porta oblio, che ora domina. Si percepisce un disgusto, un
desiderio di purezza e allo stesso tempo la coscienza di potersi sempre abbandonare ad una voluttuosa
esperienza che promette bellezza. Una bellezza che è effimera e fa soffrire, ma che è terribilmente attraente.
Da molte poesie, infatti, emerge il sentimento di questa sensualità feroce e mai appagata, vissuta e raccontata
durante la notte, quando si acuisce il desiderio che fa smaniare e bramare il poeta.
L’ispirazione poetica della sezione Inni nasce dall’esperienza di qualcosa di roseo e sulfureo allo stesso tempo,
di innocente e corrotto, cui Ungaretti non riesce dir di no. E questa lotta, questa tensione si scatena
soprattutto di notte: “Era una notte urbana,/ rosea e sulfurea era la poca luce/ Dove, come da un muoversi
dell’ombra,/ Pareva salisse la forma./ Era una notte afosa/ Quando improvvise vidi zanne viola/ In un’ascella
che fingeva pace./ Da quella notte nuova ed infelice./ E dal fondo del mio sangue straniato/ Schiavo loro mi
fecero i segreti” (Primo amore).
Nonostante il titolo prometta un sentimento tenero e innocente, possiamo notare come Ungaretti stia
descrivendo il suo primo incontro con l’amore carnale come un’esperienza negativa vissuta in maniera
traumatica. L’avventura amorosa si realizza durante una “notte urbana”.
La scarsa luce permette di individuare una forma che si muove, la forma del corpo di una donna descritto
attraverso immagini crude, quasi violente (“zanne viola”, “ascella”), che generano un senso di angoscia nel
poeta in cerca di pace. Ungaretti, infatti, esce da questa notte “nuova” e “infelice” straziato, nonché schiavo di
quella che sarà la sua più spietata carnefice, la passione amorosa, con i suoi segreti inconfessabili. È molto
importante l’aggettivazione, la notte è definita urbana, ma rosea e sulfurea, afosa, nuova ed infelice, con
un’evidente tendenza all’ossimoro che vuole sottolineare il dualismo presente in questa esperienza.
Nella lirica Giunone (scritta nel 1932 ma anteposta a Primo amore nel Sentimento) Ungaretti ci mette di fronte
in modo crudo all’esperienza sessuale, ricercata con furia: “Tonda quel tanto che mi dà tormento,/ La tua
coscia distacca di sull’altra…/ Dilati la tua furia un’acre notte!” (Giunone).
Il verso conclusivo ci fa percepire ancora una volta l’ambiguità dell’autore. Se da una parte egli chiede il
dilatarsi della notte (come momento nel quale si realizza l’esperienza erotica) dall’altra parte utilizza
l’aggettivo acre che ci fa comprendere come l’esperienza sia non solo esaltante ma anche piena di sofferenza
.La notte racchiude in sé l’opposizione tra il desiderio del soggetto e la paura dello smarrirsi nelle tenebre dei
sensi.
Anche in Canto vediamo Ungaretti approfondire la tematica dell’amore, presentandoci ancora una volta una
situazione ambigua, in precario equilibrio tra la quiete e l’inquietudine, tra la sofferenza e la pacificazione, tra
lo strazio e la serenità: “Rivedo la tua bocca lenta/ (Il mare le va incontro delle notti)/ E la cavalla delle reni/ In
agonia caderti/ Nelle mie braccia che cantavano,/ E riportarti un sonno/ Al colorito e a nuove morti.// E la
crudele solitudine/ Che in sé ciascuno scopre, se ama,/ Ora tomba infinita,/ Da te mi divide per sempre./ Cara,
lontana come in uno specchio...”
