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Pietro Citati, La luce della notte - I grandi miti nella storia

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Pietro Citati, La luce della notte - I grandi miti nella storia
Pietro Citati
LA LUCE
DELLA NOTTE
Dello stesso autore
Nella collezione I saggi di letteratura
Il
tè
del
Manzoni
cappellaio
matto
Nella collezione Varia di letteratura
Cinque teste tagliate
Nella collezione Scrittori italiani
La colomba pugnalata
Nella collezione Gli Oscar saggi
Alessandro
ISBN 88-04-41475-8
© 1996 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A, Milano
l edizione settembre 1996
INDICE
Parte prima. I re di Micene
Gli Sciti
11
I re di Micene
24
Apollo, Ermes, la poesia
30
Ulisse e il romanzo
39
Amore filosofo
45
Saturno e la melanconia
57
II sogno di Nerone
65
Plutarco e il mito
74
La luce della notte (I)
80
Parte seconda. Da san Paolo al Paradiso
Un pagano legge san Paolo
97
Il libro bianco e scarlatto
107
L'abisso e il silenzio
118
Il canto della perla
127
Le Confessioni di
Il Paradiso
sant'Agostino
132
143
Parte terza. I giochi del Tao
I giochi del Tao
159
La politica assoluta
167
La Cina e il cristianesimo
172
La città dell'imperatore
177
II sogno della catnera rossa
187
Parte quarta. In Islam
Allah, il misericordioso
201
La Bibbia vista dall'Islam
207
Le mille e una notte
217
Il verbo degli uccelli
228
Due libri di NezàmI
236
Lo specchio dei colori e dei profumi
245
Parte quinta. La morte degli dèi
La caduta di Messico
257
La morte degli dèi
277
Ritratto di Montaigne
304
La musa del passato
318
Le favole di Basile
322
La malinconia delle fate
332
Il salotto delle fate
337
L'esilio della Schechinà
341
Il Messia che tradì
350
La luce della notte (II)
364
L'infinito secondo Leopardi
382
Epilogo
La fine del mondo
393
LA LUCE DELLA NOTTE
GLI SCITI
Quando i viaggiatori del diciassettesimo e diciottesimo secolo attraversavano in primavera l'immensa steppa che
dall'Ucraina conduceva fino alla Siberia, scorgevano presso
la strada dei tumuli, ora solitari ora a gruppi, ora piccoli ora
alti più di venti metri. Il viaggio si arrestava: per qualche minuto o qualche ora. Intorno si estendeva un tappeto di fiori:
tulipani selvaggi, iris gialli e violetti, papaveri, ranuncoli, giacinti color porpora, annegati in un'erba bianca e piumosa
come un mare d'argento; mentre, in fondo, nell'aria trasparente e celeste, passavano le figure veloci dei cervi, dei lupi
grigi e azzurri, delle aquile e delle otarde. I viaggiatori non
sapevano che in quei tumuli giacevano i corpi dei principi
sciti, di cui avevano appassionatamente letto in Erodoto i costumi e le imprese.
Quale fu la sorpresa quando i primi esploratori varcarono
le porte dei grandi tumuli! Là in fondo, in camere funerarie
spesso costruite con enormi blocchi di pietra e foderate di
feltro, giacevano gli Sciti di cui avevano tanto fantasticato sui
libri. C'erano i principi, le spose, i cuochi, i palafrenieri, i servi, i messaggeri: dieci o dodici cavalli, coi musi coperti da
maschere: vasi d'oro, orecchini e anelli d'oro, braccialetti
d'oro e di perle, cinture decorate con placche d'oro, anfore,
collane di bronzo, turcassi pieni di punte di frecce, specchi
11
di bronzo, spade, tappeti persiani, coppe greche, sete cinesi,
carri da guerra, pellicce; e i giocattoli dei bambini. Qualcuno
aveva distribuito sul fondo mucchi di terra nera, umida e nutriente, trasportata da lontano: perché ogni tomba era un
simbolico pascolo celeste, dove il morto conduceva le sue
greggi, insieme ai cavalli e alle persone che amava. Quale fu
la sorpresa, soprattutto, quando un esploratore trovò una
tomba piena di ghiaccio! Per qualche minuto egli fissò i principi e i cavalli come erano stati in vita, custoditi dal ghiaccio:
tutto sembrava vivo, immobile, fissato per sempre: i tappeti
persiani, le sete cinesi, i cigni di feltro erano miracolosamente conservati; poi il ghiaccio si sciolse, le cose si dissolsero, e
quel breve sogno di immortalità scomparve.
Non sappiamo con precisione da dove discendesse quel
popolo dormiente nel ghiaccio. Certo avevano abitato nella
grande steppa euroasiatica, forse presso il Caspio, o le montagne dell'Aitai. Erano di stirpe iranica, e parlavano una lingua iranica. Dopo il mille avanti Cristo, seguendo i loro fratelli persiani, si spostarono verso Occidente e verso Sud.
Abbandonarono per sempre il paese dei terribili inverni, dove per otto mesi dell'anno il mare gela, il freddo fa congelare
la saliva in bocca e le lacrime nell'occhio, l'acqua appena versata al suolo diventa ghiaccio, e l'orizzonte è nascosto da
una nube incessante, che vortica nell'aria come una tempesta di piume. Erodoto parla di una migrazione in massa, sulle
tracce dei Cimmerii in fuga. Più probabilmente scendevano a
gruppi, infiltrandosi lentamente attraverso le montagne del
Caucaso, se già nell'ottavo o nel n o n o secolo le tombe
dell'Asia Minore e dell'Iran nord-occidentale rivelano gli animali accovacciati, le teste di cervo, i denti di cinghiale, - il segno del loro passaggio nella storia.
Nel settimo secolo, avvenne la grande migrazione. I guerrieri sciti montavano cavalli dal petto largo e dalle gambe resistentissime, capaci di sopportare ogni disagio: «cavalli più leggeri della pantera, più feroci dei lupi della sera», come dice il
profeta Abacuc. Per loro, erano tutto: arma da guerra, strumento di viaggio e di vagabondaggio, nutrimento, simbolo fu12
nerario, cavalcatura celeste. Ne bevevano il latte, e dal latte
traevano il kumys. Li bardavano con decorazioni di feltro e di
corteccia di betulla intagliata: ne abbellivano la fronte con
placche, incise di forme animali: appendevano alle briglie gli
scalpi umani: ornavano i pettorali con disegni di cervi e di uccelli; e infilavano sui loro musi maschere di uccelli e di draghi,
che avrebbero dovuto assicurare ai cavalli la velocità delle
creature dell'aria. Dietro i guerrieri, giungevano le città ambulanti. Centinaia di carri imbottiti di feltro venivano trainati
da due o tre coppie di buoi; e là sopra stavano le donne, con i
figli, le armi e i tesori della famiglia. A tratti il viaggio sostava.
Le truppe cimmerie, o urartee, o assire, o mède cercavano di
arrestare l'invasione. Allora i cavalieri sciti impugnavano gli
archi: quegli strani archi dalla doppia curvatura; e le loro mani
esperte e rapidissime davano alla freccia una forza tremenda,
che terrorizzava i guerrieri del Sud.
Niente li arrestò. Discesero fino in Siria, saccheggiando il
santuario di Astarte ad Ascalona: in Giudea e in Egitto, dove
li fermò soltanto il faraone Psammetico, con donativi. Le testimonianze dei contemporanei rivelano un terrore simile a
quello che diciotto secoli dopo risvegliarono i Mongoli. «Ecco s'avanzano ondate del Nord» dice Geremia. «Diventano
un torrente che straripa, inondano la terra e ciò che essa
contiene, le città e i loro abitanti. Gridano gli uomini, urlano
tutti gli abitanti della terra, allo scalpitante rumore degli zoccoli dei destrieri, al fragore dei carri, al fracasso delle ruote.»
Intanto, con quella flessibile accortezza e diplomazia, che accompagnò spesso la violenza dei nomadi, gli Sciti presero
parte alle mutevoli alleanze e guerre del Medio Oriente. Aggredirono gli Assiri: poi si allearono con loro, che forse diedero una principessa assira in moglie al principe degli Sciti.
Quando Ninive venne assediata dai Mèdi, li sconfissero; e,
per «ventotto anni», dominarono la Media, dove «tutto», dice
Erodoto, «venne distrutto per la loro prepotenza e incuria».
Poi furono, a loro volta, sconfitti dai Mèdi alleatisi coi Babilonesi. Allora i guerrieri col berretto a punta e i cavalli, «più
leggeri delle pantere, più feroci dei lupi della sera», e i carri
13
di feltro con le donne e gli ori razziati ripassarono il Caucaso,
e tornarono nel Nord, presso il Caspio o nella Russia meridionale. Qualche principe scita rimase nella Media, a sud del
lago di Urmya.
In quei secoli trascorsi nel Medio Oriente, nel grembo di
tutte le civiltà antiche, gli Sciti appresero qualcosa che non
dimenticarono più. Quando arrivarono nel Sud, la loro arte
conosceva soltanto materie povere o modeste, come l'osso,
il corno e il legno. Ora vennero folgorati da un sogno di potenza, di ricchezza e di splendore: quella sovranità imperiale
e teocratica li irradiò; e cominciarono a venerare l'oro, in cui
videro il simbolo del potere e dell'arte. Le loro tombe in Medio Oriente lasciano vedere una combinazione singolarissima di arte assira, urartea, babilonese, mèda, protoiranica e
scitica. Non sappiamo di chi fosse la mano che plasmò i metalli preziosi: se un artigiano scita, che imparò a usare l'oro e
le superbe immagini orientali; o più probabilmente un artigiano assiro o urarteo, che si piegò ai gusti dei nuovi padroni. A noi basta contemplare gli stambecchi assiro-babilonesi
attorno all'Albero della Vita: le teste di gazzella, con gli occhi
incrostati di avorio, e le corna a forma di lira: le protomi di
grifone e di leone: la caccia col carro; i tori androcefali con i
Genii protettori dell'Oriente. Lì accanto ecco l'ardore e il
profumo della Scizia: le linci affrontate o coricate, gli uccelli
rapaci, i cervi accucciati; come se l'Oriente e la Siberia, i palazzi e i carri, due mondi completamente opposti, si fondessero in una immagine radiosa.
Quando raggiunsero la Russia meridionale, l'oro diventò il
simbolo centrale della religione e dell'arte degli Sciti. Tutto
tendeva a quell'oro, si concentrava nell'oro e si irradiava
dall'oro. Secondo una leggenda raccolta da Erodoto, un dio
- forse la dea Tahiti, la dea «riscaldante» del fuoco e del focolare regale - lasciò cadere dal cielo tre oggetti d'oro incandescente: un aratro col giogo, una scure da guerra e una coppa, segni delle tre funzioni sociali. Come nelle favole, i tre
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figli del primo uomo cercarono di raccoglierli: i due primi
fratelli furono respinti dalla violenza del fuoco; solo quando
giunse il fratello minore, il fuoco si placò, e il giovane potè
portare a casa gli oggetti. Raccogliendo l'aratro, la coppa e la
scure, egli diventò il re-sacerdote della Scizia: i suoi eredi custodirono il tesoro sacro; e nel corso dei secoli, l'oro, venerato e pregato e supplicato come un dio, diventò il legame
degli Sciti col cielo, la fondazione della società e la materia
privilegiata dell'arte. Esso discendeva dal cielo. Ma stava anche molto lontano, nell'estremo Settentrione, dove i Grifoni
alati lo custodivano. Forse stava cosi lontano che nessun essere umano, tranne gli sciamani nella loro trance, poteva
raggiungerlo: nell'aldilà mitico, sulla montagna dove vive il
Padre del Cielo.
Ora quegli oggetti d'oro, che gli artigiani sciti foggiarono
instancabilmente, stanno racchiusi nell'Ermitage, a Pietroburgo, insieme agli oggetti siberiani. Quasi tre secoli fa, Pietro il Grande cominciò la collezione; e, nel corso di questi
anni, molti tumuli scavati dagli archeologi russi aggiunsero i
loro tesori a quelli antichi. Alcune fortunate esposizioni, in
Europa e in America, li hanno fatti conoscere al pubblico:
eppure nessuna esposizione può venire nemmeno lontanamente paragonata alla visione dell'Ipogeo nell'Ermitage, gelosamente difeso da custodi-Grifoni, dove splende il genio
animalistico degli Sciti e dei Greco-Sciti. A chi non è stato a
Pietroburgo, consiglio un bellissimo libro di Véronique
Schiltz: Les Scythes e les nomades des steppes. Le riproduzioni sono meravigliose: o p p o r t u n a m e n t e ingranditi, gli ori
non celano nemmeno uno dei loro intrichi, intarsi e scintillìi;
e il testo è il più intelligente che abbia mai letto sull'arte e la
civiltà dei nomadi delle steppe.
In quest'Ipogeo, non troverete palazzi, né statue, né quadri, né affreschi: l'arte nomade ignora le immense regge del
Medio Oriente e i templi greci. Tutto è minimo: non più di
qualche centimetro: il minimo viene esaltato e glorificato;
una immaginazione creatrice, che in altre terre produrrà Donatello o Durer, qui lavora senza fine il pettorale di un caval15
lo, il pettine di una principessa, una spilla, la placca di una
cintura, una borchia sul portaspade, una coppa, la decorazione di un vestito, in modo che tutte le occasioni e i momenti della vita nomade vengono ornati e decorati. Non restano nomi. Non sappiamo chi fossero gli artisti. Non
sappiamo nemmeno se esistesse una classe specializzata di
artigiani: o se, invece, le mani degli infallibili arcieri si adattassero a scolpire nelle ore d'ozio cervi, grifoni e lepri in corsa. Questi oscuri e grandissimi artigiani dimenticarono presto ciò che avevano appreso nel Medio Oriente: la dea degli
animali, i Genii protettori. Scolpivano cervi, perché i cervi
trasportavano le anime dei morti nell'oltretomba: scolpivano il loro totem; e leoni, leonesse, pantere, grifoni, per appropriarsi dei loro poteri sovrumani.
Non troviamo mai, o quasi mai, figure umane: l'uomo non
osa penetrare in questo mondo severo, come non osa dare il
proprio volto agli dèi. Con le teste e i corpi degli animali reali e
fantastici, gli artigiani sciti compongono un alfabeto simbolico, dove il ferino, il barbarico, il chimerico, il misterioso - tutto ciò che è inferiore e superiore all'uomo - si intrecciano in
sempre nuove forme. Ecco, in primo luogo, l'animale in riposo, colle zampe posteriori accosciate. Di colpo, si anima: le
sue membra si distendono e prendono velocità, come quelle
dei cervi inseguiti nella steppa; e talvolta sembra sia in movimento sia in riposo, colto contemporaneamente in due pose
opposte. Siamo appena agli inizi. La fantasia degli artigiani nomadi ama i gruppi, le combinazioni, le folte e inestricabili
composizioni di massa. Gli animali si assalgono ferocemente.
Un uccello rapace aggredisce una capra di montagna: un'aquila affonda i suoi artigli nel corpo di un cervo: una tigre, un
grifone e un lupo assalgono una preda sconosciuta: una tigre
morde un cammello che morde la tigre: una tigre, uno yack e
un grifone si combattono: una pantera alata abbatte uno stambecco: un grifone balza alla gola di un cervo; finché si raggiunge l'estremo della ferocia - un cavallo col muso a becco e la coda di leone è preda di tre aggressori: una tigre che lo morde
alla gola, un lupo che gli morde il fianco, un grifone che lo
16
prende alla criniera - ma la tigre viene assalita dal grifone,
mentre il cavallo strazia con un ultimo colpo di becco il lupo
che lo divora.
Qualche volta non riusciamo a distinguere «queste mescolanze mostruose, questi combattimenti inestricabili, questi
turbini di schiene piegate, di becchi, di artigli e di zanne da
cui sorge - lontano o vicino - un occhio rotondo». Dove finisce la tigre? e dove comincia il grifone? e il cervo? e il lupo?
Ecco che il pesce porta in sé un leone, un cervo, un avvoltoio: o il leone è anche toro, pesce e scorpione, e i quattro
animali tendono insieme l'arco. L'arte scitica cerca di mescolare tutte le forme ferine in una paurosa confusione di membra: in una specie di sovra-animale, dove il predatore e la
preda, il carnefice e la vittima, il gesto di aggredire e quello
di lasciarsi immolare disegnano una figura unica. Chi guarda
ha l'impressione che l'artigiano scitico sia sempre dalla parte
dei predatori: ogni volta che un grifone assale un toro, una
tigre morde un cavallo, un leone divora una capra. Tutto
sembra celebrare la violenza, che assorbe all'infinito le forme del mondo. La Schiltz preferisce riconoscervi una grandiosa filosofia della metamorfosi, dove la morte feconda e riproduce incessantemente la vita.
La violenza, la ferocia e la crudeltà, che agitano questo
mondo di animali reali e fantastici, diventano una furibonda
energia di stile. Il morso, il balzo, l'aggressione, la morte sono un guizzo infuocato e bruciante, che divora qualsiasi materia, persino la più preziosa. L'oro non è più che linea. Il volume arde, come gli oggetti incandescenti caduti dal cielo.
Nessuna arte animalistica, nemmeno quella ionica o protoiranica, possiede questa tensione. Non vi è sosta o indugio
decorativo. Anche i gioielli, le turchesi, i coralli, che guarniscono gli spazi vuoti, come per allontanare ogni quiete, partecipano a questa elegantissima furia barbarica, che distrugge e fa rinascere il mondo.
17
Nel 520 avanti Cristo, Dario di Persia cominciò la costruzione di Persepoli - questa città simbolica, dove non si commerciava né si governava lo stato, né si innalzavano preghiere agli dèi, ma si contemplava un'allegoria dell'impero
persiano. La costruzione di Persepoli commemorava due
eventi: la vittoria del sole sulla luna, la quale cancellava
l'eclissi di sole, che l'anno prima aveva avvolto di tenebre la
Persia; e la vittoria del re sull'usurpatore, che due anni prima
aveva adombrato la regalità iranica. Il 21 giugno, il giorno del
solstizio d'estate, Dario celebrò il proprio trionfo. Alle sei e
dieci, i raggi del sole toccarono il suo palazzo, insinuandosi
nella sala centrale: per sette minuti, tutte le altre parti della
costruzione rimasero avvolte dalle ultime ombre della notte.
Dario era solo, chiuso nel suo palazzo, illuminato dai raggi:
stava seduto sul trono, con in mano il bastone e il fiore di loto, con i piedi appoggiati allo sgabello, come ancora oggi lo
contempliamo scolpito nel calcare. Tutti i signori e gli inviati
dell'impero, raccolti nell'ombra del cortile, contemplavano
da lontano la sua irradiazione, e si inchinavano a lui in silenzio. In quei sette minuti di tempo, in quei minuti fuori dal
tempo, mentre i raggi del sole colpivano in volto il re, - aveva inizio l'Anno Nuovo, e con esso il Tempo.
Gli Sciti avevano abbandonato da un secolo il Medio
Oriente, e nessuno dei loro inviati era presente a quella cerimonia, che fondò il nuovo impero iranico. Ma non credo
che gli orgogliosi nomadi l'avrebbero compresa. Se ogni 21
giugno Dario, fuori dal tempo, dava inizio al tempo, essi abitavano nel tempo, dove si ripete ogni giorno il gioco incessante della morte e della vita. Se Dario credeva in Ahuramazdah - «il grande dio che ha creato le acque e che ha
creato questa terra, e creato gli uomini, e creato Dario» -, il
loro mondo religioso era molteplice, e nessuna figura emergeva così superbamente. Nessun re scita avrebbe mai detto
di sé: «Io, Dario, gran re, re dei re, re dei paesi dell'universo,
di ogni lingua, e di questa contrada vasta e lontana». E sebbene il regno dei nomadi si estendesse su molte parti della
Russia meridionale, non poteva competere con quello di Da18
rio, quando fece incidere nel palazzo di Susa: «Ciò che fu
scavato nella terra e riempito di ghiaia e macinato in mattoni
cotti, l'ha compiuto il popolo di Babilonia: il legno di cedro
fu portato dalla montagna chiamata Lebanon. Il legno di
teak fu portato dal Gandhàra e da Kirmàn. L'oro fu portato
da Sardi e dalla Bactriana. Il lapislazzuli e la corniola furono
portati dalla Chorasmia. L'argento e il rame furono portati
dall'Egitto. L'avorio fu portato dall'Etiopia, dall'India e
dall'Arachosia...». La Persia era l'universo: la Scizia un frammento odoroso e dorato.
Qualche anno dopo, Dario mosse guerra agli Sciti. Erodoto
fornisce una spiegazione epica: il re desiderava vendicarsi di
loro, perché un secolo prima avevano «invaso la Media». Tutto lascia credere che Dario volesse riprendere il programma
di Ciro: raccogliere in un solo impero le popolazioni iraniche,
sia quelle che abitavano il Medio Oriente sia quelle che abitavano ancora la Siberia e la Russia, costringendo i nomadi alla
disciplina della casa, dell'agricoltura, del tempo misurato,
dello spazio regolato e diviso. Quando l'esercito persiano
giunse sul Bosforo, Dario si imbarcò su una nave: fece vela
verso le isole Cianee; di lì, seduto sopra un'altura, ammirò il
Mar Nero. Poi navigò verso il ponte di barche, che il suo esercito aveva costruito sul Bosforo; e innalzò sulle sue rive due
stele in marmo bianco, «facendovi incidere i nomi di tutti i popoli di cui era la guida». Questo era soprattutto il suo compito. Non combattere: forse nemmeno dare ordini e comandare; ma guardare dall'alto tutte le cose col suo occhio radioso
di veggente, che illuminava l'universo. Bastava che egli guardasse, mentre le truppe sfilavano davanti ai suoi piedi; ed ecco, le cose diventavano sue, e il mondo era un solo riflesso di
Dario, re di tutte «le contrade vaste e lontane».
A questa spedizione Erodoto ha dedicato il quarto libro
delle sue Storie; quello che io leggo e rileggo con più passione e piacere, ma che non risponde alla principale delle
nostre curiosità. Persiani e Sciti si incontrarono, lungo il Danubio e nell'Ucraina, e parlarono fra loro, con interpreti o
senza interpreti, visto che avevano lingue affini. Cosa si dis19
sero? Che impressioni ebbero gli uni degli altri? Quale effetto fece il grande re, la sua corte, e le cerimonie solenni sui
cavalieri sciti, che un secolo prima avevano conosciuto corti
non meno superbe? E che cosa compresero i Persiani dei
loro fratelli separati? Molte cose li accomunavano: il culto
del fuoco e del focolare: il culto di Mitra: le estasi sciamaniche: la venerazione per la bevanda inebriante nei riti: i sacrifìci di cavalli: il giuramento sul focolare dei re: nessuna statua degli dèi; e l'amore per le figure degli animali, incise
sulle coppe e gli oggetti. Ma i Persiani sapevano di appartenere a uno spazio completamente diverso da quello degli
Sciti: mentre il loro spazio era regolato e misurato, i nomadi
vivevano in un luogo senza dimensione, senza città né case,
senza punti di riferimento, estraneo, inaccessibile, terribilmente angoscioso.
Quando Dario attraversò il Danubio, la guerra cominciò. Il
re, i suoi dignitari, l'esercito persiano non avevano mai visto
nulla di simile. I cavalieri sciti fecero allontanare i carri, su
cui vivevano le donne e i figli, e il bestiame, che andarono
verso Nord. Bruciarono i pascoli, distrussero i raccolti, riempirono i pozzi di terra. Poi si ritirarono come fantasmi, evitando la battaglia: all'improvviso assalivano i Persiani che si
procuravano cibo, o che riposavano accanto ai fuochi accesi
nella notte; e di nuovo si ritiravano, attirando sempre più i
Persiani nell'immensità della Scizia, mentre si avvicinava la
cattiva stagione. Quando poi accettavano battaglia, era una
specie di gioco. Una volta si schierarono di fronte ai Persiani:
in mezzo a loro balzò una lepre - una di quelle lepri che raffiguravano così volentieri sugli oggetti d'oro -; e tutti, man
mano che la vedevano, si misero a inseguirla gridando, urlando, abbandonando nella pianura Dario, i suoi generali,
l'esercito persiano, come se non ci fosse più battaglia né
guerra. Quella non era una guerra, ma una caccia: dove Dario non era il cacciatore ma colui che veniva cacciato; la timida lepre, gettatasi ingenuamente nella rete preparata dagli
accortissimi nomadi.
Come un re da tragedia, Dario fece un tentativo per recitalo
re la sua parte di grande attore della storia. Inviò un messaggio al re degli Sciti: «Perché fuggi in continuazione, mentre
potresti fare una di queste due cose? Se ti ritieni capace di
contrapporti alle mie forze, fermati, smetti di girare e combatti. Se invece riconosci di essere inferiore, anche in questo
caso smetti di correre e, portando al tuo signore terra e acqua, vieni a colloquio». Il re dapprima offese Dario. Poi gli inviò un araldo con dei doni: un uccello, un topo, una rana e
cinque frecce. Dario si illuse, credendo che i doni significassero sottomissione e obbedienza. Ma uno dei suoi consiglieri, Gobria, il solo che avesse capito la forma mentale dei nomadi, gli fornì l'interpretazione giusta. Gli Sciti volevano
dire: «Se voi, Persiani, non diventate uccelli e volate in cielo,
o non diventate topi e andate sotto terra, o rane e saltate
nelle paludi, sarete colpiti da queste frecce, e non tornerete
mai in patria». Allora anche Dario comprese: diventò «scita»
come Gobria; appena giunse la notte, accese i fuochi, abbandonò nel campo gli asini e gli uomini sfiniti, e prese la fuga.
La grande spedizione era finita. Dario, il veggente, non era
riuscito a vedere nulla. Gli arcieri della Scizia avevano sconfitto gli strateghi del «re dei re». Gli oracoli, gli incantesimi e
il fascio di verghe degli sciamani avevano scrutato il futuro
meglio dei Magi achemenidi. La patria dei nomadi era rimasta lontana e imprendibile, come i Grifoni che custodiscono
l'oro tra le montagne e le nevi del Settentrione.
Il grande esercito persiano non ritornò mai più nelle regioni dove si era smarrito. Da quasi due secoli, un altro popolo era giunto sulle rive del Mar Nero: un popolo che viveva in piccole isole, abitava piccole città, adorava i simboli
espressi in piccole cose; e avrebbe sempre deriso l'immensità dello spazio persiano. Nessun re lo guidava. Nessun
esercito lo accompagnava. Forse già nell'ottavo, e certo nel
settimo secolo, mercanti di Mileto e di altre isole greche arrivarono sulle coste dell'Ucraina: vi fondarono colonie; e di lì
risalirono fin nel cuore della Russia, lungo il Dnepr, il Donec,
21
il Don e il Volga, a centinaia di chilometri dalla costa, abbandonando ceramiche sul loro cammino. Il Mar Nero, che era
stato il più inospitale dei mari, diventò l'Ospitale. I mercanti
greci acquistavano grano, legname, pesce salato, metalli,
miele, pellicce, cinabro, schiavi; e vendevano gioielli, ceramiche, ori e argenti lavorati. Così nacquero sulla costa le prime
città greche - con l'Acropoli, l'agorà, la Stoa, il Ginnasio, i
teatri, i santuari, il tempio di Apollo Delfìnio e di Apollo Medico, le statue di Dioniso, Artemide e Cibele, e cento botteghe artigiane. Le tombe erano ornate con pitture di battaglie
tra i Pigmei e le gru: vi era rappresentata persino la bottega
di un pittore: una lucerna fìttile dichiarava: «Io sono di..., e
brillo per gli dèi come per gli uomini»; come se la Grecia potesse rinascere identica in ogni luogo, dovunque giungesse il
piede di un mercante o di un artigiano.
Questa volta Erodoto, che abitò una di quelle città, Olbia,
e vi conobbe viaggiatori e uomini colti, ci informa sui rapporti tra le due popolazioni. Molti Sciti si innamorarono
della cultura greca, e pensarono di ripudiare la propria religione, i costumi, le abitudini, le arti per quelle dei loro industriosi e inquieti vicini: o di fondere insieme le civiltà. Qualche guerriero si fece seppellire vicino a una città greca: la
tomba era scitica; ma presso il corpo, vicino alla scorta di
frecce con cui avrebbe cacciato cervi e lepri nell'altro
mondo, stava un'anfora di Chio e una coppia attica a vernice nera. Un re degli Sciti, figlio di una donna greca, si fece
costruire a Olbia una casa grande e splendida, con sfingi e
grifoni in marmo bianco. Abbandonava l'esercito fuori dalle
mura, trascorrendo un mese tra i suoi veri compatrioti. Deponeva l'abito scitico coi calzoni attillati e gli stivaletti di
pelle: indossava la tunica: si aggirava per il mercato, senza
guardie del corpo né corteo; viveva come un greco, leggeva
libri greci, faceva sacrifici agli dèi greci, e partecipava alle
orge di Dioniso.
Il re venne ucciso dai nomadi. Ma il «contagio» greco dovette essere diffuso, se nel quarto secolo assistiamo a un
evento inesplicabile, che tocca zone profondissime dell'im22
maginazione scitica. All'improvviso, gli artigiani sciti smisero
di produrre quegli oggetti meravigliosi: non più cervi in fuga, lepri, pantere che si avvolgono su sé stesse, battaglie di
animali. Questa scomparsa totale dell'arte di un popolo mi
sembra terribile. Ora gli artigiani greci lavoravano nelle botteghe delle città costiere: forse, alle volte, giungevano da più
lontano, dal continente e dalle isole, attratti dall'opulenza
dei nomadi. La figura umana, che fino allora l'arte scitica aveva evitato, apparve trionfalmente tra le mani degli artigiani
greci: gli dèi, che per gli Sciti erano una spada o una coppa o
un aratro, assunsero volto umano, come se tutte le antiche
resistenze e inibizioni fossero cadute.
Gli artigiani greci offrivano le immagini più celebri della
patria, nelle misure minime care agli Sciti. Così, per esempio, la testa della statua gigantesca di Atena in oro e in avorio, che Fidia aveva scolpito per il Partenone - la statua più
celebre dell'antichità - riaffiora nel medaglione in oro di un
pendaglio, largo 17 centimetri: mentre, sopra un pettine
femminile, cavalieri e soldati si combattono come sul frontone di un tempio. Spesso i Greci scolpivano immagini più familiari alla fantasia dei nomadi: Amazzoni, Grifoni, Arimaspi,
Pegasi: Chirone che insegna ad Achille come maneggiare
l'arco - l'iniziazione di un arciere. Ma lavoravano anche le
scene capitali della tradizione scitica: la dea madre con la coda di serpente, il figlio del re che tende l'arco. In questo rapporto, così raro nella storia, non sappiamo cosa ci affascini di
più: se l'adesione completa degli Sciti; o il genio greco, il genio dell'Occidente, che accettava qualsiasi contenuto e richiesta, portando le fantasie di un altro popolo alla luce della forma. Alcuni oggetti, come il pettorale di Tolstaia Moguila
o il vaso di Kul'Oba o il pettine di Solokha, sono assoluti capolavori: l'energia e la violenza scitica viene domata, placata,
intenerita, e si compiace di particolari e preziosismi realistici, da cui un tempo rifuggiva.
Così, per qualche secolo, lungo il Mar Nero si sviluppò
una civiltà scitico-greca, ricca e fiorente. In quelle regioni di
steppe e di foreste, piene di uccelli e di api, i principi noma23
di proteggevano le città mercantili greche, e le popolazioni
agricole, forse già protoslave. In Crimea gli Sciti costruirono
una città, Neapolis, ricca di eleganti edifìci pubblici e di affreschi; e coniavano monete, dove il volto del re assomiglia a
quello di Alessandro Magno. La civiltà li aveva conquistati. La
furia, che li aveva condotti fino in Siria e in Egitto, distruggendo le città e i templi, non era più nemmeno un ricordo. I
cavalli non erano più le «pantere» e i «lupi della sera», ricordati da Abacuc. Se dobbiamo credere a Ippocrate e a Luciano, ora gli Sciti amavano il vino, il canto, la vita lieta, la pigrizia, l'amicizia, l'eloquenza, la saggezza. Non coltivavano la
scrittura. Ma continuavano a credere nel giuramento.
Poi quella fioritura gloriosa scomparve, sebbene lentamente e con sprazzi dell'antico fulgore. Quando giunse ad
Olbia nel 95 dopo Cristo, Dione Crisostomo vi trovò i muri
caduti, i templi e le statue in rovina, e gli abitanti che parlavano un cattivo greco. Gli Sciti, che Tucidide aveva considerato il popolo più potente dell'Europa e dell'Asia, vennero
sconfìtti dai Macedoni, dai Sarmati, dai Traci, dai Galati, dai
re del Ponto, dai Romani, dagli Alani, dai Goti, dagli Unni.
Qualcuno di loro venne assimilato: qualcuno si rifugiò nelle
regioni montagnose della Crimea; e altri sopravvissero nel
Caucaso, dove gli Osseti conservano una parte dei loro miti.
Ma gli animali fantastici risvegliati non lasciarono più la terra.
Gli Sciti li avevano riscoperti; e ora continuavano a diffondersi con le grandi ali, l'occhio rotondo e le gambe piegate
in una corsa velocissima, tra i Vichinghi, i Sassoni, i Celti, i
Britanni, i Merovingi, i Cinesi, i Russi, e gli scultori e i miniatori del Medioevo romanico.
I RE DI MICENE
Il viaggiatore che, fino a pochi anni or sono, visitava Micene - dopo aver ammirato i labirinti e i vasi arborei e marini di
Cnosso - credeva di compiere un balzo di civiltà. L'orizzonte
si oscurava: quella antica e capricciosa letizia orientale, quel24
la festa di delfini, polipi, palme e pesci volanti, quella ricchezza mitemente raccolta nelle onde e sulle rive del mare
sembrava nascosta dalle nubi del fosco e barbarico Medioevo della Grecia. Tutto pareva confermare questa impressione. Il paesaggio sinistro dell'Argolide, le pietre nere e infuocate, il baratro spalancato ai piedi della rocca, il torrente
asciutto, i miseri arbusti e l'erba tristissima: il ricordo dei
quattordici scheletri, che Schliemann scoprì nell'acropoli,
con le splendide maschere d'oro sul volto, i diademi sul capo, le spade e i pugnali inutilmente distesi accanto alle mani
intaccate dal fuoco; la massiccia Porta dei Leoni, le immense
tombe a cupola, il covile dove vegliava il custode, la scalinata
che scendeva nelle tenebre verso la fonte Perseia...
Mentre varcava la Porta dei Leoni, il viaggiatore tornava a
scorgere con gli occhi della fantasia il tappeto di porpora sul
quale Agamennone discese tornando da Troia, e udiva il grido della scolta distesa come un cane a spiare le fiaccole accese nella notte. Una specie di sogno o di incubo, dal quale
non riusciva a scuotersi, lo attraeva nelle sue spire. Risuscitati da ogni specie di affinità e di richiami, i versi di Eschilo si
affollavano nella sua mente; ed egli capiva perché l'immaginazione degli uomini avesse collocato proprio qui, come se
fosse la loro culla naturale, i grandi miti e gli eroi della tragedia. Soltanto lungo queste mura ciclopiche, soltanto in questi stretti corridoi, nelle scalinate sotterranee o nelle tombe
vaste come templi, poteva attendarsi la banda sfrontata delle
Erinni, avide di sangue umano; e ogni mostro che nutre e alleva la terra. Dove, se non nella rocca che signoreggiava le
pianure dell'Argolide come un maledetto castello feudale,
l'uomo avrebbe potuto conoscere i peccati generati dalla
sua mente tortuosa? La dismisura, l'audacia senza limiti, la
sfrenatezza dei sensi e della fantasia: l'impudenza del cuore:
la serpe del tradimento: la ferocia contro il proprio sangue.
E dove, se non qui, la mano di Clitennestra potè avvolgere
Agamennone nella veste ricamata, e colpirlo due, tre volte
col pugnale, versando il suo «sangue nero», che «nessun in25
cantatore avrebbe mai più richiamato nelle vene da cui era
uscito»?
Non so se il viaggiatore che oggi salga le rampe della rocca
di Micene continui ad accarezzare le medesime fantasie, che
ispirarono alcune bellissime pagine di Emilio Cecchi. L'immaginazione degli uomini è così robusta, da sfidare le prove
fornite dai documenti, e da tingere con il colore che preferisce - il rosso sangue della tragedia o il delicato azzurro
dell'idillio marino - i luoghi che ha scelto come simboli. Ma,
negli ultimi venticinque anni, gli sforzi riuniti degli archeologi e dei filologi hanno mutato il volto della civiltà micenea.
Scavando a Pilo, nella reggia di Nestore, Blegen scoprì seicento tavolette di argilla, incise dalla mano degli scribi: il
grande incendio, che arse in poco tempo tutta la civiltà micenea, aveva conservato ironicamente proprio quanto essa
offriva di più deperibile, gli appunti burocratici, i fogli di paga, gli inventari, i rendiconti amministrativi. Qualche anno
dopo, Ventris decifrò quei segni, che incominciarono a parlare di templi e di greggi, di dèi e di sacrifici, del re e degli artigiani, di commerci e di tombe.
Così oggi il viaggiatore deve cancellare dalle mura, dalle
stanze e dallo stesso paesaggio quei colori atroci che Eschilo
vi gettò a piene mani; e ripulire gli ori abbrunati dal «sangue
nero» di Agamennone. Se vuole portare con sé un libro antico, apra l'Odissea, quando Telemaco, d o p o aver percorso
una terra umida, piena di trifoglio, di grano, di orzo e di biada, giunge nella reggia di Sparta, lampeggiante d'oro, di
bronzo e d'avorio, dove l'Oriente ha lasciato il ricordo dei
suoi mari, dei suoi mostri, dei suoi misteri, dei suoi farmaci e
delle sue metamorfosi meravigliosamente colorate.
Chi erano dunque i re di Micene, di Sparta e di Pilo? Chi
era Agamennone, chi Nestore e Menelao? Secondo gli studiosi, il presunto castello feudale di Agamennone formava il
cuore di una monarchia teocratico-burocratica, simile a
quelle del vicino Oriente. Quel re, che siamo abituati a im26
maginare come un irsuto signore della guerra o come un artigiano che fabbricava con le sue mani letti, zattere e ordigni,
divideva il titolo di «Wanax» con un dio, ed era strettamente
collegato ad una dea chiamata la «Signora». Nel palazzo, tutta
la vita del regno veniva accentrata da una complessa burocrazia. Sovraintendenti, governatori provinciali, ufficiali distrettuali, ispettori riscuotevano tributi, distribuivano materie prime e razioni alimentari, censivano le greggi. Mentre le
lavandaie, le tessitrici, le filatrici e le fornaie gremivano il palazzo come un clamoroso alveare, gli scribi preparavano le
fragili e indistruttibili tavolette d'argilla, talune piccole come
fogli di un notes, talune ampie come le pagine di un grande
libro, che portano ancora il segno delle loro dita; e compilavano documenti di ogni specie, simili alla folla di scribi che
popolava l'Egitto dei faraoni.
In primo luogo, il «Wanax» era un proprietario fondiario; e
migliaia di pecore e capre, pochi maiali e poche mucche pascolavano per lui sulle colline della Grecia e di Creta. Ma il
paese non era ricco. Da dove egli traeva la sua potenza? Tutto
ci lascia credere che, come Luigi XIV e i sovrani dell'epoca
mercantilista, i sovrani micenei possedessero delle «manifatture reali»: fabbriche di unguenti e profumi, come quella situata fuori dalle mura di Micene, da cui Agamennone derivò
parte della sua ricchezza. Anche il commercio estero era una
prerogativa reale, e i mercanti e i marinai, abili e senza scrupoli quanto i futuri mercanti greci, attraversavano il Mediterraneo agli ordini dei sovraintendenti di corte. Gli unguenti, i
vasi, le stoffe colorate, le spade e i pugnali fabbricati nel Peloponneso venivano sbarcati nei porti di Cipro, dell'Egitto,
dell'Asia Minore, e nei porti d'Italia, da dove altri mercanti li
avrebbero trasportati sempre più a nord, fino nella Cornovaglia. Tornando in patria, le navi micenee caricavano le mercanzie più richieste dai loro sovrani: l'oro della Nubia, gli scarabei, l'ebano, le resine, le uova di struzzo, le pietre rare
acquistate in Egitto: la magica ambra lavorata in Inghilterra: lo
stagno della Cornovaglia, della Boemia e della Toscana: l'ar27
gento della Sardegna; e l'avorio indiano, che lente, instancabili carovane avevano condotto a Ugarit, a Alalakh e a Biblo.
Ma il sovrano non riassumeva nella sua persona, come in
Egitto, tutta la forza e il nome dello stato. Il «lawagetas», il
condottiero dell'esercito, occupava il secondo posto del regno, come tra gli Ittiti il «grande Scudiero» stava a fianco del
re Sole; e i «telestai» erano probabilmente legati al re da un
rapporto di tipo feudale. Infine il «damos», la collettività del
popolo, possedeva molti terreni propri, dei quali disponeva
a suo talento. Del «damos» faceva parte quella attiva folla di
artigiani liberi che si accalcavano nelle strade dei borghi. Se
riapriamo i registri degli scribi, ecco tornare ad affacciarsi i
carpentieri, i calderai, i cuoiai, i vasai e gli intagliatori di pietre: ecco i fabbri ripeterci il loro nome, Plouteus, Kukleus,
Noeus, Onaseus, Khariseus: ecco i meravigliosi mobilieri,
che decoravano i seggi ed i tavoli con teste di leoni, polipi e
grifoni d'avorio, con palme e uccelli in oro, cianite e cristallo
di rocca: ecco gli orafi, i fabbricanti di archi e di elmi, i tintori dalle mani sporche di porpora; mentre l'erborista continua ad allineare nei suoi scaffali le radici, i semi, le alghe, gli
incensi e i farmaci, con cui curare i vivi e i morti.
Verso il 1600 avanti Cristo, come crede il Palmer, o tre secoli prima, come sostengono altri studiosi, le popolazioni
micenee discesero nelle colline e nelle pianure della Grecia.
Ma una cosa è certa. Intorno al 1500, quando mani pietose
seppellirono i quattordici scheletri coperti d'oro, la Grecia
continentale obbediva ai re di Micene. Avevano condotto
con sé i cavalli, fino allora ignoti nel mondo egeo, e facevano
riprodurre il segno della loro potenza sui sigilli, sugli affreschi, sulle spade e sulle pietre tombali. Un secolo dopo, gli
splendidi cocchi leggeri a due ruote, col cassone di legno dipinto di rosso minio e le ruote rivestite di bronzo, sbarcarono a Creta: assalirono impetuosamente i guerrieri minoici:
un re greco sedette sul piccolo trono alabastrino di Minosse;
e le due civiltà confusero insieme i loro apporti - il cavallo e
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il polipo, la spada e il delfino - in modo che oggi sembra disperato distinguerli.
Per molti aspetti, la religione micenea era simile a quella
greca: Zeus, Era, Ermes, forse Atena e le Due Regine (poi
Demetra e Persefone) appaiono nelle tavolette, mentre una
folla di divinità bestiali e di demoni si intravede nelle figurazioni scolpite e dipinte. Ma Zeus e i futuri dèi olimpici vivevano sotto il segno di una divinità più potente. Chi allora regnava nel Peloponneso era l'antico Poseidone, dio delle
profonde acque sotterranee, delle sorgenti vitali, delle patulli che ancora coprivano la Grecia, degli improvvisi e catastrofici scuotimenti di terra, piuttosto che delle acque marine: lo stesso padre di mostri che, nell'Odissea, gli dèi
olimpici cercano di sconfiggere con l'astuzia.
Intorno alla metà del tredicesimo secolo, la forza dei regni
micenei toccò il culmine. Mura ciclopiche salirono intorno
alle rocche, i palazzi vennero ampliati, le sale riccamente affrescate, le tombe a cupola si apprestarono a ricevere le ossa
degli Atridi: mentre i guerrieri assalivano l'Egitto e imponevano la loro insegna religiosa, il dio-cavallo (una delle incarnazioni di Poseidone), ai signori di Troia. Pochi decenni dopo, come se con questa impresa i re di Micene avessero
osato qualcosa di nefando, su cui sarebbe discesa la vergogna dei secoli, sopravvenne il clamoroso disastro. Quale ne
fu la causa? Forse, come pensa Rhys Carpenter, i venti alisei
dell'Egeo risalirono verso il nord, allontanando le piogge da
molte regioni della Grecia, che rimasero in preda alla siccità,
deserte, arse e abbandonate, con pochi alberi rosicchiati fino alle radici? Nulla ci permette di credere a questa ipotesi
fantasiosa.
Un invasore sconosciuto assalì Pilo. Come ci ricordano le
tavolette d'argilla, i micenei prepararono le difese. Le donne
abbandonarono i villaggi, e l'oro di un santuario venne trasportato nel palazzo del re. Gruppi di «guardiani» furono inviati a sorvegliare le lunghe coste del golfo di Messenia e del
golfo di Arcadia: reparti di rematori, artigiani del bronzo e
muratori rafforzarono le unità militari e la flotta, concentrata
29
attorno al capo Rion. Ma tutte le difese furono vane: le misteriose orde armate di ferro sbarcarono a Pilo, sconfìssero i
guerrieri coperti di bronzo e incendiarono la reggia di Nestore, interrompendo per sempre quella vita così fiduciosa: uccisero gli scribi che stavano compilando un registro fondiario e
le ancelle che avevano appena preparato le anfore piene di vino e brocche d'acqua per il bagno della regina. Qualche tempo dopo, le selvagge fiamme degli incendi raggiunsero Micene, Tirinto, Orcomeno e Cnosso: Atene si preparò alla
suprema difesa; e il ricordo della civiltà di Agamennone e di
Nestore rimase affidato, per trenta secoli, alle ingannevoli e
veritiere parole dei grandi poeti.
APOLLO, ERMES, LA POESIA
Prima che Apollo nascesse, Delo era una piccola isola rocciosa, che vagava per i mari, come un'erba abbandonata alla
corrente. Vi figliavano i polipi e le foche. Quando Leto vi
giunse, sorgendo all'improvviso dalle radici della terra quattro colonne d'oro la poggiarono sulle cavità del Mar Egeo.
Girando sette volte attorno a Delo, i cigni - «i più armoniosi
tra gli uccelli» - cantarono sette volte per la partoriente: finché, dopo nove giorni e nove notti di dolore, Leto cinse con
le braccia una palma, puntando le ginocchia sul prato. Sotto
di lei la terra sorrise. Nello splendore del giorno, Apollo
balzò alla luce, mentre Rea, Dione, Temi e Anfitrite gettarono un grido. In quel momento la piccola isola delle foche e
dei polipi si coprì d'oro - questa luce solidificata, che Pindaro amava. La terra diventò d'oro, il piccolo lago rotondo contemplò le sue mobili onde d'oro, la palma gettò fronde e
datteri d'oro, le acque trasparenti del fiume Inopo brillarono
d'oro. Il giovane dio si alzò. Si muoveva agilmente, a grandi
passi, «sulla terra dalle ampie strade», suonando la cetra, come un astro in pieno giorno: lampi gli balenavano dai calzari
e dalla tunica, faville gli scintillavano dal corpo, e il fulgore
giungeva sino al cielo. La Grecia aveva trovato il dio della lu30
ce, che avrebbe cancellato con un gesto i mostri sotterranei
e le tenebre della «feconda Notte».
Quale strana luce: luce che nel suo splendore eccessivo,
varcando dolorosamente ogni diapason luminoso e sonoro,
contiene in sé tutta la profondità della tenebra. Nei primi
versi dell' Iliade, il poema che gli è dedicato, Apollo scende
dall'Olimpo «come la notte», lanciando le sue frecce acutissime sui Greci e gli animali; e non ci sorprende che la luce uccida - la luce non è sempre benigna -, ma che assomigli alla
sua rivale. Sappiamo che Apollo aveva un oracolo in comune
insieme alle dee della Notte; e persino l'acqua purissima delle Muse aveva un'origine infernale, e quindi era così degna
di terrore e di venerazione. Apollo purificava - ma era stato
purificato, perché anche lui aveva contaminato le sue mani
coll'assassinio. Guariva, ma dava la morte. E quanto ai beni
della follia profetica, donati ai pochi prescelti, chi non inorridisce scorgendo Cassandra sulle scene di Eschilo: la profetessa tragica e inascoltata, posseduta e distrutta dal suo dio
troppo luminoso:
Apollo, Apollo,
dio delle strade, tu che mi perdi!
Per la seconda volta tu mi hai perduto senza fatica...
... Ahimè, ahimè, ah! sventura!
di nuovo la terribile fatica profetica
mi fa volgere su di me, sconvolgendomi coi suoi preludi...
Il giovane fratello di Apollo, Ermes, non era stato generato
all'aperto, ma dentro la terra, in una grotta solitaria, ombrosa e fumosa, che si apriva tra i monti boscosi di Arcadia. Nacque di notte, e il suo tempo era la notte. Appena le lunghe
ombre cadevano sulla terra, le strade erano vuote e deserte,
il sonno possedeva gli dèi e gli uomini e nemmeno i cani alzavano più la voce, - Ermes passava silenzioso e invisibile come la nebbia e la brezza d'autunno. Portava con sé l'immenso popolo dei sogni: assopiva e apriva gli occhi degli uomini;
e accompagnava le anime dei morti, che gli svolazzavano intorno squittendo. Era intessuto di una notte quieta e dolce,
che ignorava la profonda tenebra di Apollo. Ma anche Ermes
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possedeva una sua luce. L'inno omerico che gli è dedicato
assicura che fu lui ad inventare il fuoco, sfregando un ramo
d'alloro con un ramo di melograno. La vera luce di Ermes
era quella degli occhi: la fiamma dei suoi sguardi era così
mobile e vivace, il lampo delle pupille così simile allo scintillio luminoso, che doveva abbassare gli occhi per non rivelare
i propri pensieri. La sua era la luce brillante e insidiosa, astuta e ombrosa, complicata, sfuggente e ironica, che si nasconde nel cuore delle miti notti ermetiche; e che non ha nulla in
comune con quella violenta e accecante di Apollo.
Con il loro inesausto amore per le antitesi e le contraddizioni, i Greci contrapposero Apollo e Ermes. Apollo era il
grande dio, la figura nobile e tragica, che appariva sui frontoni dei templi, all'inizio dei poemi epici e sulle scene di Eschilo. Con il suo arco-cetra, stava lontano dagli uomini: sopra
una montagna, o nella distanza invalicabile della mente profetica. Forse non amava gli uomini: o li amava troppo; e i
suoi rapporti con loro furono spesso accompagnati dalla
sventura. Sapeva che erano piccoli, «simili a foglie»: appena diceva Pindaro - «il sogno di un'ombra»; e per questo, imponeva loro dei limiti («Conosci te stesso», «Niente in eccesso»)
e castigava la loro hybris. Quando scendeva tra gli uomini,
suscitava sgomento e stupore, spavento e venerazione.
L'astuzia di Ermes fu quella di farsi credere piccolo: lui,
che in futuro avrebbe regnato su un paese misterioso ed immenso, si presentò agli dèi e agli uomini come un demone,
uno spirito dell'aria. Se Apollo era tragico, lui era comico: se
Apollo amava la nobiltà del gesto, lui aveva una passione insostenibile per tutto ciò che era losco, osceno, scurrile, ambiguo; e ci insegnò che il più infimo gesto della vita può avere la stessa grazia insinuante del gesto superiore. Non
provava nessun imbarazzo cogli uomini: scendeva fino a loro, li accompagnava nella notte, li prendeva per mano, li soccorreva, li consolava, li tranquillizzava, con una dolcezza soave, che nessuno avrebbe atteso da uno spirito così beffardo.
Quando la salvezza era vicina, scompariva, perché - forse è
la parola più bella che abbia mai detto un dio greco - «sareb32
be degno di biasimo che un dio immortale amasse così apertamente i mortali»: lasciando intorno a sé un alone di tenerezza e di fascino.
Possiamo dire che un dio greco sia semplice? Ognuno di essi era un cosmo: una contradittoria ricchezza di pensieri, di
immagini, di visioni, di sentimenti, di riti, che formavano
un'unità complicata. Eppure i Greci, specie i filosofi, sentivano che il cosmo di Apollo era «semplice», chiaro, puro: semplice come sembra la luce. Aveva una forma sola; e appariva di
fronte, come sul tempio di Olimpia. Era veritiero: ignorava la
menzogna: rivelava «l'immutabile volontà di Zeus»; sebbene
la verità degli dèi possa apparire oscurissima agli uomini, perché, come diceva Eraclito, il dio «non dice né nasconde, ma
accenna» e la sua parola si frange in molti riflessi. Dava le leggi: le leggi dei templi, dei sacrifìci, del culto, dell'intelligenza e
della poesia; tutto ciò che nella mente è formato ed armonico
apparteneva al suo regno.
Rispetto ad Apollo, Ermes aveva lo stesso rapporto dei colori con la luce. La sua mente assumeva tutte le forme, prendeva tutte le strade, e si volgeva, sempre sinuosa ed avvolgente, verso tutte le parti. Nessuno era più molteplice e versatile
di lui. Aveva una mente «colorata», «variegata» (poikilométis):
espressione stupenda, che non è possibile tradurre con esattezza; la mente di Ermes era colorata come una pittura o un
tappeto o la coda di un pavone: ma anche artificiosa e costruita come una poesia e un discorso elegante; ed intricata ed
enigmatica come i nodi, i labirinti, le costellazioni celesti e il
lavoro delle api. Possiamo dunque comprendere che Ermes
stimasse poco la verità, persino quella velata ed accennata di
Eraclito. Amava gli inganni e le menzogne: i ladri, i mercanti, i
briganti di strada, i mistificatori. Non coltivava la legge e l'ordine di Apollo, ma il caso, l'imprevisto, il colpo di fortuna: tutto ciò che passa, muove, sta sulle soglie, appare e scompare,
inafferrabile e invisibile come la nebbia e la brezza d'autunno.
Lo troviamo dappertutto, e ci sorride e ci deride e ci invita.
Quando ci accomiatiamo da questo mondo immenso, ci chiediamo come possa stare sotto il segno di un dio unico. Eppu33
re, malgrado la vastità del suo mondo, Ermes non smarrisce
mai la velocità dello sguardo e del passo, e l'aerea leggerezza
da uccello marino.
Tra tante cose che dividevano Apollo ed Ermes, almeno
una li univa. Secondo gli Inni omerici, entrambi avevano inventato la cetra e quindi la poesia. Per meglio dire: Apollo
non aveva inventato affatto la cetra e la poesia; le ricevette in
dono nascendo, come qualcosa che apparteneva soltanto a
lui: «Siano miei privilegi la cetra e l'arco ricurvo»; e quindi da
lui discendevano gli aedi che confidano nella sacra ispirazione della memoria. Ermes, invece, inventò letteralmente la
cetra dalle sette corde. Appena nato, trovò una tartaruga
fuori dalla porta dell'antro: la rivoltò, la uccise, le strappò
crudelmente la polpa, traforò il guscio, vi fissò degli steli di
canna e due bracci, vi stese sette corde di minugia di pecora,
e poi cominciò a cantare gli amori di Zeus e della madre. La
poesia fu, per lui, un'ingegnosa invenzione tecnica: nella
quale, come fecero poi tutti i poeti, sfruttò accortamente i
doni del caso e dell'imprevisto.
Se vogliamo comprendere la poesia di Apollo, dobbiamo
ascoltare la voce del supremo eroe del suo mondo, Achille.
Quando Fenice, Aiace e Odisseo lasciarono la tenda di Agamennone, mossero lungo «la riva del mare rumoreggiante»
giungendo alle tende dei Mirmidoni. Vi trovarono Achille
che cantava sulla cetra «le glorie degli eroi». Omero ci dice
che Achille «si dilettava (éterpen) con la cetra sonora». Il piacere della poesia omerica era dunque soltanto questo? Un
semplice «diletto», come quello che un poeta rococò riceveva dalle sue piccole, morbide strofe musicali? Ma térpein è
una parola immensa: ce la spiega Odisseo (uno degli ascoltatori di Achille), quando descrive ad Alcinoo la gioia che colma i convitati mentre odono i cantori, e le sale sono piene di
pane e di carni, e il coppiere attinge il vino nel cratere e lo
versa nelle coppe. «Questo mi sembra nell'animo una cosa
bellissima.» La gioia, che suscitava la poesia omerica, nasceva
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dalla pienezza dell'essere: era un piacere corporeo, come
quello del cibo, dell'amore, del bagno, della danza; un piacere che impegnava tutto l'animo e il cuore. Come in
nessun'altra tradizione occidentale, la poesia era gioia; e la
gioia era contenuta nel nome di due Muse, Tersicore e Euterpe, e in quello di Terpandro, che inventò la lira a sette
corde.
I Greci erano molto meno ingenui di noi, e sapevano come fosse tragica la «gioia» nel mondo luminoso di Apollo.
Perché la cetra, che dà gioia, è lo stesso strumento dell'arco,
che dà la morte. Come Apollo saettava da lontano le frecce
del suo arco, le Muse «saettavano da lontano» i dardi della loro lira. Il poeta era un arciere: la sua canzone una freccia,
che non sbagliava mai la meta; e la corda dell'arco vibrava
come le corde della cetra. Le notizie essenziali sulla poesia
apollinea sono tutte contenute in questa metafora. Il poeta
possedeva la distanza contemplativa del dio che, con un gesto, aveva arrestato sul frontone di Olimpia la lotta dei Centauri e dei Lapiti; e la precisione e l'esattezza, l'arte di cogliere nel segno e di conoscere il vero ordine delle cose, che
possiedono i grandi matematici. Ma portava in sé un dono
più terribile: la morte. In ogni verso di Omero, di Pindaro e
di Eschilo, dietro la luce e la gioia, dobbiamo avvertire il tenebroso ronzio delle frecce, con le quali sulle soglie dell' Iliade Apollo diffuse la morte tra i Greci.
Quando Ermes impugnò la cetra, cantando l'origine e la
storia degli dèi, Apollo lo ascoltava affascinato. Un desiderio
assalì il suo cuore, e disse al fratello:
Meravigliosa è la nuova voce che odo,
e io affermo che mai alcuno degli uomini l'ha conosciuta,
né alcuno degli dèi che abitano le dimore dell'Olimpo,
se non tu, furfante, figlio di Zeus e di Maia.
Che arte è questa? Cos'è questo canto che ispira passioni
[irresistibili?
Nella poesia di Apollo, Ermes aveva insinuato una parola sola: thélgein, «incantare», che trasformò la tradizione poetica.
Come signore della magia e dei farmaci, Ermes era il signore
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di ogni incanto. Anche «incanto», per noi, è una parola logora, che ha perduto il potere che conteneva nei poemi e negli
inni omerici. Quando Ermes cantava sulla cetra, suscitava nel
suo pubblico una suggestione senza fine: la seduzione della
magia, il desiderio erotico, il potere di curare e di mitigare
gli animi e i corpi, la forza di dimenticare, la calma, la quiete,
il piacere insinuante dei suoni melodiosi, il profondissimo
sortilegio del sonno e, mescolata a tutte queste «passioni irresistibili», l'arte elusiva e inafferrabile dell'inganno.
Se la «gioia» della poesia di Apollo celava il dardo della
morte, l'incanto della poesia di Ermes rivelava un pericolo
forse più tremendo. Chi poteva non cedere alle forze della
magia e di eros, della dimenticanza, del sonno e dell'inganno quando venivano fuse dall'irresistibile fiume melodico
dei suoni? Chi non avrebbe perso la mente davanti alla nuova Musa, Thelxinoe? I Greci rappresentarono tutto ciò nella
figura delle Sirene, che, secondo una tradizione non raccolta
da Omero, erano figlie delle Muse. Sedute sul prato dell'isola, esse cantavano «con suono di miele» le storie della guerra
di Troia e «tutto quello che accade sulla terra ferace»: come
un gruppo di aedi. L'incanto della loro voce e delle loro storie era così demoniaco, che chi le ascoltava approdava
sull'isola e lì si perdeva, dimentico della propria esistenza,
ammaliato, medicato, inebriato da quella voce di miele sino
alla fine dei suoi giorni. Quando la morte lo coglieva, il corpo rimaneva a imputridire sul «prato fiorito».
Incantatrice come Ermes e le Sirene, Circe insegnò ad
Ulisse e a tutti gli ascoltatori della poesia ermetica come difendersi dal pericolo. Gli ordinò di farsi legare le mani ed i
piedi all'albero della nave, lasciando gli occhi e le orecchie
esposti alle seduzioni delle Sirene. Nella storia della letteratura, non vi fu gesto più incompreso: sono stati pochissimi
coloro che colsero fino in fondo il mondo di Ulisse. Lo accusarono di godere abusivamente i piaceri della poesia: con
cautela e viltà, evitando grazie a quelle funi il pericolo della
tragedia. Ma Ulisse non era un e r o e romantico. Era un
greco, che obbediva agli dèi, specialmente quando essi lo
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costringevano con la forza a raggiungere il proprio destino.
Egli visse nel c u o r e p r o f o n d o d e l l ' i n c a n t e s i m o : vide,
ascoltò, conobbe tutta la seduzione di Ermes, fino al punto
da cercare di sciogliersi, perdendosi per sempre sul «prato
fiorito». Quelle funi lo tennero legato. Era immerso nel
regno della magia, dell'eros, della musica e della dimenticanza, eppure conservò la libertà dello sguardo e dell'udito,
la distanza apollinea della mente che contempla, la memoria
e il desiderio del ritorno. Tornò a casa, trasformando l'incantesimo demoniaco di Ermes e delle Sirene nella pura
«gioia» della poesia.
L'inno omerico ci racconta che Ermes non conservò a lungo la cetra dalle sette corde. La abbandonò nelle mani di
Apollo, in cambio di cinquanta vacche, di una bacchetta
d'oro, e delle profezie, ora veritiere ora ingannevoli, delle
Vergini-Api. A noi sembra che abbia perso molto nel cambio.
Ma è inutile opporre la nostra modesta sapienza alla sapienza notturna di Ermes - il quale aveva mire più vaste di quelle
della poesia, se qualche secolo più tardi diventò il protettore
di tutta la sapienza esoterica. Ci resta soltanto il rimpianto di
non ascoltare più la sua voce misteriosa e ingegnosa.
In realtà, Ermes non era stato dimenticato. A partire da
quel momento, compresa, chiusa, avviluppata dentro la poesia di Apollo, noi ascoltiamo anche la voce di Ermes. La cetra
e gli inni di Pindaro - il più grande poeta apollineo - erano
«colorati» e «variegati» come la mente di Ermes, e emanavano il medesimo «incanto». La prima ode pitica dice:
Lira d'oro, possesso
comune d'Apollo e delle Muse
dalle trecce viola...
... Sulla punta della folgore, tu spegni
il fuoco eterno: sullo scettro
di Zeus s'addormenta
l'aquila: entrambe
le rapide ali lascia cadere
il re degli uccelli: una nera
nube tu hai diffuso
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sulla sua testa adunca, dolce serrarne
delle sue palpebre; dormendo
il molle dorso solleva, posseduta
dalle tue vibrazioni...
Nella tradizione occidentale, non ci sono versi che rivelino
più profondamente l'onnipossente ricchezza della poesia: la
forza dell'incanto, dell'amore, del sonno, della possessione e
della morte, intrecciati in ogni strofe.
Innamorati delle antitesi, capaci di portarle fino al limite
estremo con la forza tagliente e limpidissima della mente, i
Greci sapevano che ogni antitesi, dopo avere esaurito il proprio urto, deve risolversi in una conciliazione più vasta. Tra
Apollo ed Ermes la conciliazione era già avvenuta nell'Iliade e
nell'Odissea. L'Iliade inizia con la notte e la morte portate da
Apollo, dio della luce; e si chiude con il viaggio di Ermes, che
accompagna Priamo alla tenda di Achille, invitando gli uomini
e gli dèi, i Greci e i Troiani, ad incontrarsi. Secondo una tradizione Ulisse discende da Ermes, e nell 'Odissea ha la mente
«multiforme», «molteplice» e «colorata» del dio: ma il suo
trionfo avviene durante una festa primaverile di Apollo e con
l'arco (simile alla cetra), che appartiene ad Apollo. Queste
corrispondenze non possono essere casuali. Chissà chi le ha
create. Forse il «primo Omero» aprì e chiuse il poema con le
gesta dei due dèi, che avevano inventato la poesia; e, dopo
qualche tempo, «il secondo Omero» gli rispose con un chiasmo sublime, ricordando i due dèi della «gioia» e dell'«incanto» poetici. O forse tutto avvenne più tardi, quando un redattore sistemò quel materiale immenso? La risposta non ha
molta importanza, ed è improbabile che qualcuno la darà
mai. Importa soltanto che, proprio alle origini della Grecia,
l'Iliade, l'Odissea, l'Inno ad Apollo, e l'Inno ad Ermes ci ricordano che la poesia è stata inventata da due dèi antitetici e
concordi. Così a Megalopoli, racconta Pausania, venne costruito un santuario dedicato in comune alle Muse, ad Apollo
e a Ermes.
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Nel corso del tempo, gli uomini hanno cercato di rappresentare la poesia in molte forme. Qualcuno ha opposto la
poesia ingenua e la poesia sentimentale: qualcuno la classica
e la romantica; o ha ritrovato in tutta la cultura occidentale
un elemento apollineo e uno dionisiaco. Ma io credo che
l'antica antitesi, formulata dalla immaginazione mitica e concretissima dei Greci e ripresa da Goethe nel secondo Faust,
sia la più esatta. Se rileggiamo quasi trenta secoli di arte europea, incontreremo in ogni tempo il poeta apollineo e
quello ermetico: due forme della mente, che crearono la letteratura d'Occidente, e vivono ancora tra noi, mascherate
sotto mille travestimenti.
Ecco il poeta caro ad Apollo: nutrito di luce assoluta e di
tenebra assoluta, di gioia e di morte: ama la tragedia, la forma pura, la nobiltà dello stile, la distanza della mente, la verità nuda o velata, e l'armonia. Ed ecco il poeta di Ermes:
questo piccolo demone notturno, dalla mente molteplice,
colorata e scintillante, che predilige la commedia, le menzogne, i sogni, il caso, Eros, la tenerezza e la leggerezza, e può
soccombere o farci soccombere ad un incanto melodico più
terribile di ogni morte. La letteratura è fatta quasi soltanto di
questo. Non c'è che Apollo ed Ermes: Ermes ed Apollo; la loro tensione, il loro colloquio, e, qualche volta, il loro profondissimo incontro.
ULISSE E IL ROMANZO
Quale dio, quale eroe, quale animale divino, quale uomo
si nasconde dietro il nome ancora misterioso di Ulisse? Appena ci avviciniamo a lui e lo inseguiamo da un canto all'altro dell'Odissea, come egli viene inseguito dal proprio avventuroso destino, Ulisse oscilla, ruota su se stesso, e mostra
un volto illuminato da luci sempre diverse. Ora ci compare
davanti come un eroe nobilissimo, splendente di bellezza e
di grazia, avvolto in un morbido manto purpureo: ora, invece, come un vecchio mendicante, con gli occhi cisposi, la
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pelle avvizzita, una veste lacera e macchiata di fumo e una bisaccia sporca. Ora sembra un leone, che attraversa il vento e
la pioggia con gli occhi di fuoco: ora un polipo, con il capo
viscido e i tentacoli insidiosi aggrappati alla roccia; ora è una
grande aquila dalla parola umana, ora un occhiuto, rapace
avvoltoio... Non sappiamo quale volto scegliere: quale animale preferire; e alla fine ci sembra di intravedere, tra le luci
e le nebbie del Mediterraneo, una specie di Grifone marino,
che possiede il capo del leone e i tentacoli del polipo, le ali
dell'aquila e il becco dell'avvoltoio.
Se vogliamo avvicinarci a questa figura straordinaria, conviene ricordare, insieme a un filologo geniale come Carlo
Diano, che Ulisse assomigliava alle due divinità che lo proteggevano: Ermes, dal quale discendeva; ed Atena, che lo seguì con l'amore esclusivo di una complice. Aveva una natura
molteplice e versatile quanto la loro: sapeva assumere tutte
le forme, prendeva tutte le strade e tendeva, sempre sinuoso
e avvolgente, verso tutte le parti. Aveva una mente «colorata»
e «variegata» come quella di Ermes: essa assomigliava a una
pittura o a un tappeto: ma era anche artificiosa come un discorso: intricata ed enigmatica come i labirinti e le costellazioni celesti; e occulta come quella dei ladri, dei mercanti,
dei segreti amanti notturni.
Anche Ulisse impugnò le armi, combatté e uccise con la
spada e con l'arco; e una volta - insultando l'accecato Polifemo - peccò perfino di vanità epica. Fu il suo unico, vero peccato, di cui venne punito sino alla fine dei giorni. Ma la spada
non era la sua passione profonda. Mentre gli altri guerrieri
sognavano soltanto di ripetere le gesta di Achille, egli si accorse che nessun eroe epico aveva ancora messo piede in un
vastissimo territorio, che restava aperto e inesplorato davanti al suo desiderio. Così gli occhi acuti di Ulisse si guardarono intorno, scrutando e imparando. Le mani accorte e enciclopediche palpavano le cose, soppesandole e studiandole
nell'intima fibra: escogitavano accorgimenti tecnici e inven40
zioni; compivano le opere del muratore e del marinaio, del
falegname e dell'artista, quasi che tutta la sapienza artigiana
della Grecia si fosse raccolta nelle sue mani prodigiose. Intanto la mente da ladro e il colorato cuore da polipo non finivano di preparare espedienti, furti, menzogne, mistificazioni; e la parola subdola ed eloquente persuadeva gli animi.
Era dunque un probo artigiano oppure un truffatore fantasioso? Un uomo preciso o un bugiardo? Chi vuole capire il
mondo di Ulisse, deve dimenticare che nei nostri tempi l'artigiano e il ladro, l'uomo veritiero e il mentitore appartengono ad aspetti opposti della realtà. Quando Ulisse viveva sotto
la doppia protezione di Ermes e di Atena, nessuno avrebbe
potuto distinguere cosa vi era di tecnico e di frodolento nelle sue invenzioni: poiché le mani precise e abilissime e l'ingegno sagace producevano qualcosa che mirava a una frode,
e la frode, a sua volta, rientrava forse nel quadro di una precisione più alta. Le imprese a cui Ulisse e Penelope affidarono la loro gloria sono appunto dei capolavori insieme di artigianato e di inganno: il cavallo di legno che fece cadere
Troia, e la grande, sottilissima tela, nella quale si impigliarono per quattro anni le speranze dei Proci.
Ma l'inganno del cavallo era qualcosa di troppo semplice
per una mente tortuosa come i labirinti. Oltre il limite della
realtà, oltre e sotto i confini della terra, si estende l'immensa
città della notte, della magia e della morte, di cui gli uomini
conoscono così pochi segni. Ulisse ne era cittadino d'elezione, poiché discendeva da Ermes, l'incantatore notturno che
porta con sé la verga del sonno, lo stregone che possiede i
segreti delle erbe, la guida delle anime all'Ade. Ma non poteva entrarci con le sue semplici astuzie umane. Aveva bisogno
che qualche divinità gli insegnasse il percorso, la via d'entrata e i rituali; e si fermò nell'isola di Circe, questa ingannatrice
simile a lui e più potente di lui. Il rapporto che lo strinse alla
dea-strega, l'affinità che dovette scoprire con lo spirito di lei
furono così profondi che, per l'unica volta nella sua vita, egli
rischiò di perdere la memoria e il desiderio del ritorno.
Quando i compagni lo persuasero dopo un anno a riprende37
re il cammino, egli confidava soltanto nell'aiuto della maga
che l'aveva accolto nel suo letto e che gli permise di attraversare, incolume, le insidie dei morti e dei mostri marini e l'incanto demoniaco della poesia.
Nove anni dopo, ritornato a Itaca, Ulisse mostrò di essere
maestro in un altro genere di inganni: quelli del teatro. Camuffato da mendico, mangiava insieme ai porcai: stendeva la
mano davanti alla porta della sua reggia, chiedeva un tozzo
di pane o un pezzo di carne, ostentando le necessità del ventre insaziabile; quasi fosse un attore e, per tutta la vita, non
avesse fatto altro che osservare le abitudini dei mendichi ed
imitarli davanti al pubblico dei signori. Parlava e spergiurava
come un millantatore eccitato dal vino: raccontava sempre
nuove versioni della sua storia, dapprima sfacciatamente bugiarda e poi, via via, più prossima alla verità, avvicinandosi
lentamente alle parole senza macchia di Apollo. Ma, mentre
fìngeva, chi può escludere che rivelasse la parte più infima e
turpe della propria natura? Il re di Itaca era certo una nobilissima aquila dalla parola umana, ma anche un girovago e un
ciurmatore: il primo dei servi da commedia, che dopo di lui
attraverseranno agilmente, mai disperati, mai domi, la scena
intricata e farsesca del mondo.
Il destino lo fece errare, per dieci anni, lontano da casa: gli
rivelò le violenze dei Ciclopi, la tristezza sconsolata dell'Ade,
le tempeste e i naufragi: la lunga prigionia, piena di lacrime,
nel cuore del Mediterraneo; e lo spinse fin dove le direzioni
si perdono e l'Oriente si confonde con l'Occidente. Come
accade a tutti gli uomini, questo era senza dubbio il «suo»
destino: l'unico che egli poteva conoscere, perché i vagabondaggi, i ritardi e i labirinti nei quali rischiò di perdersi, incarnavano la forza di fuga che portava dentro di sé. Ma, d'altra parte, qualcuno gli aveva imposto questa sorte. Mentre
errava di costa in costa, egli desiderava soltanto di ritornare
nell'isola dove aveva lasciato la sua casa, le sue ricchezze, il
letto patriarcale e la moglie che gli assomigliava come una
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sorella. Non cedette a nessuna lusinga: vinse una dopo l'altra
le forze che l'avrebbero spinto a dimenticare; preservò intatta la propria memoria, percorrendo insonne le onde e i misteri del Mediterraneo.
Intanto «soffriva molti dolori». Conobbe tutte le ansie, le
angosce, le fatiche della mente e del corpo, i terrori più alti e
più vili: bevve il calice della sua esistenza sino all'ultima e più
atroce umiliazione, mendicando nella propria casa. Questa
somma di dolori, che si rovesciarono dentro di lui come in
un vaso sempre pronto a riceverli, costituì la realtà essenziale della sua vita. Soffrendo dieci anni di guerra e poi altri dieci anni di vagabondaggio, egli apprese l'arte di sopportare,
con cuore paziente e tenace, tutte le sofferenze del mondo;
e la più grande e diffìcile delle arti: quella di rispettare devotamente, qualsiasi cosa accada, la volontà degli dèi.
Mentre gli anni passavano, egli si irrigidiva, quasi a difendersi dagli assalti del destino. Il suo cuore divenne di sasso;
e gli occhi impararono a rimanere immoti tra le palpebre,
duri come il corno e il ferro, davanti agli spettacoli che lo
toccavano più profondamente. Ma questi occhi di corno non
debbono illuderci. Qualche volta bastava un piccolo fatto, e
tutte le fatiche e i dolori, che egli aveva celato nell'animo, si
risvegliavano all'improvviso. Allora quest'uomo tenace e durissimo veniva travolto da un pianto infinito, che lo costringeva a nascondere il capo sotto il manto e bagnava di lacrime le sue vesti. Nessun eroe epico, forse nemmeno Achille,
pianse mai in modo così straziante, profondo e terribile, come questo grande bugiardo.
A differenza di Achille, che cantava sulla cetra «le glorie
degli eroi», Ulisse non sapeva poetare. Sebbene venerasse le
Muse e i loro cantori, esse non amavano la sua mente ingannatrice e insidiosa. Non possedeva nemmeno, come ci spiega Telemaco in un giovanile ed arrogante trattato di estetica,
il distacco contemplativo di chi sa ascoltare la voce della
poesia. Quando gli aedi celebravano le sue imprese, non
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provava gioia: non veniva consolato né calmato dalla perizia
armoniosa dei suoni. Quei canti risvegliavano soltanto i suoi
dolori: li rendevano più violenti e intollerabili; ed egli singhiozzava disperatamente, quasi fosse una regina trascinata
in schiavitù o una povera donna capace soltanto di badare al
telaio e al fuso.
Il regno sopra il quale Ulisse regnava come un onnipotente sovrano era quello del racconto, illimitato e intricato
quanto il disegno che i suoi viaggi tracciano sulla carta del
Mediterraneo. Nell'Odissea, dove tutti ingannano, fìngono e
raccontano, nessuno possiede le sue incomparabili qualità
di narratore. Nessuno conosce, quanto lui, l'arte di appropriarsi e di adattare le più diverse esperienze: nessuno ha
una memoria così incessante; e una mente equivoca come il
destino, insolubile come i nodi di Circe, colorata come i tappeti, mobile come Proteo, menzognera come quella dei ciurmatori di strada. Così Ulisse diventò il simbolo stesso dell'arte di raccontare. Tutti i grandi scrittori di romanzi andarono
alla sua scuola, e si sforzarono di possedere questo straordinario fascio di doni.
Quando Ulisse raccontava nelle sale dei palazzi o nelle capanne dei pastori, dalle sue parole discendeva un incantesimo simile a quello che le Sirene avevano insinuato nei loro
canti epici. Tutti gli ascoltatori restavano affascinati: tutti
avrebbero voluto trascorrere svegli la notte, forse ogni notte,
a sentire le avventure prodigiose, come se Ermes, con la sua
bacchetta magica, avesse sottratto il sonno alle loro palpebre. Ma Ermes possedeva anche un'altra facoltà: quella di ricondurre il sonno sugli occhi stanchi ed affaticati. Non volle
mai rivelarla ad Ulisse. Qualche tempo d o p o la stesura
dell'Odissea, egli la concesse in d o n o ad Apollo: cioè alla
grande poesia epica e lirica, la quale apprese a calmare gli
animi così profondamente che al suono della lira d'oro persino l'aquila di Zeus, sopraffatta dalla nube del sonno, chinava il capo adunco e chiudeva dolcemente le palpebre.
Né Omero né nessun altro scrittore antico ci informano se
Ulisse abbia sofferto, perché il suo dio tutelare gli aveva sot44
tratto questa facoltà preziosissima. Ma tutto ci lascia credere
che egli abbia accettato di buon animo la decisione di Ermes. Proprio lui, così curioso, mobile e inquieto, sempre
soccorso da una memoria implacabile, come avrebbe potuto
calmare gli animi violenti e far discendere tra noi il molle incantesimo del sonno, il soave sortilegio della dimenticanza?
Tra i Feaci e ad Itaca, in Grecia, in Europa o in qualsiasi luogo un essere umano cominciasse a raccontare, la sua parte
era un'altra. Quando tutto sembrava noto e pacifico, egli accennava che là in fondo, dietro la linea dell'orizzonte, stavano altri mostri, altre magie, altri regni dei morti: che era possibile conoscere nuovi ordigni, nuove frodi, nuove
menzogne e nuovi dolori; e così risvegliava ed eccitava gli
animi calmi. Scrivere romanzi non è forse questo? Introdurre
l'inquietudine tra i lettori e le cose, aprire gli occhi, destare
la curiosità, suscitare il fascino, diffondere sopra la terra, che
così volentieri china il capo sotto il tocco della quiete, il terribile dono dell'insonnia?