Nella prima parte il poeta ricorda momenti piacevoli accanto alla sua donna e ci offre immagini fortemente
evocative, come la cavalla delle reni e le braccia che cantavano, che rimandano ad una forte sensualità. Nella
seconda, invece, Ungaretti richiama un sentimento di angoscia e di disfacimento, di distacco, utilizzando
parole come sonno, agonia, o espressioni come tomba infinita e mare delle notti (significativa, in particolare,
l’assonanza creata tra le parole notti-morti). Il testo parla di una donna ormai lontana, lontana come
un’immagine riflessa nello specchio. Secondo Ungaretti i sentimenti più forti e veri portano inevitabilmente
l’uomo a soffrire e lo costringono a scontrarsi con la crudele solitudine, con la “tomba infinita” che racchiude
un amore che è ormai sepolto e non potrà mai rinascere.
A Canto seguono, nella sezione L’Amore del Sentimento, i quattro versi di 1932: “Quando ogni luce è spenta/ E
non vedo che i miei pensieri,/ Un’Eva mi mette sugli occhi/ La tela dei paradisi perduti.”
In questa poesia Ungaretti ci mette di fronte ad un’apparizione notturna, una sorta di fantasma mentale;
racconta di come di notte compaia davanti a lui, tutto preso dai suoi pensieri, una donna capace di farlo
tornare sereno, di fargli vivere un’esperienza paradisiaca, ma, che è, allo stesso tempo, un’Eva, nome che
rimanda al peccato originale. L’immagine sembra essere figlia della brama che lo tormenta. I paradisi che
questa femmina promette e dona (significativamente scritti al plurale e con la lettera minuscola) sono,
ambiguamente, perduti. La tela sugli occhi può essere il simbolo di un rapimento sensuale che produce
offuscamento.
Quest’Eva sembra poi corrispondere alla “luna magica” di Preludio, lenta e allusiva di Quale grido e ricorda
anche la “luna impudica” di Notte di Marzo che produce sogno, desiderio e sofferenza.
Concludiamo questa breve rassegna sull’ambiguità della notte con i versi di Canto sesto, lirica tratta dalla
sezione La Morte meditata: “O bella preda/ Voce notturna,/ Le tue movenze/ Fomentano la febbre./ Solo tu,
memoria demente,/ La libertà potevi catturare./ Sulla tua carne inafferrabile/ E vacillante dentro specchi
torbidi,/ Quali delitti, sogno,/ Non m’insegnasti a consumare?/ Con voi, fantasmi, non ho mai ritegno,/ E dei
vostri rimorsi ho pieno il cuore/ Quando fa giorno.”
Ancora una volta, di notte, la voce di una donna, il suo aggraziato modo di muoversi tormentano Ungaretti. E’
un’esperienza reale o solo un sogno? E’ realtà o fantasma che vive dentro specchi torbidi? Ancora una volta la
notte, coi suoi fantasmi, è il momento del vacillare, del perdersi, della mancanza di ritegno. Quando finisce la
notte, il cuore del poeta si ritrova ingolfato di rimorsi. Perché la “felice colpa” (si vedano gli ultimi versi di
Danni con fantasia) è l’esperienza di un qualcosa che Ungaretti vuole e non vuole, che fa male e fa bene, di un
qualcosa che dovrebbe finire, prima o poi, ma da cui forse non si riesce ad uscire.
La notte è qui il tempo di un combattimento tra due persone diverse. Bene ha letto Pier Paolo Pasolini, che
sosteneva che per Ungaretti “il male non risiede nelle tentazioni, nelle vanità, nella tracotanza, nelle brame,
che sono attribuzioni della natura umana, quanto semplicemente nel non saperle vincere […]. Pertanto il
poeta chiede insistentemente a Dio di guarirlo di un male di cui egli stesso non vuole guarire […]. C’è sempre
in lui […] una nostalgia per la colpa” (Pier Paolo Pasolini, “Un poeta e Dio”, in Passione e Ideologia, Garzanti).
Da qui la profonda ambiguità che ci è parso di trovare in alcune notti di Ungaretti.