AMORE FILOSOFO
Il Simposio di Platone è costruito come un racconto di
Conrad. Siamo ad Atene, attorno al 400 avanti Cristo: Apollodoro di Falero, un giovane innamorato di Socrate, sta parlando con un gruppo «di ricchi e di uomini d'affari», di cui non
conosciamo nemmeno un volto: ascoltiamo soltanto una voce; e narra a questi visi silenziosi il racconto che gli fece un altro innamorato di Socrate, Aristodemo. Il racconto di Aristodemo riferisce i dialoghi che, sedici anni prima, un gruppo di
amici e di conoscenti avevano tenuto attorno all'amore: avevano parlato Fedro, Pausania, Erissimaco, Aristofane, Agatone; ma l'ultimo e il principale di questi discorsi, quello di Socrate, racchiudeva dentro di sé, come la noce della fiaba
racchiude dentro di sé il magico vestito di seta dallo strascico
lungo decine di metri, il discorso che a sua volta Diotima, la
misteriosa «straniera di Mantinea», aveva tenuto non sappia45
mo quando intomo all'amore. Cosa significano questi squisiti
giochi narrativi, questi racconti che contengono in sé sempre
nuovi racconti, questo incerto allontanarsi nel tempo della
memoria? Nei dialoghi di Platone, nemmeno una parola è casuale. Tutto ci lascia credere che questi giochi alludano, con
leggerezza sovrana, a quella sovrana ambiguità, che nel Simposio è propria di Eros.
Evocato dalle parole intrecciate di Apollodoro e di Aristodemo, compare sulla scena Socrate: ben lavato e profumato,
porta i sandali ai piedi, contro la sua abitudine; mentre i suoi
sporgenti occhi «da toro» guardano fissamente le cose, come
se volessero penetrarle, e vedono di lato, senza che egli si
volti, con l'ubiquità dei polipi e degli dèi. Appena lo scorgiamo, lo riconosciamo subito: è «uno di noi», come un'altra
volta avrebbe detto Conrad. Egli è il più geniale e incantevole fra i dilettanti che siano mai apparsi sulla scena della letteratura: non possiede nessuna conoscenza, nessuna professione precisa: tutto quello che è scolastico lo annoia: tutto
quello che è pesante, calcolato, letterario, convenzionale,
suscita l'eleganza del suo sarcasmo; e alla fissità silenziosa
della parola scritta preferisce la cangiante molteplicità della
parola parlata. Sembra non possedere una casa: va in giro,
ozia, vagabonda, interroga, chiacchiera, dentro o fuori le
mura, nelle case o lungo l'Ilisso; insaziabilmente curioso e
desideroso delle cose più futili che accadono nelle abitazioni
degli uomini e dei pensieri sublimi o insignificanti che percorrono la loro mente. Sebbene conosca le parole dei grandi
poeti, egli è un personaggio da commedia: parla di asini da
soma, di fabbri, di calzolai e di conciatori: come il più insolente dei ventriloqui, si diverte a parodiare gli stili; e appena
compare, leggendo noi dobbiamo abbassare il tono della voce, perché la vita quotidiana - questo mistero - sta per affacciarsi sulla pagina scritta.
Ma ecco accadere qualcosa di straordinario. All'improvviso
Socrate rallenta il passo e poi si ferma per la strada, lasciando
che Aristodemo lo sopravanzi: dei pensieri, di cui Platone
non ci comunica nulla, l'hanno assalito; e dobbiamo immagi46
nare che «fonti straniere», voci divine o demoniache, suoni e
ispirazioni che non sapremmo mai percepire, gli siano penetrate nell'orecchio come versate da un'anfora. In questo momento, Socrate è divenuto un ispirato, che comunica con altri
mondi. Proprio lui, che ci era parso così prossimo alla superfìcie comica della vita, ora conosce soltanto quei doni divini,
che il «delirio» ci ispira: il delirio che la divinazione apollinea
suscita nella Sibilla e nella profetessa di Delfi, il delirio delle
iniziazioni e delle purificazioni dionisiache, il delirio che le
Muse risvegliano nell'animo delicato e immacolato dei veri
poeti, il delirio furibondo di Eros. In pochi istanti, ruotando
sopra sé stesso, Socrate ci mostra un volto completamente diverso. Noi non finiamo di meravigliarci che questo dilettante,
questo vagabondo, questo curioso cammini con tanta naturalezza per le strade dell'eterno. Non finiamo di sorprenderci
che questo personaggio da commedia deliri, e poi nasconda
di nuovo i suoi doni sovrannaturali dietro la discrezione più
amabile e sorridente. Un così perfetto equilibrio tra le qualità
opposte dell'animo umano non si è mai più verificato nella
storia; e perciò Socrate continua a sembrarci qualcosa di unico. Tutto è chiaro, in lui: chiaro come il platano, l'erba, le acque trasparenti dell'Ilisso, dove lo vedremo avanzare: siamo
nel mondo più limpido che abbiamo mai conosciuto; eppure
chi è più enigmatico di lui, chi è più irraggiungibile e inafferrabile della sua persona?
Dopo poco, il simposio comincia. Gli invitati si distendono l'uno accanto all'altro sopra i lettucci: cenano, fanno le libagioni rituali, cantano gli inni di Dioniso, compiono gli altri
riti consacrati. Nessuno ha più voglia di bere: nessuno desidera ripetere l'orgia del giorno prima: congedano la flautista; e, su invito di Fedro, ognuno degli invitati pronuncia un
discorso in lode di Amore. Non c'è argomento più adatto a
una riunione dionisiaca: perché, come sapremo presto da
Socrate, Amore è stato concepito da un dio ubriaco di nettare. I primi discorsi non ci entusiasmano: Fedro, Pausania,
Erissimaco lodano Amore come il più antico, nobile e virtuoso tra tutti gli dèi; e comprendiamo subito che Platone non
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ci ha invitato qui, nascosti dietro le porte invisibili della scena, per ascoltare questi eccellenti discorsi morali. Il tono
cambia appena prende la parola Aristofane, che finora aveva
buffoneggiato, singhiozzando e poi starnutendo per farsi
passare il singhiozzo. Il discorso di Aristofane è meraviglioso
come le grandi invenzioni mitico-farsesche delle sue commedie, che Platone imita con una felicità deliziosa, come se
potesse echeggiare tutti gli stili, diventare tutti i volti possibili, trasformarsi in tutte le forme che percorrono l'universo
vivente.
Sia che discendessero dal sole, dalla terra o dalla luna, gli
uomini primitivi - racconta Aristofane - erano rotondi. La
schiena e i fianchi erano circolari: avevano due volti riuniti in
un'unica testa, quattro mani, quattro gambe, quattro orecchie, e due genitali. Quando correvano, muovevano rapidamente in cerchio, volteggiando come gli acrobati o come ragni giganti, servendosi contemporaneamente delle mani e
delle gambe. Avrebbero dovuto essere felici, poiché condividevano la perfezione del cerchio. Eppure, senza pietà, gonfi
di una smisurata superbia, diedero l'assalto al cielo. Allora
Zeus li punì. Li tagliò in due, come si taglia un uovo: Apollo
rovesciò loro il volto, raccolse e tirò la pelle sul ventre, quasi
stesse chiudendo una borsa: lasciò una sola apertura, l'ombelico; e cancellò le rughe e modellò il petto, adoperando
uno strumento simile a quello con cui il calzolaio spiana sulla forma delle scarpe le pieghe del cuoio. Gli uomini così divisi e lacerati provarono un rimpianto straziante dell'unità
originaria: sospiravano verso la metà perduta, desideravano
qualcosa che «non sapevano dire», qualcosa che intravedevano e indovinavano oscuramente; e avrebbero voluto identificarsi gli uni cogli altri, fusi in un unico corpo. Così, oggi, migliaia di anni d o p o la punizione di Zeus, se desideriamo
conoscere la felicità dobbiamo ritrovare quell'amato che è
nostro, quella parte che è stata violentemente tagliata da
ognuno di noi; e solo Eros può ricongiungere le due parti divise. L'amore non è dunque il sentimento della pienezza, come credevano gli altri commensali. Non esisteva quando gli
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uomini erano circolari: esso può nascere soltanto dalla sconfitta, nella lacerazione, nell'abbandono, nella caduta.
Il discorso di Aristofane annuncia il tema centrale del Simposio: l'alleanza, che si stabilì in quella notte unica al mondo,
tra lo spirito dionisiaco, insieme farsesco e tragico, della
commedia e lo spirito erotico della filosofia, unite contro
quella che noi oggi chiameremmo letteratura. Cosa importa
che, durante la vita, Aristofane abbia osteggiato Socrate? Nelle ore di quella notte indimenticabile, Aristofane e Socrate
appartennero per un momento allo stesso regno: sia la commedia che la filosofìa balzano oltre l'intelligenza razionale,
per cogliere la verità suprema con un mito che illumina,
splende, rivela ciò che la ragione da sola non sarebbe mai capace di esprimere; sia Aristofane che Socrate scorgono l'essenza di amore nella mancanza e nella caduta. Ma parlare di
alleanza è dir poco. Attendiamo qualche ora. Quando la notte è al suo culmine, nel cortile si ode un gran frastuono, voci
e grida di una brigata di festaioli, mescolati alla voce di una
flautista. Poi irrompe nella sala del convito il più elegante e
indemoniato tra gli spiriti dionisiaci: Alcibiade, completamente ubriaco, cinto da una corona di viole e di edere e con
la testa carica di nastri, come una baccante. Appena vede Socrate, si stende sul lettuccio accanto a lui, lo inghirlanda, ricorda i loro amori passati, e ne pronuncia l'elogio.
Per bocca di Alcibiade, Dioniso stesso esalta Socrate, e ci
mostra in quest'uomo modesto, sobrio, ironico, dallo sguardo «da toro», la più alta incarnazione che lo spirito dionisiaco possa conoscere. Chi lo scorge, crede di ammirare in lui
un Sileno, pieno di immagini divine: come le musiche del satiro Marsia, le sue parole ci incantano, ci possiedono, ci fanno battere il cuore, ci fanno scendere le lacrime dagli occhi,
ci sconvolgono l'animo; e se il morso della vipera suscita il
delirio bacchico, il morso serpentino del suo discorso filosofico suscita nelle anime giovani e ricche la frenesia bacchica... Ci attendiamo d u n q u e che Socrate stesso, avvolto di
viole e di edere, prenda la testa della processione dionisiaca;
e che il Simposio si trasformi in un'orgia sacra. Ma nulla di
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questo accade: Socrate non cede alla tremenda forza del dio,
beve senza ubriacarsi. Egli è il seduttore che non si lascia sedurre, l'ispiratore che non viene invasato. Come sempre,
condivide tutti i religiosi deliri che assalgono l'anima degli
uomini: la follia di Dioniso, la follia di Apollo, la follia di Eros:
ne deriva tutta l'elevazione e la forza di verità; eppure trova
in questa condizione una specie di calma irraggiungibile, di
regale tranquillità, che gli permette di trascorrere delirando
oltre lo stesso delirio.
Quando Socrate appare sulla scena, fa risuonare nella sua
voce sorridente il discorso più grave di Diotima, «la straniera
di Mantinea», la sacerdotessa di Apollo. Eros non è il dio antico e potentissimo degli altri oratori: il suo volto ha gli stessi
lineamenti di ciascuno di noi, giacché ognuno di noi - che
camminiamo sulla terra, legati alla terra, desiderosi del cielo
- è Amore. Eros ha una doppia genealogia. Siccome è figlio
della Povertà, che mendica e stende la mano davanti alle
porte, non è un dio bello, buono, ricco e felice: ma un demone povero e sporco, dalla pelle ruvida, che cammina a
piedi nudi, che non ha un tetto e dorme sotto il cielo aperto,
davanti alle porte delle case e sopra i sentieri. Tutto gli manca: la vita è per lui un solo elenco di assenze: qualità che non
ha, cose che non possiede e che non scorge, immediatamente presenti, davanti agli occhi desiderosi. Ciò che fa di
noi degli esseri a metà strada fra la terra e il cielo, non sono,
come credono i cultori dell'uomo, le virtù intellettuali e morali di cui andiamo così orgogliosi. Il segno della nostra nobiltà è la nostra mancanza: la fame che ci tortura, la bontà
che non possediamo, la verità che non conosciamo, la bellezza a cui aspiriamo, il silenzio che ci nasconde, la tenebra
che ci avvolge.
Per parte di padre, Amore è figlio di Poros (Espediente),
figlio a sua volta della dea Metis. Poiché questi nomi mitologici dicono poco a un lettore moderno, basterà ricordare
che per parte di padre Eros assomiglia ad Ulisse. Egli ha una
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mente molteplice e versatile come la sua. Possiede le stesse
qualità del timoniere, che gioca d'astuzia col vento, per condurre la nave nel porto, seguendo un cammino disegnato
dai capricci del mare: del cacciatore, che si muove senza rumore e si nasconde senza essere visto: del polipo, che si
confonde con la pietra, imitando il colore delle cose a cui si
avvicina: del sofista, che macchina mille trovate e fa apparire
ai suoi uditori le stesse cose ora simili ora dissimili; e soprattutto dell'artigiano, che estrae miracoli dall'abilità industriosa delle sue mani. Ma vi è una differenza. Mentre Ulisse e i
suoi allievi cercavano di fronteggiare moltiplicandosi l'inquietante molteplicità del divenire, Eros (cioè Socrate) è versatile, variegato, curioso, ingegnoso, ondeggiante per iniziare il cammino verso il regno dell'Essere. Socrate non è forse
il principe dei dilettanti, il signore dei parodisti, il nuovo Proteo? Piegandosi ai desideri del suo personaggio, Platone
sfrutta tutta la ricchezza di invenzione, di immaginazione, di
sapienza artigiana, che esiste nel mondo di Metis, per giungere dove potremo finalmente contemplare la luce della Bellezza e del Pensiero.
Così il figlio di Povertà e di Poros - il demone dai piedi nudi e dalla mente ingegnosa, il demone cacciatore e sofista incomincia la sua appassionata ricerca filosofica, alla quale
noi tutti, suoi fratelli, suoi figli, partecipiamo. Siccome è
Eros, genera e procrea instancabilmente; e ha l'anima spiritualmente feconda, come i filosofi, i veri poeti, gli artigiani
inventivi, i legislatori delle città. La creatività spirituale quella che molti usano contrapporre alla furia, all'immediatezza e alla melanconia della vita - non è altro che la forma
più squisita della vitalità erotica, che sola p u ò assicurarci
l'immortalità in terra. Se vogliono creare, gli uomini creativi
debbono innamorarsi. Quando per loro è giunta l'età di generare, cercano con tutta la fame, la brama e l'astuzia di
Eros, dei giovani bellissimi, ricchi di felici disposizioni naturali. Allora provano un ardore e uno slancio infiniti: diventano lieti e gioiosi; e questi sentimenti agiscono come nel caso
del parto fisico, perché le pareti del loro spirito si distendo51
no, si espandono, si allargano, si aprono, generando finalmente quei discorsi filosofici, quei poemi, quelle invenzioni,
che nascondevano nei labirinti oscuri e tortuosi della mente.
In questo momento, tra l'amante e l'amato nasce uno scambio strettissimo: entrambi nutrono, allevano, educano, fanno crescere i figli imperituri del loro amore spirituale: da vicino o da lontano, pensano a loro; così che fra di essi si
stabilisce una comunanza molto più profonda di quella che
ci lega ai figli della nostra carne.
Se vogliamo conoscere il culmine della costruzione amorosa di Platone, dovremo abbandonare le voci, le grida, i
suoni di flauto del Simposio, e trasferirci nella campagna ateniese, in un giorno d'estate. Siamo nel Fedro; dove nulla ci
ricorda i deliziosi giochi narrativi del Simposio; tutto è narrato direttamente, giacché l'amore, spogliandosi da quelle forme ambigue ed elusive, rivela la sua immobile essenza. Mentre nel cielo il sole è quasi allo zenit, Socrate e Fedro lasciano
la strada polverosa e camminano a piedi nudi nelle magre
acque dell'Ilisso. Ad un tratto Fedro vede un luogo dove fermarsi: l'erba di un pendio dolcemente inclinato invita a distendersi: un platano altissimo copre molto spazio con la
sua ombra: un arbusto fiorito profuma intensamente l'aria; e
quale purezza, quale trasparenza i rivoli d'acqua offrono agli
occhi. Il coro delle cicale di mezzogiorno fa eco alla chiara
melodia delle acque: le cicale conversano sopra le teste di
Socrate e di Fedro; e vorrebbero farli dormire, con la testa
distesa accanto alla sorgente. Ma, siccome né Socrate né Fedro cedono al sonno, le cicale useranno una grazia che esse
sole posseggono, comunicando i loro discorsi alle Muse:
ognuna delle parole che ascoltiamo in questo giorno d'estate, e forse perfino la nostra muta presenza fra i platani e le
acque, troverà quindi un'eco negli spazi celesti.
Sotto l'ombra del platano, tra il profumo degli arbusti estivi, Socrate racconta a Fedro un mito che diverrà immensamente famoso nei secoli. Il corteo degli dèi e delle anime
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umane non ancora incarnate muove verso la Pianura della
Verità, che si estende al di fuori del nostro mondo, sopra la
volta del cielo. Zeus s'avanza per primo, sferzando il suo carro alato, e dietro di lui si slancia l'armata degli dèi e lo stuolo
dei demoni, ognuno dei quali occupa un corpo astrale. Guidando i loro cavalli docilissimi, questi dèi-astri accettano il
proprio destino, e compiono in eterno le perfette orbite circolari prefissate ad ognuno di loro. Seguendo il corteo degli
astri, le nostre anime disincarnate vorrebbero anch'esse raggiungere il luogo sopraceleste. Il cocchiere è alato, come i
due cavalli che egli guida: li muove la stessa implacabile forza di leggerezza, che trascina gli dèi verso l'alto. Ma come sono diversi i cocchi degli dèi e quelli delle anime umane! Se i
cavalli astrali sono docili, l'uno dei nostri cavalli obbedisce
alle redini e l'altro recalcitra e piega verso terra la mano
dell'inesperto cocchiere. Se gli dèi-astri percorrono inflessibilmente le proprie orbite circolari, le anime umane conoscono le torture strazianti dell'invidia, e i cocchi cercano di
superarsi a vicenda. I carri si urtano, si scontrano, vengono
sommersi nella calca e nel tumulto: molte anime restano
storpiate e zoppicano penosamente: altre hanno le ali offese, lacerate e spezzate; e discendono sulla terra, dove giacciono intorpidite dentro questo sepolcro che è il nostro corpo, prigioniere dei vani sogni dell'opinione.
Finalmente, valicando le lunghe ed aspre salite del cielo, il
corteo giunge davanti alla Pianura della Verità: le anime sono
pochissime; e riescono a gettarvi appena uno sguardo sommario e di sbieco. Lassù stanno le Idee, immobili sopra il loro piedestallo sacro: la Giustizia e la Temperanza, la Bellezza
e il Pensiero: sempre eguali a sé stesse, semplici, pure, non
hanno mani né viso, né corpo, né colore, né forma; ignorano la generazione e la morte, la crescita, la consumazione e
il mutamento. Mentre le anime continuano a girare in cerchio, sottoposte alla legge del movimento, si drizzano sopra
la volta del cielo e «si sporgono» all'infuori. Sebbene siano
sempre soggette alla vorticosa rivoluzione dello spazio e del
tempo, durante un brevissimo, impercettibile istante (che
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nessuno potrà mai misurare), esse escono dallo spazio e dal
tempo, immerse con gli occhi nel Luogo da cui ogni luogo
discende. I cavalli pascono l'erba immateriale, che cresce nel
prato della Pianura: l'unico cibo che dia leggerezza alle ali
delle anime umane.
In quel verde leggerissimo e aereo, sporgendosi fuori dal
cerchio, le anime umane provano davanti alle Idee gli stessi
sentimenti che, tanti secoli dopo, gli iniziati conosceranno al
termine dell'iniziazione mistica: sudori, terrori, sbigottimenti, fremiti di orrore sacro, delirio, venerazione. Mentre il cerchio del cielo sta per trascinarle lontano, esse vengono irradiate da una luce pura e splendente, come l'iniziato
scorgeva «a metà della notte un sole lampeggiante di fulgida
luce». Ecco accadere in questo momento il più sublime paradosso della filosofìa occidentale: la Giustizia e la Temperanza, la Bellezza e il Pensiero non hanno né forma né colore,
né corpo né mani: sono dunque invisibili, e noi dovremmo
soltanto pensarle con la mente, come ogni giorno pensiamo
i concetti della nostra ragione; eppure le pochissime anime
umane, che sono giunte nella Pianura della Verità, le scorgono. Le Idee non sono concetti, ma Archetipi: posseggono
un'esistenza così piena, ricca e corposa, che varcano di un
balzo i limiti dell'astrazione, penetrano di un balzo nello spazio e nel tempo, e noi le vediamo luminose cogli occhi, come uno scrittore vede cogli occhi le visioni della sua arte. Il
vero pensiero non è altro che questo: la corposa visione
dell'invisibile.
Le cicale continuano a coprire col loro canto sempre più
intenso la chiara e lieve melodia delle acque, Socrate ci trascina sulla terra, dove abita così volentieri; e racconta un altro mito a Fedro e a noi tutti che lo ascoltiamo, informati come le Muse dal canto delle cicale. Si lascia andare al suo
incontenibile amore per la futilità: riempie il suo mito di deliziosi particolari quotidiani; e talvolta si abbandona a sviluppi meravigliosamente virtuosistici. Ma Platone non è mai co54
sì serio come quando gioca, e proprio ora ci offre la descrizione di amore, che il Simposio aveva appena abbozzato. La
sua non è una psicologia intellettuale dell'amore, come
quelle di Stendhal e perfino di Proust. L'anima è, per lui, uno
spazio fisico che partorisce e si nutre: una forza fisica alla
quale spuntano le ali e crescono i denti; come accade in
Shakespeare e in tutti i grandi creatori, i quali sanno che le
forme essenziali della realtà debbono essere visibili, palpabili, materiali. Platone rappresenta insieme una simbologia e
una fisiologia della vita amorosa, assalendo l'anima dai due
estremi, l'alto ed il basso. Non c'è forma più alta di conoscenza. Solo quando trasformiamo le forze, gli istinti, gli impulsi del nostro io nei personaggi, nei fantasmi e nelle ombre di una commedia simbolico-fisica, possiamo raggiungere
l'intera verità su noi stessi.
Qualche volta, percorrendo il mondo, prigionieri del nostro corpo come l'ostrica della conchiglia, ci accade di scorgere un volto bellissimo. L'apparizione lampeggia; e noi vediamo nel ricordo la Bellezza sopraceleste, simile a quella
che avevamo contemplata una volta, risplendente sul suo
piedestallo sacro. Vedendo il volto bellissimo, siamo storditi
e sconvolti: un fremito di sacro orrore ci assale, come l'iniziato durante i misteri; qualcosa dei nostri timori di allora si
insinua nel nostro spirito. Guardiamo la bella immagine terrestre e la veneriamo profondamente; e se non temessimo
di essere creduti pazzi, le offriremmo dei sacrifìci. In questo
momento, avviene in noi uno strano fenomeno. Mentre il
sudore religioso bagna la nostra anima, dal volto e dal corpo
del giovane scorre verso di lei un'onda incorporea, che la
riempie fino al bordo; e sotto la forza generatrice e nutritiva
ili questa doppia umidità, un calore insolito scioglie la rigida
crosta che ricopriva l'anima e le impediva di germogliare. Lo
slancio delle nostre ali riprende: i calami delle penne premono, incalzano, e cominciano a crescere partendo dalla radice; tutta l'anima spiccia, sgorga, ribolle, prova un improvviso
solletico, un formicolio, un'irritazione palpitante, come un
bambino al quale stanno per spuntare i denti. Se l'amato è
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lontano, i fori da cui stanno per uscire le penne si seccano
intercettando il germe che sta per nascere: questo viene rinchiuso dentro di noi e balza e batte forte, così che l'anima,
punta da ogni parte, smania e infuria; non può dormire la
notte né restare ferma durante il giorno. Se invece vede
l'amato, se l'onda della visione e del desiderio torna a scorrere verso di lei, i fori delle penne si liberano, le penne ricominciano a crescere, lo slancio ha nuova forza; e prova il piacere più delizioso.
I due cavalli alati dell'anima si muovono. Il primo ha il pelo bianco, il collo alto, il portamento diritto ed elegante, le
orecchie pronte ad accogliere qualsiasi parola del cocchiere:
il secondo, invece, è massiccio, ha il pelo nero, il collo corto
e tozzo, la faccia schiacciata, gli occhi grigi e iniettati di sangue, le orecchie coperte da un vello così folto che gli impedisce di sentire i comandi. Quando l'amante vede l'amato, il
primo dei due cavalli, pieno di rispetto e di discrezione, obbedisce alle redini che lo trattengono: mentre il cavallo dal
pelo tenebroso e dagli occhi iniettati di sangue, trascinato
dalla furia del fascino erotico, si slancia avanti con un salto
violento, balza verso l'amato; e nitrisce, ingiuria, tende
ostentatamente la coda, morde il morso, impazza senza vergogna. Allora il cocchiere trattiene il cocchio, tira indietro il
morso, insanguina la bocca ingiuriosa e le mascelle del cavallo rivoltoso, lo costringe a camminare con la schiena bassa,
fa nascere in lui la stessa vergogna e la stessa venerazione timorosa, che invadono il suo cuore davanti all'amato. Non
immaginiamo che qui l'«austère Platon» abbia obbedito alle
proprie tarde tendenze ascetiche. Come hanno compreso i
grandi pittori platonici del Rinascimento, egli utilizza e trasforma come nessun altro filosofo la passione e l'energia di
Eros. Il delirio erotico continua a infuriare nel corpo e nel
cuore dell'amante: gli riempie il cuore di terrore e di tenerezza; il desiderio non realizzato viene mantenuto al suo diapason. Quando l'anima ne è piena e trabocca, la passione di
Eros si trasforma nel delirio filosofico con cui noi contempliamo, in terra, le sovrumane forme dell'Essere: delirio non
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meno tremendo di quello che imperversa nel cuore e sulla
bocca della profetessa di Delfi, dei veri poeti, degli iniziati di
Dioniso.
Così, mentre la sala chiusa del simposio di Atene, dove risuonavano le voci degli ubriachi, si è trasformata nell'assolata e sonora scena del mondo, quanta strada abbiamo percorso! Siamo ormai lontanissimi dal punto di partenza: dalla
povertà siamo arrivati alla pienezza, dall'opinione al sapere
vero, da un'intelligenza fatta di inganni, di labirinti e di astuzie all'intelligenza contemplativa: dal movimento siamo
giunti alla stasi, dal crepuscolo alla piena luce, dalla sapienza
artigiana alla filosofìa, dalla curiosità al delirio. Mentre il calore del giorno sta diminuendo, Socrate può riprendere la sua
strada, rivolto dove ormai non possiamo più seguirlo. Ma se
qualcuno ci chiedesse cosa è rimasto del primo volto d'amore, oscuro e polipesco, fatto di povertà e di astuzia, che dovremmo rispondere? Appena conquistato, l'Essere è perduto: la luce che ci ha illuminato dura un istante; e Socrate
deve percorrere il suo cammino fidando nella forza oscura
della nostra mancanza, nella sua astuzia da cacciatore, nell'irradiazione della sua curiosità amorosa.
SATURNO E I.A MELANCONIA
Un antico dio detronizzato, un lontano pianeta reggono
ancora i destini di molti fra noi, gettando una luce tenebrosa
e paradossale sulle nostre vite. Saturno era stato l'architetto
del mondo: aveva inventato il tempo e l'agricoltura: aveva
regnato sulla terra nell'età dell'oro - quell'età senza leggi,
senza giudici, senza timori, senza scritti incisi sul bronzo,
quando non c'erano le navi e i commerci, i fossati intorno alle città, le trombe e i corni di guerra, le spade e i soldati, e
una primavera eterna accarezzava coi suoi tiepidi venti i fiori
nati senza semenza. Ma quest'eterno dio dell'utopia era stato anche un dio «odioso, superbo, empio, crudele»: un divoratore di figli e di dèi; Giove l'aveva detronizzato, esiliandolo
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forse alle gelide estremità della terra e del mare, forse nel
Tartaro o sotto il Tartaro, dove viveva in catene, come uno
schiavo. Quando attribuirono nomi divini agli astri, gli antichi riservarono lo stesso destino antitetico al suo pianeta.
Saturno era il pianeta più alto, e quindi conservava l'eccellenza e la sovranità nel sistema solare. Ma era anche nero e
sinistro, ostile alla terra e agli esseri umani. Freddo, bianco e
ventoso, lontano, lento ed enigmatico, mandava sulla terra
una luce debolissima e fioca, suscitava il ghiaccio e la neve, i
fulmini e il tuono.
Gli astri degli antichi non attraversavano il cielo ignari delle nostre sorti, come gli astri che oggi contempliamo negli
spazi. Una catena di influenze, di analogie, di echi, di rassomiglianze scendeva dalle stelle fino alle nostre membra, agli
alberi, alle pietre: determinava le nostre passioni; e dai cuori
e dalle membra umane, dalle pietre e dagli alberi risaliva fino
alle stelle, costruendo un'unica scienza delle relazioni, che
era anche una cosmologia. Con il suo sguardo delicatissimo
ai rapporti cosmici, l'astrologo antico rintracciava l'influsso
del lontano e ghiacciato pianeta-dio nella milza, dove si raccoglievano gli umori della «bile nera»: la tenebrosa melanconia. Nasceva così la stirpe dei figli di Saturno.
Sappiamo tutto di loro. Con una ostinata e maligna compiacenza, gli astrologi antichi dipingono il loro aspetto: essi
hanno i capelli e la pelle scura, gli occhi piccoli e infossati, la
voce fievole, lo sguardo volto a terra, il corpo magro, sottile e
stretto. A prima vista, appartengono a questo mondo. La «bile
nera» è legata alla terra: Saturno è un pianeta terrestre e lento; e anche i melanconici hanno un carattere tenace, solido,
stabile, che li fa adatti ai lavori della terra. Sono dunque dei
contadini e dei muratori? Contribuiscono anch'essi a costruire il grande edificio della realtà, dove stiamo rinchiusi come
carcerati? Sarà meglio non anticipare le conclusioni degli antichi astrologi-psicologi. Dal loro lato terreno e pietroso, i «saturnini» traggono quella disperata tenacia, quell'ostinazione
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testarda, che li spinge a inseguire per tutta la vita uno scopo
che, quasi sempre, non appartiene al mondo.
Se Saturno vive sotto il segno dell'antitesi, un'antitesi egualmente angosciosa costringe il melanconico a nutrirsi di
polarità e di contrasti, a correre da un estremo all'altro della
realtà, a lacerarsi nelle contraddizioni, a soffrire nei paradossi,
a splendere di nere agudezas. Gli altri uomini conducono, o
sognano di condurre, delle esistenze armoniche, unitarie, o
almeno coerenti. La vita del melanconico è fatta di opposti:
abbattimenti e esaltazioni, depressioni e eccitamenti, desolazioni e estasi - e tra i due estremi corre un'affinità segreta.
Quando la bile nera è fredda, il melanconico diventa «torbido e ottuso». L'indolenza e il pallore di Saturno lo sopraffanno. All'improvviso, perde la facoltà di vedere. Come se
qualcuno avesse spento un interruttore gigantesco, la luce
lascia il mondo visibile. Qualsiasi cosa egli contempli, è fissa,
livida e spettrale: vuota come il guscio di una conchiglia o
come una casa bruciata dall'interno. Il mondo è opaco, immobile, funerario, terribilmente silenzioso: sembra che nessuno vi abbia mai azzardato un movimento, sia mai scoppiato in una risata, né vi abbia mai conosciuto un attimo di
allegria e di tensione. La vita si è arrestata. Il cielo soffoca come la pietra di un sepolcro. Tutto diventa irreale: delle ombre o delle silhouettes tentano dei gesti fittizi su un fondo
che sa di scene di cartone e di gesso, in un orribile avanspettacolo di periferia, sotto una illuminazione lunare. Allora, il
melanconico perde ogni desiderio di vivere. È apatico, indifferente a tutto, abbattuto: ogni minima scintilla si è spenta
nella sua anima obnubilata. Tutto ciò che attrae gli altri non
gli piace: tutto ciò che amano gli altri lo infastidisce; la primavera lo annoia come l'autunno, l'inverno e l'estate paiono
eguali al suo occhio. Se legge un libro, non riesce a figgere
gli occhi nei segni: le lettere non diventano parole, le parole
non diventano immagini, le immagini non si muovono davanti agli occhi. Legge senza partecipare, senza comprendere, senza gioia, senza che in lui si accenda la luce interiore
c he lo assicura di avere capito.
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I cieli aperti, i viali alberati, la gioia dei mari e dei fiumi
non lo attirano più. Resta chiuso nella sua casa, seduto in
poltrona, senza fare nulla, senza pensare ad altro che alla interminabile malattia, avvolto da un'ombra che si allarga continuamente, dai fantasmi del giorno, dagli incubi della notte,
da sonni sempre più inquieti. Ogni istante conosce il morso
della noia. Nessun gesto riesce a spezzarla. Quando la noia si
lacera, egli è preda di sospetti, di paure, di terrori senza nome e significato: il suo io si trasforma, si moltiplica, diventa
un oscuro nemico, che lo assale contemporaneamente da
tutte le parti: l'assedio non ha soste; e scoppia in lacrime,
tanto il nemico sembra inesorabile e prossimo alla vittoria.
Ogni mattina, davanti allo specchio, è tentato di tagliarsi la
gola: se resiste all'idea del suicidio, è soltanto perché è certo
che dopo la morte entrerà in un universo ancora più squallido. Attraversa il mondo accompagnato da quest'ombra nera,
che avverte perfino nel sapore del cibo. Non riesce ad amare
sé stesso, e ha l'impressione che tutti gli altri lo sospettino,
lo detestino o gli preparino insidie ed agguati. Qualche volta, uno slancio di euforica frivolezza lo spinge verso di loro:
li vorrebbe stringere contro il suo cuore morto; più spesso,
non prova per loro che una gelida ostilità, un amaro rancore,
e ride un riso amaro alle loro spalle.
Col loro linguaggio mitico e astrologico, gli antichi psicologi rappresentano mirabilmente i deserti desolati di quella
che gli psichiatri moderni chiamano «depressione». Quando
il melanconico attraversa la sua fase fredda o depressa, nessuno lo ama. Nessuno può amare chi sta raccolto in sé stesso, aggrovigliato in sé stesso, freddo, apatico, con gli occhi
incapaci di guardare la realtà e gli altri uomini. Così gli scritti
dei dotti e i calendari popolari vedono nel melanconico il
compendio dei vizi: subdolo, avaro, timido, invidioso, frodolento, ingannatore, rancoroso, rapace; e gli attribuiscono
ogni sorta di afflizioni e di sventure. Con una etimologia fantastica, melancholia viene fatta derivare da malus-. Adamo
diventa melanconico dopo aver morso la mela nel Paradiso
terrestre; il nero volto di Giuda è il volto di un atrabiliare.
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«L'ora di Saturno è l'ora del male» dice un calendario. «In
quest'ora Dio fu tradito e consegnato a morte.»
L'altro polo della melanconia ha l'ardore e i colori del fuoco. Quando la bile nera è calda, il saturnino diventa «vivace e
brillante». La salute sembra tornare. Si tratta soltanto di
un'euforia opposta e identica alla fase di abbattimento, come oggi dicono i testi clinici? Senza dubbio: ma quali strade
di felicità apre quest'euforia! Quando il melanconico risanato si sveglia, scorge un raggio di sole penetrare dalle persiane: si alza, pieno di gioia, si affaccia alla finestra, mentre da
lontano ascolta il rumore dei tram e dei clacson; ed ecco che
il mondo intero, come diceva Baudelaire, «si offre con un rilievo possente, una nettezza di contorni, un'ammirevole ricchezza di colori». Non c'è più traccia di monotonia, di rigidità e di freddezza. Tutto è lieto, allegro, vivace, percorso da
un movimento e da un fremito: la luce bagna e dissolve le
cose: le forme si sciolgono in una liquidità immensa; eppure
le cose restano robustamente corpose e reali; e un'ondata di
amore getta le creature le une verso le altre. Il melanconico
non è mai stato così radioso. Tutto lo diverte, lo interessa, lo
attrae. I suoi sensi sono più attenti e minuziosi: i sentimenti
scorgono dovunque analogie segrete, i pensieri, continuamente attivi e in moto, sono accompagnati da una scossa
nervosa, che li introduce nel cuore della realtà.
Spesso, l'euforia assume tratti dionisiaci. Le passioni, fino
allora sopraffatte dal gelo, avvampano: l'affetto e l'odio accendono il cuore: il desiderio erotico bagna l'anima: l'orgoglio trasforma in tiranni; la loquacità, l'ira, il vino, l'audacia
avventata, accessi di esaltazione e di sovreccitazione generano un entusiasmo, che assomiglia al furore che Platone attribuì ai veri poeti. Con una velocità paurosa, con una specie di
estasi lirica, il melanconico reagisce a tutte le impressioni e
sensazioni: dalla sua immaginazione sgorgano fantasie seducenti e colorate, sogni, allucinazioni: la memoria viene colpita dalla violenza dei ricordi involontari; quando la personalità si concentra in sé stessa, lo spirito è assalito dalle visioni,
dalla grazia di Dio, da vaticini che colmano ed esaltano l'ani61
ma, da un pensiero che mira a cogliere il centro e il culmine
dell'Essere. In questi momenti, se è un artista, egli proietta il
suo io fuori di sé, trasformando le proprie ebbre energie
narcisistiche in un superbo universo oggettivo. Ma il saturnino non si rallegra mai troppo per questi doni. Egli sa bene
che può pagarli a carissimo prezzo; e che il suo furor dionisiaco-platonico può degenerare nell'ossessione, nella licantropia, o nella sinistra follia degli eroi - Ercole, Aiace, Bellerofonte - maledetti da qualche potenza divina.
Quest'alternanza sembra non avere mai fine. Salvo qualcuno che, sfortunato o felice, esce per sempre dal ciclo, il
melanconico non conosce che questo ritmo periodico di abbattimento e di esaltazione, di torpore e d'euforia, di desolazione e di estasi. Da un lato, egli ha la sensazione che tutti i
suoi sentimenti siano fittizi: non sono vere la noia o la felicità, la luce o la tenebra che lo percorrono, ma soltanto quest'alternante ondulazione, quest'incessante su e giù, che assume forme psicologiche provvisorie e casuali. Così, a volte,
si convince di essere un attore involontario, che indossa gli
abiti del dolore e della gioia secondo la suggestione
dell'oscuro agente interiore. D'altra parte, chi può escludere
che questo ondeggiamento riproduca l'alternanza dell'universo, il quale non conosce la regolarità della linea retta ma
soltanto la ciclica ondulazione? Di rado, il melanconico è immodesto: poiché ha la coscienza di essere abitato da forze
che lo sovrastano e si servono di lui come pretesto per raggiungere chissà quale scopo. Ma, qualche volta, egli sente di
capire di più. Mentre gli altri camminano sulla linea della loro esistenza educata o vivono protetti da un cerchio, conoscendo ogni esperienza in misure equilibrate, - egli conosce
la dismisura, lo squilibrio, l'eccesso: dolore interminabile,
sovrumana felicità, disperato gelo, totale tenebra, totale luce. La verità ha bisogno di questa dismisura.
Un uomo come questo, così polare e paradossale, così gelido e infuocato, così arido e furibondo, così lento e veloce,
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non sopporta la vita degli altri uomini, dominata dal battito
sempre eguale degli orologi. Non può soggiornare nel tempo. Tra gli antichi astrologi-psicologi, si diffonde presto la
convinzione che l'esistenza su questa terra, la monotonia dei
giorni e dei lavori, la comunione coi propri simili, la pronuncia delle parole della tribù non sono fatte per lui. Egli ha un altro destino. In uno dei suoi Problemi, Aristotele afferma che
tutti gli uomini straordinari sono melanconici, identificando il
furor platonico con l'atrabile. Marsilio Ficino ripete che Dio
rivela soltanto ai figli di Saturno i misteri della terra e del cielo,
consacrandoli alla contemplazione religiosa, alla filosofia, alla
magia, alla poesia, alle arti figurative e alla matematica. I massimi spiriti della Grecia avevano conosciuto la Melanconia. In
loro ricordo, Ficino e Lorenzo il Magnifico, Pico della Mirandola e Durer, Raffaello, Leonardo e Michelangelo innalzano le
bandiere tenebrose, solenni e sontuose di Saturno.
La teoria rinascimentale del genio, che fonde il mito, l'analisi astrologica e psico-fisiologica in un solo complesso, è la
più sottile che l'uomo abbia mai tentato dell'arte. Chi scrive
versi o compone quadri e statue è spinto da un impulso insostenibile a far rinascere sulla terra l'età dell'oro: la fa rinascere nella sua opera, che è la stessa età dell'oro realizzata.
Ma è anche simile a una divinità decaduta, prigioniera nelle
tenebre o esiliata ai limiti della terra, che porta nella memoria il ricordo dell'utopia e della sua fine irreparabile; o ad un
astro che fugge, sempre più pallido ed enigmatico, l'acume
degli occhi umani. Chi vuole conoscere la luce della forma,
deve attraversare l'ombra: sostare sull'orlo di un precipizio,
o camminare tra due voragini, tra due follie egualmente tremende. Tutte le passioni estreme lo minacciano: l'ostinazione fanatica: l'angoscia e la tortura dell'antitesi: la freddezza
di chi abita tra i ghiacci polari e non riesce a provare nessun
sentimento terrestre; il furore della «follia» divina, l'entusiasmo delirante delle baccanti, le impure aspirazioni della bile
nera, l'apatia della depressione, l'aridità e il torpore della
noia, il terrore, la fantasticheria senza limiti, l'orgoglio dissennato, la demenza...
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L'avventura dell'artista saturnino del Rinascimento è tragica; e i luoghi dove sosta sono, forse, più sconsolati di quelli
dove, pochi secoli più tardi, ameranno indugiare Chateaubriand e Poe, Kierkegaard e Baudelaire. Ma, secondo Marsilio Ficino, egli ha una possibilità di salvezza. I pericoli della
Melanconia possono venire mitigati con una ragionevole
dieta, una giusta divisione del tempo, viaggi e i suoni del liuto e dell'arpa. Il vero rimedio è interiore. Egli deve accettare
senza riserve il proprio destino astrologico: abbandonarsi alla «divina contemplazione», dedicarsi con passione esclusiva
alla carta, ai colori e al marmo, vivere «solo e cogitativo», come se nessun altro legame lo stringesse più al mondo, dove i
suoi passi continuano a condurlo. Se avrà raccolto quello
che gli astri gli hanno mandato, se avrà abitato profondamente la propria ricchissima sorte, avrà in dono la redenzione della forma.
Tutti questi temi confluiscono nella Melencolia I di Durer.
È il tardo crepuscolo, o le prime ore della notte, l'ora che la
Melanconia preferisce. Il pipistrello volteggia, la luna illumina il cielo, la cometa annuncia inondazioni, il mare brilla di
una strana fosforescenza: ci sembra che mai più la luce piena
del sole illuminerà il mondo, cacciando gli incubi e le fantasticherie. Dappertutto sono sparsi i sublimi strumenti della
geometria: la sfera, il compasso, la squadra, il martello, il poliedro, la pialla e la sega, la bilancia e la clessidra; e il crogiuolo dell'alchimista. Ma dove guarda il genio alato, nato
sotto Saturno? Ha la guancia appoggiata ad una mano, in segno di dolore e di fatica mentale: il viso in ombra, nero, come le vittime dell'atrabile; gli occhi si perdono con straziante intensità nel regno vuoto dell'invisibile, dove la
Melanconia costruisce il suo regno. Non fa nulla: il suo spirito è assalito da visioni vaghe e indeterminate, che egli solo
conosce. La sega posa inutilizzata ai suoi piedi: la mola sta
poggiata inutile al muro: il libro gli sta in grembo coi fermagli chiusi: il poliedro è ignorato: la sfera è rotolata a terra e il
compasso sta rovinandosi perché nessuno lo adopera: la
borsa è scivolata negligentemente al suolo: le chiavi pendo64
no disordinatamente dal loro anello; e il misero cane addormentato è figlio della desolazione e del freddo. Giungerà
mai il giorno, in cui questo gelido e sinistro torpore si spezzerà? Giungerà mai il momento in cui, staccando gli occhi
dall'invisibile, nutrendosi del ricco tedio che l'ha dominato,
- la mano dell'artista comincerà a stendere linee, quella del
poeta a scrivere versi rigorosi come figure geometriche? Apparirà mai, sul mondo inondato dalle comete, la luce?
IL SOGNO DI NERONE
Nessuno tra i grandi imperatori romani ebbe un oroscopo
più splendido di quello che accompagnò la nascita di Lucio
Domizio Nerone. Come racconta Svetonio, egli nacque mentre l'aurora aveva appena dissipato le tenebre, «in modo che
venne colpito dai raggi del sole quasi prima» della superficie
ancora fredda, pallida e ombrosa della terra. Tutto ciò, secondo gli astrologhi di corte, non avvenne per caso. Se il sole l'aveva benedetto in modo così visibile, era perché il vero
palazzo di Nerone era la reggia celeste: il suo cocchio era il
carro fiammeggiante di Apollo; e il suo compito quello di
percorrere con luce errante la terra, che l'avrebbe contemplato lieta e senza timore. Dall'alto dei cieli, il sole discendeva amorosamente sul viso del suo giovane emulo: lo irradiava di una luce che attirava gli occhi di tutti, e faceva brillare i
suoi capelli biondi e ondulati, il suo bel collo, la sua lieve
barba rossiccia... Chi poteva dubitare, aggiungevano a gara i
poeti e i filosofi, che il nuovo principe solare avrebbe adempito tutte le speranze fino allora deluse degli uomini? Con
Nerone, avrebbe avuto inizio il nuovo Secolo d'Oro. La concordia, la pace e la clemenza avrebbero abbracciato in un legame eterno tutte le cose ed i cuori: le greggi non avrebbero
più temuto i leoni; mentre la terra si sarebbe coperta spontaneamente di uva, di miele e di spighe di grano.
Molti segni ci lasciano credere, o almeno immaginare, che
il giovane principe dagli occhi bluastri e dalla barba rossiccia
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abbia provato da principio una specie di riluttanza ad accettare questa luminosa immagine di sé stesso. Il suo sangue
non discendeva soltanto da Augusto, che aveva venerato
l'Apollo romano. Tra gli avi, egli contava il suo grande rivale,
Marco Antonio, che aveva consacrato la propria esistenza alla religione di Dioniso soave e selvaggio. Per imitare Dioniso,
Antonio aveva trascorso il giorno dormendo e vagabondando e la notte in orge, spettacoli, divertimenti: aveva vissuto
tra mimi, buffoni, suonatori di liuto, danzatori, attori petulanti e ribaldi, uomini, donne e fanciulli camuffati da baccanti e da satiri; si era incanaglito insieme a Cleopatra - come
potevano incanaglirsi gli imitatori di un dio -, giocando a dadi con lei, bevendo e ubriacandosi con lei, cacciando con lei,
e attraversando travestito, insieme alla sua regina travestita
da serva, i quartieri popolari e malfamati di Alessandria. Così
fece anche Nerone. La notte, usciva insieme agli amici letterati, ai liberti, a una folla di attori, di cavallari e di lestofanti
per la città addormentata. Mascherato da schiavo, percorreva le taverne e i lupanari di Roma, dove si abbandonava ironicamente ad ogni orgia, rissa, insolenza e dissipazione, come se la maschera della commedia - la triviale e sacra
maschera della commedia - fosse il suo volto più vero. Se
fosse rimasto così, Roma avrebbe conosciuto soltanto un imperatore buffone, un re da Satiricon, un biondo Falstaff da
trivi.
Questa riluttanza ad affrontare il proprio oroscopo non
durò a lungo. Nemmeno ventenne, Nerone fissò lo sguardo
nell'immagine abbagliante di sé stesso che gli era stata proposta; e cercò di realizzarla con quello slancio, con quell'enfasi,
con quella fantasia grandiosa e barocca, che insegnò ai futuri
imperatori romani. Se i primi raggi del giorno avevano sfiorato il suo corpo infantile, la luce piena del giorno avrebbe illuminato la sua vita, il suo impero, e l'età che stava per prendere nome da lui. Dobbiamo cercare di contemplare con gli
occhi della mente le grandi feste in cui Nerone rappresentò la
propria immagine davanti agli uomini. Intorno a lui, stava Roma festante: la città immensa dove si consumava tutto quello
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che cresce sulla terra, la città tortuosa percorsa da un torrente
rapido di persone: la città decorata di ghirlande, di fiaccole e
odorosa d'incenso, dove i cittadini e i soldati acclamavano il
«Nuovo Apollo», il «Nuovo Sole», il «Salvatore e Benefattore
del mondo», che appariva vestito di porpora e con una clamide disseminata di stelle d'oro. In uno di quei giorni trionfali,
un intero teatro venne ricoperto d'oro: le scene, i muri, i costumi degli attori brillavano e risplendevano d'oro - poiché
l'oro è il metallo solare per eccellenza. Con un ardire, che a
qualcuno dovette sembrare sacrilego, il sole celeste venne tenuto lontano dalla cerimonia. Grandi tende di porpora ricoprirono il teatro; e al centro era ricamata la figura di Nerone, il
Nuovo Sole, che guidava il carro di Apollo e illuminava l'universo, circondato dalle stelle del cielo.
Questa apoteosi toccò il punto più alto nel palazzo - la Domus Aurea -, che egli fece costruire sulle rovine di Roma incendiata. Chi poteva chiamarla una casa? Era un mondo, che
comprendeva nei suoi vasti confini tutto quello che il mondo
creato offre ai suoi abitatori. Vi erano boschi aspri e selvaggi:
prati aperti dove pascolavano greggi: animali feroci, come
quelli che popolarono la reggia di Montezuma: campi, vigneti: un lago circondato da edifìci che imitavano un porto di mare; piazzali, portici, ninfei, terme, vie sacre, colonnati, padiglioni... Chi osava penetrare dentro le mura, scorgeva nel
vestibolo il genio del luogo: la statua bronzea - quaranta metri d'altezza - di Nerone raffigurato come Colosso di Rodi.
Tutto brillava d'oro, di gemme, di perle, d'argento e d'avorio.
Pietre trasparenti permettevano alla luce del sole di attraversare le mura, quasi incontrasse la tenue resistenza di una stoffa o di un velo d'acqua. Ancora più avanti, il visitatore giungeva nella sala del trono, che girava continuamente intorno a sé
stessa durante il giorno e la notte, come nel cielo girano in
cerchio il sole, la luna, le stelle e i segni dello zodiaco. Là in alto, sedeva Nerone tra i suoi dignitari, come un sovrano babilonese o persiano. Dal suo palazzo simile al mondo, dalla sala
rotante che imitava la rotazione dell'universo, egli regnava sul
tempo, gli eventi, le occasioni, le vite e le morti, i sogni e le pa67
role degli uomini, tutto quanto avviene o sembra avvenire
nella sfera sotto la luna. L'oroscopo degli astrologhi di corte si
era dunque compiuto. Il giovane emulo di Apollo era diventato - tra le mura del suo palazzo - il sovrano dio del destino, il
legislatore solare dell'universo.
Durante la sua breve esistenza, Nerone fu accompagnato
dall'attenzione spasmodica, meravigliata e atterrita di Roma.
Nessuno aveva mai visto un sovrano simile a lui. Tutti gli altri,
meno Caligola, avevano posseduto o cercato di possedere
quella virtù fatta di audacia e di cautela, di violenza e di tolleranza, di durezza e di dolcezza, di pazienza e di sopportazione, che nei secoli aveva costruito l'impero romano. Tutti avevano amato la realtà del potere - quella vis imperii che una
sola immagine dell'imperatore, perduta nella più remota contrada montana, bastava a rappresentare simbolicamente agli
occhi dei barbari. Quanto a Nerone, anche lui governava: promulgava leggi, pronunciava giudizi, declamava discorsi in senato, sceglieva consoli, condannava a morte, trionfava su ribelli lontani, progettava nuove forme di tassazione, come
qualsiasi sovrano. Ma tutto questo non soddisfaceva il suo
animo. Il potere che egli sognava, il regno solare che era venuto ad offrire alla terra, riposava su fondamenta più vaste e
illusorie.
I veri atti del suo governo erano altri. Nelle lunghe ore che
la notte offre e ruba agli inganni della finzione, egli si esercitava a cantare e a suonare sulla cetra. La sua voce era «gracile
e sorda», poiché Apollo non gli aveva concesso la qualità sopra ogni altra desiderata; ed egli cercò di educarla con tutti
gli sforzi e gli artifici possibili - portando un foglio di piombo sul petto, astenendosi dai cibi e dai frutti nocivi, vincendo
la propria natura -, fino a quando eccelse nelle sfumature
della gamma, nella melopea, nel gorgheggio, nell'accompagnamento preciso della cetra, nell'arte di regolare i movimenti del corpo secondo le regole della misura. Scriveva versi: sulla caduta di Troia, sul destino di Niobe o sui capelli
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dolci e brillanti di Poppea; cancellando, aggiungendo, correggendo, simile a tutti coloro che hanno avuto in sorte il
dono doloroso di scrivere. Indossava la maschera e gli alti
coturni della tragedia; e diventava Edipo, Tieste, Ercole, Alcmeone, Oreste, Canace, ora schiavo disertore, ora vecchio re
cieco, ora feroce assassino di bambini, ora figlio matricida inseguito dalle Furie, ora pazzo incatenato, ora donna che partorisce. Infine guidava i carri nel circo - perfino il carro immenso trascinato da dieci cavalli -, come gli aurighi coi quali
aveva confuso la sua giovinezza.
Questi canti, questi suoni di cetra, questi versi, questi gesti tragici, che Nerone rappresentava come incarnazione vivente di Apollo, dovevano rivelare al popolo che una nuova
epoca della storia stava per incominciare. Il vecchio impero
romano era morto per sempre. Ora la realtà massiccia del
potere politico cedeva alla lieve illusione dello spettacolo: il
potere segreto, che trama nell'ombra delle corti e delle assemblee, era vinto dal potere che splende ed appare davanti
agli occhi di tutti. Governare l'impero non era più pronunciare discorsi eloquenti in senato, guidare truppe, amministrare - tediose incombenze, da abbandonare ai liberti o agli
schiavi -, ma esibirsi in teatro, come primo ed unico attore
dell'universo. Non importava che i senatori romani lo disprezzassero e lo accusassero di essere un istrione e un pazzo che prostituiva la tradizione di Roma. Nella sala rotante,
che imitava la rotazione dell'universo, Nerone aveva compreso che il suo vero regno era quello della finzione. Così
egli cercò di mutare, l'uno dopo l'altro, tutti i simboli del potere sovrano. Discese dal trono per salire sugli alti coturni, e
indossò la maschera dell'attore - la maschera che svela e nasconde la realtà delle cose. Scambiò la corona politica con le
corone di olivo selvaggio, di pino e di alloro, che venivano
offerte ai vincitori dei giochi: salì sopra il carro, dove Augusto aveva celebrato i suoi trionfi guerrieri, per celebrare i
suoi trionfi sportivi; e volle che i suoi soldati portassero come armi le lire, i plettri, le maschere della tragedia e della
commedia.
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Circondato da una corte di architetti, letterati, pittori e
scenografi, Nerone cominciò a trasformare la vita di Roma in
uno spettacolo ininterrotto, che sfruttava la luce radiosa del
giorno, le ombre della sera e le fiaccole accese per violare
l'oscurità e l'intimità della notte. Organizzò cerimonie per ricevere sovrani orientali: spettacoli gladiatori e teatrali, feste
religiose, ricevimenti, corse equestri: costrinse i nobili romani a frequentare le scuole di canto, a recitare tragedie o a
danzare pantomime; e giunse a preoccuparsi di regolare le
lodi e le acclamazioni della claque secondo un rituale, che
l'ironia della storia fece rinascere nella Chiesa cristiana. Tutto ciò che egli immaginava doveva colpire l'immaginazione,
stupire la fantasia, incantare la mente con il doppio incanto
della grandiosità e dell'illusione barocche. Così fece svolgere
in un teatro una caccia alle bestie feroci, tori, orsi, leoni, come se il cuore di Roma fosse diventato il cuore dell'Africa.
Poi, ad un suo cenno, la scena mutò all'improvviso. Torrenti
d'acqua salata invasero il teatro, uccelli esotici e mostri marini contemplarono la stessa battaglia navale che, tanti secoli
prima, gli Ateniesi avevano combattuto contro i Persiani. Altri vertiginosi cambiamenti di scena si susseguirono nella
notte. I gladiatori si affrontarono, si inseguirono e si uccisero
nel teatro di nuovo asciutto; e quando l'acqua tornò a coprire silenziosamente le pietre, ecco che si avanzarono navi decorate di oro e di avorio, una moltitudine di uomini e di
donne banchettò intorno a Nerone, taverne si illuminarono
lungo le rive.
Malgrado le proprie speranze, Nerone non riuscì a far rinascere in sé la figura di Apollo con la medesima naturalezza
con la quale Alessandro Magno aveva rivissuto le figure degli
dèi e degli eroi antichi. Tra lui e il proprio mito rimase sempre un vuoto, una distanza, una lacerazione, che non seppe
colmare. Non trovò la misura, che la sua vocazione avrebbe
richiesto: i suoi gesti furono ora magniloquenti ora grotteschi, ora tragici ora beffardi, ora turpi ora così delicati da vin70
cere l'odio postumo dei suoi nemici. Se sentiva di essere il
dio incarnato, nessuna ansia avrebbe dovuto sfiorarlo, come
nessuna ansia tocca il sole impassibile davanti all'universo
adorante. E invece, quando stava per salire sopra la scena,
egli era ansioso, inquieto, emozionato, quasi fosse uno qualsiasi - il più giovane ed inesperto - dei concorrenti. Temeva
i giudici, lui che come il destino doveva giudicare ogni cosa:
faceva piccoli, miserabili trucchi ai rivali, lui che non poteva
avere rivali sopra la terra. Poi, nemmeno sopra la scena, sapeva cancellare sé stesso, come l'attore che dimentica il nome e il cognome, la vita, i dolori e i pensieri per diventare nello spazio di poche ore - Agamennone od Edipo. Sappiamo che la maschera di Nerone portava incisi i suoi lineamenti; e che egli recitava quasi soltanto parti da matricida, come
se volesse espiare sulla scena il più grande crimine della propria esistenza. Così non fu l'ombra di un dio: non fu un mito: non fu nemmeno un attore; rimase Lucio Domizio Nerone, un u o m o dalle gambe gracili e dal ventre gonfio,
divenuto per caso imperatore.
Di quest'uomo, conosciamo ogni delitto. Il fratello adottivo, Britannico, venne avvelenato mentre mangiava, e le sue
membra impallidirono, si raffreddarono e si irrigidirono davanti ai commensali. La madre, che pretendeva di regnare in
suo luogo, invisibile dietro una fitta cortina, fu uccisa con un
colpo di spada nel ventre; e il figlio continuò per molte notti
a incontrare nei sogni quel fantasma vendicativo, si svegliò
terrorizzato, temette di non vedere più la luce del giorno, e
durante il giorno credeva di udire i lamenti dalla sua tomba.
La moglie venne esiliata, svenata, soffocata: il suo capo reciso fu portato a Roma, come un sinistro omaggio alla rivale;
e, dopo di allora, quanti altri, amici e nemici, innocenti o infami, congiurati o appena sospetti, lasciarono violentemente
la vita durante il suo regno... Era un «mostro», l'«abominio
del genere umano», dicevano i suoi nemici, dimenticando il
sangue che aveva macchiato le mani del «pio» Augusto.
Quanto a noi, che abbiamo conosciuto mostri peggiori di
Nerone, ci chiediamo se tutto quanto gli accadde non sia sta71
to una fantastica allegoria. Se avesse saputo vivere nel regno
della pura finzione, se fosse apparso al suo popolo come
Apollo incoronato, forse egli avrebbe potuto scindere il terribile abbraccio tra l'illimitato potere e l'illimitato delitto, che
il mondo antico lasciò in eredità al mondo moderno. Rimase
a metà, sul limite ambiguo tra la realtà e l'illusione. E, per
una specie di vendetta, mentre egli cercava di trasformare
sempre più completamente l'impero in una festa teatrale, il
potere gli dimostrò che esso non può venire abolito: lo costrinse a insanguinare il suo trono; e, se dobbiamo credere
ad un verso dell'Octavia, lo spinse a proclamare il terrore
come unica arte possibile di governo, con le stesse parole di
Saint-Just e di Robespierre.
Negli ultimi anni di regno, la sua ambizione inseguì mete
sempre più lontane e impossibili. Non si accontentò di regnare simbolicamente dalla sua reggia sopra le vicende dell'universo: non gli bastò di raffigurare Apollo citaredo od auriga
nei teatri di Corinto o di Roma. Iniziato da uno dei «maghi»
persiani, cercò di conoscere il futuro, di conversare con le
ombre degli inferi, e di possedere la formula segreta per comandare agli dèi. Forse sperava di diventare come Erittone, la
strega della Tessaglia rappresentata da Lucano, che faceva discendere le stelle e la luna dalla volta celeste, gonfiava il mare,
fermava i fiumi, prolungava la notte, modificava gli eventi stabiliti dal destino, costringeva gli dèi celesti e quelli degli abissi
ad obbedire ai suoi desideri infernali. Così la parabola di Nerone si rovesciò. Il giovane principe, che la mite luce del sole
aveva sfiorato, tentava di emulare la più tenebrosa e malvagia
tra le divinità che ossessionarono la fantasia degli uomini del
suo tempo. Era ancora luce quella che egli irradiava? Era ancora oro quello che adornava la sua casa? I cittadini, che osavano avvicinarsi agli atri del grande palazzo, che minacciava di
ingoiare la città, dovevano immaginarlo come un sole tenebroso, avvolto da una nube fosca: o come un sole che arde,
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dissecca, incenerisce tutte le cose sfiorate dal suo fiato pestilenziale.
La sua fine fu patetica e miserabile. Quando le tribù della
Gallia e le legioni della Spagna si ribellarono, il senato congiurava e i suoi fidi cominciavano ad abbandonarlo, da principio egli non fece nulla per difendere il trono: non diede ordini, come se volesse domare la rivolta con il silenzio.
Seguiva con passione le lotte degli atleti: scese egli stesso a
gareggiare nell'arena; continuava a dedicare la stessa attenzione alla cetra, e parlava a voce bassa per non offendere la
gola infiammata. Non aveva perduto lo spirito beffardo. Una
notte, invitò i senatori nella reggia, quasi dovesse fare una
comunicazione politica della massima urgenza, e mostrò loro degli strumenti musicali di nuovo modello, che avrebbe
portato al seguito delle sue truppe. Fece qualche incerto
tentativo di resistenza. Ma il suo sogno meraviglioso e grottesco era quello di piegare la forza delle armi, che si era ribellata contro di lui, con la forza incorporea della finzione.
«Andrò nella provincia» dichiarò una notte ai suoi ultimi amici «mi presenterò senza armi davanti ai soldati ribelli e mi accontenterò di piangere. Allora essi si pentiranno: senza dubbio si pentiranno; ed io, pieno di gioia tra una folla piena di
gioia, canterò davanti a loro il mio inno di vittoria.»
Nessuno volle ascoltare le sue lacrime - lacrime teatrali o
lacrime di pentimento, chi può dire? -: nessuno gli permise
di intonare l'inno di vittoria che aveva già preparato. In una
notte di giugno del 68, le sue guardie lo abbandonarono, rubando le coperte, i tappeti della sua stanza e la scatola dei
veleni. Insieme a pochi liberti, egli si lasciò per sempre dietro le spalle la Domus Aurea, la sala che ruotava inutilmente
senza di lui, il Colosso di Rodi che gli assomigliava: quegli archi, quei colonnati, quelle pietre trasparenti, che fra poco sarebbero stati rovinati e dispersi.
Era a piedi nudi, indossava un mantelluccio scolorito, un
fazzoletto gli copriva il volto; e si nascose in una boscaglia,
presso una fossa d'acqua stagnante, strisciando tra i rovi che
gli laceravano le vesti. Lì rimase qualche tempo senza parole,
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disteso a terra come l'ultimo dei fuggiaschi, sobbalzando ad
ogni voce lontana, intimorito se un cane abbaiava, un uccello
cantava, o un ramo o un cespuglio venivano scossi dal vento.
Come aggiunse ferocemente uno storico greco, per la prima
ed ultima volta si tolse la maschera e smise di recitare, ridotto
alla nuda realtà della sua vita. Il suo dio l'aveva abbandonato
senza un cenno, un suono, o una musica. Poi, la quiete notturna fu rotta da un frastuono improvviso di rapidi zoccoli:
Nerone comprese che stavano per giungere i cavalieri incaricati di prenderlo vivo: ricordò per l'ultima volta al mondo il
suo sogno di artista, ripetè un verso di Omero, e si uccise.
PLUTARCO E IL MITO
Il dono supremo che un uomo possa raggiungere in vita,
secondo Plutarco, è la conoscenza del divino. Tutti gli altri
doni umani sono inferiori: sia la purezza e l'austerità dell'esistenza sia l'abitudine di osservare i riti nei templi di Egitto e
di Grecia, dove la medesima divinità è venerata sotto forme
sempre diverse. Non c'è altro, sul culmine della vita, che
questa conoscenza degli dèi. Ma come conoscere gli dèi? Come capire l'essenza di Zeus e di Dioniso, di Amon-Ra e di
Osiride? Qualsiasi conoscenza del divino urta contro un paradosso: perché il divino è proprio quanto si sottrae allo
sguardo, il nascosto, l'occultato, l'incomprensibile e irriducibile enigma, il santuario al quale nemmeno gli uccelli possono avvicinarsi. Le sfingi davanti ai templi egiziani ci ricordano che ogni teologia è «intessuta di sapienza enigmatica»,
mentre Iside ci annuncia dal tempio di Sais: «Io sono tutto
ciò che è stato, che è e che sarà, e nessun mortale sollevò
mai il mio peplo». Allora ciò che dovremmo conoscere ci resterà per sempre celato? In un punto mirabile di Iside e Osiride, Plutarco ci assicura che possiamo conoscere la verità
intorno all'Essere. Non è una verità filosofica né un racconto
mitico, ma una rivelazione estatica, come quella appresa dalle anime di Platone nel Luogo Sopraceleste: un lampo lumi74
nosissimo e velocissimo accende la nostra anima una volta
sola nella vita; ma, in quel lampo intemporale di beatitudine,
noi possiamo contemplare, toccare con gli sguardi il divino,
come facciamo nel nostro mondo quando prendiamo in mano una cosa.
Molto al di sotto di questa rivelazione estatica, stanno le
verità opposte e parallele della filosofia e del mito. Quanto
alla filosofìa, è solo un «sogno indistinto», nel quale l'uomo,
qui sulla terra, prigioniero del corpo e delle passioni, arriva a
sfiorare il divino; e i cultori egiziani di questo sogno si tagliano i capelli, indossano vesti di lino, bianche come la luce, rifiutano il vino e l'eccesso di cibo, per unire il desiderio e la
ricerca del vero con la leggerezza, la purezza e l'agilità delle
membra.
Il mito è molto più complesso: i suoi cultori dovrebbero
indossare le vesti variopinte e sfumate di Iside per simboleggiare ciò che vi è in esso di molteplice, ondeggiante e contradittorio. Di una sola cosa, Plutarco sembra certissimo:
non possiamo tradurre il mito in una realtà storica umana, o
in un semplice fatto naturale, o nemmeno in un fatto astrale,
come se la sua sostanza si esaurisse completamente in queste equivalenze. Nella sua apparente bonarietà di sacerdote
delfico, Plutarco è più sottile di Lévi-Strauss o di de Santillana. Quello che caratterizza ogni mito è l'infinita ricchezza
degli accostamenti che ci consente. Noi possiamo trascriverlo, come fa Plutarco in Iside e Osiride, in termini demoniaci,
matematici, alfabetici, naturali, filosofici, religiosi; e mentre
lo interpretiamo, ci accorgiamo che ogni segno può avere
valori contrastanti, significare insieme il sole e l'acqua, la materia e la conoscenza. Pensare miticamente significa giungere nel luogo dove «il principio di non contraddizione» è caduto. Sappiamo quali obiezioni ciò ha provocato: rinunciare
al «principio di non contraddizione» significherebbe rinunciare ad ogni unità e coerenza del pensiero, affondare nel disordine e nella confusione. Plutarco sa, invece, che nulla è
più unitario e coerente del mito: chi pensa miticamente coglie un fenomeno unico nella realtà; e concentra attorno a
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questo fenomeno, che possiamo chiamare Ermes o Dioniso
o Iside o Osiride, una ricchezza molteplice di motivi.
Ogni mito ha una progressione e un culmine. Nelle sue
zone inferiori, esso ci richiama alla realtà naturale: nelle sue
zone alte, ci mette in rapporto col trascendente. Il mito non
coglie direttamente l'essenza del divino, che possiamo toccare soltanto col balzo vertiginoso dell'estasi: non ci permette di avvicinarci e di guardare cogli occhi l'incontaminato principio delle cose; esso è soltanto un riflesso del divino,
come l'arcobaleno è un fenomeno di riflessione del sole. Eppure in questo riflesso colorato noi conosciamo costantemente il divino: così scrisse Goethe all'inizio del Faust II.
Il mito ci parla volentieri di morte e di sofferenze. Come i
colori dell'arcobaleno si rivelano soltanto se li osserviamo
contro uno sfondo nuvoloso, così la luce del mito predilige i
tristi e luttuosi sacrifici egiziani, celebrati in templi che si inabissano nella tenebra: predilige la storia di Iside e Osiride, che
ci racconta la morte di un dio e le peregrinazioni e le sofferenze di una dea, e che probabilmente Plutarco considerava il logos per eccellenza. Così il mito impegna tutte le nostre facoltà. Nato dalla luce intemporale del Primo Principio, ci avvia
verso l'ombra, la notte, la peregrinazione, il dolore, la separazione, la lacerazione, la morte, - la nostra lacerazione e la nostra morte, riscattate per sempre da quelle divine.
Osiride, «il signore di tutte le cose», il dio civilizzatore
dell'Egitto, venne indotto dal fratello nemico Seth-Tifone a
entrare in un'arca, decorata da ornamenti sontuosi. Appena
vi si sdraiò dentro, Seth e gli altri congiurati chiusero il coperchio, lo saldarono all'esterno con i chiodi e vi versarono
piombo fuso. Poi trasportarono l'arca sino al Nilo e la abbandonarono alla corrente perché la conducesse al mare, sede
dell'infecondo e del male. Quando Iside venne informata
della scomparsa del fratello, col quale si era congiunta
nell'oscurità del grembo materno, indossò una nera veste di
lutto; e come Demetra vagabondò senza fine, senza sapere
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dove cercare, chiedendo notizie a tutti quelli che incontrava:
persino ai bambini. Intanto l'arca di Osiride era stata trasportata dal mare a Byblos, sulla costa fenicia. Le onde l'avevano
sospinta in un prato di erica - la quale crebbe rapidamente
sotto l'impulso della virtù fecondatrice di Osiride, diventò
un cespuglio fiorente e bellissimo, nascondendo la bara nel
suo interno. Stupefatto dalla pianta meravigliosa, il re della
Fenicia fece tagliare il fusto di erica; e, senza accorgersi della
bara nascosta, lo trasformò in una colonna che reggeva il tetto della sua casa.
Vestita di nero come la Regina della Notte, Iside giunse a
Byblos e sedette su una fontana. Stava lì a piangere, senza
parlare a nessuno: discorreva volentieri solo con le ancelle
della regina, intrecciando loro i capelli, mentre dal suo corpo spirava un profumo di ambrosia. Quando la regina vide le
ancelle, fu presa dal desiderio della straniera, dalla sua arte
di fare le trecce, da quel delicato profumo di ambrosia, e la
scelse come nutrice. Qualche tempo dopo, Iside ottenne in
dono la colonna del tetto, sfrondò i rami di erica, portò alla
luce la bara, la aprì, e gemendo e gridando abbandonò il suo
viso sul viso di Osiride e si mise a baciarlo. Il figlio del re la vide: assistette allo spettacolo proibito - la dea che piange il
dio morto -: Iside si voltò piena d'ira, con uno sguardo terribile, e lo uccise - tanto tremendo è il divino. Tornata in Egitto, depose la bara presso le paludi del Nilo. Ma Seth-Tifone
la scoprì, lacerò il corpo in quattordici pezzi e lo disperse. Il
vagabondaggio della dea riprese, ancora più ansioso e drammatico. Iside attraversò le paludi del Nilo su una zattera di
papiro; e dovunque trovasse un pezzo del cadavere di Osiride costruiva una tomba-santuario. Così il cerchio si chiuse:
solo l'uccisione, la lacerazione e la dispersione del corpo divino, da parte delle forze del male, permisero che tutto l'universo partecipasse ai riti sacri.
Questo grande racconto, che unisce i colori egiziani e quelli greci, la realtà sacra e rituale, la forza del simbolo, la storia
77
d'avventura e passione e la favola, - viene interpretato da Plutarco secondo sempre nuovi punti di vista. Ora Osiride è il libro, la «sacra scrittura», che l'ignoranza di Seth-Tifone straccia
e cancella, e Iside ricompone per trasmetterla agli iniziati: ora
possiamo trascrivere i nomi di Osiride e Iside in termini geometrici ed alfabetici. Poi Plutarco affronta l'interpretazione
naturale. Osiride è il Nilo, il principio dell'elemento umido,
«origine della vita e sostanza feconda»: Iside è la terra fecondata; e Seth-Tifone è l'aridità impura del mare. Ma ogni segno
del triangolo divino cambia valore, con una velocità che lascia
sovente perplesse le menti del ventesimo secolo, che hanno
perduto la rapidità e la duttilità delle menti greco-egiziane.
Osiride diventa la luce lunare (in quanto la luna umidifica e favorisce la riproduzione), e poi quella solare. Come figura
complementare di Osiride, Iside diventa a sua volta l'umida e
cangiante luna. Seth-T ifone diventa prima la forza ignea del
sole, che brucia, inaridisce e dissecca i fiori e i germogli, quindi si lega alle tenebre e all'eccesso dei venti, egualmente nemici della vegetazione. In questa prima fase, tutto il racconto
non è che un apologo naturale: l'imprigionamento di Osiride
nella bara è il simbolo del decrescere delle acque del Nilo e
della loro progressiva scomparsa.
Siamo appena al primo gradino dell'interpretazione mitica:
Plutarco diffida di chi trascrive esclusivamente il mito in segni
naturali, «in venti e corsi d'acqua e semine e arature e accidenti della terra e passaggi di stagione». Al livello più alto, dove il mito è il riflesso colorato del divino, Osiride è il principio
delle cose, il puro, l'incontaminato, l'intelligibile, il bene, tutto ciò che è fisso e ordinato. Iside è il principio femminile della natura, che accoglie nel suo seno i germi vitali, che si evolve
in tutte le forme, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, principio e fine; mentre Seth-Tifone è la
passione, il disordine, la ribellione, la violenza, la dismisura.
Non è difficile cogliere i colori, per metà platonici per metà
zoroastriani, di questo solenne edificio intellettuale.
Subito dopo aver creato questo edificio, con il gesto improvviso e variopinto dell'interprete-artefice di miti, Plutarco
78
ne costruisce un altro. Nel nuovo edificio, Osiride resta identico al di sopra delle cose e dei tempi. Iside diventa invece il
nostro desiderio di conoscenza, che scorre perennemente
in un moto veloce verso l'Unico: così che assistiamo alla
straordinaria coincidenza, per cui il mobile principio femminile della materia, l'umida e cangiante luna, si identifica con
la nostra passione intellettuale, sempre in metamorfosi,
sempre lunare, sempre femminea, da nulla fissata e arrestata. Qualsiasi lettore comprende quanto sia ardita questa
unione tra l'intelligenza e la materia, tra la conoscenza e il
movimento. Quanto a Seth-Tifone, anch'esso cambia natura.
Avevamo conosciuto la sua forza violenta e distruttiva: ora
apprendiamo che, nel suo cuore, la violenza è stasi, immobilità, rigidezza, sclerosi: «un ostacolo per la natura, qualcosa
che la lega e la trattiene e le impedisce di muoversi e di procedere». Una simile fusione tra violenza e sclerosi mi sembra
cogliere l'essenza stessa del male.
Il procedimento di Plutarco è sempre eguale. La materia
diventa la conoscenza, la distruzione diventa la stasi: Plutarco ci insegna che pensare per immagini e miti (come egli
ama fare, come noi tutti dobbiamo fare) è questa continua
sfida al principio di «non contraddizione»: questa continua,
geniale unificazione delle opposizioni e delle antitesi in una
unità superiore. Il piccolo libro mira a unificare la contraddizione suprema, che ha sempre opposto tutte le filosofie
umane. Da un lato, Plutarco è dualista: l'antitesi tra OsirideIside e Seth-Tifone è l'opposizione tra luce e tenebra, bene e
male, ordine e disordine, movimento e rigidezza; e Seth deve venir espulso dalla vita. Ma, d'altra parte, Plutarco sa bene
che Seth-Tifone è una figura troppo ricca di valori e aloni
simbolici per essere eliminato dal mondo. Non si può cancellare il secco dall'atmosfera, il fuoco dagli elementi, il mare
dall'universo: non si può abolire il male, come se fosse una
semplice forma negativa. Allora Plutarco diventa un devoto
dell'armonia fra gli opposti: un alunno di Eraclito, che diceva: «Armonia di opposti è l'armonia dell'universo, come
quella dell'arco e della lira». Secondo un mito, che Plutarco
79
inventa o raccoglie con devozione, Ermes-Thot adottò i nervi del corpo morto di Seth-Tifone per farne delle corde musicali: la nostra musica, quella che ci consola, ci quieta e imita il suono delle sfere astrali, trae dunque la propria origine
dal male e dal disordine, che vengono purificati e innalzati
nell'armonia universale.
Siamo giunti al punto più vertiginoso di questo grande libro. Le due filosofie nemiche si conciliano. Ma come è possibile un accordo fra Zoroastro e Eraclito? Come è possibile
che la metafisica dualistica e l'armonia degli opposti abbiano
un punto comune? La risposta di Plutarco non può essere razionale. Come egli ha sempre saputo, solo chi pensa miticamente può giungere nel luogo - bianco come le vesti dei sacerdoti-filosofi o colorato come la veste di Iside - dove il
contrasto tra i due principii supremi del mondo si scioglie in
una parola ineffabile.
LA LUCE DELLA NOTTE ( i )
Quando gli chiesero quale scrittore del passato avrebbe
preferito conoscere, Goethe non ebbe esitazioni. Rispose:
«Virgilio». Quanto a me, non oserei incontrare quello squisito contadino lombardo, che come me finì i suoi giorni nel
Sud. La sua sapienza mi intimorisce: la sua arte mi spaventa.