Astrali nidi d’illusione
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, Ungaretti spesso si abbandona alle creazioni della mente, fonte
di ogni illusione. In Danni con fantasia, poesia che apre la sezione Inni di Sentimento del Tempo, il poeta tende
a farsi varie domande alle quali risponde dicendo la vostra, lo so, non è vera luce, proprio perché la mente
illude e tutto ciò che sembra alla fine non è. Secondo Ungaretti l’illusione non finisce mai, e qualora finisse,
subito ricomincerebbe, legando il poeta non deluso ad altra pena; quello che emerge da questo testo è
l’insistenza con la quale l’illusione si avvinghia all’uomo provocando in questo gelose arsure, titubanze, e
strazi, risa. Tutto questo accade e trova spazio nella notte. La notte come momento dell’ illusione in Ungaretti
ricorre frequentemente nella raccolta Sentimento del tempo; per il poeta la notte è infatti l’unico momento in
cui un uomo può illudere se stesso e può davvero perdersi fra le sue idee, pensieri, sogni, dato che la mattina,
e quindi il risveglio, rappresenta la cruda consapevolezza della realtà, una realtà che ferisce e addolora l’animo
umano, visto che nella maggior parte dei casi delude le aspettative.
Prendiamo in considerazione una lirica del Sentimento di ambientazione notturna, come Canto quinto, che ci
immette subito in una realtà illusoria: “Nasce una notte/ Piena di finte buche/ Di suoni morti/ Come di
sugheri/ Di reti calate nell’acqua.”
Siamo di nuovo dentro la magica illusione creata dalla notte, che intrappola e inganna la mente e il cuore (le
trappole sono le finte buche, i suoni morti, le reti calate nell’acqua). La notte di cui parla Ungaretti in questa
poesia è quella dell’equivoco della luna, della scarsa chiarezza delle cose, delle lontananze “inafferrabili come
le idee”. Anche la figura femminile che compare nei versi conclusivi (“sei la donna che passa/come una foglia/
e lasci agli alberi un fuoco d’autunno”) e che viene paragonata ad una foglia, dà la strana sensazione di
un’illusione che anche con la sua leggerezza lascia agli alberi (simbolo che nella poesia di Ungaretti sembra
essere sempre collegato alla persona stessa del poeta) un fuoco d’autunno; il rapporto analogico fogliaautunno rafforza l’impressione di qualcosa che vola via, che se ne va, scompare, come un sogno.
Una delle liriche più celebri del Sentimento, Stelle, si inserisce alla perfezione nel nostro percorso:” Tornano in
alto ad ardere le favole./ Cadranno colle foglie al primo vento./ Ma venga un altro soffio,/ Ritornerà
scintillamento nuovo.”
In questa poesia Ungaretti mette in scena il conflitto che c’è tra illusione e realtà certa, giocando con due verbi
opposti tra loro, tornare in alto e cadere; è evidente il contrasto tra il movimento ascendente e quello
discendente, lo stupore e la meraviglia delle favole-stelle in opposizione alle foglie (di nuovo questa parola
simbolo!) che cadono al suolo al primo vento. Dunque la luce che brilla nella notte non dura, la dimensione dei
sogni è destinata a crollare al mattino, quando la notte è ormai passata e si devono fare i conti con ciò che è la
realtà. D’altro canto questa è anche la poesia dell’illusione sempre risorgente, e quella congiunzione presente
al penultimo verso potrebbe essere definita il Ma dell’illusione, perché quest’ultima torna sempre; anche
quando si crede che sia finita, eccola che ricomincia, staccando l’uomo da una pena, provocata dall’inevitabile
delusione, e legandolo subito ad un’altra (si veda la già citata Danni con fantasia).
Abbiamo lasciato per ultime, chiaramente non per importanza, le due poesie che aprono e chiudono la
raccolta del Sentimento, dando a questa una struttura circolare: O notte e Silenzio stellato. Ancora la notte,
ancora le stelle:
“Dall’ampia ansia dell’alba/ Svelata alberatura.// Dolorosi risvegli.// Foglie, sorelle foglie,/ Vi ascolto nel
lamento.// Autunni,/ Moribonde dolcezze.// O gioventù,/ Passata è appena l’ora del distacco.// Cieli alti della
gioventù,/ Libero slancio.// E già sono deserto.// Perso in questa curva malinconia.// Ma la notte sperde le
lontananze.// Oceanici silenzi,/ Astrali nidi d’illusione,// O notte.” ( O notte)
“E gli alberi e la notte/ Non si muovono più/ Se non da nidi.” (Silenzio stellato)
Come si può notare, in entrambe le poesie vengono ripetute le stesse parole (nidi, notte) e inoltre c’è di nuovo
un riferimento agli alberi. La prima lirica è per gran parte incentrata sulla coscienza dell’avvenuto distacco dalla
gioventù, provocata dal risveglio dell’alba. Il poeta è incamminato verso il deserto con un sentimento di
malinconia. Ed ecco di nuovo, improvvisamente, il Ma dell’illusione che introduce uno spettacolo notturno
fatto di oceanici silenzi e astrali nidi d’illusione. La notte con i suoi sogni e con le sue creazioni “sperde le
lontananze” e quindi riporta in vita, almeno nello spazio di immaginazione, ciò che si era sentito come passato
e morto.
Nella seconda lirica invece il silenzio e l’assenza di movimento danno l’idea della quiete, della calma, della
pace. Gli alberi vengono rappresentati in perfetta immobilità e la notte è quasi “un momento di silenzio,
apocalittico, della fine di tutto, della fine reale di tutto, è il nulla” come lo stesso Ungaretti rappresentava
quell’ora del Tramonto della Luna di Leopardi nella quale non c’è più nessuna luce. Ma ecco che l’illusione
risorge (“se non da nidi”): la parola nidi infatti ci ricorda quegli “astrali nidi d’illusione” di O notte che
rimettono in movimento il cuore del poeta.
Dunque non siamo più nel momento del nulla leopardiano ma in “un semplice momento di interruzione e di
attesa” (da “Note” in Vita d’uomo, pag. 610). Si attende il sogno di una nuova illusione, anche a costo d’essere
legato “non deluso ad altra pena” (Danni con fantasia, Sentimento del tempo).
“Solo amica ho la notte”
Una caratteristica della notte di Ungaretti è che non è mai totalmente buia, c’è sempre una luce che o è attesa
(come dicevamo poco fa) o è direttamente contemplata. In questo secondo caso è soprattutto la luce delle
stelle. Già in una delle sue prime liriche, Notte di Maggio, Ungaretti si dimostra molto sensibile allo spettacolo
di bellezza offerto da una notte stellata : “Il cielo pone in capo/ ai minareti/ ghirlande di lumini.”
Con questa poesia l’autore ci dà un’idea di preziosità, quasi un sapore di favola orientale (soprattutto grazie
all’accenno ai minareti). Da sottolineare l’analogia fra le stelle e le ghirlande di lumini; l’immagine è leggera,
piena di grazia: le stelle formano come una corona con la quale il cielo riveste la terra. Si percepisce qui il
poeta in contemplazione, che fissa in pochi versi il prodigio di un cielo notturno illuminato.
Già molto avanti negli anni, commentando la Canzone che apre La Terra Promessa, Ungaretti parlava di una
natura che si trasfigura “in motivo di riflessione metafisica sulle condizioni dell’uomo nell’universo, sulle sue
profonde aspirazioni, sulla sua sostanza di essere universale”. Lo spettacolo naturale offerto dalla notte è
sempre stato per Ungaretti da stimolo a tali riflessioni ed è così che la notte diventa bella e amica.
Cominciamo con il prendere in considerazione una lirica come La notte bella. C’è in questa poesia il senso di
un prodigio che provoca stupore di fronte allo spettacolo della notte. Questa sensazione è particolarmente
percepibile nelle prime due strofe ed è data dall’allitterazione anaforica dell’aggettivo quale: “Quale canto s’è
levato stanotte/ che intesse/ di cristallina eco del cuore/ le stelle/ Quale festa sorgiva/ di cuore a nozze.”
L’ambiguità del testo ungarettiano, data dalla mancanza della punteggiatura, non ci consente di capire se
quale è un aggettivo interrogativo o esclamativo, ma in ogni caso è evidente che lo spettacolo della notte
provoca un volo del cuore con parole significative come canto, cristallina eco, festa sorgiva, cuore a nozze.