Ma nemmeno io avrei dubbi. Tra tutti gli scrittori greci, latini, italiani, tedeschi, russi e inglesi, e perfino tra quelli persiani e cinesi, preferirei incontrare Apuleio, questo ricco
gentiluomo africano, questo brillante conferenziere di Madaura, questo «sacerdote di tutti gli dèi»: il più grande prosatore latino di ogni tempo.
Cosa darei per conversare con Apuleio, a casa sua, a T ripoli o a Cartagine! Certo la conversazione finirebbe presto
per diventare un monologo. Potrei portargli soltanto la mia
incerta conoscenza della letteratura occidentale, qualche notizia sul Medio Evo che lo credette un mago, il ricordo della
pittura veneziana e olandese, che avrebbe amato appassio80
natamente. Non so quale fosse il suo viso. L'autoritratto che
lasciò di sé nel de Magia è certo calunniatorio, e nemmeno
Walter Pater ci persuade quando lo descrive. Era un uomo
felice: forse troppo felice: o almeno ostentava febbrilmente
la sua felicità: meravigliosamente leggero: rapido e ubiquo
come Ulisse: vanitoso, frivolo, spiritoso, estroso, brillante, altero, bugiardo, innamorato di sé e della sua fama; naturale in
qualsiasi cosa facesse o dicesse. Sapeva parlare di tutto. Mi
avrebbe parlato di tutti gli dèi che conosceva (il più divertente degli argomenti): sui demoni, le iniziazioni e le ierogamie:
mi avrebbe accennato con parole velate al dio supremo, il
dio exsuperantissimus-, e poi, come se fosse la stessa cosa
(ma forse è la stessa cosa), avrebbe discorso di rose, di astri,
dei capelli delle donne, di erbe, di pietre, di frutti di mare, di
storie d'amore, di streghe, e degli infiniti pettegolezzi che
rendono così piacevole abitare in provincia. Credo che
avrebbe voluto sapere tutto sugli specchi dei nostri tempi:
questi oggetti meravigliosi che, secondo lui, r e n d o n o la
realtà com'è - il tuo volto, il mio volto, col loro volume e colore -, e insieme le cose che fluttuano e passano, levigate e
illusorie e cangianti come le nostre parole.
Siccome nessun negromante libererà mai il corpo di Apuleio dalla sua oscura tomba africana, non mi resta che prendere in mano le Metamorfosi ovvero L'asino d'oro. Come
Apuleio dice nelle prime righe, la sua è una scientia desultoria-. «una scienza acrobatica», come quella che usavano i cavalieri nel circo, balzando da un cavallo all'altro. E se la letteratura universale, da Aristofane a Beckett, conta moltissimi
acrobati, forse non ce n'è mai stato uno così intelligente, sistematico e ironico. Tutte le Metamorfosi sono un monumento alla più gaia e ardua delle scienze: acrobazie nel passaggio dal greco al latino, nel salto di temi, nelle incessanti
parodie e autoparodie (che finiscono per parodiare anche sé
stesse, grandioso omaggio all'inquietante dio Riso), nella
molteplicità intrecciata delle tradizioni, nella rete (sempre
implicita) delle relazioni e delle allusioni, nelle narrazioni a
scatola cinese, nell'arte dell'omissione e della suspense, nel81
la molteplicità del gioco linguistico, nell'alternanza tra il tono pomposo e leggero e delicato e enorme e invisibile...
Come ogni acrobata, Apuleio pratica la metamorfosi. Il
suo trattato de Mundo è una traduzione: le Metamorfosi sono un plagio: anzi la combinazione di moltissimi plagi, da
qualsiasi scrittore e fonte: così che scrivere non è propriamente, per lui, una creazione, ma l'utilizzazione di una frase,
di un'immagine e di un motivo che un altro aveva impiegato,
e la lenta metamorfosi di questi materiali. Apuleio era un plagiario: un intarsiatore; destino quasi sempre di second'ordine. Ma le Metamorfosi sono probabilmente il romanzo più
originale che sia mai stato scritto, senza il quale non si potrebbero immaginare né il Deca?neron, né la pittura italiana
del Rinascimento, né la mistica occidentale d'ogni secolo, né
il Don Chisciotte, né il romanzo picaresco spagnolo, né Sterne, né II flauto magico, né Nerval, né Pinocchio e nemmeno, forse, i Lehrjahre di Goethe.
Con la favola di Amore e Psiche, Apuleio crea una forma
d'arte che si impose per sempre alla fantasia occidentale:
l'arte dei misteri. Quest'arte è legata dal segreto: deve tacere
le cose divine mentre ne parla; e quindi rivelarle nascondendole. Così Apuleio costruisce le Metamorfosi su un'immensa
omissione: la presenza di Iside nei primi dieci libri, non meno intensa che nella trionfale apparizione dell'undicesimo.
Poi gioca, usa tocchi fatui e leggeri, scherzi e arguzie, allusioni enigmatiche, note basse ed oscene; e la forma più priva di
valore religioso che sia mai esistita - la mitologia ellenistica,
con le Veneri, le Grazie, gli amorini, la ricerca del piccolo e
del parodistico. Non potremmo, in apparenza, essere più
lontani dal sacro: eppure, dietro la superfìcie, la «favola» è il
più grande ed audace testo mistico della letteratura europea. C'è un salto vertiginoso tra quei tocchi leggeri e i gravi e
tremendi segreti che ci vengono comunicati intorno ai rapporti tra Dio e l'anima umana: una radicale mancanza di
identità tra il contenuto e la forma, che segnerà l'arte mistica
fino a Giovanni della Croce.
82
Come dice il nome, Lucio, che è il personaggio e l'autore
delle Metamorfosi, è una creatura luminosa: dunque protetta dagli dèi. È giovane, bello, attraente, ricco e di buona famiglia: bonario, ingenuo, sentimentale, e un poco saccente, come capita spesso ai giovani ricchi che hanno fatto buoni
studi. Non ha qualità positive: non sembra portato a questo
o a quello: ha un carattere passivo; è uno di quei vaghi e incantevoli «specchi» giovanili, come Tamino e Wilhelm Meister, che riflettono il mondo nei loro occhi azzurri e diventano protagonisti di un romanzo. Vive di immaginazione:
possiede una curiosità infinita, simile a quella di Ulisse. Ama
il possibile più del reale e del verosimile: crede che nulla sia
impossibile; pensa che «le cose non siano come paiono».
Adora le meraviglie, le metamorfosi, le magie, le stregonerie,
come Don Chisciotte i romanzi di cavalleria; e quando percorre la Tessaglia, i ciottoli in cui inciampa sono per lui uomini induritisi in pietre, gli uccelli creature umane coperte
di piume, le statue e le pitture stanno per muoversi, come
accade a Don Chisciotte nei paesaggi della Castiglia.
Lucio è una figura comica, come il suo erede spagnolo; e
con grazia sovrana Apuleio si prende gioco del candore,
dell'immaginazione e della curiosità giovanile del suo personaggio. I romanzi di cavalleria conducono Don Chisciotte a
una morte disincantata. Invece Lucio, il «luminoso», si salva.
sua curiosità, che lo perde una volta, gli permette di non
essere sopraffatto dalle esperienze: gli conserva l'occhio e lo
spirito; e, alla fine, gli consente di scrivere un romanzo vasto
come l'universo, ciò che Don Chisciotte non potrebbe fare
mai. La fede nelle metamorfosi, che Apuleio condivide, lo
conduce ai piedi di Iside - la regina di tutti i prodigi e di tutte le metamorfosi. Tutto era davvero «raro e meraviglioso»,
come aveva sognato arrivando in Tessaglia. Del resto non
c'era altra via per scrivere un libro: perché, come sapeva
Apuleio, la letteratura non può raccontare che magia e metamorfosi.
Anche Photis, la servetta di cui Lucio si invaghisce, ha un
nome che risplende di luce. Sulla soglia del regno della me83
tamorfosi, sta lei, col suo piccolo, leggero, lascivo erotismo.
Quando appare nel libro - col vestitino di lino e la fascettina
rosso vivo e i piccoli seni e le mani paffute e la pelle lattea e
piumosa e le reni pieghevoli e i capelli sciolti e ondeggianti,
mentre prepara un intingolo o dimena le natiche o vela il pube o bacia con occhi umidi, tremuli e semichiusi o sazia col
dono «della Venere penduta» - uno squisito sapore di cucina
e di sesso inumidisce il libro di Apuleio. Quale prosa squisita, piena di tenerezze, di miele, di diminutivi, di invenzioni
verbali e di «sussurri venerei»! Cosa importa che Photis sia
soltanto una servetta della Tessaglia? Con lei Lucio conosce
l'esperienza di Afrodite: la folgorante luce amorosa e l'onnipervasiva umidità erotica. Sullo sfondo s'avverte ancora lo
sperma di Urano, versato nel mare, da cui nacque Venere (4,
28). Attorno a Lucio e a Photis, tutto è bagnato di un'umida
luce: i luminosi capelli femminili, specchi cangianti dove si
riflettono più vividi i raggi del sole: il mare e il suo ros, la
spuma; le rose, i fiori di Venere, splendenti e inumidite dalla
rugiada; e le ali roscidae di Amore. Alla fine, la severità del
sacerdote isiaco condannerà queste «voluttà servili». Ma, dietro il velame, Apuleio ci ricorda sorridendo che Photis anticipa Iside, la regina di ogni Eros.
Il vero peccato di Lucio è quello di ignorare ciò che Apuleio
aveva saputo fin dalla giovinezza, quando scriveva i suoi trattati filosofici. Nel mondo esiste una divinità sola: Iside; e questa divinità si moltiplica in ogni forma e in ogni nome - come
Venere, Giunone, Demetra, Artemide, Proserpina, Minerva,
Ecate, Cibele. Qualunque divinità adoriamo o crediamo di
adorare, non adoriamo che lei. In tutti gli eventi della vita - favorevoli o sinistri, celesti o infernali, tragici o comici, casuali o
provvidenziali - incontriamo la regina dalla nerissima sopravveste splendescens atro nitore, che sedici secoli dopo diverrà
la Regina della Notte nel Flauto magico. Come dice l'insegna
sulla sua statua di Sais: «Io sono tutto ciò che è stato, che è e
che sarà, e nessun mortale mai sollevò il mio peplo».
Come tutti i suoi devoti sapevano, Iside era anche la sovrana di ogni magia o negromanzia. Così, quando giunge in Tes84
saglia, Lucio incontra Iside nella sua forma nera, esclusivamente negromantica e stregonesca. Meroe e Panfile, le due
maghe dei primi tre libri, sono due Isidi tenebrose e degradate.1 Ma, dietro a Iside, appare Erittone, l'atroce divinità del
male, superiore agli dèi, agli astri e al destino, che Lucano, un
secolo prima, aveva grandiosamente rappresentato nella
Pharsalia. Meroe e Panfìle traggono giù il cielo, innalzano la
terra, impietrano le fonti, liquefanno le montagne, comandano agli Dèi e ai Mani, spengono il sole e le stelle, illuminano il
Tartaro, fanno rivivere i morti: posseggono l'onniscienza e
l'onniveggenza; si cambiano in ogni possibile forma. Niente è
più sinistro e macabro delle scene stregonesche dei primi libri - il cuore strappato di Socrate, lo sguardo della donnolastrega, il sonno profondissimo di Telifrone. Ma chi non ode il
riso irrispettoso di Apuleio? Sebbene possegga una potenza
inquietante, il mondo delle streghe è un detrito letterario, abbandonato alle feste grottesche del dio Riso. Meroe è divenuta un'ostessa: Panfìle la moglie di un avaro, che ignora i suoi
poteri sovrannaturali; e spesso i loro prodigi sono ridicoli o
falliscono miseramente.
Tutti sanno cosa accade. Lucio avrebbe voluto trasformarsi
1
Iside, Meroe e Panfìle hanno gli stessi poteri, indicati quasi con le stesse formule. Elementorum omnium domina (Iside 11, 5): serviunt elementa (Iside
11, 25): serviunt elementa (Panfìle 3, 15). Regina manium (Iside 11, 5): observant inferi (Iside 11, 25): obaudiunnt manes (Panfìle 3, 15): manes sublimare (Meroe 1, 8). Respondent sidera (Iside 11, 25): stellarum noxios meatus cohibes (Iside 11, 25): caeli luminosa culmina... nutibus meis dispenso
(Iside 11, 5): turbantur sidera (Panfìle 3, 15): sidera extinguere (Meroe 1,9).
Summa numinum (Iside 11, 5): Te superi colunt (Iside 11, 25): coguntur numina (Panfìle 3, 15): deos infirmare (Meroe 1, 8). Le stesse formule riguardano Amore: quo numina terrificantur /fluminaque horrescunt (cfr. Meroe 1,
3 amnes agiles reverti: 1, 8 fontes durare) et Stygiae tenebrae. Inoltre: Meroe
è il nome di una città legata al culto di Iside: il nome della compagna, Panthia,
ricorda Panthea, epiteto di Iside; e Zatchlas, sacerdote egizio, che pronuncia
una preghiera isiaca, invocando caelestia sidera, infera numina, naturalia
elementa, nocturna silentia, ... arcana Memphitica, è un negromante, come
Erittone (2, 28-30). Cfr. J. Wyn Griffìths, Isis in theMetamorphoses of Apuleius,
In Aspects of Apuleius' Golden Ass, Groningen 1978, pp. 143-5, e il suo commento al libro XI passim.
85
in uccello: ma per un fatale scambio di unguenti, la sua tenera
pelle si indurisce in cuoio, le dita diventano zoccoli, dalla spina dorsale esce una grande coda, la bocca si allunga, le labbra
penzolano, le orecchie si trasformano in quelle smisuratamente pelose di un asino. La colpa di Lucio è la curiositas: egli
ha inseguito una forma inferiore di Iside; e, senza pazienza,
penetrando negli spazi segreti della magia, non ha atteso che
la dea gli portasse in dono la metamorfosi. Ora è un asino: simile a Seth, il feroce nemico di Iside. Ma, come sempre accade
a Apuleio, che si prende gioco dell'impianto intellettuale del
proprio romanzo, quest'asino è contemplato con immensa
simpatia: goffo, ridicolo, parassita, servile, pauroso, vilipeso e
bastonato da tutti, sempre sul punto di venire castrato e ucciso, una specie di grandioso Sancio Pancia di sé stesso.
Finora Lucio era stato un delizioso narratore-testimone:
forse nessun romanzo condivide completamente, come le
Metamorfosi, l'ottica del personaggio; ciò che accade momento per momento, visto con gli sguardi di ogni momento.
Trasformato in asino, egli diventa un testimone ancora più
straordinario. Siccome è un animale, gli uomini, i quali non
suppongono che Lucio comprenda, non celano i propri pensieri e sentimenti davanti a lui; e la totalità, la bassezza e la segretezza della vita gli si rivelano senza ombre e riserve. Apuleio esegue questo gioco narrativo nel modo più squisito e
sistematico: trasformando l'ingenuo imitatore di Ulisse in
uno scrittore più esperto di Ulisse, il narratore in prima persona in un romanziere onnisciente in terza persona. 2 Qui egli
lascia il suo lontano osservatorio, e giunge sul proscenio, pro-
2
Sebbene sia un narratore-testimone dalla visuale larghissima, Lucio non può
essere presente in tutti i luoghi del romanzo. Ci sono eventi che non vede né
ascolta. Allora Apuleio ricorre ad una seconcia trovata narrativa: i sogni, inviati
a questo o a quel personaggio (p. es. 8, 9; 9, 31), e poi raccontati a chi racconta davanti a Lucio. Così grazie ad un espediente onirico (i sogni appartengono
al mondo di Iside: la compattezza religioso-narrativa è perfetta), il narratoretestimone ha l'onniscienza di un narratore in terza persona. Non manca, è vero, qualche piccola inverosimiglianza o incongruenza: ma, come Tolstoj e Dostoevskij, Apuleio non scrive per Gérard Genette.
86
prio davanti a noi. Se vogliamo scrivere un grande romanzo,
che ci comunichi i segreti più alti e infimi, non c'è che una
strada, - egli sembra dire. Dobbiamo lasciar cadere la nostra
tenera pelle di uomo, abbandonare i nostri occhi miopi, che
non riescono a cogliere i misteri. Dobbiamo entrare nel corpo di un animale, spalancando le nostre immense orecchie,
fino a raccogliere tutte le parole e i pensieri a mezza voce che
gli uomini pronunciano sulla scena del mondo.
Lucio comincia i suoi viaggi, nei quali incontra un'altra
volta la grande dea. Siccome aveva sconfìtto e soggiogato il
destino, Iside è insieme la Provvidenza veggente e la Fortuna
malvagia, cieca e crudele: Pronoia e Tyche; e in questa seconda incarnazione Lucio la scorge di nuovo senza riconoscerla.3 Come è immensa, nelle Metamorfosi, la varietà e la
ricchezza e la molteplicità dei casi! All'inizio del romanzo,
cogliamo Lucio in viaggio, aperto a tutte le avventure. Entriamo in uno di quegli alberghi, attraverso i quali la letteratura
europea ha contemplato per diciotto secoli la varietà colorata del mondo. Conosciamo la crudeltà, la violenza, l'ingiustizia, gli orrori, le turpitudini, le oscenità grottesche, la macina
della Fortuna. Sebbene credesse negli dèi, Apuleio non ci lascia supporre nemmeno una volta che sulla terra regni l'harmonia mundi. Ci fa immaginare che anche negli orrori e nei
casi possiamo intravedere una traccia di divino - siccome «Io
sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà». Ma il caso resta
illegale e arbitrario. Poiché siamo nel regno sia pure degradato di Iside, esso assume una forma, diventando una rappresentazione stilizzata, una specie di genere letterario. Ne
conosciamo almeno tre: le storie di erotismo e di astuzia,
che Boccaccio imitò: le avventure eroicomiche dei banditi,
1
Siegfried Morenz, LA réligion égyptienne, Paris, 1962, p. 318. Nel romanzo le
due figure della fortuna e della providentia (o della fortuna caeca e della fortuna videns) sembrano opposte. Ma un solo fatto basta a convincerci della
identità segreta delle due figure: nelle favole di Amore e Psiche, Venere è fortuna-, e, come ha dimostrato Reinhold Merkelbach, Venere è una delle forme
di Iside.
87
che generarono la letteratura picaresca; e le tragedie romanzesche di furor amoroso, che Apuleio derivava da Euripide,
Apollonio Rodio e Virgilio.
La favola di Amore e Psiche è il cuore tenebroso e splendente delle Metamorfosi; e a quel cuore arriviamo attraverso
i consueti labirinti, parodie e giochi di specchi amati da Apuleio. Non ascoltiamo questa «favola per vecchie» (e per bambini) in un palazzo di re, o in un santuario egizio, ma in una
caverna di briganti. Chi la racconta in lingua greca è una
«sciocca vecchierella ubriaca»: la ascolta un asino, che si duole di non avere tavolette e stilo per trascriverla: la compone
in un'ornata lingua latina lo stesso asino diventato sacerdote
di Osiride; mentre Apuleio, nascosto alle sue spalle, si prende gioco della vecchia, di Lucio, di sé stesso, del suo libro,
degli dèi, delle Muse, di Roma e delle leggi di Roma.
Il dio a cui la favola è dedicata è un dio tremendo, figlio di
Iside e possente e ambiguo come la madre. Né l'oracolo di
Apollo né le sorelle di Psiche hanno torto: Amore è un drago
«crudele e feroce e viperino», che opprime le cose col fuoco,
tortura gli dèi, gli uomini e gli abissi infernali. A lui potrebbe
rivolgersi la preghiera di un bellissimo papiro magico greco:
«Tu primogenito, creatore dell'universo, dalle ali d'oro: tu
oscuro, che veli tutti i propositi ragionevoli e ispiri tenebrose passioni: tu segreto, che vivi nascosto in ogni anima: tu
che susciti il fuoco invisibile toccando tutte le cose animate,
tormentandole instancabile con voluttà e dolorosa delizia,
da quando esiste l'universo: tu che provochi il dolore con la
tua presenza, a volte ragionevole, altre insensato. Tu, per il
quale gli uomini con ardire trascurano il dovere e presso il
quale, oscuro, cercano rifugio. Tu l'ultimogenito, il fuori legge, lo spietato, l'inesorabile, l'invisibile, il generatore senza
corpo delle passioni... Tu signore dell'oblio, tu padre del silenzio, per il quale e verso il quale ogni luce s'irradia...».4
4
Papyri Graecae Magicae, ed. K. Preisendanz, Stuttgart, 19732, voi. I, p. 129.
88
Il dio cerca Psiche, l'anima umana: si innamora di lei, e le
tende un laccio, come dice Simone Weil - ma «quel laccio è
lui stesso». Un lieve soffio di vento porta Psiche in un tenero
luogo erboso: poi l'accompagna in un palazzo regale, dove
le pareti e le colonne d'oro emanano una epifania di luce,
che splende anche se all'esterno manca il sole. Come il suo
palazzo, Amore getta luce. Non è altro che luce: teneo te,
meum lumen, gli dice Psiche: i capelli gettano uno «sfolgorante splendore»: le ali rugiadose «biancheggiano di sfavillante bagliore»: il corpo levigato getta luce; e la sua luce ora
avviva ora fa impallidire il lume della lucerna. Ma gli amori
tra Dio e l'anima umana devono avvenire nel segreto della
solitudine, nella tenebra assoluta, raccomandata da ogni mistico. Psiche non vede Amore: lo ascolta, lo tocca, lo accarezza; in un momento di angosciosa beatitudine, conosce soltanto il suo splendore nella notte. Nulla è più dolce e
tremendo di quest'amore tra gli estremi del mondo, che avviene nel soave carcere di due corpi umani: la sensualità
esaltata supera il livello dei sensi, e diventa insaziabile, come
qualsiasi amore tra un dio e un uomo.
Psiche non si accontenta di ascoltare: vuole vedere: pecca
di curiositas-, e non potrebbe non peccare, perché l'anima
umana desidera contemplare la bellezza divina, cercando di
salire dalla luce della notte alla luce piena. Giunta la sera, Psiche alza la lucerna, e «scorge la belva più mite e più dolce fra
tutte le fiere». In quel momento si ferisce il dito con una
freccia, così che «sbocciano a fior di pelle come rugiada piccole goccioline di roseo sangue»: mentre una stilla d'olio ardente brucia la spalla destra d'Amore. Come quello umano,
l'amore divino è un fuoco: arde, tortura e fa soffrire a lungo
sia Dio sia l'uomo, felicemente e infelicemente innamorati
l'uno dell'altro.
Dopo il suo peccato Psiche deve espiare; e i vagabondaggi, le prove e le torture che subisce sono la versione patetica
e favolistica delle prove di Iside alla ricerca di Osiride, come i
vagabondaggi di Lucio ne erano stati la versione grottesca.
Queste vicende alludono al rituale di morte e resurrezione,
89
che ogni iniziato conosceva nei misteri di Eleusi e di Iside.
Ma da sola Psiche - la semplice, candida anima umana perduta nei meandri e nei terrori del mondo divino, tra le figure
che si moltiplicano e sono sempre la stessa figura - non potrebbe salvarsi. Ripete il suo peccato, apre una pisside segreta, rischiando di venire sopraffatta dall'eterno torpore. Il dio
la salva, e implora Giove. Per ordine di Giove, Mercurio porta Psiche in cielo, in un burlesco equivalente mitologico della assoluta e accecante luce divina, che Apuleio non osa rappresentare.
Mentre la vecchia ubriaca racconta la favola di Amore e
Psiche, non sappiamo cosa Lucio comprenda, sebbene la favola parli soprattutto di lui. Forse non capisce nulla: oppure,
con una tecnica che Kafka rinnoverà, Apuleio omette di raccontare le sensazioni del suo personaggio. In questo periodo che va da un'estate a un'altra primavera, Lucio non sembra affatto cresciuto: è sempre un grande orecchio, che
ascolta curiosamente le parole del mondo. Non ha peccato o
non sa di avere peccato. Se l'ha fatto - ma la sua curiositas è
meno grave di quella di Psiche -, i suoi peccati sono quelli
che un'altra religione (molto vicina a quella isiaca) definirà
veniali. Alla fine del decimo libro, quando deve accoppiarsi
con una assassina sulle scene di un teatro, Lucio capisce confusamente di essere arrivato in fondo all'abisso. Non sopporta ciò che sta per accadere; e, in quell'istante di angoscia,
fugge, giunge sulle rive del mare, e spossato si addormenta
sulla sabbia morbidissima, «immerso nella quiete vespertina». Come diremmo noi col nostro linguaggio cristiano, Lucio non ha nessun merito: ma ha una natura luminosa; e la
regina del cielo lo chiama, lo sceglie, suscitando in lui addormentato, come fanno gli dèi, «un improvviso tremore».
Il meraviglioso paesaggio di plenilunio primaverile, che
apre il libro undicesimo, è il paesaggio più intriso di numeri
della letteratura europea. In questa notte Iside lascia dovunque il suo segno. Il disco rotondo della luna emerge dai flut90
ti del mare, scintillando di un abbagliante candore: il mare è
quieto, il cielo senza nubi; nei silenziosi misteri della solitudine notturna, insieme ai raggi limpidi e femminei di Selene,
dall'alto dei cieli scende la rugiada lunare, che penetra le cose viventi, le riscalda, le scioglie, le ammorbidisce, le distende, facendo crescere i corpi che gremiscono la terra e il mare. 5 Se finora avevamo incontrato Iside mascherata e
degradata, ora essa si rivela improvvisamente a Lucio nella
natura, in quella magica congiunzione tra l'umidità marina,
la rugiada generatrice e i raggi lunari, che costituisce una
delle sue epifanie predilette. Come Psiche aveva conosciuto
il lumen di Amore nella tenebra, Lucio conosce Iside nella
sua luce notturna. Non ne conoscerà altra: in primo luogo,
perché Iside è soprattutto luce notturna, e poi perché gli uomini non possono avere esperienza, come diceva Goethe,
della luce assoluta.
In quell'istante di timorosa contemplazione, Lucio intravede la presenza di una dea, sebbene non ne conosca il nome: si
purifica nel mare; e col volto lacrimoso, rivolge una preghiera
alla Regina coeli. Poi si addormenta di nuovo. Appena chiude
gli occhi, Iside gli appare in sogno, con i foltissimi capelli ondulati, una corona di fiori sul capo, la veste di lino cangiante,
la sopravveste nerissima splendescens atro nitore e luccicante qua e là di stelle. Lucio non la vedrà mai: Iside gli apparirà
sempre in sogno o in una statua, mentre Psiche ha avuto il dono di conoscere anche cogli occhi l'Amore.
Con la stessa eloquenza di Lucio, Iside rivela a Lucio il proprio nome. Sappiamo che è «la somma tra le potenze divine»: la genitrice di tutte le cose, la signora della natura, l'inizio della storia. Quante volte ci era apparsa nel libro, senza
che Lucio la riconoscesse! I suoi capelli foltissimi e sciolti, le
rose, lo splendore, il profumo erotico e l'umidità marina che
la circonda, - erano appartenuti a Photis, la piccola serva
s
Sulla rugiada lunare, cfr. W.H. Roscher, Selene und Verwandtes, Leipzig,
1890; Hugo Rahner, Symbole der Kirche, Salzburg, 1964, pp. 91-173 e il mio libro su Goethe, Milano, 19905, pp. 358-69.
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amorosa. Se l'avevamo incontrata nelle vesti stregonesche di
Meroe e Panfìle, ora ci appare come sovrana di tutte le magie
e le metamorfosi. Se era sembrata «la cieca Fortuna», ora è la
Provvidenza veggente. Tutte le forme attraverso le quali Iside ci era apparsa, ora ricompaiono, ma trasformate e sublimate; e nessuno potrebbe più ricordare, davanti alla sua immagine luminosissima, che Iside era stata Photis, Meroe,
Panfìle e la Fortuna. Ora Iside rivela di essere la madre dolcissima e misericordiosa: la madre che aiuta, salva e protegge gli infelici con la sua tenerezza inumidita dai raggi lunari:
quella Madonna pagana, quella Regina coeli, quella Stella
maris, che Gérard de Nerval inseguì per tutta la vita.
Mentre sulla scena si svolgono processioni biancovestite
che anticipano quelle bizantine, Lucio ci appare rinnovato,
come un cristiano dopo il battesimo. Lasciandosi alle spalle le
tribolazioni, le tempeste e i pericoli, è entrato nel porto della
Quiete. Nulla, in apparenza, ricorda il goffo asino che era stato. Egli si è «convertito». Ma lo slancio delle sue parole, il desiderio di essere amato, il fervore da neofita, l'adorazione contemplativa ci rivelano la dolcezza passiva ed entusiastica del
suo cuore giovanile, che aveva inseguito tutti i misteri. Con
quale «ardentissimo amore», con quali singhiozzi di commozione, contempla la statua di Iside, si prosterna davanti a lei,
la prega, custodisce nel cuore la sua immagine. Né nella religione greca né in quella egizia - ci assicura A.J. Festugière c'è traccia della inexplicabilis voluptas (11, 24), che Lucio
prova davanti alla statua. Ama e si sente riamato dalla Regina
coeli. La sua è una «fede», simile a quella cristiana. Consacra la
sua vita ad Iside: entra nella sua militia : le promette un'obbedienza totale; e nel giogo di questa disciplina conosce per la
prima volta «il frutto della propria libertà».
L'iniziazione di Lucio ripete quella di tutte le religioni misteriche. Come Psiche, egli ha l'esperienza simbolica della
discesa nel regno dei morti e della resurrezione: come il suo
ultimo erede, Tamino, nel Flauto magico, attraversa gli elementi; vede gli dèi superi e inferi, e li adora da vicino. Con
ogni probabilità conosce l'unione estatica col dio, che Apu92
leio aveva rappresentato nella favola di Amore e Psiche. La
sua esperienza suprema è luminosa, come accade in qualsiasi mistica. Platone, Aristotele e Plutarco avevano parlato della luce sfavillante e velocissima, che accende la nostra anima
almeno una volta nella nostra vita, quando, in un lampo di
beatitudine, possiamo toccare cogli sguardi le cose divine.
Ora Lucio conosce quel lampo. Ma anche questa è una visione della luce nella tenebra: perché egli scorge «il sole lampeggiare di candida luce nel mezzo della notte». Dopo queste esperienze, Lucio raggiunge la meta suprema a cui
aspirava un fedele greco. Viene identificato col dio, e appare
davanti alla folla vestito con i paramenti sacri, l'abito di lino,
il mantello ricamato di animali, che indossava Osiride nella
sua apparizione solare.
Gli ultimi capitoli delle Metamorfosi sono, in apparenza,
delusivi. Giunto a Roma, Lucio riceve due nuove iniziazioni.
Questa volta, ancora nella notte, gli appare Osiride, «il più
potente dei grandi dèi, il sommo fra i più grandi, il massimo
fra i sommi, colui che regna sui massimi». Se Iside è il Tutto,
Osiride, questo deus otiosus, che non crea né amministra il
mondo, sta al di sopra del Tutto: come il deus summus atque exsuperantissimus, di cui Apuleio parlava negli scritti filosofici. Ma, mentre l'incontro con Iside era stata un'esperienza calda, fervida e tenera, Osiride resta un nome:
l'incontro col dio supremo non può venire espresso né raccontato, sfugge a qualsiasi linguaggio umano.
Quando viene nominato grande sacerdote di Osiride, Lucio si rasa i capelli, e col capo calvo, né coperto né adombrato, percorre le strade di Roma. Un'altra figura era calva come
il sacerdote di Osiride: il mimo, il clown, il calvus mimicus.6
Nel libro undicesimo, davanti alla gravità e ai riti di Iside, avevamo perduto completamente di vista l'acrobata e i suoi giochi, che Apuleio aveva annunciato all'inizio delle Metamorfosi, come se la scienza dei misteri annullasse qualsiasi
'' John J. Winkler, Auctor and Actor: A narratological Reading of Apuleius'
(ìolden Ass, Berkeley-Los Angeles-London, 1985, p. 226.
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scienza acrobatica. Ora comprendiamo che non è vero. Davanti al dio supremo, che ci costringe al silenzio uccidendo i
nostri slanci d'amore, sopravvive soltanto il buffone dalla testa calva. Non c'è che il sacro, l'oscurità divina - e il mimo,
sebbene nessuna penna, nemmeno quella di Apuleio, possa
comunicarci le clowneries mistiche.
Tutto, ormai, si identifica. Se avevamo creduto che il giovane greco e il devoto di Iside e Osiride portasse il nome radioso di Lucio, - ora Apuleio fa cadere il velo che per tanto
tempo aveva coperto il suo volto. In uno degli ultimi capitoli, appone la sua firma: Lucio è uno di Madaura, cioè proprio lui, Apuleio, il «sacerdote di tutti gli dèi». Così anche il libro, come tutti gli dèi e l'universo, si trasforma. Tutte le cose
che erano accadute ad un altro, sono accadute anche a Apuleio. Sebbene avesse sempre abitato nella sua bella casa africana e nessuno gli assomigliasse meno di Lucio, lui era stato
il giovane desideroso di magia, l'asino, Psiche, l'acrobata, il
mistico. Dietro il testimone in prima persona, c'era sempre
stato il narratore che sapeva tutto, il tessitore dei rapporti e
delle allusioni, che in questo momento, con un piccolo gioco sintattico, scrive davanti a noi le due ultime parole del libro: gaudens obibam, «morivo pieno di gioia». Dopo aver
concluso il suo ironico-amoroso inno agli dèi, aver rappresentato tutto ciò che è ed esiste e aver conosciuto la luce
nella notte e la metamorfosi e l'unione col divino, non gli restava altro da desiderare. Poteva davvero morire pieno di
gioia.
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PARTE SECONDA
Da san Paolo al Paradiso
UN PAGANO LEGGE SAN PAOLO
Non ho mai sognato di vivere ad Atene, nell'età di Pericle:
o a Roma, negli ultimi tempi della repubblica, vicino a Lucrezio o a Catullo, a Virgilio o a Properzio, in una di quelle epoche tragiche e splendide in cui l'uomo fissa risolutamente gli
sguardi in sé stesso e nel cielo. Amerei abitare in un tempo
più discreto e meno geniale. Darei tutto quello che so, tutto
quello che penso e desidero per essere un modesto uomo
di lettere, cultore di Platone, vissuto a Roma (o a Alessandria
d'Egitto) tra la fine del primo e quella del secondo secolo
tlopo Cristo.
In quei tempi, molti avvertivano che gli dèi, sia quelli antichi, greci e romani, sia quelli nuovi (ma in realtà antichissimi) venuti dall'Oriente, stavano morendo. C'era come una
lesione sottile e dolorosa nella loro figura. Qualcuno ripeteva, posseduto da uno scetticismo sempre più profondo, che
era tempo di non scrutare più «gli spazi celesti, i destini e i
segreti dell'universo»: come diceva una falsa sentenza di Socrate, «quello che è al di sopra di noi è senza rapporto con
noi». Ma in altri, come nel mio oscuro letterato platonico,
questo lutto imminente per la morte degli dèi spingeva a occuparsi soltanto di loro. Egli studiava gli dèi dell'Egitto e della Persia, persino quelli remotissimi dell'India, di cui sapeva
così poco: con la mente avrebbe voluto spingersi più lonta97
no, dove popolazioni oscure fabbricavano seta; e cercava affinità, analogie, forse una remota origine comune. Sperava
di essere sulla traccia dell'unico dio, luminoso, invisibile e
impronunciabile. Tutto il suo animo era posseduto dalla devozione. Percorreva la Grecia e l'Egitto, Delfi ed Atene, Tebe
e Dendera. Visitava le antiche regge carbonizzate, le tombe
degli eroi, le selve formate dalle colonne dei templi, a metà
abbattute ma ancora maestose. Contemplava le antiche statue di legno e le pietre sacre - e un brivido gli faceva comprendere che, lì, il divino era ancora vivente.
Intanto le sinagoghe, i suburbi, le case popolari, talvolta le
case patrizie delle grandi città occidentali e orientali conoscevano un nuovo popolo: i cristiani, che vivevano una propria vita, obbediente a proprie leggi, come un fiume ardente
sparso nell'oceano dell'impero romano. Curioso com'era di
tradizioni strane, il nostro letterato platonico dovette interrogarsi intorno al nuovo popolo. Forse parlò con qualcuno
di loro. Cercò di leggere i loro testi, che a prima vista gli
sembrarono impervi. Non c'era soavità in quel greco semitico. La Genesi raccontava storie che egli, in parte, conosceva
sotto altre forme. Il Vangelo di Matteo, se ne toglieva il racconto sulla morte di Cristo, gli parve una specie di scritto sapienziale egizio. Ma lesse mai le epistole di san Paolo? La nostra documentazione storica non ci permette di affermare
che qualche pagano, fino alla metà del terzo secolo, abbia
conosciuto Paolo, sebbene ci sembri impossibile che quei testi memorabili non abbiano attratto l'attenzione di nessuno.
Mi permetterò un arbitrio. Immaginerò che il nostro platonico, con la mente colma di dèi, di zodiaci, di Iside e di Ermes,
abbia studiato la prima Lettera ai Corinzi e la Lettera ai Romani; e cercherò di raccontare ai miei lettori, che senza saperlo sono forse tanto platonici quanto paolini, cosa egli
potè e cosa egli non potè comprendere.
Appena aprì la Lettera ai Corinzi, la sua prima impressione dovette essere di scandalo. Era abituato a un pensiero
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educato, che seguiva tutte le proprie gradazioni interiori, e
veniva condotto dolcemente verso la meta. Ora, qui, in un
greco intricato, aggrovigliato e faticosissimo, trovava una
mescolanza di tensione intellettuale, di furore profetico, di
feroce sarcasmo, di mistica che rinunciava a sé stessa: uno
stile mirabilmente sintetico, pieno di scorci e di simboli, che
si imprimeva per sempre - malgrado la sua riluttanza - nella
memoria; un pensiero che veniva portato continuamente
all'estremo, fino all'ultimo paradosso, per essere rovesciato
nel suo contrario. Poi la sorpresa, o lo scandalo, diventò ancora più grande. Egli si accorse che Paolo, sebbene peccasse
contro la grammatica e la logica, era un logico e un giurista
duramente consequenziario. Il suo Dio non dimenticava la
propria collera, perdonando agli uomini. Li condannava in
nome della sua legge e della sua vendetta: solo che, in luogo
di noi, condannava il proprio figlio, divenuto la nostra vittima sostitutiva. Si poteva spingere più in fondo una tremenda logica giuridica? E si poteva, al tempo stesso, rovesciarla
così completamente nell'assurdo? Con la mente popolata da
dèi lontani e impassibili, il nostro letterato platonico ammirava stupito una giustizia estrema come non aveva mai visto:
unita a un amore egualmente ardente e inesplicabile - un
amore che portava un Dio a sacrificare il proprio figlio.
Per lui, in questa idea, c'era qualcosa di sconvolgente. Aveva un'altissima immagine di Dio: come di un Essere purissimo e invisibile, senza forma e colore, completamente diverso dall'uomo, e sempre eguale a sé stesso. Ora leggeva in
Paolo queste righe terribili: «Ma quello che c'è di folle nel
mondo, Dio l'ha scelto per confondere i saggi: quello che c'è
eli vile e di spregevole, quello che non c'è, Dio l'ha scelto per
ridurre a nulla ciò che è». Apprendeva che Dio si manifesta
nèlla storia degli uomini come scandalo, follia e stoltezza:
egli accetta e vuole la propria abiezione, l'infamia e la morte;
e sembra meditare una specie di tragica e grottesca azione
nichilista, volgendosi contro le cose che sono e contro il
proprio Essere, «riducendo a nulla ciò che è». Di tutte le sue
idee religiose nobili e purificate, di tutte le sue immagini lu99
minose ed estatiche, di tutto lo sforzo che la mente aveva
tentato per cogliere l'Essere, non restava che un semplice
fatto: un fatto atroce: una croce, un patibolo...