Nella seconda parte della lirica capiamo ancora di più perché la notte è bella: per la presenza delle stelle che
immettono il poeta in un respiro universale (“Ora sono ubriaco/ d’universo”). Il poeta fa anche un’esperienza
di liberazione e di rigenerazione, esce dallo stagno di buio e torna come un bambino a godere dell’universo.
Quest’ultima sensazione è data con l’immagine molto significativa del mordere la mammella, tanto più
significativa se si suppone il riferimento ai versi del canto XXXIII del Paradiso, nei quali Dante nell’imminenza
della visione di Dio si paragona a “un fante che bagni ancor la lingua a la mammella”. Il verbo utilizzato da
Ungaretti (mordere) ci dà proprio l’idea di questa appropriazione dell’universo che il poeta sembra realizzare
in una notte stellata.
In un altro testo dell’Allegria, Sereno, troviamo ancora lo spettacolo notturno offerto dalle stelle e la
sensazione di essere parte di un tutto che avvolge . Questa lirica venne scritta nel Bosco di Courton nel luglio
del 1918 a pochi mesi dalla fine della guerra: “Dopo tanta/ Nebbia/ a una/ a una/ si svelano/ le stelle//
Respiro/ il fresco/ che mi lascia/ il colore del cielo// Mi riconosco/ immagine/ passeggera// Presa in un giro/
immortale.”
Il poeta comunica l’esigenza di scomparire nell’immensità dell’universo dove si “svelano le stelle” e di sentirsi
integrato in esso come un qualsiasi altro elemento naturale. Dopo un periodo di confusione e di buio totale
riesce finalmente ad intravedere una sorta di possibilità, di prodigio, e vuole farcelo capire tramite la bellezza
delle stelle. In questa poesia riscopre la luce delle stelle e respira aria fresca, e queste due immagini sembrano
quasi la rappresentazione di una rinascita. Di nuovo una notte stellata, uno spettacolo di pura bellezza; tutto
contribuisce a dare alle parole un valore quasi magico e genera nel lettore un’impressione di sorpresa, di
novità, di serenità e, insomma, di uno stato d’animo limpido. Sono tutte sensazioni che si intrecciano tra loro
con armonia e ci fanno intravedere l’uomo di pena Ungaretti che riesce ad arrivare in un luogo sicuro,
“immortale” dopo il “naufragio”. Dopo tanta pena il poeta riesce finalmente a trovare la felicità, una forma di
pura armonia, che passa attraverso il riconoscersi “immagine passeggera presa in un giro immortale”.
Una lirica delle Nuove ritrovate ci comunica la stessa profonda esperienza e ci permette di cogliere meglio
l’animo del poeta: “Io vorrei con le mie mani fare un festone di stelle/ e legarlo con le mie vene// Io vorrei
strappare una stoffa a questa notte bella/ e distenderci sopra la mia creatura.” (Notte)
Le “ghirlande di lumini” sono qui diventate un “festone di stelle”. Ungaretti lavora con le stesse immagini che
evidentemente gli sono care. Lo conferma la ripetizione del sintagma “notte bella” che, come abbiamo visto,
era il titolo di una lirica precedente. L’anafora che apre il primo e il terzo verso (“Io vorrei”) mette l’accento sul
desiderio di una totale immersione nella notte stellata (con l’immagine delle stelle che entrano nelle vene
tanto da diventare parte di sé), nell’infinito. Qui davvero le stelle (sidera) sono l’origine etimologica della
parola desiderio.
Ma dobbiamo fare un passo ulteriore. La notte in Ungaretti è anche amica, in quanto non mette in
movimento solo il desiderio, ma anche la speranza. Siamo nell’ultimo tempo della poesia di Ungaretti, quello
della Terra Promessa. La lirica ha un titolo molto significativo, Segreto del poeta. Ne riportiamo l’incipit: “Solo
ho amica la notte/ Sempre potrò trascorrere con essa/ D'attimo in attimo, non ore vane.”