Le immagini di Paolo gli riuscivano oscure, come quindici
secoli dopo ai saggi confuciani che discorrevano con padre
Matteo Ricci e i suoi allievi gesuiti. Non poteva accettare che
Dio si modificasse e si trasformasse, perché egli ignora qualsiasi mutamento: né che assumesse una carne umana, lui
che non crea nemmeno la materia. Non poteva tollerare la
vita infima che i Vangeli e Paolo attribuivano al figlio di Dio i poveri genitori, la modestissima infanzia, il vagabondaggio,
gli umili compagni, quel sapore di polvere e di falegnameria,
la fame, la sete, la stanchezza, la sofferenza, la prigione -,
mentre se, per un inconcepibile caso, Egli si fosse mostrato,
non avrebbe dovuto conoscere che trionfi. Un dio non doveva morire di una morte violenta e ignominiosa: né poteva
scendere sulla terra - lui remoto, assente e impassibile - per
salvarci dai nostri peccati o sacrificarsi per noi. Tutto il dolore, l'impotenza, la fragilità, la debolezza di Dio - ciò che esalta ogni cuore cristiano, perché ci pare l'ultimo segno della
sua forza - gli sembrava completamente incomprensibile.
Un'altra cosa lo colpiva. Lo strano Dio, che si era fatto uomo, amava l'uomo di carne, «formato nell'immondizia
dell'utero, venuto al mondo per canali vergognosi, nutrito di
carezze ingannevoli», come avrebbe detto un altro cristiano
pochi decenni più tardi. Quella religione aveva un aspetto fisico e terrestre che gli ripugnava. I cristiani erano le «membra» di Cristo: il divino impregnava la loro anima e il loro
corpo: il rapporto con Dio era intensamente carnale: egli
non poteva tollerare questa vicinanza infuocata; e poi
cos'era questa speranza nella trionfale resurrezione, sia pure
dei corpi luminosi e gloriosi? Era così dolce sperare di essere
abbandonato dal proprio corpo; e diventare dopo la morte
api e usignoli, nutrendo il genere umano con la dolcezza del
miele e la bellezza del canto.
C''era una cosa ancora più singolare. Questi strani materialisti sapevano odiare il corpo con una violenza che egli non
100
riusciva a comprendere. Leggendo Paolo, sentiva che egli accettava tutto il mondo, le condizioni e le razze e i luoghi e le
figure e le inclinazioni del mondo, con una capacità di adattamento difficile a immaginare persino per un cittadino romano. A volte, gli sembrava che fosse schiavo della terra in
cui viveva, del corpo che abbracciava, dei sentimenti che
condivideva. Poi, di colpo, si accorgeva che quell'abbraccio
era ingannevole. Tutta la realtà era messa tra parentesi: i sentimenti avvolti dall'ombra e annullati. «Quelli che piangono,
siano come se non piangessero: quelli che sono lieti, come
se lieti non fossero; quelli che comprano, come se non possedessero;... quelli che si servono di questo mondo, come se
non ne godessero, perché passa la figura di questo mondo.»
Non capiva come si potesse essere, con tutto il cuore, qui e
là: nella pesante terra dei corpi e in un lievissimo altrove.
Mentre leggeva Paolo, il nostro letterato platonico era pieno di ansia e di tristezza. Scorgeva il suo universo - il suo
bell'universo, che aveva tanto amato - andare in frantumi.
Fino allora, aveva creduto che una soave armonia, un nobile
accordo, una continua rete di corrispondenze e di analogie
reggesse il mondo. Lassù, sopra l'orbita dei cieli, c'era il Dio
che non avrebbe mai incontrato: mentre una catena di costellazioni, di astri, di pianeti, di dèi, di demoni, di umili servi divini si moltiplicava in tutte le cose, rispecchiando sempre qualcosa di quel fulgore. Tutto era divino: c'era un
demone nel pane, nel vino, negli alberi, nell'aria che respiriamo, nell'acqua dei torrenti: la linfa divina attraversava tutte le vene dell'universo; e lui, quando volesse, poteva risalire
verso la fonte. Non ignorava che esisteva anche il male: ma
non ne vedeva, o scorgeva raramente, le sue forze raccolte
in una figura. Non aveva mai conosciuto il Male Assoluto:
«l'abominio della desolazione», come diceva Daniele. Era come se il male si fosse sciolto in tutte le cose; e così potesse
venire assorbito e neutralizzato, con una diplomazia che gli
avevano insegnato i suoi maestri.
101
In Paolo, non vedeva che antitesi, contrasto, lacerazione.
La forza sacra dell'universo si era concentrata in un punto:
un luogo di abbagliante splendore, che celava in sé - egli sospettava - una tenebra egualmente accecante. Gli sembrava
che Paolo rendesse quel sacro, che aveva ereditato dalle
scritture ebraiche, ancora più tremendo: Dio non tollerava
limiti, né condizioni, né legami, nemmeno quelli che una
volta aveva stabilito a sé stesso. Tutto veniva tolto all'uomo:
tutto veniva dato a Dio; e in questo, la logica acuminata di
Paolo operava secondo una suprema giustizia, alla quale anche lui poteva inchinarsi. Ma cosa accadeva nell'universo?
Avrebbe potuto pronunciare le stesse parole che quindici secoli dopo un saggio cinese disse a un padre gesuita: «È ragionevole, sotto il pretesto di venerare il Signore del Cielo, dichiarare che il cielo e la terra sono privi di intelligenza, che il
sole, la luna e i pianeti sono cose brute, che gli dèi delle
montagne e dei fiori, gli dèi del suolo e della mietitura sono
dei diavoli?». Era terrificato dalla desacralizzazione paolina
dell'universo: dalla condanna dei demoni, che assicuravano
il funzionamento della grande analogia. Le regioni della natura non consentivano più di giungere in alto. Quei demoni,
che egli pregava e invocava, ora riempivano l'aria di agguati
e di tentazioni. Qualche volta, si chiedeva se Paolo non avesse ragione. Forse l'armonia delle cose era stato soltanto un
suo sogno di adolescente; e il senso del mondo era l'antitesi
e la ferita.
La sua curiosità gli aveva fatto conoscere altre religioni che
lasciano posto al male. I demoni iranici stavano paralizzati
dentro la creazione, pesando come un incubo sulla vita, in agguato in tutte le notti, gli angoli, i corridoi, i crocicchi dell'esistenza. Eppure nulla di quello che aveva mai saputo sul male
gli fece l'impressione di una frase di Paolo: «Il volere è in mio
potere, ma compiere il bene no. Sicché non faccio il bene che
voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio quello
che non voglio, non sono io a farlo, ma la forza del peccato
che abita in me». Non c'era nulla di più terribile: il Peccato, il
Male Assoluto non stava più fuori, nella creazione, come pen102
savano i Persiani; la sua forza imperiosa e radicalmente estranea si era insinuata dentro di noi, e abitava il nostro animo,
laggiù, sotto le pallide immagini che sono la nostra volontà e
la nostra coscienza. Se aveva pensato che noi pecchiamo
coll'intelligenza e la volontà, ora qualcuno (a cui doveva riconoscere una sottigliezza psicologica straordinaria) gli insegnava che la ragione è impotente rispetto alla nostra realtà tenebrosa. Con desolazione, imparava che non c'era salvezza.
Tutti siamo colpevoli: né la rivelazione naturale dei Greci né
la Legge degli Ebrei ci permettono di conoscere Dio e di operare il bene. Così tutti i maestri di sapienza, nei quali aveva
creduto, Pitagora o Platone, erano soltanto degli empi orgogliosi. Paolo gli insegnava che l'unica figura accettabile era il
Peccatore: l'uomo senza meriti, che sa di non potersi salvare
con le proprie opere, si volge con disperata speranza e crede
e attende la paradossale sovrabbondanza della grazia.
Il nostro letterato platonico viveva con fiducia nel presente: lo assaporava nella sua qualità di presente; e, se si spingeva collo spirito verso l'Uno, sentiva che le dimensioni temporali si scioglievano nella quiete dell'eterno. In Paolo,
avvertiva un'oscillazione continua. La redenzione, della quale parlava tanto, era insieme compiuta e ancora da compiersi. L'uomo era salvo: la creazione era salva; eppure l'uomo, la
creazione, gli animali erano assaliti da un gemito e da un
anelito incomprensibili, nell'attesa di essere liberati. «Noi
sappiamo che fino ad ora tutto intero il creato geme e soffre
le doglie del parto. Né soltanto esso, ma anche noi stessi,
che abbiamo la primizia dello Spirito, gemiamo dentro di
noi, anelando all'adozione in figli, alla redenzione del nostro
corpo. Solo in speranza noi siamo già salvati... Se speriamo
ciò che non vediamo, noi l'aspettiamo con paziente attesa.»
Con quale ora paziente ora furiosa attesa, Paolo si protendeva verso gli ultimi tempi! Quale imminenza apocalittica lo
afferrava! Lui, che si dichiarava già salvo, aspettava soltanto il
vento del futuro, le trombe dell'avvento, la gloria luminosa e
incorruttibile della Resurrezione. Il presente diventava futuro; e il futuro - sempre atteso, mai realizzato - si insinuava
103
dentro il presente. Così il nostro platonico avvertiva in Paolo
e nei cristiani un sentimento del tempo che gli era ignoto.
Un senso di possesso: uno slancio verso il futuro già certo;
un trionfo squillante e irradiante per ciò che sicuramente si
sarebbe realizzato. Ma sentiva anche in loro una tensione
nervosa, una incompiutezza, una insoddisfazione, una fragilità lacrimosa, perché il presente non era mai pieno e mancava sempre qualcosa. Non possedevano la «rotonda eternità»,
sulla quale riposava la sua vita. Qualche volta, gli accadeva di
provare avversione verso quegli uomini senza quiete: tanto
più forti di lui, tanto più deboli di lui.
Non so se il nostro letterato platonico comprendesse che
nella Lettera ai Corinzi Paolo affrontava i principii stessi della civiltà greca. Egli non poteva accettare la sua critica alla conoscenza. Perché rifiutarla? La cultura e la conoscenza erano,
per lui, il mezzo supremo per giungere sino a Dio. Paolo, invece, derideva ogni sapienza umana: anche quella purificata,
fondata sulla Legge e sui Vangeli; qualsiasi tentativo di intravedere in questo mondo, con il soccorso della riflessione o
del raptus estatico, i misteri di Dio. «Dio, non possiamo conoscerlo.» In questa terra possiamo intravedere in modo imperfetto, nello specchio, confusamente: solo nella vita futura, quando saliremo in cielo coi nostri corpi glorificati,
potremo fissare lo sguardo nei segreti divini.
Non capiva l'esaltazione paolina dell'amore. L'amore non
era, per lui, che aveva studiato il Simposio, una pienezza, ma
una mancanza: la fame che ci tortura, la bontà che non possediamo, la verità che non conosciamo, la bellezza a cui aspiriamo, il silenzio che ci nasconde, la tenebra che ci avvolge.
Quella parola, eran, esprimeva il desiderio, la tenerezza, l'affetto: un desiderio oscuro, che ispirava tormentose passioni,
tormentando instancabilmente le cose animate «con voluttà
e dolorosa delizia»: un desiderio inesorabile del corpo e del
cuore, che finiva per trasformarsi nel delirio filosofico, col
quale contempliamo le forme dell'Essere, e nel delirio reli104
gioso che ci innalza verso la bellezza degli dèi. Lassù egli
avrebbe conosciuto la rivelazione estatica, toccando con gli
sguardi le idee divine. Era felice che la sua morbida tenerezza sensuale, e perfino i suoi affetti impuri, potessero trasformarsi nella dedizione verso chi abita nell'alto dei cieli.
Ora, nella prima Lettera ai Corinzi, Paolo capovolgeva
questo ideale greco. La rivelazione estatica di Dio non aveva
importanza: o non era possibile, qui. Nessuna strada conduceva dall'amore sensuale fino a Dio. Come era strano l'amore secondo san Paolo! Era superiore perfino alla speranza e
alla fede. «Quando pure» Paolo diceva «io parlassi le lingue
degli uomini e degli angeli, se non ho l'amore, sono solo un
bronzo sonante e un cembalo rumoroso. E se avessi il dono
di profezia, e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza; e se
avessi la pienezza della fede sino a trasportare i morti, se
non ho l'amore, non sono nulla. E se distribuissi ai poveri
tutti i miei averi, e dessi il mio corpo perché fosse bruciato,
se non ho l'amore, tutto ciò non mi servirebbe a niente.»
L'amore (Paolo non diceva Eros, ma una strana parola, Agàpe) non era una virtù: carità o elemosina o benevolenza o affetto materno o perdono; una virtù che potesse diventare
principio di un'etica e di un'azione. In Paolo non c'era nessuna etica, sulla quale fosse possibile costruire una civiltà e
una società, con obblighi, opere, ricompense.
In questo tempo monco e intermediario nel quale viviamo, l'amore era, per Paolo, l'unica qualità perfetta, piena ed
assoluta, come sarà perfetta, alla fine dei tempi, la visione diretta della luce di Dio. Nell'amore, tutto era già qui-. Dio era
già dentro di noi; ci colmava in questo stesso momento, come una sovrabbondante acqua soave. Ma se era il presente
assoluto, l'amore era anche l'assoluto futuro. Indefinibile e
indescrivibile come un immenso flutto musicale, si protendeva oltre il tempo, si avanzava nell'evo dove Cristo avrebbe
realizzato il suo regno, e lo anticipava nel nostro. Era l'unico
infinito che l'uomo possedesse. Così dedito alla precisione
della conoscenza, il nostro letterato platonico non afferrava
la qualità di questo amore. Non capiva che era la linfa che
105
avrebbe nutrito per secoli la civiltà occidentale: così illimitata, così desiderosa di inoltrarsi verso il divino e il futuro.
Leggeva volentieri i Vangeli, con i loro improvvisi scorci di
natura: un monte, un lago, una strada. Ma, nelle Lettere di
Paolo, non trovava mai le meravigliose costellazioni - la spiga luminosa della Vergine, la fiamma tremula del Leone, le
penne lucenti dell'Uccello -: né i fiumi che scendono verso
il mare, né la grazia silenziosa degli alberi, dei fiori e degli
animali. Era così dolce - aveva detto un poeta - «un piccolo,
tenero dio, che alleva due alberi». Si accorgeva di un fatto
paradossale. Quella religione, che umiliava e abbassava l'uomo, era forse l'atto supremo della superbia umana. L'uomo,
creato «a immagine e somiglianza» di Dio (parole che lo indignavano), era per i cristiani il culmine della creazione. Persino i pensieri e gli atti di Dio esistevano per amore dell'uomo: perché l'uomo, di cui egli aveva una stima così piccola,
potesse venire salvato.
Un giorno, in un momento di ironica stizza, scrisse: «La
stirpe dei giudei e dei cristiani si può paragonare a un grappolo di pipistrelli, o a formiche uscite dalla tana, o a rane raccolte in sinedrio attorno a un acquitrino, o a vermi riuniti in
assemblea in un angolo fangoso, che litigano per stabilire chi
di loro è più colpevole, e affermano: "C'è Dio, e subito dopo
di lui ci siamo noi, nati da lui, e in tutto simili a Dio, e a noi
sono subordinate tutte le cose, la terra e l'acqua e l'aria e le
stelle, e tutto è fatto per noi ed è ordinato per servire a
noi"». Era poi certo che gli uomini venissero subito dopo
Dio? Non capiva come Paolo e i cristiani fraintendessero la
venerazione degli idoli: le pietre o gli animali erano per lui
segni di un dio ineffabile, che sta sopra l'uomo e non può essere rappresentato in forme umane. Aveva sempre pensato
che gli uccelli, con le ali che li portano in alto e le loro penne
multicolori e la loro conoscenza dei segni profetici, fossero
più sapienti di noi, e più cari a Dio. In ogni caso, si rifiutava
di credere che l'universo fosse fatto per qualcosa o qualcuno. Era un insieme, un perfetto accordo di leggi e di propor106
zioni e di rapporti, che esisteva in nome del Tutto, al quale
soltanto Dio e gli dèi prestavano ascolto.
Questi pensieri, o pensieri simili a questi, dovettero attraversare la mente del nostro oscuro letterato platonico, a Roma o a Alessandria, in una tarda sera del 92 o del 121 o del
153 dopo Cristo. Non sapeva che tutto quello che lo circondava - stelle, demoni, alberi, libri, città tranquille e tumultuose d'Oriente e d'Occidente - avrebbe avuto una vita non
lunga. Non sapeva che Paolo avrebbe vinto, e l'amore (agape) avrebbe trionfato sulla conoscenza luminosa. Oggi, diciotto o diciannove secoli dopo, il contrasto è molto diverso? Dentro di noi, c'è un platonico che commenta Paolo; e
un cristiano paolino che commenta Platone. Malgrado tanto
tempo trascorso, e tante migrazioni e fusioni, malgrado la furia di Paolo si sia ammorbidita e il suo stile abbia trovato una
forma, il cristianesimo è ancora lo scandalo: la follia della
croce, la ferita di Dio, la lacerazione dell'universo. Il contrasto non è conciliato: né forse può esserlo mai. A noi spetta
soltanto di conservarlo puro nella nostra mente: di percorrere entrambe le strade sino all'estremo, senza attendere una
soluzione.
IL LIBRO BIANCO E SCARLATTO
Verso la fine del primo secolo, un cristiano, che era stato relegato nella piccola isola rocciosa di Patmos, fu tratto «in spirito» nel regno di Dio. Come Isaia, Giovanni varcò le porte dei
cieli, che si aprirono davanti a lui con un mortale fragore di
cardini. Non fu un sogno, come accadde a Daniele, né un improvviso lampo dentro il vento in tempesta, ma una visione
folgorante che si impresse nei suoi sguardi, colmò il suo cuore e venne trascritta nelle pagine di un piccolo libro dolce come il miele, amaro come l'assenzio. Lassù in cielo, sopra un
trono bianchissimo, sedeva Dio: l'Alfa e l'Omega, il Principio
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e la Fine, colui che comprende in sé tutta l'estensione dello
spazio e del tempo, tutti i nomi che si possono scrivere con le
lettere dell'alfabeto. Egli ascoltò la sua voce, e la ripetè sopra
il libro. Non potè descrivere ciò che scorse: perché sopra il
trono stava qualcosa che non aveva immagine, né figura, né linee, né volume, né colori; qualcosa che la memoria trattenne
in sé stessa, ma nessuna penna avrebbe mai potuto rappresentare.
Se non raffigurò Dio, Giovanni raffigurò la sua Gloria: il
Kabod, la forza, il prestigio, la magnificenza, lo splendore
che egli emanava. Intorno a quel centro vuoto, indescrivibile
e innominabile, dispose un tesoro di pietre preziose: ricordando Ezechiele e Daniele, lavorò un'oreficeria infuocata,
lampeggiante e febbrile, quasi che la fantasia, sopraffatta
dall'infinito, si attaccasse a ciò che, come le gemme, è più di
ogni altra cosa limitato e definito. L'arcobaleno formava un
baldacchino attorno al trono: il rosso, l'arancio, il giallo, il
verde, l'azzurro, l'indaco, il violetto non disegnavano liberamente le loro tinte cangianti sopra le nuvole, come quando
Dio stabilì il patto con gli uomini, ma si concentravano sopra
la pietra di un cristallo di rocca; giacché i colori sono la prima manifestazione visibile di chi non ha colore. Tra le pietre
preziose, Giovanni osservò che la Gloria prediligeva il diaspro, la gemma simile al cristallo, che lascia passare la luce,
emana luce e non è altro che un'ininterrotta energia luminosa. Un'altra le stava accanto: il rosso sardio. Poi Giovanni osservò la stessa antitesi tra la trasparenza del cristallo e il fulgore del rosso: l'oceano celeste, che si stendeva ai piedi del
trono, era formato insieme di vetro cristallino e di fuoco.
Il significato del rotolo dolce e amaro, che abbiamo appena cominciato a dissigillare, sta tutto in questo contrasto di
pietre e di colori: tra il diaspro e il sardio, tra il bianco (il primo colore che nasce dalla pura trasparenza luminosa) ed il
rosso. L'Apocalisse è un libro bianco come la grazia di Dio e
la purezza, i capelli e la veste di Jahve nel libro di Daniele, gli
abiti di Gesù il giorno della Trasfigurazione, le vesti del gran
sacerdote ebraico, di Salomone, degli angeli sul sepolcro di
108
Cristo; ed è un libro rosso come il male, il furore di Dio, gli
abiti macchiati di sangue di Jahve nel libro di Isaia, le vesti
dei sacerdoti di Dioniso, degli imperatori romani e dei condannati a morte. I due aspetti della natura divina ci vengono
incontro l'uno di fronte all'altro, apparentemente separati e
senza legami, quasi che nella storia potessimo conoscerla
soltanto come un'eterna antitesi, un bianco per sempre opposto ad un rosso.
Credo che in tutta la letteratura non esista, come comprese Dante in uno degli ultimi canti del Purgatorio, libro più
bianco dell'Apocalisse-. un bianco incandescente a forza di
essere imbevuto e sopraffatto di luce: il bianco dei capelli di
Cristo, dei corpi e delle vesti trasfigurati, delle liturgie cosmiche, delle ultime profondità dei cieli, della purificazione e
della vittoria; bianco di cui nessuna pittura umana, nemmeno il più luminoso mosaico paleocristiano o la più radiosa
icona, riesce a trasmetterci il ricordo. Dietro la porta del cielo si estende uno spazio, che è insieme un tempio e un palazzo regale; e lo splendore delle liturgie sacerdotali e regali
riecheggia trionfalmente moltiplicato in questo spazio e tornerà a ripetersi nei santuari della terra. Scorgiamo altari, arche dell'alleanza, coppe, candelabri. Turiboli levano incensi,
mani innalzano palme, aprono libri sacri, impugnano cere e
trombe. Ascoltiamo adorazioni, preghiere, processioni. Assistiamo all'investitura e all'intronizzazione di un nuovo re:
mentre il tremendo silenzio, che interrompe l'apertura del
libro, o il fuoco e il fumo, ci rivelano che la Gloria di Dio abita nella chiesa celeste.
Tutti gli angeli del tardo giudaismo sono giunti quassù.
Angeli con figure di leone, di uomo, di vitello e di aquila, con
sei ali e coperti d'occhi: ritti ai quattro angoli della terra,
mentre trattengono la forza dei venti: con turiboli d'oro e le
trombe della vendetta: angeli delle chiese, dell'acqua, del
fuoco: angeli enormi, cinti d'arcobaleno, che posano il piede
destro sul mare e quello sinistro sul suolo: angeli che combattono contro il Dragone o versano le coppe piene del furore di Dio o annunciano agli uccelli rapaci la carneficina de109
gli empi; migliaia e migliaia di angeli che abitano gli spazi inferiori, insieme alla bianca folla segnata degli eletti. Il cielo è
diventato la «Casa dei Canti». Ora ascoltiamo una voce sola
uscire dal trono: ora suoni di cetra: ora la voce dei tuoni; ora
clamori come di acque copiose. Immensi cori, tempeste,
uragani di voci riempiono il tempio celeste, mentre tutte le
creature - acque superiori, sole e luna, piogge e rugiade,
venti, fuoco, ghiacci e nevi, uccelli e pesci, sorgenti, mari e
fiumi, cose germinate dal suolo - benedicono «chi siede sul
trono».
Di fronte al rotolo bianchissimo dei cieli, si apre lentamente il rosso libro del male. Ecco il Dragone color rossofuoco discendere dal cielo, con sette teste ornate di diademi
e dieci corna: ecco la Bestia scarlatta salire dal mare, col corpo di pantera, le zampe d'orso, il muso di leone, sette teste e
dieci corna: ecco la Bestia della terra, con due corna di
agnello e la voce del Dragone; mentre una meretrice vestita
di porpora e di scarlatto, la «grande Babilonia», coperta
d'oro, di pietre preziose e di perle, sta seduta sulla Bestia del
mare, impugnando un calice colmo di abominazioni. Come
nella tradizione iranica, Giovanni contamina le forme bestiali
per esprimere le forze del male: ma nessun mostro di Persepoli ha mai raffigurato con tale intensità la perfidia, l'insidia,
la lenta e violenta corruzione che il male diffonde. La nostra
fantasia non può dimenticare la grande meretrice, la donnacittà, Babilonia-Roma: la perversione erotica, l'infedeltà religiosa, la dismisura politica, l'abbondanza dei commerci, tutte le eleganze del lusso e dell'arte, tutte le bellezze e gli
incanti dell'esistenza confuse in una figura che contamina
l'universo. Il fascino della «grande Babilonia», a cui nemmeno Giovanni si sottrae, è già il fascino della città baudelairiana, la città infernale, coi suoi angeli d'oro, di porpora e di
giacinto, dove tutte le forze umane si concentrano, si moltiplicano, si nutrono di vertigine e d'infinito.
Con i suoi tre mostruosi animali, che occupano il cielo, il
110
mare e la terra, Giovanni compie un grandioso tentativo di
«investigare le profondità di Satana», creando la teologia infernale dei tempi cristiani. Egli, che possiede una intuizione
quasi fisica dell'orrore annidato nella storia, comprende che,
per uno spaventoso paradosso, dopo l'incarnazione di Cristo e la nascita della Chiesa, il male ha accresciuto il proprio
potere e la propria forza nel mondo. Con lo svolgersi della
Trinità celeste, il male ha intuito che la sua astuzia più insidiosa deve essere quella di imitare come una scimmia Dio,
Cristo e lo Spirito. Così nell'Apocalisse le tre persone della
Trinità demoniaca (e la loro donna-città) contraffanno con
un'esattezza meticolosa la natura delle tre persone della Trinità celeste, i rapporti che esse hanno stretto tra loro, i loro
segni, le loro ferite, le mutue adorazioni e intronizzazioni. Il
male è diventato il riflesso speculare del bene; e può pretendere di essere quello che non era mai stato - non più un'antica potenza dell'abisso, o un angelo ribelle, o una semplice
creatura composita, ma l'equivalente assoluto del bene.
Quest'imitazione è grottesca, come in un quadro di Bosch:
immagini parlanti, rane che escono dalla bocca, nomi divini
storpiati. Non riusciamo a comprendere se la Trinità demoniaca si diverta a parodiare sinistramente, per un colmo di
perversione, quella celeste: o se la parodia sia involontaria,
giacché qualsiasi contraffazione del bene da parte del male
non può che deformare grottescamente le immagini.
Mentre nel cielo continuano a irradiare le immagini incandescenti della bianchezza, l'Apocalisse diventa il libro della
vendetta di Dio. Tutta la violenza dei profeti biblici si concentra e si condensa, e nulla sembra placare il gesto sempre
realizzato, sempre imminente che scende dall'alto. Cristo,
che avevamo contemplato coi capelli bianchi di luce e candido come l'Agnello, è ora lo Jahve di Isaia, il giustiziere con le
vesti rosse di sangue umano. Versa sopra la testa il calice dove si raccoglie il vino del furore di Dio, quel vino che fa inebriare e rende folli, come il vino di Babilonia. Poi falcia i
grappoli maturi della vigna terrena, li getta nel gran tino
dell'ira di Dio e li pigia coi piedi. Quest'uva è carne di uomini
ni; e dal tino esce sangue, che macchia la sua veste candida,
esce nella pianura, sale fino al morso dei cavalli, trasformando la terra in un lago scarlatto.
Senza posa si scatenano nello spazio i disastri apocalittici,
evocati da una fantasia innamorata delle catastrofi. Ecco i cavalli color fuoco, color nero e verdastro diffondere la guerra,
la carestia e la fame: ecco le cavallette dai volti di maschio, i
capelli di donna, le code di scorpione e le corazze di ferro
battere le ali col fragore di carri slanciati all'assalto; ecco la
città-prostituta sconvolta dal terremoto, con le carni divorate e le case incendiate, dove si rifugiano gli uccelli impuri e
gli spiriti demoniaci. Il sole diventa nero come un sacco di
crine oppure avvampa di fuoco. La luna si insanguina e si offusca, le stelle precipitano sulla terra come il fico, scosso dal
vento, getta i suoi frutti immaturi, e il cielo si accartoccia come un rotolo di papiro. Montagne fiammeggianti precipitano nel mare e lo insanguinano: la stella «Assenzio» avvelena i
fiumi, le isole fuggono e i monti scompaiono. Allora Cristo
stermina i re, abbandonando i loro corpi agli uccelli rapaci; e
getta le due Bestie, Satana e la Morte, nello stagno di zolfo e
di fuoco. L'ultima ora è segnata. Il cielo e la terra, che si sono
logorati come mantelli, fuggono terrorizzati davanti al trono
bianchissimo di Dio, e il Giudizio avviene nel Vuoto, nel Nulla, che si è ristabilito sopra la creazione.
Il segreto della Gerusalemme celeste, l'immensa città cubica che discende dal cielo nuovo sulla terra nuova alla fine
dell 'Apocalisse, sta nascosto un'altra volta nella composizione delle sue gemme. La Gloria di Dio non è più simile al sardio, la rossa pietra del furore, che era apparsa a Giovanni
nella prima visione. Ora è soltanto come il diaspro, la pietra
cristallina che riceve ed emana luce: di diaspro sono costruite le mura della città, e al diaspro assomiglia lo splendore impalpabile e nitidissimo che l'avvolge. Qui, nella nuova creazione, nei primi tempi di un mondo completamente nuovo,
della più perfetta utopia che mente umana abbia mai imma112
ginato, la Gloria di Dio rivela finalmente la sua essenza, che
le pietre preziose avevano adombrato. Essa non è altro che
luce.
Come un fiume incessante e tranquillo, la Gloria bagna di
luce la città cubica: le mura di diaspro, le fondamenta ornate
di dodici gemme d'ogni colore, la piazza d'oro trasparente,
le dodici porte di perla, sempre aperte al passo desideroso
dei pellegrini; il trono di Dio, dal quale scaturisce un fiume
d'acqua scintillante come il cristallo, l'«albero della vita», dal
quale una volta la fiamma guizzante dei Cherubini aveva allontanato Adamo ed Eva, e i volti trasfigurati degli uomini.
Gli occhi del veggente cercano invano il sole e la luna, che
avevano illuminato la prima creazione: o le lampade accese
ogni sera dal nostro terrore. Le antiche fonti di luce sono
sparite, perché la nuova Gerusalemme non è il regno del
simbolo ma della realtà assoluta. Non c'è più notte. Ogni tenebra, ogni ombra, ogni minima traccia di quella oscurità,
che aveva sempre inquietato il cuore degli uomini, è scomparsa; e, insieme alla notte, ogni peccato, ogni gesto di punizione.
Come Giovanni aveva annunciato al principio dell'Apocalisse, siamo nell'Eden. Accanto all'albero della vita, nell'antico Paradiso terrestre esisteva l'albero della conoscenza del
bene e del male: dal quale derivò la divisione del mondo in
due sfere opposte - bene e male, sacro e profano, puro e
impuro, permesso e proibito, vita e morte, divino e demoniaco, libro bianco della grazia e del rito e libro rosso del
peccato e della vendetta. Nel Nuovo Eden è rimasto soltanto
l'albero della vita. Invece di essere divisa negli opposti, l'essenza di Dio è ora intera e indivisa: i suoi due volti si sono
ri unificati al di sopra del bene e del male, come i colori antitetici si sono riunificati nell'unità della luce.
Tutti i templi della terra e del cielo non esistono più: come se ogni rito fosse legato al dominio opposto del male,
come se ogni bianco contenesse in sé implicitamente il rosso del peccato e della vendetta. Tra Dio e l'uomo è caduta la
distanza che teneva lontani il cielo e la terra, il sacro e il pro113
fano: qualsiasi mediazione e separazione. Ora l'uomo abita
in Dio e in Cristo, che sono diventati il suo tempio, come lo
Sposo biblico abitava nella Sposa. Dio asciuga le lacrime degli occhi che piangono: cancella i dolori, i gridi, gli anatemi
del mondo di prima; ed offre ad ogni assetato «l'acqua che
diventerà in lui una sorgente d'acqua che zampilla verso la
vita eterna». Nella città bagnata dalla Gloria divina, che emette e riflette luce come l'uomo respira, gli uomini contemplano il volto di Dio, che ci era stato nascosto dietro le nuvole e
il fumo o il fuoco del roveto ardente o le pietre preziose; e
pronunciano il nome finora segreto di Cristo.
Se né sole né luna misurano i giorni, se non c'è più notte,
se l'uomo abita in Dio, se la luce domina senza ostacoli e
senza soste, possiamo credere che il tempo abbia finito di
esistere. Ci sembra che il vecchio tiranno abbia cessato per
sempre di battere i suoi colpi regolari e sinistri. Eppure, non
è così. Ci sono ancora dei mesi: dei frutti vengono a maturazione; e delle nazioni e dei re, che non appartenevano alla
città cubica, entreranno dalle porte sempre aperte della Gerusalemme celeste. Dunque accadono eventi: resta aperto il
futuro: il movimento della storia non è finito; non c'è nessuna pagina ultima, nessuna sosta definitiva, nessuna meta raggiunta per sempre. Cosa dobbiamo dunque immaginare?
Forse siamo giunti al punto segreto dove il tempo e l'eterno
coincidono. Il tempo, una volta così oppressivo, ha accettato
il ritmo estatico dell'infinito: mentre l'eterno, invece di cristallizzarsi in un punto immobile, si muove senza fine, come
il rivo d'acqua che scaturisce dal trono, come «la sorgente
d'acqua che zampilla verso la vita eterna».
Leggendo le visioni di Giovanni, non abbiamo mai l'impressione di scorgere quello che accade negli spazi del cielo,
come nelle visioni estatiche delle letterature islamiche - soglie celesti che si aprono, culle di rose, veli di rose, zampillìi
senza fine di rose color rosso carminio, figure che si ripetono e si dissolvono nelle settantamila pianure astrali, il cuore
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proiettato nell'universo, la folla evanescente degli archetipi.
Quello che abbiamo letto non ci sembra appartenere allo
spazio visibile. Giovanni non è un «veggente» né un «visionario». Il suo mondo è pieno di libri: il rotolo dei cieli dove Dio
ha raffigurato le costellazioni, il libro dai sette sigilli dove Dio
ha scritto il futuro, il libro della vita, il libro delle opere, il
piccolo libro dolce-amaro della profezia; e Cristo è il cuore
di un libro che deve essere ancora dissigillato. Quando Cristo apre il primo dei sette sigilli, il contenuto del rotolo viene proiettato e visualizzato davanti a Giovanni: poi l'ultimo
dei sigilli diventa il suono di sette trombe, l'ultima tromba
diventa il vino o il sangue di sette coppe, e suono e vino-sangue si trasformano a loro volta in visioni. In un angolo del
tempio divino, Giovanni scrive; e distende il grande volume
celeste in un piccolo volume terreno.
In che modo rendere queste visioni di carta? Senza volerlo
Giovanni ce lo spiega in un versetto famoso, che a sua volta
ha rubato da un altro testo: egli mangia, ingoia dei libri, la cui
carta penetra nelle sue viscere: l'Esodo, Isaia, Ezechiele, Daniele, Zaccaria, Gioele; e altri scritti ebraici o giudeo-cristiani,
che oggi in parte sfuggono alla nostra conoscenza. Come uno
dei grandissimi orefici ottoniani, che incapsulavano nei loro
pulpiti d'oro avori egizi, coppe, scacchi, calcedonii romani,
egli combina, mescola, contamina, cesella le immagini ereditate. Le sue figure non sono mai intere: vengono composte
con particolari strappati da fonti diverse, accostati e intarsiati;
opere di prodigiosa oreficeria, non racconti. Nasce un'impressione di denso, gremito, affollato: come se attorno a ogni
metafora mancasse lo spazio.
Mentre continuiamo a leggere, avvertiamo nei versetti
dell'Apocalisse una tensione, un impeto, una passione, che
hanno qualcosa di cannibalesco: furore di possedere e ingoiare dei libri e di proiettarli in un altro spazio di carta;
l'opera d'oreficeria viene lavorata col fuoco. Con una specie
di ebbrezza allucinata, Giovanni trasforma ciò che aveva ingoiato, e le immagini strappate a Isaia e a Ezechiele, più concrete, violente e corpose che nei modelli, sembrano aggre115
dirci negli occhi. Così questo testo, che non nasce da
un'esperienza visionaria, è diventato il più grande testo visionario dell'Occidente. La letteratura ha appreso dall'Apocalisse che vedere è, in primo luogo, una visione di libri. I
mosaici e i rilievi delle cattedrali, il Beato di Ferdinando I, gli
arazzi di Angers, l'Apocalypsis cum figuris di Durer, le illustrazioni di Hans Lufft hanno intuito quale furibondo delirio
figurativo fosse nascosto in questi rapidi segni; e ne hanno
estratto alla luce, come da un rotolo che si apre a poco a poco, le immagini di Cristo con la spada e la lampada, dell'angelo con le gambe di fuoco, delle Bestie con le teste, le corna e i diademi mostruosamente intrecciati.
Quando scrive, Giovanni proietta nel futuro le sue esperienze passate o presenti, i sogni, le angosce e le speranze che
nutrono la sua vita di esiliato. Ma il movimento temporale è
doppio: perché la perfetta beatitudine, che sta nascosta in
fondo al futuro, la Gerusalemme celeste, è già attuata qui,
ora, nella vita del popolo di Dio attorno a Cristo. In ogni riga,
il futuro si approssima. Tutti i presentimenti, che i sigilli, le
trombe e le coppe disegnano sul bianco dei cieli, ci minacciano e stanno per diventare presenti. Il «tempo è vicino»: l'ora
della prova si abbatterà fra poco sul mondo intero: Cristo è
sul punto di bussare alle porte di ciascuno di noi; una drammatica imminenza, come non si era mai intesa in un'opera
umana, incombe su ogni segno. Avvertiamo sulla carta la presenza dell'evento che sta per erompere davanti ai nostri occhi: le immagini incise, intarsiate, enigmatiche ci sembrano
frammenti di futuro, stelle di futuro, aeroliti di futuro che una
mano ha strappato all'ignoto del tempo. Con la sua prodigiosa costruzione a cannocchiale, l'Apocalisse riproduce questo
doppio movimento. Non procede mai in linea retta, da un
punto all'altro, seguendo la conseguenza logica e narrativa
dei fatti: muove secondo cerchi successivi, onde concentriche, che variano e rinnovano i temi e le immagini, crescono
disperatamente di intensità, via via che si avvicina la fine; e
tuttavia, all'inizio dei cerchi, sta sempre qualche segno che
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anticipa gli eventi, qualche voce d'angelo che li dà già per realizzati, accrescendo la nostra tensione e l'attesa.
La rivelazione di Giovanni venne «messa per scritto», e annunciata ai cristiani di tutte le Chiese, ai giudei di Gerusalemme e della diaspora, ai gentili di ogni angolo della terra.
Come i profeti biblici, egli voleva che le parole della profezia
fossero osservate e messe in pratica. Così fu aperto, chiaro,
violento, imitò la terribilità di Isaia, per proclamare al mondo
l'essenza del suo messaggio: l'avvento di Cristo, l'imminenza
di eventi tremendi. Ma, col gesto opposto, nascose la sua rivelazione dietro un velo di allusioni e di enigmi. Celò una
parte delle verità celesti (le parole dei «sette tuoni»): si compiacque di misteriosi e affascinanti nomi ebraici o di numeri
incomprensibili: stravolse la costruzione logica del testo; fece in modo che ogni immagine nascondesse molti significati,
che ogni idea si incarnasse in molte immagini. Sono convinto che nessuno, mai, ha compreso completamente l'Apocalisse, n e m m e n o le comunità cristiane d'Asia che le erano
prossime e avrebbero dovuto afferrarne le allusioni.