La notte è amica perché non è un tempo inutile, ma è il momento in cui il palpito (cioè il battito del cuore, il
desiderio) può dispiegarsi. Come un prodigio nasce la speranza immutabile (quindi che non cambia, non viene
mai meno, non muore mai). Torna il fuoco e torna la luce. Mentre intorno è silenzio.
Possiamo capire ancor meglio Ungaretti se andiamo ad analizzare una lirica che è stata edita post mortem ed
è nella sezione Nuove ritrovate e che ha un titolo importante, Poesia. Il poeta dopo aver rappresentato la
propria desolazione e il proprio “Grido/ ingorgato/ nel silenzio/ grido/ di muto”, improvvisamente, come è
tipico di molte sue liriche, inserisce una nota di speranza, potremmo dire che “subito riprende il viaggio”: “Di
notte/ si spera/ vagamente/ a laggiù/ come un piccolo bambino/ vedendo/ da qualche tana/ spuntare/
qualche lumino/ isolato/ nel fondo/ silenzio.”
Di notte/si spera dice la stessa cosa del Segreto: il poeta si paragona a un piccolo bambino (torna il bambino
che morde la mammella) che vede spuntare un lumino nel silenzio più profondo. Ecco che allora riappare nella
notte la luce (anche se piccola) che spunta come le stelle nella nebbia di Sereno. La notte è bella e amica non
solo perché trasmette un senso di bellezza e di infinito, ma perché contiene una luce che dà speranza al poeta
dal cuore bambino.
“Vedo ora nella notte triste”
Arriviamo così all’ultimo aspetto della notte, quello legato alla consapevolezza raggiunta dal poeta in
particolari momenti della sua vita. L’ora notturna, anche se tragica e drammatica, diventa l’ora privilegiata che
consente di capire, di vedere in modo più chiaro nella propria esperienza di uomo.
La prima fase di consapevolezza la troviamo nella poesia I fiumi: “Mi tengo a quest’ albero mutilato/
abbandonato in questa dolina/ che ha il languore/ di un circo/ prima o dopo lo spettacolo/ e guardo/ il
passaggio quieto/ delle nuvole sulla luna”. La pace e il silenzio delle nuvole sulla luna segnano il viaggio a
ritroso di Ungaretti, egli infatti ricorda il suo passato con nostalgia. Si rende conto di essere solo una docile
fibra dell’universo che desidera armonia.
In questa poesia si nota che la notte non è completamente oscurata dalle tenebre, poiché compare la luce
della luna che crea un effetto ossimorico di chiaroscuro, effetto ribadito dall’ossimoro finale: Ora ch’è notte/
che la mia vita mi pare/ una corolla/ di tenebre.
Circa trent’anni dopo Ungaretti, vivendo quella stagione tragica dalla quale nasce la sublime poesia del Dolore,
fissa un secondo importante momento di consapevolezza con la celebre lirica Mio fiume anche tu. Anche qui
l’ambientazione è notturna e il confronto tra luce e tenebre è rilevante. La notte, dopo un primo momento di
angoscia, in cui il poeta si immerge totalmente nel dramma dell’umanità, diventa occasione di una superiore
capacità di vedere e di comprendere. Ungaretti giunge alla consapevolezza che l’uomo, di fronte alla realtà in
cui vive, non è solo, ma è accompagnato da Colui che gli è sempre stato vicino e che ha sofferto per salvarlo. Il
poeta riscopre la presenza di un Dio buono, pietoso, “fratello”, accomunato nella sofferenza: Cristo.
Il Tevere, “fiume fatale”, evocato con dolente amore, è come un testimone diretto che piange quando vede
cadere sotto la follia dell’uomo i monumenti e le strade, le tradizioni e la storia in un tormento di assurda
violenza. Gli esseri umani, paragonati a degli agnelli, indifesi e sacrificati, chiedono aiuto con un gemito, e un
rantolo quasi invisibile esce dalle loro labbra, come se dovessero essere giustiziati, come se cercassero una
salvezza, invano. Il gemito è espressionisticamente smarrito per le strade esterrefatte; l’uomo cerca un riparo,
cerca su appiglio, ma trova solo sgomento e desolazione. La sofferenza investe la città, non risparmia niente
(singhiozzi infiniti, a lungo rantoli/ agghiacciano le case tane incerte).
La notte, con la quale il poeta si è immedesimato, esprime tutto il dramma. Essa scorre turbata e infine,
attraverso un climax crescente, diventa prima straziata e poi sconvolta. Tutto sparisce di schianto, tutte le
speranze si fanno vane e incerte.
Il paesaggio notturno, personificato, riproduce le sensazioni del poeta, sempre più intense e disperate. Il
culmine dello sgomento è quando il tormento “si sfrena tra i fratelli in ira a morte” e le sue “blasfeme labbra”
lo portano a bestemmiare contro Cristo domandandogli il perché di un’esistenza così atroce, sempre in bilico
tra la vita e la morte. Cristo, pensoso palpito, con il pensiero rivolto sempre verso l’uomo e il cuore palpitante
di amore per lui, perché ti sei allontanato dall’uomo, perché l’hai trascurato, perché lo hai creato per poi farlo
soffrire?
La notte, nella prima parte della poesia accompagna il poeta nel dolore, ricorda la morte e la sofferenza e
sembra far crescere una sorta di risentimento verso un Dio che non si cura dell’ uomo. Nella seconda parte
della poesia la tensione cresce ancor di più sostenuta dall’anafora ora che….. Ora la protesta umana si fa più
intensa e diventa un grido di fronte a tanta brutalità, che si spinge fino a lacerare nell’uomo la stessa
immagine divina; ora che l’innocenza geme nel cuore più indurito e reclama un’eco, una voce amica; ora che
tutti gli altri gridi sono vani, ora Ungaretti comprende che il problema non è Dio, ma l’uomo e la sua libertà
malata.
Solo nel momento della disperazione più totale si arriva a capire la verità. Solo quando sembra tutto finito,
compare la scintilla di rinascita, di consapevolezza. Ungaretti, dopo aver sperimentato il dolore interiore, inizia
a prendere coscienza della verità. La notte ora diventa triste, perché il poeta si rende conto di aver sbagliato,
di essersi allontanato da Dio come tutti gli altri suoi simili. E’ però una tristezza, la sua, che va di pari passo con
una forte presa di coscienza: “Vedo ora nella notte triste, imparo,/ so che l’inferno s’apre sulla terra/ su
misura di quanto/ l’uomo si sottrae, folle,/ alla purezza della Tua passione”.
Il climax Vedo… imparo… so rappresenta la certezza che si consolida e si salda. La notte è il vero momento di
consapevolezza. Ecco che nella notte triste entra come una luce che rischiara le tenebre e provoca una
chiarezza non solo intellettuale, ma anche morale. Il poeta si rende conto che l’inferno si apre sulla terra, che
il dolore aleggia tra gli uomini più essi si allontanano dall’amore eterno e dalla purezza della passione di Cristo.
La ragione giudica che non si può stare lontani da Cristo, perché vede gli effetti di tale allontanamento.
Allontanarsi da Lui è davvero perdere la luce perché Cristo l’astro incarnato nella notte umana, è la luce nelle
tenebre, una luce reale, non più illusoria. Egli si è immolato e continua ad immolarsi per riedificare
umanamente l’uomo. Ed è così che la poesia, da grido, da urlo, da bestemmia, diventa preghiera.
Nella terza parte c’è un’ulteriore consapevolezza, che culmina nello stupendo verso “D’un pianto solo mio non
piango più”: aver ritrovato Cristo sofferente in croce significa aver ritrovato un Dio che condivide in tutto il
dramma di ogni essere umano. La solitudine è definitivamente sconfitta, Ungaretti è arrivato alla certezza di
non essere più solo nel mondo. Il suo grido non è più rivolto ad un cielo lontano e indifferente, a una luna
“pensosa” ma distante, come quella del pastore errante di Leopardi. Qui Dio stesso è “pensoso” e soffre con
l’uomo, si mischia ai suoi dolori, si rende partecipe, come un fratello che sa e condivide tutto.