In realtà, scrivendo l'Apocalisse, Giovanni non ha voluto
essere capito. Come i saggi e i poeti, contava sul mistero,
sull'enigma, sull'equivoco, sulla polivalenza dei significati.
Sapeva che, per quanto gli interpreti traforassero il suo testo, vi sarebbe rimasto qualcosa di tenebroso: molto o moltissimo di insondabile; e quindi il rotolo appena aperto sarebbe stato interpretato in tutti i sensi, applicato in tutte le
epoche e situazioni, frainteso, tradito e realizzato senza fine.
L'oscurità ne garantiva il futuro: quel futuro al quale soprattutto teneva; solo quando i nostri occhi si sveglieranno senza più ombre nella luce leggerissima della Gerusalemme celeste, potremo comprenderne ogni lettera. Giovanni sapeva
che i libri chiari e aperti muoiono appena nati. Solo i libri
scritti con la calligrafia cifrata dei cieli, solo i libri che nessuno può dissigillare completamente, continuano a infuocare
per secoli i nostri pensieri.
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L'ABISSO E IL SILENZIO
«In principio» dice la Genesi «Elohim creò il cielo e la terra. E la terra era deserta e vuota, e le tenebre erano sulla superficie dell'abisso, e lo spirito di Elohim aleggiava sulla superficie delle acque.» La Genesi secondo Valentino - il
grande eretico alessandrino, vissuto nel secondo secolo dopo Cristo - risale molto più indietro, quando Dio riposava
solo con sé stesso, nelle «altezze invisibili e incomprensibili».
Il Dio di Valentino porta uno strano nome: Abisso. Questo
nome non significa che egli fosse una cavità scoscesa e indefinita, o la vasta distesa degli oceani primordiali. Significa che
era superiore a tutte le qualità umane: senza vista, senza sensibilità, senza passione, senza desiderii, senza immaginazione, senza intelligenza, senza pensiero: non conosceva numero, forma, ordine, grandezza, eguaglianza e diseguaglianza:
non viveva e non era senza vita, non si muoveva né era immobile, non agiva né creava; e risiedeva fuori dal tempo e
dallo spazio. Abisso ignorava anche le qualità che di solito
vengono attribuite a Dio: scienza, regalità, saggezza, verità:
non era il Tutto perché il Tutto rientra nella categoria della
grandezza; non era l'Uno o il Bene o il Padre o il Signore vani nomi che rivelano soltanto l'impotenza delle intelligenze e delle lingue umane. Chi era, dunque, Abisso? Chi era
questo dio indicibile, incomprensibile, inafferrabile, inesplorabile? Chi era questo dio sconosciuto, di cui non si poteva
affermare né negare nulla? Se potessimo fidarci delle nostre
parole, potremmo dire che Abisso era l'immenso Nulla, lo
sterminato Non-Essere, l'inconcepibile Vuoto, che conteneva in sé la possibilità di tutti gli esseri e i nomi che esistono.
Subito dopo averci detto che Abisso «stava in grande tranquillità e solitudine nei tempi infiniti», Valentino aggiunge
che insieme a lui riposava un'entità femminile: Silenzio. Nel
silenzio degli spazi, Abisso aveva dunque creato Qualcuno o
Qualcosa? Come è possibile attribuire ad Abisso un sesso, se
ignora la natura degli uomini? Valentino stava lottando, fino
all'orlo del paradosso, con i limiti delle nostre lingue. Abisso
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non aveva creato nulla: Silenzio era lui stesso; dapprima concepito nei termini dello spazio, come negazione di ogni spazio (Abisso), e poi nei termini della lingua, come negazione
di ogni lingua (Silenzio). Mentre il dio ebraico e quello cristiano erano degli dei maschili, con la coppia Abisso-Silenzio
Valentino afferma che il principio divino era tanto maschile
quanto femminile: o, per meglio dire, l'elemento maschile e
quello femminile si fondevano e si annullavano nella perfetta
unità dell'androgino. Nei frammenti di altri eretici gnostici,
come Basilide, abbiamo invece il brivido di cogliere un atto
di creazione nel cuore del Non-Essere. Chi non è genera
un'altra entità che non è: il nulla genera il nulla: il vuoto si rispecchia nel vuoto; e poche pagine ci sembrano più straordinarie di questo arditissimo tentativo metafìsico di esplorare ciò che sta oltre le soglie dell'esistenza.
Alla fine, l'assoluta purezza del Non-Essere venne violata.
Abisso depose un seme in Silenzio, come un uomo lascia cadere un seme in una matrice: Silenzio diventò pregna e generò Intelletto, simile ed eguale a chi l'aveva emanato. Intelletto era dunque il «doppio» di Abisso: ma mentre Abisso
restava chiuso nell'oscurità, nell'incomprensibilità e nel silenzio, Intelletto abitava nella luce chiara dell'essere, della
conoscenza e della parola. Poi il processo di emanazione
continuò: nacquero Logos e Vita, Uomo e Chiesa, Figlio Unico e Felice, Paracleto e Fede, Paterno e Speranza, Materno e
Amore, Voluto e Sapienza, sino a raggiungere il numero di
trenta Eoni. Abisso restava invisibile agli Eoni, tranne che ad
Intelletto, il quale «gioiva a vederlo e godeva a contemplare
la sua grandezza»: egli avrebbe voluto condurre i fratelli e le
sorelle alla conoscenza di Abisso, avvicinandoli alla sua essenza senza principio. Ma forse gli Eoni non avrebbero potuto sopportare la visione di quella oscurità vuota, di quelle
profondità imperscrutabili. Prima che Intelletto compiesse il
suo desiderio, venne trattenuto dalla madre; e gli Eoni contemplarono Abisso soltanto nel riflesso luminoso, che ne offriva il suo primo figlio.
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Uno degli Eoni non si accontentò di questa contemplazione indiretta. Sapienza, l'ultima delle emanazioni di Abisso,
mosse ardentemente verso il Padre, agitata dal sogno di conoscere «la grandezza della sua profondità e della sua imperscrutabilità». Era un peccato: il più grande dei peccati; un
peccato sorto dall'orgoglio intellettuale, dal desiderio di superare i limiti che ogni entità possiede nell'universo. In quel
momento essa generò una sostanza amorfa e inconscia, un
aborto, una natura come poteva partorire da sola, senza il
concorso del suo corrispondente maschile: la materia.
Quando la scorse, Sapienza si addolorò per l'imperfezione
di ciò che aveva prodotto, poi fu presa dal timore di provare
la stessa sorte: infine fu assalita dallo stupore e dall'incertezza. Tesa sempre in avanti, attratta dalla dolcezza del Padre, si
sarebbe perduta nella vanità dolorosa dell'infinito, se non
fosse intervenuta la forza a cui Abisso aveva affidato il compito di ordinare il mondo degli Eoni e di dividerlo dal nostro
universo: la Croce, il Limite. La Croce purificò la Sapienza, la
consolidò e la ristabilì tra gli Eoni; e Sapienza, cancellando il
proprio peccato dalla memoria, ritornò nei confini di se medesima. Per ovviare ad altri peccati, Abisso generò per mezzo
dell'Intelletto Cristo e lo Spirito Santo. Con la sua parola definitiva Cristo annunciò che né lo spazio né il pensiero possono comprendere Abisso: egli è indicibile, incomprensibile,
inconcepibile, perennemente nascosto nell'oscurità del proprio silenzio.
Intanto la sostanza amorfa e inconscia, l'aborto generato
dalla passione di Sapienza, era stata cacciata dal mondo degli
Eoni, e ribolliva nelle regioni dell'ombra. Cristo rivelò la
bontà che lo animava: si piegò sulla figlia di Sapienza e le
diede forma e coscienza. Poi la abbandonò. Allora, essa si
mosse alla ricerca della luce di Cristo: ma non la potè raggiungere, perché venne impedita dal limite della Croce. Non
sapendo varcarlo, cadde in preda ad ogni genere di passioni:
dolore, perché non aveva compreso: timore, per paura di
perdere con la luce anche la vita; disagio e ignoranza... «A
volte piangeva e si addolorava perché abbandonata sola nel120
la tenebra e nel vuoto: a volte pensando alla luce che l'aveva
lasciata riprendeva a ridere; poi di nuovo si addolorava, e altre volte era ripresa dal disagio e dallo stupore...» Così si
formò la materia da cui è sorto questo universo: dalle lacrime della figlia di Sapienza nacque la sostanza umida, dal suo
riso quella luminosa, dal dolore e dalla costernazione gli elementi corporei. Vennero alla luce il Demiurgo, il dio inferiore e mediocre, il dio dell'Antico Testamento, che molti
confondono con Abisso: gli astri, i cieli, la terra, gli angeli, i
demoni, gli uomini, e tutto quanto noi scorgiamo nell'aria,
nell'acqua, nel fuoco, nel suolo, o sospettiamo nelle lontananze invisibili.
Questo grandioso mito cosmogonico, che ho cercato di
raccontare con parole moderne, senza alone, né eco e ricchezza, è solo uno dei tanti bellissimi miti che possiamo cogliere tra i testi, i frammenti e i relitti della letteratura gnostica. Non m e n o straordinario è il racconto della caduta di
Ennoia (il Primo Pensiero divino), catturata dagli arcangeli
che aveva creato, chiusa in un corpo umano, costretta a trasmigrare da un involucro all'altro, fino al punto di vivere come prostituta in un bordello di Tiro: o il racconto della creazione di Adamo, che gli angeli tentano invano di modellare
secondo l'«immagine e la somiglianza» di Dio; o l'altra, straziante storia di Eden abbandonata da Elohim, che si adorna
invano per richiamarlo... Immagino che molti lettori di oggi
provino una specie di diffidenza per questa abbondanza e
fioritura della fantasia intellettuale, che il cristianesimo ortodosso represse nelle sue costruzioni più severe. Per conto
mio, non posso che ripetere le parole del Vangelo secondo
i'ilippo, un testo ispirato da Valentino: «La verità non è venuta nel mondo nuda, ma è venuta in simboli ed immagini».
I.'immaginazione teologica è una delle forme più alte e più
pure, che possa assumere il pensiero; e se oggi esso piega e
declina, è anche perché ha cessato di nutrirsi alle fonti della
teologia, e non costruisce, non figura, non gioca con le sue
forme. Del resto, i miti gnostici possono essere compresi in
molti modi. Chi è sordo alle loro risonanze teologiche, può
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leggere la storia di Abisso e di Silenzio, di Intelletto e di Sapienza come la rappresentazione dei processi della nostra
mente: come il pensiero nasca nei luoghi vasti e indeterminati del Non-Essere, come la tenebra diventi luce, come il silenzio diventi parola, come l'astratto pensiero si determini
in pensieri: come pecchi contro sé stesso, cercando di contemplare la propria origine oscura; e come, infine, da questo
errore nasca l'immagine informe di tutte le cose.
In un episodio famoso del Vangelo secondo Matteo, Gesù
domanda ai discepoli: «"Chi dite che sia il Figlio dell'Uomo?". Simon Pietro disse: "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente". Gesù gli rispose: "Beato sei tu, Simone, perché né la
carne né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è
nei cieli"». In un testo gnostico, il Vangelo secondo Tommaso,, troviamo una variazione di questo episodio. «Gesù disse
ai suoi discepoli: "Paragonatemi, ditemi a chi assomiglio". Simon Pietro gli disse: "Tu assomigli a un angelo giusto". Matteo gli disse: "Tu assomigli a un filosofo saggio". Tommaso
gli disse: "Maestro, la mia bocca non accetterà assolutamente che io dica a chi tu assomigli".» Tommaso, il discepolo
eletto secondo la gnosi, rifiutò dunque di rivelare ciò che
egli sapeva nelle profondità del suo spirito: perché Cristo è
ineffabile come l'Abisso. «Allora Gesù prese Tommaso, si ritirò e gli disse tre parole.» Secondo Henri-Charles Puech,
queste parole potrebbero essere: «Il Padre, il Figlio e lo Spirito»: oppure «La Via, la Verità, la Vita»; oppure «Kaulakau, Saulasau, Zeesar», tre misteriosi nomi gnostici. Ma, come egli osserva, la cosa più significativa è appunto che le tre parole
non vengano pronunciate. Il nome di Cristo, che nel Vangelo secondo Matteo Pietro manifestava senza timore, resta segreto. La verità rimane nascosta. «Ora, quando Tommaso fu
ritornato presso i suoi compagni, essi gli domandarono:
"Che ti ha detto Gesù?". Tommaso rispose loro: "Se io vi dico una sola delle parole che mi ha detto, voi prenderete delle pietre e le scaglierete contro di me, e un fuoco uscirà dal122
le pietre e vi brucerà".» Quando viene pronunciato nel mondo, ogni discorso intorno a Dio è scandaloso: porta all'assassinio e al fuoco vendicatore; e il nome segreto deve restare
affidato alla confidenza tra il Maestro e il discepolo eletto.
Questa è dunque la prima e l'ultima parola della gnosi? Il
silenzio? L'impossibilità di esprimere? Con uno dei totali capovolgimenti tipici della gnosi, il Vangelo secondo Tommaso
insiste: «Non vi è nulla di nascosto che non sarà manifestato»; «Non vi è nulla di coperto che non sarà rivelato». Nella
piccola comunità gnostica, che annuncia l'unanime comunità della fine del mondo, tutti i nomi vengono conosciuti,
tutti i segreti vengono pronunciati, tutti gli uomini sanno di
dove vengono e dove vanno. Nessuno potrebbe ignorare il
nome e la presenza di Cristo - perché «solleva la pietra, e là
lo troverai: fendi il legno, e di nuovo egli sarà là».
Cristo è un Fuoco divoratore: il Fuoco che sta nascosto
dietro ai sette veli del Trono: il Fuoco della carità; il Fuoco
che arderà l'universo nel giorno finale. «Ho gettato il fuoco
nell'universo» egli dice «ed ecco io veglio su di esso, fino a
che non bruci.» Così, nelle visioni che a tratti lo liberano dal
peso del mondo, lo gnostico scorge una luce. «Un giorno di
plenilunio, essendo uscito il sole dalla sua orbita, una grande
potenza luminosa lo seguì, estremamente brillante, ed era
impossibile misurare la luce che la seguiva. Veniva dalla luce
delle luci... Questa potenza luminosa discese su Gesù e lo
avvolse interamente, mentre stava seduto distante dai suoi
discepoli, ed egli risplendette, ed era impossibile misurare la
luce che stava sopra di lui, perché i loro occhi erano oscurati
a causa della grande luce, ma videro soltanto che la luce
emetteva una moltitudine di raggi, tutti di differente specie e
di differente forma...» A questo ardore, sale la preghiera dello gnostico: «Gesù, mistero nascosto che mi è stato rivelato,
in me tu hai manifestato i tuoi misteri più che a tutti i miei
compagni: a me hai detto parole delle quali io brucio, ma
che non posso esprimere... Sia gloria a te, vivente dal vivente! Sia gloria a te, datore di vita a molti! Sia gloria a te, aiuto e
sostegno di coloro che vengono al tuo luogo di rifugio! Sia
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gloria a te, insonne da tutta l'eternità, ridestatore degli uomini!... Io ti ringrazio con quella voce che è compresa dal silenzio, che non si ode apertamente, che non è emessa da organi corporei, che non entra in orecchi di carne, che non è
udita da un essere corruttibile, che non si spande sulla terra,
che non è scritta in libri...».
Questo Cristo infuocato non ha nulla a che fare con il Cristo dei Vangeli e di san Paolo. Quando passa attraverso i cieli
scendendo sulla terra, il Cristo gnostico riveste l'apparenza
di un angelo, per nascondere il suo viaggio agli angeli malvagi che reggono i cieli; e sulla terra riveste soltanto l'apparenza di un uomo. Il suo corpo non è dunque formato, come il
nostro, di carne, di ossa, di nervi, di sangue: ma è un corpo
sottile, spirituale - o un fantasma, uno spettro illusorio e mutevole. Negli Atti di Giovanni, gli apostoli cercano invano di
scorgere le impronte dei suoi piedi sul suolo; e se posano la
mano sul corpo di lui, affondano la mano in una sostanza immateriale. Cristo si trasforma secondo le ore e le persone:
ora è un bambino, ora un gigante con la testa che tocca il
cielo, ora un uomo bellissimo e dallo sguardo sereno, ora un
uomo calvo, piccolo e brutto. Con questo ingannevole corpo d'aria, non può soffrire e morire sulla croce: Basilide
giunse al punto di affermare che sulla croce salì Simone il Cireneo, mentre Cristo, che aveva assunto le sue apparenze,
«stava lì vicino camuffato, e irrideva i propri crocefìssori». Il
dramma dell'incarnazione e lo scandalo della croce, cuore
della rivelazione cristiana, diventano così per gli gnostici un
gioco teatrale, un trucco illusionistico, con cui Cristo si prese gioco dei suoi avversari. Ma gli gnostici vennero sconfìtti.
Il Cristo illusionista (o il Cristo-Angelo) fu vinto dal Dio-Uomo: la materia, il corpo, il dolore vennero redenti e assunti
in cielo; e, come scrive Henri Corbin, «la sorte del pensiero e
della cultura occidentale fu decisa per diciassette secoli».
Nel nostro mondo, nato dall'aborto informe, inquieto e
inconscio di Sapienza, lo gnostico vive nell'angoscia. Tutto
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ciò che lo sfiora è degradato: il Demiurgo, gli astri, gli angeli, il tempo, il corpo umano, gli animali. Il Demiurgo è un
essere maledetto: o imperfetto, cieco, debole, ignorante. Il
firmamento, le stelle e i pianeti, che agli occhi di uno stoico
formavano un ordine meravigliosamente armonioso, gli appaiono come un meccanismo m o n o t o n o e tirannico: le
sfere planetarie sono posti di dogana, dove guardiani demoniaci si sforzano di trattenere le anime che cercano di scampare al divenire; e lassù egli scorge il Destino tessere la rete
tremenda della vita. Il «mondo» gli sembra una fortezza ermeticamente chiusa, circondata da muri e fossati invalicabili. Il tempo potrebbe divertirlo con la sua incostanza, la sua
mutabilità perpetua, la sua fluidità, l'apparire, scomparire e
riapparire degli eventi: ma tutti gli attimi staccati e dispersi
finiscono per formare una catena, rigida e oppressiva come
ferro. Quanto al corpo - questo vestito, questo cadavere,
questa tomba, questo legame, questo carcere, questo dragone -, stringe e soffoca l'anima, la comprime e l'umilia; e
tutte le sue manifestazioni non destano in lui che ripugnanza. Così lo gnostico vive sulla terra come uno straniero o un
viandante, abbandonando le attività alle quali gli altri dedicano tutto il tempo, e chiudendosi in un perpetuo sabato
spirituale.
Eppure questa dottrina, che così disperatamente deplora
la miseria dell'uomo, innalza il più trionfale inno di gloria
che sia mai stato elevato a lode della nostra sostanza. Con
gli occhi dell'anima lo gnostico guarda nell'altro universo, il
luogo della «Vera Vita», del «Riposo» e della «Pienezza»; e
scopre che lassù vive il suo vero io, il suo doppio celeste, la
sua immagine nata prima di lui, che non muore e non si manifesta. «Tu non sei di qui» egli ripete «la tua radice non è
del mondo.» Anche qui, nel carcere del destino, del tempo
e del corpo, lo gnostico sa di nascondere nella più fine
punta dell'anima una scintilla di luce divina: una scintilla
che possiede egli solo, non gli altri uomini; una scintilla che
non possiede nemmeno il Demiurgo, che ha foggiato la prigione dove viviamo.
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Con questa scintilla divina nell'animo, lo gnostico non teme danno, sventure o pericoli. Come erede di una razza privilegiata o «figlio di Re», egli è salvo per natura e per grazia.
Nessuno degli atti che compie nell'esistenza, simile a uno
straniero o a un viandante distratto, nessuna delle esperienze nelle quali rimane per caso o fatalmente coinvolto, gli fanno perdere la sua condizione di figlio di Re. «L'elemento spirituale» scrive Valentino «non può accogliere corruzione,
quali che siano le opere nelle quali si trova implicato. Come
infatti l'oro, posto nel fango, non perde la sua bellezza ma
conserva la propria natura, perché il fango non può in nulla
danneggiare l'oro, così gli esseri spirituali, quali siano le azioni materiali in cui sono implicati, in nulla ricevono danno né
perdono il loro fondamento.» Se è simile per natura al Cristo, tanto più lo gnostico diverrà come lui quando la conoscenza avrà purificato le scorie della sua natura. Alla fine
dell'insegnamento iniziatico, il discepolo si identifica col
Maestro: ciò che per un cristiano è empio e inconcepibile.
«Tu hai visto lo Spirito, e sei diventato spirito» dice il Vangelo
secondo Filippo. «Tu hai visto Cristo, e sei diventato Cristo.
Tu hai visto il Padre, e diventerai il Padre.» Così, con un altro
capovolgimento, questa religione che aveva sottolineato i limiti delle entità divine, toglie ogni limite ai desideri e alle
speranze delle creature umane.
L'ultimo appello dei Vangeli gnostici invita all'unione. «Per
questo motivo è venuto il Cristo: per annullare la separazione che esisteva fin dalle origini, per dare la vita a coloro che
erano morti nella separazione e per unirli di nuovo.» Ogni
gnostico deve dunque vincere in sé stesso le forze corrosive
della divisione: facendo corrispondere nel proprio io l'interno e l'esterno, la profondità e la superficie, l'inferiore e il superiore, la sensibilità e l'intelletto, il movimento e la quiete;
e identificando la scintilla luminosa della sua anima con il
beato doppio celeste. Ma questa riunione interiore non basta, perché alla perfezione compatta di ogni singola persona
deve corrispondere l'annullamento di ogni limite individuale. Ciascun uomo diverrà «uno» col suo simile; e i due sessi
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uniranno le loro membra separate e divise in una figura unica, simile a quella che apparve per la prima volta nel Paradiso terrestre. «Quando Eva era in Adamo, non esisteva la morte. Ma dopo che essa si fu separata, la morte è sopravvenuta.
Se essa entra di nuovo in lui, e se egli la riprende in sé stesso, non esisterà più la morte» dice il Vangelo secondo Filippo. La grande mitologia gnostica si conclude così, con questa negazione del t e m p o e dei corpi: con questo sogno
incontaminato dell'androgino e la speranza di sconfìggere la
morte che, di soppiatto, come una nemica, si è insinuata
nell'universo protetto dal primo Androgino, Abisso che si rispecchia in Silenzio, Silenzio che si rispecchia in Abisso.
IL CANTO DELLA PERLA
Un giovanissimo principe viveva in un lontano regno
d'Oriente. Il «re dei re» era suo padre, la regina sua madre, il
fratello maggiore primo ministro; e una folla di principi e di
dignitari si affollava nelle sale dei grandi palazzi, colmi di ricchezza e di gioia. Per qualche tempo, il giovane principe soggiornò nella «casa del padre». Di quel primo periodo della
sua esistenza conosciamo pochissimo. Sappiamo soltanto
che il padre e la madre gli avevano tessuto una veste colorata e splendente, ornata d'oro e di berilli, di calcedonii e di
sardonii, con le giunture unite da fermagli di diamante, nella
quale era dipinta l'immagine del «re dei re». Questa veste
non era un semplice abito. Era il suo doppio celeste, il suo io
permanente ed essenziale, che stava al di là dei fenomeni e
delle apparenze: insieme diverso e identico a lui, come sono
diverse e identiche una figura e la sua immagine riflessa allo
specchio. Ma il principe era ancora troppo giovane e ingenuo, per conoscere il vero significato dell'abito che gli avvolgeva le membra.
Un giorno, questa vita inconscia e beata si interruppe. Il
padre e la madre tolsero al figlio la veste splendente; e conclusero un patto con lui, che scrissero nel suo cuore, perché
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egli non lo dimenticasse: come nel cuore di ognuno di noi
sta inciso il segno del nostro destino. Egli doveva discendere
nell'Egitto, e liberare una perla, l'unica degna di questo nome, che stava nel mezzo del mare, custodita da un serpente
schiumante di veleno e di rabbia.
Ogni lettore del Canto della perla comprende che esso
nasconde delle verità segrete, dietro la lettera del racconto.
Qualcuna di queste verità ci è subito chiara. Il regno d'Oriente non è altro che il regno dei cieli: l'Egitto il mondo della
materia, e il serpente è il sovrano di questo mondo. Chi è il
giovane principe? E la perla? Come nei grandi simboli, le verità parallele o contradittorie si intrecciano l'una nell'altra, si
dispongono fraternamente l'una sull'altra. Il principe che
compie il viaggio nella materia è il Redentore; e la perla l'anima umana, questa goccia di sole o di rugiada celeste, chiusa
nella prigione del corpo. Ma il principe è anche l'immagine
di tutti gli uomini, che scendono sulla terra per conquistare
il regno di Dio, l'unica perla degna di questo nome.
Insieme a due compagni, il principe attraversa le frontiere
del proprio dominio e le mura di Babilonia, abitate da malvagi e da demoni. Quando giunge in Egitto, i compagni lo abbandonano. Allora egli resta solo, doppiamente straniero:
lontano dai suoi, perduti nelle profondità del mondo celeste, ed estraneo agli Egiziani, che non potrebbero mai amarlo e comprenderlo. Egli li teme e, per nascondersi agli occhi
indifferenti ed ostili, indossa il loro abito impuro, il loro corpo d'acqua e di terra, come Cristo aveva indossato un corpo
umano. Ignoriamo quanto duri questa vita nascosta: forse
qualche mese, forse il tempo di una intera esistenza. Finché
in un momento di disattenzione e di distrazione, il principe
rivela il proprio segreto agli Egiziani, i quali si accorgono che
è un «orientale», un uomo di luce, e gli danno da mangiare il
loro cibo. Allora egli cade in un profondissimo sonno: non il
sonno ristoratore, che riposa le membra e la mente affrante,
ma quello tremendo, che ci fa perdere la nostra identità, ci fa
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dimenticare il nostro io, e commettere in sogno azioni nelle
quali non ci riconosciamo. Dimentica la propria origine regale, la veste luminosa, e la perla che avrebbe dovuto liberare.
Mentre Cristo aveva conservato la natura divina scendendo
attraverso le sfere celesti, l'ignoto Redentore fallisce nella
sua impresa: simile a ciascuno di noi, che non può conquistare il regno di Dio soltanto con le proprie forze.
Chissà quanto a lungo egli avrebbe vissuto così, sopraffatto dall'oppio della dimenticanza, se lo sguardo amoroso del
cielo non l'avesse soccorso. Il «re dei re», la regina, il fratello,
i principi e i dignitari della corte d'Oriente gli scrivono una
lettera, invitandolo a ricordare la propria origine. Ci immagineremmo che qualche messo scenda in Egitto a portargliela,
oppure che una visione gliela riveli in sogno. Scritta su seta
di Seleucia o di Cina, la lettera si trasforma invece in una
creatura vivente, come tutti i concetti astratti, i simboli, i
pensieri e i sentimenti di questo mito, che assumono un corpo animato. La lettera attraversa il cielo nella forma di
un'aquila; e l'aquila, appena scesa sulla terra d'Egitto, diventa una voce, una parola, un altissimo grido, che risuona nelle
tremende profondità del sonno. Questa voce è identica al
patto che il «re dei re» aveva scritto nel cuore del principe al
momento della discesa: è il suo destino, che gli viene ricordato dall'alto dei cieli.
Il principe si risveglia. Afferra la lettera, che ora è di nuovo
soltanto un foglio di seta, la stringe al petto, la bacia, la legge; e subito la memoria ricrea nella sua mente l'immagine
della patria e della perla dimenticate. Il Redentore sconfitto
viene redento: l'anima perduta viene liberata dall'incantesimo che la teneva avvinta. Il principe non ha alcun merito in
questo risveglio: ma vince in sé ogni debolezza, ogni esitazione, ogni distrazione colpevole, rafforza la propria volontà,
e si muove per liberare la perla. Raggiunge il serpente che
soggiorna sulle rive del mare, lo incanta e lo addormenta,
pronunciando i nomi magici del Padre, della Madre e del Figlio. Apre la conchiglia, libera la perla dalla doppia schiavitù
del sovrano di questo mondo e del rigido involucro; e la
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espone alla luce d'Oriente. L'anima prigioniera può finalmente tornare nella sua vera patria, insieme al Redentore
che l'ha salvata.
Nessun impedimento, nessuna forza terrena cercano di
ostacolare il ritorno. Il principe lascia il corpo di terra sulle
sabbie d'Egitto, e comincia il viaggio - quel viaggio che avviene sia dopo la nostra morte, sia nei momenti estatici della
visione - verso la casa del padre. Il cammino è lungo e diffìcile; e questa volta ad accompagnare il principe è il suo destino compiuto, che gli viene incontro nella forma della lettera inviata dal cielo. Vivace come la più viva persona, nobile
come la più eletta creatura angelica, la lettera è ancora davanti a lui: la superficie di finissima seta irradia luce quanto
la lampada che illumina le strade della notte, la voce miracolosa rianima lo slancio, l'intensità dell'amore lo attira verso
l'alto. Il Redentore percorre un'altra volta le piste carovaniere: attraversa i fiumi, i deserti, le pianure fittamente coltivate, e le mura terrificanti di Babilonia.
Quando giunge ai confini del suo regno, trova ad attenderlo l'abito luminoso e colorato dell'infanzia. Mentre viveva
sepolto nella prigione dell'oblìo, l'aveva dimenticato completamente. Ora si accorge che la veste, di cui da giovane
non aveva compreso il significato, è divenuta il suo specchio
vivente: essi sono due, persone divise e separate, eppure sono la stessa persona, la stessa immagine, la stessa forma, dove si riflette la lontana immagine di Dio. Egli la ascolta parlare e capisce che la veste è animata dai movimenti della
conoscenza più perfetta. Intanto essa si stende regalmente
verso di lui, si precipita verso di lui perché la indossi, si affretta verso di lui perché la accolga per sempre. L'amore appena nato spinge il principe ad andarle incontro, a stendere
le mani ed il corpo; e si avvolge interamente dentro di essa,
adornandosi con la bellezza dei suoi colori. Così, dopo aver
realizzato il proprio destino, il principe si identifica con il
suo doppio celeste, lo comprende e ne viene compreso, lo
ama e ne viene amato. La scissione dell'io è ricomposta: l'io
apparente si riunisce all'io trascendente, la persona al suo
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specchio; e tanto il Redentore quanto ogni uomo «diventano
quello che sono».
Tornato nei palazzi d'Oriente, il principe adora suo padre,
mentre i principi e i dignitari lo acclamano. Egli è dunque
tornato davanti al «re dei re», che aveva abbandonato bambino? Noi lo crediamo. Eppure, nel momento in cui giunge a
casa, il Canto della perla ci informa che il padre dovrà condurlo davanti al trono del vero «re dei re». Se avesse raggiunto questo trono, certo avrebbe dovuto procedere verso un
altro trono, dietro il quale sarebbe apparsa l'ombra di un altro trono. Il movimento verso Dio non può finire: perché
egli si sposta, si allontana da noi, fugge in uno spazio sempre
più alto e remoto, celato dietro una sempre nuova cortina,
mentre qualcuno immagina di averlo raggiunto.
Il canto della perla è stato composto nel primo o nel secondo secolo dopo Cristo. Non sappiamo chi l'abbia scritto,
né il luogo dove è stato scritto, sebbene il suo testo più antico sia siriaco. Gli studiosi moderni hanno rintracciato paralleli con le tarde apocalissi giudaiche, con i Vangeli e le lettere
di san Paolo, con la tradizione giudeo-cristiana, con quella
della Chiesa di Siria, con la gnosi pagana e cristiana, con la
cultura zoroastriana, mandea e manichea; e perfino con gli
antichi romanzi greci, ispirati al culto del sole. Nessuno di
questi paralleli esclude l'altro. Tutti si compongono e si
rafforzano l'uno con l'altro: perché questo canto meraviglioso è una perla, che raccoglie tutte le influenze e gli echi del
mondo, tutte le gocce della rugiada celeste, le assorbe, le
chiude nella perfezione della propria sfera, e le fa diventare
invisibili, come il raggio di luce che si perde sempre più intimamente nel grembo compatto del mare.
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LE CONFESSIONI DI SANT'AGOSTINO
Le Confessioni di sant'Agostino obbediscono a due opposti ritmi temporali. Da un lato, la lenta, continua storia di
sensazioni, sentimenti ed idee, che si depositarono nel cuore di Agostino in un periodo di trent'anni: egli si volge da
tutte le parti, cerca inquietamente una salvezza o una redenzione, ama, odia ciò che ha amato, respinge ciò che ha prediletto: in questa ansiosa ricerca, crede di essere solo: non
vede nessuna luce certa; e non sa che Dio lo guarda dall'alto
dei cieli, lo segue e lo guida, e che ognuno dei passi che pone confusamente sulla strada buia lascia un segno sulla strada luminosa e provvidenziale che Egli ha tracciato per lui.
Ma, d'altra parte, scrivendo le Confessioni, Agostino non
può accettare di essere prigioniero del tempo lineare e continuo, al quale obbediscono le storie umane. Come gli aveva
insegnato san Paolo sulla via di Damasco, come da lui apprenderanno tutti i futuri convertiti cristiani, la grazia di Dio
non è figlia del tempo. La grazia entra in noi per mezzo di
una improvvisa irruzione, di una subitanea illuminazione, di
una frattura inaspettata, spezzando in due le nostre vite. Prima di lei, c'è tenebra: dopo di lei, luce; e nessuna dialettica
potrà congiungere del tutto le due parti separate delle nostre esistenze. Solo così, la folgorante eternità divina può penetrare nel tempo umano. Inoltre san Paolo aveva insegnato
ad Agostino (e a Manzoni) che la conversione non è soltanto
una scintilla interiore. Come un grande regista teatrale, la
grazia di Dio ha bisogno di una scena esterna: una strada,
uomini che stanno viaggiando, bambini in una casa o in una
chiesa vicina, luci o voci che scendono dal cielo.
Dopo anni di incertezze, Agostino era prossimo alla conversione: tutto sembrava pronto per accoglierlo nella Chiesa: lo spirito comandava allo spirito di volere; eppure lo spirito non obbediva. «Così ero malato e mi torturavo,
accusando me stesso con più asprezza che mai, ravvolgendomi e dibattendomi nella mia catena fino a che finisse di
rompersi... Perché dicevo in me stesso, interiormente: "È il
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momento. Subito, sì, subito, sì". E a queste parole stavo già
per decidermi a farlo. Già quasi lo facevo; e no, non lo facevo.» Intanto, mentre indugiava e rinviava, il Signore lo inseguiva nei suoi nascondigli con una misericordia severa, battendolo col doppio flagello del timore e della vergogna. Un
giorno, egli si rifugiò nel piccolo giardino della casa dove
abitava a Milano, abbandonando la presenza amica di Alipio;
e nel suo cuore si levò una grande tempesta, carica di una
pioggia di lacrime. Si sedette sotto un fico: il fico simbolico
che rappresenta l'ombra mortale dei peccati del genere
umano in preda alla concupiscenza, ma giustificato gratuitamente da Cristo. Lasciò le redini alle lacrime, ed esse sgorgarono a fiumi dai suoi occhi, mentre gridava lamentosamente: «E tu, Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore,
sarai irritato sino alla fine? Non conservare il ricordo delle
nostre vecchie iniquità... Per quanto tempo? Per quanto tempo? Domani, sempre domani. Perché non subito? Perché
non finirla, subito, colle mie turpitudini?».
Mentre piangeva nell'amarezza del suo cuore spezzato,
udì una voce, che veniva da una casa vicina (o da una vicina
chiesa?). Era una voce di cui non riuscì mai, per quanto cercasse di ricordare, a riconoscere il timbro: forse di un fanciullo o di una fanciulla, o forse di una creatura angelica, come amarono leggere i secoli agostiniani. Cantando e
ripetendo frequentemente, quasi in un gioco infantile, la voce sconosciuta diceva: «Prendi, leggi! Prendi, leggi!» - ma in
nessun gioco che egli ricordasse, echeggiava quel ritornello.
Santa Teresa fu la prima, credo, a comprendere questo mirabile passo. In quei momenti di angoscia e di attesa, col cuore
spezzato e le lacrime che uscivano a fiumi dagli occhi, Agostino ebbe una delle grandi esperienze visionarie della sua
vita. Udì una voce puerile o angelica nella mente; e la
proiettò fuori di sé, nel giardino che lo circondava, dove Alipio si era allontanato da lui. Mentre delirava dolcemente,
ereditava, come accade nelle visioni, le forme dell'antica tradizione cristiana: i iuvenes o pueri o adulescentes che, nelle
Passioni, rivelano sorridendo messaggi di felicità spirituale ai
133
«confessori della fede»; e l'abitudine di trarre un presagio
dalle pagine della Bibbia per mezzo di un sacerdote o di un
puer innocens. Agostino soffocò le lacrime, prese le Lettere
di san Paolo che stavano posate vicino a lui e, come gli aveva
detto la voce, lesse il primo passo che gli capitò sotto gli occhi: «No, non nelle crapule e nelle ebbrezze: non negli amplessi e nelle impudicizie: non nelle contese e nelle gelosie;
ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non assecondate la
carne nelle sue concupiscenze». Non volle continuare. Appena lette queste parole, una luce di certezza cadde nel suo
cuore e tutte le tenebre del dubbio si dissiparono.
Tutto accadde veramente così, come ci raccontano le
Confessioni? Ci fu davvero quella improvvisa irruzione, quella luminosa cesura nella sua vita? Nel secolo scorso e all'inizio di questo, molti studiosi ne hanno dubitato, paragonando il racconto drammatico e convulso delle Confessioni con
la luce tranquilla che avvolge i Dialogi scritti, subito dopo la
conversione, a Cassiciacum, in Brianza. Nessuno, certo, potrebbe negare le profondissime differenze di tono. Quando
nel settembre 386 si ritirò a Cassiciacum, Agostino visse il
suo periodo di otium cristiano, insieme alla madre, al figlio e
ad alcuni allievi, come tanti latini del periodo classico, liberi
dalle cure di una professione pubblica, avevano trascorso le
estati o gli autunni in campagna, dedicandosi alla lettura e alla meditazione. A metà della notte, si svegliava; e nel dormitorio, rifletteva in silenzio a tutto ciò che l'ispirazione o il caso gli portava nella mente - Dio, l'ordine, la bellezza del
mondo, l'esistenza del male -: poi qualche amico si svegliava, e discorrevano insieme, mentre si avvicinava l'alba. Mangiavano poco: tutti continuavano la discussione nei bagni
ben temperati del paese, o sui prati vicino alla casa, appena
si dissipavano le nebbie del mattino. Forse non si era mai
sentito così teneramente felice, sereno e disteso, come allora, con l'animo e il corpo convalescenti dalle ferite della conversione. «Ormai,» scriveva «sei Tu solo che io amo, Tu solo
che io seguo, Tu solo che io cerco, Tu solo che mi sento
pronto a servire.» Era pieno di fervore e di slanci verso il Si134
gnore: amava la filosofìa neo-platonica e i suoi «densi profumi», come non l'avrebbe mai più amata: trovava il mondo
una incantevole nebbia di luce; ed era certo - come non sarebbe mai più stato - del futuro radioso che il cielo stava
preparando per lui.
Forse non aveva ancora scoperto il suo vero Dio, il Dio
delle Confessioni-, senza saperlo, adorava ancora quello dei
filosofi - il Dio del Bene e del Bello, sorgente e principio della luce intelligibile e di tutto ciò che brilla di questa luce: «la
sola sostanza veramente eterna, in cui non vi è nessun disaccordo, nessuna confusione, nessun cambiamento, nessuna
mancanza, nessuna morte; ma sovrana concordia, sovrana
evidenza, sovrana costanza, sovrana pienezza, sovrana vita».