Cristo si è incarnato umanamente per riedificare l’uomo, ma Ungaretti ci dice che: soltanto la poesia, la poesia
sola può recuperare l’uomo. Compare una contraddizione: Cristo o religione per l’uomo? Secondo Ungaretti
la poesia deve essere preghiera. In effetti in Mio fiume anche tu le ripetizioni di ora oppure santo, sembrano
quasi voler scandire le ripetizioni di una preghiera. La poesia diventa un’ invocazione. La poesia deve essere
preghiera. Ungaretti lo esprime con forza in “Ragioni d’una poesia” (in Vita d’un uomo, pag. 18): “Oggi il poeta
sa e risolutamente afferma che la poesia è testimonianza d’Iddio, anche quando è una bestemmia”. Il poeta è
giunto a questa consapevolezza in seguito ad un’evoluzione: “Il sentimento dell’Allegria, che l’atto poetico è,
qualunque ne sia il prezzo, atto di liberazione […] era ritornato vivo e chiaro in me, con la conferma in me che
non si ha nozione di libertà se non per l’atto poetico che ci dà nozione di Dio” (“Ragioni d’una poesia”, pag.
33).
Per concludere, torniamo alla notte. La terza fase di consapevolezza nella vita di Ungaretti, quella finale,
compare nel ventisettesimo ed ultimo degli Ultimi cori per la Terra Promessa: “L’amore più non è quella
tempesta/ che nel notturno abbaglio/ ancora mi avvinceva poco fa/ tra l’insonnia e le smanie.// Balugina da
un faro/ verso cui va tranquillo/ il vecchio capitano”. Ungaretti è arrivato al culmine della consapevolezza. Se
prima l’amore era tempesta, smania e insonnia, ora chiama da lontano e il poeta gli sta andando incontro. Ora
la navigazione si è fatta tranquilla, anche nella notte, perchè in lontananza splende un giorno nuovo.
La notte è stata importante. C’è ancora, ma l’attenzione si sposta sulla luce che viene dal futuro. Ungaretti era
già arrivato a questo, quando aveva scritto Preghiera. Il futuro implica un “destarsi”, quindi un lasciarsi alle
spalle la notte. Destarsi, rialzarsi, ma stavolta non per “riprendere il viaggio”, quanto per giungere,
definitivamente, nella “limpida e attonita sfera” di quel “paese innocente” sempre cercato. La notte, con le
sue illusioni, i suoi miraggi, le sue brame e le sue smanie, le sue tempeste, è stata quasi un cammino di
purificazione e di preparazione. Una notte impudica e bella, magica e amica…
I nostri naufragi notturni, ci ha detto Ungaretti, sono un nulla rispetto ai grandi segreti dell’aurora eterna.
Bibliografia
Giuseppe Ungaretti, Vita d’un uomo – tutte le poesie, Oscar Mondadori
In particolare, per le poesie: L’Allegria, Il Sentimento del Tempo, Il Dolore, La Terra Promessa, Ultimi cori per la
Terra Promessa (Il taccuino del vecchio), Poesie disperse, Altre poesie ritrovate, Nuove ritrovate; per i saggi: L.
Piccioni, “Una perpetua poesia maggiore”; G. Ungaretti, “Ragioni d’una poesia”; “Note”, a cura dell’Autore e
di Ariodante Marianni).
Paola Montefoschi, Album Ungaretti, Mondadori, I meridiani.
Pier Paolo Pasolini, “Un poeta e Dio”, in Passione e Ideologia, Garzanti.
Siti consultati
http://videotecapasolini.blogspot.it/2014/08/pasolini-e-ungaretti-un-poeta-e-dio.html
https://www.youtube.com/watch?v=weZWrK2zG3Y
https://www.youtube.com/watch?v=vwGB4YE8JS8
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