Se guardava l'universo, ne scorgeva l'armonia e l'ordine meraviglioso: gli occhi ammiravano le forme belle e varie, i colori vivi e freschi, la luce che inonda le cose e ci accarezza anche quando non le prestiamo attenzione. Non c'era
dissonanza perché il peggio si armonizzava col meglio, la miseria con la felicità, il peccato con la salvezza. Tutto ciò che
possiede il privilegio dell'Essere, è buono: il possibile che
tende all'Essere è ugualmente buono; e in un sussulto stupendo di ottimismo, egli immaginava che tutti i nostri ideali,
i nostri sogni, le verità, che costruiamo nella mente illuminata da Dio, esistano necessariamente in qualche luogo di questo o di un altro mondo, sebbene noi non riusciamo a vederli. Benediva tutte le cose, anche quelle dove i filosofi
avevano scorto l'essenza del negativo. I corpi posseggono
bellezza e armonia, e sono dunque opera di chi è principio
di ogni armonia: ciò che muore, si dissolve o si trasforma,
soggetto alle amare vicissitudini del tempo, non turba l'equilibrio dell'universo, come un discorso ben composto nel
quale le sillabe e i suoni si succedono continuamente. Anche
il male - la cui idea sconvolge ogni lodatore dell'harmonia
mundi - alleggeriva la sua ombra nella mente di Agostino.
Ormai era certo che non fosse una sostanza, come aveva creduto una volta, prima di leggere Plotino e sant'Ambrogio.
Nasceva dal libero arbitrio di ogni uomo: nequitia, «malva135
gita», discendeva da ne quidquam, «nulla»; il male era dunque una pura assenza, una privazione, una mancanza - così
come le tenebre non sono che un'assenza di luce e il silenzio un'assenza di suono.
Possiamo capire come, in questo tenero fervore di convalescente, Agostino non comprendesse nella loro vera luce la
sua vita inquieta e angosciosa e la sua drammatica conversione. Tutto ciò era passato; ed egli si protendeva senza più pesi verso il miracoloso futuro che la grazia di Dio e il battesimo avrebbero fatto nascere in lui. Questa condizione non
durò a lungo. Nei dieci anni che seguirono la conversione, il
mondo di Agostino perse la lieve armonia che lo distingueva, e fu di nuovo avvolto dalle ombre. Si convinse che l'uomo, da solo, non riesce a fare il bene: così lui, da solo, non
aveva saputo convertirsi e liberarsi dal proprio passato. Come nella sua giovinezza manichea, tornò ad indagare febbrilmente quale fosse la natura del male: «quali torture del mio
cuore che partoriva, quali gemiti, mio Dio!... E mentre in silenzio intensamente cercavo, delle grandi voci salivano verso la Tua misericordia: muti spasimi del mio cuore». Aveva
sostenuto che il male era una mancanza d'essere. Ora aveva
in mente una frase di san Paolo: «Il volere è in mio potere,
ma compiere il bene no. Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio quello
che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che
abita in me». Sebbene non mutasse le formulazioni teologiche, avvertiva il male come una presenza oscura e minacciosa che abita dentro di noi, sotto la nostra volontà e la nostra
coscienza, e si diffonde all'interno. Chi poteva negare, dunque, che esso possedesse una sostanza tenebrosa e violenta?
Se ora indagava dentro il suo cuore, scopriva che aveva peccato prima ancora di possedere la coscienza: appena nato,
«pallido, con lo sguardo amaro», aveva invidiato il fratello,
che come lui prendeva il latte dal seno della stessa madre; e
poi aveva continuato a peccare, mentendo, amando il gioco
e gli spettacoli frivoli. Se Catilina aveva commesso il male per
amore del potere e della gloria, lui l'aveva compiuto - ruban136
do qualche pera su un albero - per il puro piacere di commetterlo: per piacere dell'infrazione e del delitto. Aveva dunque commesso la cosa più terribile: il Male Assoluto.
Molte cose lo allontanavano ormai dal tempo della sua
conversione. Allora si era soffermato ad adorare Dio nell'ordine e nella bellezza del mondo: ora, invece, voleva parlare,
se possibile, anche di quello che Egli È, della sua inafferrabile essenza, della grazia, che l'aveva sostenuto e salvato negli
anni della giovinezza e ora continuava a salvarlo. Così, nel libro che cominciò in uno degli ultimi anni del quarto secolo,
tutto intessuto di parole e di immagini della Scrittura, sorretto da un ingegnoso intarsio dei Salmi, egli volle scrivere la
sua Confessio peccati et laudis: rivelando la grazia divina
che l'aveva abitato quand'era ancora immerso nel male, ed
esaltando Dio che crea il mondo.
Credo che mai libro umano - nemmeno i testi dei sufi di
Persia - sia stato così prossimo a Dio. «Pensavo queste cose,
e Tu mi eri vicino: sospiravo e Tu mi udivi: ondeggiavo e Tu
mi governavi; me ne andavo per la larga via del mondo, e Tu
non mi abbandonavi.» Agostino è invaso, posseduto, dominato, abitato da quella sovrumana presenza. Come è pieno
di amore, di fiducia, di sicurezza, di totale riposo il Tu che gli
rivolge! Come sono incredibilmente dolci gli appellativi con
cui lo invoca: dulcedo mea, lumen cordis mei! Questo libro,
che pure sembra scritto per ognuno di noi, non venne composto per nessuno degli uomini, ma soltanto per Dio, che
doveva essere il suo unico lettore ed ascoltatore. Nella sua
onniscienza, Egli sa già tutto quello che Agostino ha sentito,
sofferto e pensato: ha visto tutto quello che accadeva in lui e
intorno a lui; ed Agostino deve ripetere soltanto, rivelandole
a sé stesso, le parole che Dio conosce da sempre. Un solo
desiderio egli non potè realizzare. Scrivere la confessione
del peccato e della lode con gli stessi occhi e la stessa mano
di Dio: comporre la propria autobiografìa con le stesse lette137
re con cui Egli, il giorno del Giudizio, l'inciderà sulla scena
del cielo.
All'inizio, come il fìgliol prodigo, Agostino viveva nella lontananza: nell'«abisso smisurato» e nella «passione tenebrosa»
della separazione. Poi cominciò la ricerca di Dio: sempre più
ansiosa e inquieta, condividendo i pensieri che possono nascere in una intelligenza umbratile, le passioni che possono
agitare un'anima ardente, i rimorsi che possono turbarla, la
gioia amara dei piaceri del mondo e il vuoto angoscioso delle sue illusioni. Non trovava quiete. Andava, sospirava, piangeva, si turbava, e non c'era riposo né consiglio. Ora era colto da una segreta esultanza mescolata di tremore, ora da una
segreta amarezza mescolata di speranza. Portava, dilaniata e
sanguinante, la sua anima, che non tollerava di essere portata da lui. Non sapeva dove deporla. «Né nei boschi ameni, né
nei giochi e nelle canzoni, né nei luoghi soavemente profumati, né nei festini ricercati, né nella voluttà della camera e
del letto, e nemmeno nei libri e nei poemi, non trovava riposo.» E se ne andava per le tenebre e lo scivoloso, e cercava il
Signore fuori di lui, e non trovava da nessuna parte il «Dio
del suo cuore». Finché, quando guardò nelle profondità del
suo io, dove tutto si raccoglieva e si rispecchiava, l'Uno lo
raccolse dalla dispersione, concentrandolo in sé stesso.
Ma chi è questo Dio - il lettore e il segreto autore delle
Confessioni? Chi è questo centro, sempre presentito e mai
afferrato, sempre inseguito e alla fine colto? Al tempo dei
Dialogi di Cassiciacum, Dio era una luce generatrice di luce,
avvertita nella sua indistinzione: adesso, che Agostino si è
tanto più avvicinato ai suoi segreti, è divenuto un costante
produttore di antitesi, il senso segreto di tutte le antitesi,
che si sciolgono e si annullano in lui. Egli è sempre in azione
e sempre in riposo, fondendo le opposte qualità del movimento e della stasi, che si identificano nell'eterno. È colui
che È, colui che non muta, un eterno oggi, eppure genera la
mobile vita degli uomini nel tempo: è il più stabile e uguale a
sé stesso di tutti gli esseri, e quindi dovrebbe essere subito
afferrato dalla mente, mentre è il più oscuro: è in tutti i pun138
ti e in tutti i luoghi della terra e in nessuno di essi; e se guardiamo il suo viso rivolto verso di noi, vediamo che negli stessi tratti si fondono la vendetta e la misericordia, l'aspetto di
chi punisce come il più severo dei maestri umani e quello,
infinitamente dolce, di chi asciuga le lacrime di coloro che
piangono. Ma queste antitesi, e tutte le altre che Agostino
svolge con la sua maestria di sofista, dipendono da un'antitesi essenziale. Dio è, insieme, l'assoluta trascendenza e l'assoluta immanenza. Egli non può essere contenuto nel nostro
cuore, e nemmeno in tutte le cose, perché esse non possono contenerlo, eppure vive nel cuore di ognuno di noi. È altissimus et proximus, secretissimus et praesentissimus. Sta
in alto, in alto, elevato sopra tutte le cose, celato nel proprio
abisso vertiginoso, il più misterioso e inafferrabile di tutti gli
esseri; e nessuno ci è più vicino e prossimo di lui, così «intimo del nostro intimo», così fraterno, manifesto e famigliare.
Sebbene la distanza di Dio trovi nelle Confessioni un'espressione mirabile, Agostino preferisce svelarci l'altro polo
dell'antitesi: la Sua presenza. Se egli rifiuta l'amore umano,
non lo fa perché voglia cancellare ogni desiderio, ma perché
tutta la forza erotica dell'uomo si deve sciogliere e sublimare
nell'abbraccio con Dio. In un brano arditissimo del secondo
libro, ci spiega che Dio è l'equivalente e il sostituto di quanto
possiamo chiedere alla vita, e che tutti i nostri piaceri psicologici e fisici, perfino quelli malvagi, debbono essere trasformati e realizzati nell'amore per Lui. Se nell'orgoglio cerchiamo
l'elevazione, Dio è elevato sopra tutte le cose. Se l'ambizione
cerca gli onori e la gloria, solo Dio è degno di onori e gloria.
Se i potenti cercano di ispirare timore, solo Dio è da temere.
Se i voluttuosi cercano di farsi amare, nulla è più carezzevole
del suo amore. Se la pigrizia cerca il riposo, l'unico riposo certo è nel seno di Lui. Se il lusso insegue l'abbondanza e la sazietà, solo Dio è la pienezza e l'inesauribile tesoro di una soavità incorruttibile. Se l'avarizia vuole possedere molto, Dio
possiede tutto. Se l'ira cerca la vendetta, chi si vendica più
giustamente di Dio? Tutto possiamo amare nel Signore: la
bellezza di un corpo, lo splendore di una luce, le melodie più
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dolci, l'odore dei fiori, le membra che accettano gli amplessi
della carne. Le cose transitorie vanno dove sono sempre andate, per non essere più, e straziano l'anima di desideri e dolori pestilenziali, poiché l'anima vuol essere e ama riposare
nelle cose che ama. Chi può seguirle col senso della carne? O
chi può afferrarle, anche quando esse sono sotto mano? Queste cose transitorie possiamo conoscerle e amarle e possederle soltanto in Dio - divenute stabili e solide come Egli è.
Quello che ci colpisce è il linguaggio antropomorfico col
quale Agostino rappresenta Dio. Mai Egli è stato un corpo
come nelle Confessioni: il rapporto con lui è tra volto e volto, bocca e bocca, orecchio e orecchio; tremendamente carnale come in santa Teresa. Quali frasi ardenti! «Che io abbracci la tua mano con tutto il mio cuore»: «Che di più vicino
alle mie orecchie, per un cuore che ti confessa e vive per la
tua fede?»: «Applica l'orecchio del mio cuore alla tua bocca
perché Tu me lo dica»; «Noi tenevamo la bocca del nostro
cuore verso le acque che fluiscono dall'alto della tua sorgente, dalla fonte di vita che è presso di te, affinché noi fossimo
bagnati secondo la nostra forza». Dio è un cibo, di cui Agostino ha fame e sete, con la stessa furia con cui un affamato si
getta sopra un cibo terreno. Questa figura corporea di Dio
deriva dal linguaggio dei Salmi, modulato e piegato con sempre nuove variazioni. Agostino sa bene che Dio non ha volto
né mani: è lo Spirito puro. Ma questo Spirito incombe a tal
punto su di lui, che egli lo sente prossimo come il proprio
respiro, come la vena del collo, come la propria immagine riflessa allo specchio. Gli sembra che il grande corpo di Dio lo
avvolga da ogni parte, e che egli sia soltanto un'ombra infantile fissata da quegli occhi, portata da quelle mani, ascoltata
da quelle orecchie.
Nella sua ricerca filosofica, che l'aveva portato attraverso i
libri e le scuole, Agostino aveva cercato la verità - ma soprattutto una meta che poneva molto più in alto: la felicità. Era
convinto che «nessuno è saggio se non è felice». Ma dove
abita l'irraggiungibile felicità? Al tempo della conversione,
aveva capito che poteva essere felice solo se conosceva Dio:
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soltanto se veniva investito da Qualcosa di alto, di stabile, di
fonciato, di sicuro, dalla figura del Padre, che l'avvolgeva e lo
possedeva tra le sue braccia. Ora, che viveva insieme a Dio
da anni, «felicità» doveva sembrargli una parola troppo ingenua e umana. Certo, era «felice» insieme a Dio: ma viveva
sempre in una condizione instabile, diviso tra i due abissi del
peccato e della grazia, senza la calma tranquilla e continua
che aveva immaginato. Avrebbe voluto di più: l'estasi, la fusione, almeno momentanea, come nella visione di Ostia.
Allora Agostino e Monica stavano appoggiati a una finestra, che dava su un giardino; e parlavano con sovrannaturale dolcezza. Dimentichi del passato, tesi verso l'avvenire, discorrevano della vita eterna dei beati in cielo, che né
l'occhio ha mai visto, né l'orecchio inteso. Allora, elevandosi
con un cuore più ardente verso Dio, attraversarono grado
dopo grado, ascendendo rapidamente in sé stessi, tutti gli
esseri corporei e il cielo: salirono dentro sé stessi, fissando il
pensiero, il dialogo e l'ammirazione nelle sue opere. Giunsero infine dove Dio pascola il suo popolo nel pascolo della verità. Là è la eterna Sapienza divina. E mentre parlavano ed
aspiravano a lei, ecco che la toccarono appena, con uno
slancio e una scossa violenta del cuore. Sospirarono, e lasciarono là, avvinte, le parti più sottili, le «primizie» del loro spirito; e poi la visione e l'estasi si ruppero, e Monica e Agostino tornarono in terra.
Questo scrittore, che per tutta la vita fu dominato da una
quasi eccessiva tensione intellettuale: questo spirito robusto
e infinitamente sottile: questo nostalgico pellegrino dei cieli,
questo viandante alla ricerca di un paese sempre remoto:
quest'uomo, che in ogni istante della sua esistenza affacciò
domande a sé stesso, alle cose e a Dio, senza porre limite
all'ansia delle sue interrogazioni - trovò che la cosa più strana
e straordinaria del cosmo era l'uomo. «Gli uomini guardano
pieni di stupore le vette delle montagne, le grandi onde del
mare, le correnti amplissime dei fiumi, la circonferenza degli
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oceani e le orbite delle stelle; e trascurano sé stessi e non stupiscono davanti a sé stessi.» Nelle Confessioni, poche pagine
attraggono un lettore moderno come quelle sui grandi spazi
e i vasti palazzi della nostra memoria: gli antri, i labirinti, i nascondigli, «le caverne innumerevoli, riempite di innumerevoli specie di cose innumerevoli, che sono là sia per immagini,
sia per presenza reale, sia per non so quali nozioni o notazioni». Ci meraviglia la capacità di Agostino di pensare l'indeterminato e di addentrarsi in quello che di più labile, di più vago
e abissale nasconde la nostra mente; e insieme di trasformare
l'indeterminato in uno spazio visibile, in un teatro interiore
dove si agitano e combattono e fluttuano - egualmente fisicizzati - i pensieri e le passioni del cuore.
Petrarca amava le Confessioni, questo libro «gocciolante
di lacrime». E ne prediligeva la stupenda retorica - il gioco
delle ripetizioni, dei ritornelli, delle costruzioni a catena, dei
parallelismi, delle opposizioni, l'inquietante stregoneria verbale, l'ansia dolcissima e drammatica delle interrogative, la
mollezza a volte quasi estenuata —: la quale aveva lo scopo di
suscitare, in lui che scriveva e in noi che stiamo leggendo, il
massimo contagio passionale. Agostino parlava dell'aestus
dei suoi affetti: il calore, l'ardore, l'affanno, il flusso, la tempesta. Se lo guardiamo da vicino, questo aestus rivela dei
singolari ingredienti. Durante la giovinezza, Agostino non
solo amava, ma amava amare. «Non amavo ancora e amavo
amare; e con una indigenza più profonda mi odiavo di essere meno indigente. Cercavo cosa amare, amando amare; e
odiavo la sicurezza e la strada senza tranelli.» Andava volentieri a teatro: come, pur non amando, si avvoltolava volentieri nel gioco delle gelosie e dei timori, così, a teatro, desiderava vedere rappresentate le sofferenze amorose che nessuno
provava, le lacrime fittizie, le passioni false; e queste falsità
facevano scendere delle vere lacrime, che suscitavano in lui
una voluttà profonda.
Tutto ciò non abbandonò mai Agostino. Rimase sempre in
lui, anche nella stesura delle Confessioni, questo desiderio
di un amore ancora indeterminato, questo culto di una pas142
sione fittizia e procurata, questa eccitazione del sentimento,
questa voluttà delle lacrime; e tutti i veri e immaginari aestus
avvolgono le sue parole di un'assonanza, di un alone, di
un'eco, di una suggestione, che non finisce di risuonare e di
propagarsi dentro di noi, suscitando l'immagine e il sogno di
una passione per Qualcosa che non potrà mai esaurirsi. Cosa
importa da quali fonti nasce? Come viene procurata? Era lo
stesso «ardent sanglot qui roule d'àge en àge»; e Agostino lo
allontanava da qualsiasi dedicatario umano, lo innalzava e lo
donava a Dio, lo faceva «mourir au bord de son éternité».
IL PARADISO
Mentre si avvicinava il giorno in cui avrebbe lasciato la terra, la madre di Agostino si trovò sola con il figlio, in una casa
di Ostia. Appoggiati ad una finestra, conversavano soli, «assai
dolcemente»: «Dimentichi delle cose passate, proiettati verso quelle future», cercavano tra loro quale sarebbe stata la vita eterna nel regno dei cieli; e «spalancavano avidamente la
bocca del cuore al supremo flusso della fonte di Dio», per esserne inondati.
Per un istante, Agostino e Monica pensarono al piacere
dei sensi carnali, che talvolta ci sembrano così luminosi, e
non sono nulla. Poi salendo, sempre più salendo, si elevarono con slancio ardente verso Dio. Ripercorsero passo passo
tutte le realtà del mondo esterno, ch'egli ha creato, e ascesero nel sole, sulla luna e le stelle, che ne riflettono lo splendore. E salivano, salivano interiormente meditando, celebrando, esaltando la sua opera; e poi giunsero nella nostra
mente, e attraversarono quegli abissi e quelle altitudini, più
profonde e misteriose di qualsiasi altitudine esterna. Infine,
con un ultimo balzo, sorpassarono la mente umana per raggiungere «la regione dell'abbondanza inesausta», dove egli
abita. E continuavano a parlare anelando verso di lui: quando per un istante sfiorarono il regno dei cieli: lo sfiorarono
con un tocco del cuore; forse videro Dio, forse ascoltarono
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la sua voce. Sospirarono e lasciarono avvinte lassù «le primizie del loro spirito»; e ridiscesero di nuovo nella regione dei
corpi, dove si ode soltanto «il vuoto strepito della nostra
bocca».
Tornati in terra, nella casa di Ostia, dicevano: «Se in un
uomo tacesse il tumulto della carne, tacessero le immagini
della terra e dell'acqua e dell'aria, tacessero i cieli e fin l'anima tacesse a sé stessa e si sorpassasse non pensando più a
sé, se tacessero i sogni e le rivelazioni della fantasia, se ogni
lingua e ogni segno e tutto ciò che nasce per non scomparire tacesse in un uomo: se, dunque, tutte queste cose tacessero, perché hanno teso l'orecchio in Chi le ha create, e solo
Lui parlasse, non tramite loro, ma da sé stesso, perché udissimo la sua parola, non tramite lingua di carne, o voce d'angelo, o rimbombo di nube, o enigma di similitudine, ma Lui
stesso, Lui che amiamo nelle cose, udissimo senza di esse,
come ora di slancio con fulmineo pensiero abbiamo sfiorato
l'eterna sapienza che su tutto permane; se quest'attimo si
prolungasse e sparissero le altre visioni incomparabilmente
inferiori, e questa ci rapisse e, mentre la contempliamo, ci
immergesse in gioie interiori, e la vita eterna assomigliasse a
quest'attimo di intuizione che ci ha fatto sospirare» non sarebbe questa l'esistenza nel regno dei cieli?
Qualcuno ha trovato timida questa visione desiderata,
sfiorata, e subito abbandonata, in cui culminano le Confessioni di Agostino. Di tanti desideri e speranze e ascese, di
tante parole pronunciate e poi ripetute, non resta che questo: uno sfiorare; forse un lampo di luce, forse una voce infraudita? Ma Agostino non poteva scrivere altro. Aveva letto
san Paolo. Sapeva che il delirio erotico-fìlosofìco dei neoplatonici greci si trasformava in visione, nella quale essi conoscevano la rivelazione estatica, toccavano con gli sguardi le
idee divine, le forme pure dell'Essere. Al contrario dei greci,
i cristiani non potevano scorgere la luce di Dio, salvo che in
momenti eccezionali e brevissimi: l'avrebbero scorta soltanto, assoluta e incontaminata, nella vita eterna e alla fine dei
tempi. Qui, in questo tempo monco e intermediario dove vi144
viamo, in questa «regione della povertà», l'unico dono perfetto è l'amore.
Passarono nove secoli. Dante giunge nell'Empireo, ascolta
la preghiera di san Bernardo alla Vergine, ne ottiene l'intercessione, e ora fissa gli sguardi, immobile, in Dio. Non c'è
più nulla di quei rapidi sfioramenti e dei sospiri, che Agostino e Monica conobbero nel giardino di Ostia. Con gli sguardi protesi, dove la tensione dell'intelligenza si annulla nella
contemplazione, Dante guarda; e vede tutto. Scorge i segreti
di Dio e i suoi volti nascosti - almeno quanto può vedere un
uomo «divinizzato». Non importa che poi, tornato a terra,
davanti al leggio e al tavolino, con la penna e l'inchiostro,
egli non sappia rappresentare che un'ombra minima di ciò
che ha contemplato. Forse nessuno aveva mai visto tanto.
Per molti mistici, Dio era come il sole, che acceca e fa chinare lo sguardo. Come la cogliamo nell'ultimo vertice del Paradiso, la luce di Dio rafforza invece lo sguardo, prolunga la
visione, e il viaggiatore non deve abbassare gli occhi, sconfitto, sospirando, come Agostino.
Io credo, per l'acume ch'io soffersi
del vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,
se li occhi miei da lui fossero aversi...
... Così la mente mia, tutta sospesa,
mirava fìssa, immobile e attenta,
e sempre di mirar faceasi accesa.
Tutto si è capovolto, dai tempi di Agostino. Il m o n d o
dell'amore è divenuto il mondo della visione assoluta.
Salendo in Paradiso in un giorno di primavera del 1300,
Dante avrebbe potuto scorgere il regno dei cieli come era in
quel momento. Vi saliva prima del Giudizio Universale; e le
anime dei beati non erano ancora accompagnate dai corpi
gloriosi, che rivestiranno alla fine dei tempi. Sarebbe stato
un Paradiso monco, dimidiato: perché nel mondo di Dante,
dove il valore essenziale è l'incarnazione, l'anima trova la sua
perfezione solo quando viene unita al corpo. Ma accadde
qualcosa di inconcepibile, che Dante potè immaginare in
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uno di quegli attimi di follia che nutrivano il suo genio. Per
grazia, quel giorno di primavera del 1300, Dio fece contemplare a Dante la rosa dei beati non come era in quel momento: ma quale sarà dopo il Giudizio Universale, quando i beati
indosseranno finalmente i loro corpi gloriosi. Dunque non
solo Dante vide tutto - ma lo vide come sarà alla fine dei
tempi. Quale sguardo avrebbe potuto essere più completo?
Tutto, e tutto qui, ora, finalmente compiuto. Tutti i sogni e
le speranze, che gli uomini cristiani spostavano nel futuro, le
immagini che speravano ardentemente di conoscere, erano
già realizzate nella visione assoluta, prima che Dante scrivesse l'ultima parola del Paradiso. Il futuro era annullato, bruciato: doveva soltanto realizzarsi in terra; ma intanto l'ultima
parola della storia universale era stata già detta. Non c'è più
storia. Siamo già entrati nel regno dell'eterno.
Che Dante abbia potuto concepire l'ultima visione è
straordinario: ma più straordinario è che abbia scritto il Paradiso - sebbene ogni volta che lo leggiamo, e poi torniamo
a rileggerlo e a rifletterci intorno, ci sembri impossibile che
qualcuno l'abbia scritto. Dante possedeva un dono molto
più importante della enorme immaginazione, della lucidissima intelligenza, della struttura meravigliosamente ordinata
della sua mente. Era il signore della metamorfosi: un Ovidio
moltiplicato; e lo sapeva benissimo:
... io che pur da mia natura
trasmutabile son per tutte guise!
Con la stessa naturalezza con cui ci guardiamo allo specchio,
diventava tutte le cose e le sensazioni e le impressioni e i sogni: ciò che era umano, e ciò che era bestiale e vegetale. Era
stato serpe, albero, diavolo, fuoco, vento, lucciola, zanzara,
nevicata, folgore, plenilunio. Ma ora - e all'inizio del Paradiso
avvertiamo una specie di angoscia dietro le solenni dichiarazioni - egli è esposto alla più ardua delle sfide. Deve «trasumanare», varcando tutti i limiti, osando quello che nessuno
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aveva osato scrivere, raccontando le vicende di un uomo «divinizzato», cambiando sensazioni e impressioni, trasformando la natura della sua poesia.
Subito, nei primi versi del Paradiso, nell'invocazione ad
Apollo, Dante chiarisce perché la sfida sia estrema:
Entra nel petto mio, e spira tue
sì come quando Marsia traesti
de la vagina de le membra sue.
Dio, l'ispiratore della poesia sacra, viene paragonato ad
Apollo, quando spellò vivo Marsia, che aveva osato sfidarlo, e
ne estrasse il corpo scorticato dalla pelle - la guaina, la «vagina» delle sue membra. Dunque la poesia sacra, che Dante sta
per iniziare, porta con sé l'ombra di un delitto mitico: è essa
stessa un delitto; ci distrugge, ci annichila, ci uccide, sia pure
per farci uscire da noi e farci conoscere la rivelazione. Dante
mette sull'avviso: il suo libro sacro sarà tremendo, molto più
dell 'Inferno, e chi oserà leggerlo dovrà contare su un coraggio intellettuale, che nemmeno per un attimo potrà distendersi e rallentare. Tutta quella luce non ci illuda. Tutto
quell'amore non ci incanti. Se il libro di Dante è tremendo,
se senza fine l'Apollo cristiano spellerà davanti ai nostri occhi il corpo vivo di Marsia, è per una ragione evidente. Dio è
tremendo. Come i veri credenti sanno, Dio non è nulla di
misurato o tranquillo o ragionevole o pacato: è «un infinito
eccesso», una fatale sovrabbondanza rispetto a tutti gli uomini e alle cose create.
Come poteva Dante rispondere alla sfida di Apollo, fronteggiando «l'infinito eccesso» del divino? Avrebbe potuto annullare la lingua, precipitandola in un delirio di impotenza,
facendo il vuoto nell'immaginazione e nell'espressione.
Dante scelse la strada opposta. Per rispondere a quell'eccesso, diventò egli stesso un «eccesso infinito» rispetto a qualsiasi poesia, anche alla propria. Sapeva che ciò che scriveva
non era suo: non era più Dante Alighieri, che aveva vissuto a
Firenze, che aveva parteggiato e filosofato, e aveva composto l ' I n f e r n o e il Purgatorio. Ora chi parlava, in lui, era Apol147
lo cristiano: il fiume della poesia sacra, che si ingolfava in lui
e varcava ogni riva.
Forse in nessun testo della poesia universale avvertiamo,
come nel Paradiso, una immensa forza di dilatazione: una
euforia, una gioia, una specie di paurosa e lucidissima ubriachezza, che supera ogni sensazione, come quella degli angeli-api nell'Empireo, «inebriati de li odori». Dante usò tutti i
linguaggi, elaborando nello spazio della parola, come diceva
Mandel'stam, «un organo di una potenza infinita, godendo
di tutti i registri immaginabili, gonfiando a pieno i suoi polmoni, gorgheggiando da tutte le sue canne». Impiegò il latino, la terminologia filosofica, la lingua cifrata degli enigmi.
Costruì mostruose perifrasi geografiche, portando la retorica dove non era mai giunta. Accumulò negli stessi versi una
moltitudine di materiale metaforico, che proveniva da tutta
la rosa dei venti delle immagini. Allontanò tra loro i due termini del paragone, in modo che le cose paragonate sembrassero estranee; e con un colpo della mano nervosa, le fece
coincidere, come fossero una. Cosa importava che la sua lingua non fosse duratura, come non sono mai durature le parole umane? Sfruttando e intrecciando i linguaggi che
muoiono ed appassiscono, oltrepassò tutti i linguaggi esistenti e la sua lingua e la lingua.
Ma Dante conosceva meglio di ogni altro il pericolo della
dismisura. Sapeva che, nei rapporti con Dio, l'eccesso appartiene a Dio, non all'uomo; e che davanti alla sovrabbondanza
della ricchezza celeste, l'uomo si rivela per quello che è - miseria, fallimento, impotenza, disastro. Ciò che rende così
drammatico il Paradiso è la serie di fallimenti che lo attraversano. In primo luogo, le facoltà umane di Dante non sopportano ciò che vede: il riso e la luce di Beatrice, la luce e il canto dei beati, lo splendore di Cristo. E poi, anche se egli
vedesse e sentisse tutto, se la sua mente fosse una fedele lavagna dove la visione si incide precisamente, Dante fallirebbe egualmente. Mentre esce da sé stesso e sprofonda
nell'abisso di Dio, perde la memoria di ciò che ha visto e
compreso. C'è qualcosa di più terribile. Quando la memoria
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è conservata, brucia e distrugge la mente che la contiene. E
poi quante altre impotenze: la fantasia troppo viva o troppo
debole, l'intelligenza che non capisce, la penna troppo umana, che non sa raccogliere quella piccolissima, dolcissima
goccia di beatitudine conservata nel fondo del cuore.
Immaginiamo come uno scrittore moderno avrebbe rappresentato queste esperienze che vengono e vanno, questa
memoria intermittente, questi errori della scrittura, questo
drammatico, perennemente sconfitto e vittorioso, tentativo
di ricordare. Il libro si sarebbe dissolto in un brivido di barlumi oscuri e luminosi. Mentre, in Dante, l'esperienza mistica
è al massimo della sua potenza. Le assenze, le rinunce, i fori
nella grande tela sono i culmini dolorosissimi della beatitudine: mai come allora, svenendo, perdendosi, sul punto di venire distrutto, Dante conosce ciò che non dovrebbe avere la
forza di conoscere. Il divino si vela e si rivela nella sua scomparsa, nella sua momentanea assenza, che non esclude ritorni. Tutto ciò che Dante vede - ed è moltissimo, bagliori luminosi, torrenti d'acqua, canti soavi - lo scorge proprio
perché è sorretto dalla forza dell'impotenza. Se in molti mistici il fallimento mistico si risolve nell'annegamento beato e
terrificante nel nulla e nella notte, qui il disastro si capovolge
in un glorioso trionfo.
Cosi giungiamo all'ultimo canto, con la contemplazione
definitiva di Dio. Sappiamo che Dante vede: tutto ciò che un
uomo divinizzato può vedere. La sua è la visione assoluta,
che da secoli il mondo attendeva. Nulla sfugge a quell'occhio desideroso, che indaga la luce e i misteri. Ma molti lettori si dichiarano delusi. «Tutto qui?» dicono. Solo questo
«volume legato con amore»? Solo questi «tre giri / di tre colori e d'una contenenza»? La Commedia culmina in queste verità, che noi tutti conoscevamo già dai libri di teologia?
Senza dubbio esistono visioni apparentemente più ardite.
Certe mistiche medioevali, e soprattutto alcuni grandi poeti
persiani si sono lasciati dietro le spalle le verità imparate sui
libri, e in un lampo hanno scorto il cielo colmo di luce e di
tenebra - e poi di là, sempre più in là, oltre ogni possibile
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cielo, un vortice, culle di rose, veli di rose, un universo di rose rosse e bianche, una rosa color carminio, e settantamila
pianure, ruscelli color di sangue, e la Città dell'Essere, e tutti
i misteri dell'Essere, e un grande becco d'Aquila, e uno Specchio... Non sappiamo cosa Dante personaggio abbia visto; e
potremmo fantasticare senza fine (e inutilmente) sui misteri,
che egli può aver colto nell'«infinito eccesso» divino. Ma egli
non ricorda: o ricorda pochissimo:
Qual è colui che sognando vede,
che dopo '1 sogno la passione impressa
rimane, e l'altro a la mente non riede,
cotal son io, ché quasi tutta cessa
mia visione, e ancor mi distilla
nel core il dolce che nacque da essa.
Nella memoria, gli è rimasta soltanto una goccia di quel mare, una favilla di quel fuoco. Queste gocce e faville sono tre
verità teologiche: l'unità del mondo in Dio, l'unità e la trinità
di Dio, l'incarnazione di Cristo, che la folgore divina gli rivela
mentre l'annulla; ed egli le esprime con la sua straordinaria
precisione matematica. Non c'è altro. Non c'è niente d'altro.
Ma non ha nessuna importanza che queste verità teologiche
siano apprese sui libri. Su di esse preme, con una grandiosa
risonanza, l'infinita ricchezza del taciuto.
Quasi tutti dimentichiamo che, tranne in quel miracoloso
giorno di primavera del 1300, i cieli sono vuoti. Ci sono i pianeti, - ma né beati né angeli. I beati e gli angeli che vengono
incontro a Dante, parlano con lui, cantano per lui, danzano
per lui, lanciano invettive a suo nome, abitano nell'Empireo,
nella mistica Rosa che circonda il fiume o lago luminoso; e
scendono nei vari cieli solo per istruire Dante e fargli piacere. Salvo l'Empireo, il Paradiso non è dunque, come ricorda
Franco Ferrucci, che una messinscena illusionistica, un grandioso spettacolo teatrale preparato per Dante. Dio ha molti
volti. Sappiamo che è tremendo: ma ora conosciamo anche
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la sua sublime frivolezza, che mette al nostro servizio di
spettatori. Come è naturale, sa fare di tutto. Scrittore, calligrafo, regista, direttore d'orchestra, miniaturista, orafo, direttore dei cori, scenografo, fa ogni cosa col più portentoso
ed eccessivo dei talenti.
Gli spettacoli della Croce ci incantano: una croce bianchissima impressa nella sfera rosso-fuoco di Marte, e a sua volta
costellata da splendori. Ma la nostra gioia giunge al culmine
nel cielo di Giove, dove Dio disegna un libro mobile, una figura accecante di luce, e dirige la più grandiosa delle orchestre. Ecco dapprima le anime scrivere nei cieli le lettere D, I
e L: poi una frase intera: DIUGITE IUSTITIAM, QUI IUDICATIS TERRAM: poi si raccolgono attorno alla M, formano un giglio araldico, dipingono la testa e il collo dell'aquila, ne completano
la figura di gemme; e tutte le migliaia di voci dell'aquila parlano con una voce sola, e cantano, e fanno silenzio, e infine
un mormorio d'acque sale per il collo dell'aquila, e le voci luminose escono dal becco «in forma di parole»... Tutto è mobile, cangiante, scintillante, insieme sonoro e visivo e scrosciante, come se la luce, l'acqua e il suono nascessero dallo
stesso fondo. Chi potrebbe negare che tutto si svolge verso
l'esterno? E che Dio si rivela come il più grandioso e lussuoso degli uomini di teatro? Ma anche l'Apocalisse si volge verso l'esterno: non è che voce e figura. La poesia cifrata e la
poesia mistica hanno bisogno di spettacolo e di decorazione, di gemme e di splendori, che sgorgano dalle loro profondità e le nascondono.
Questo spettacolo paradisiaco - e anche quello della
terra, che a tratti si intravede giù in basso, con i suoi mari e i
suoi golfi - è meravigliosamente ordinato. L'ordine si dirama dall'alto attraverso gradazioni e risonanze successive:
Dio e i cieli danno forma alla terra: tutto ciò che è alto diventa basso e infimo; e ciò che è infimo tende verso l'alto.
Sebbene serbi la propria differenza, ogni cosa corrisponde a
un'altra cosa, ogni figura a un'altra figura. Nessun universo è
più c o m p a t t o di quello di Dante: n e m m e n o un anello
manca o si smaglia nella grande catena dell'essere. Così lo
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spettacolo del Paradiso, dove le corrispondenze si avvertono meglio, non è che un incessante gioco di specchi, che si
riflettono l'un l'altro, a vicenda, in una rincorsa molteplice.
Dante vede lo splendore del sole riflesso nello specchio di
Beatrice: i beati vedono i pensieri di Dante riflessi nello
specchio di Dio: le danze e i canti di una schiera di beati si
riflettono nelle danze di un'altra schiera o nel canto degli
angeli: il Padre si riflette nel Figlio, Dio si rifrange in tutte le
forme della creazione, pur rimanendo uno; e questi riflessi
non sembrano arrestarsi mai. Dunque tutto è specchio?
Tutto è riflesso? C'è, in realtà, una profondissima interruzione. Se Dio è il primo e il creatore di tutti gli specchi, la vista
degli angeli e degli uomini non può addentrarsi completamente in lui, fino a contemplare le ultime luci o le ultime
ombre. Il più luminoso degli specchi è, almeno per noi, il
più opaco.
Se tutto è specchio, anche la nostra piccola terra può insinuarsi tra queste terzine che rifulgono di luce immateriale.
C'è la piccola Firenze di Cacciaguida, contenta delle sue mura: un'aula universitaria, dove contendono il maestro e il
baccelliere: la corte imperiale; e il pellegrino che va a Roma,
e il sarto e il geometra; e quanti luoghi e persone. Chi potrebbe credere di trovare in Paradiso «il folle amore» della
terra, le ardenti e mortali passioni erotiche che hanno condannato Francesca? Il Purgatorio dovrebbe porre un velo tra
le passioni e il Paradiso, e purificarle e annullarle nella malinconia dell'esilio. Mentre Cunizza, Raab e Folchetto, che sono
stati prostitute e adulteri e hanno peccato d'amore più di Didone e di Ercole, non si pentono, e sono qui. Il loro «folle
amore» si è bruciato, ma ha conservato il proprio ardore, trasformando la forza erotica in una passione sacra.
Nessun poeta aveva mai inventato un così complesso e
sterminato sistema metaforico della luce. Tutto è luce: luce
nella luce, favilla nella fiamma, chiarore nello splendore: luce che nasconde i beati come un nido o un bozzolo eppure
li rivela; e che si rispecchia, si riflette, trova sempre nuovi
echi, variazioni, modulazioni e riverberi. A poco a poco essa
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invade ogni forma dell'essere: diventa gioia, riso, amore, ardore, danza, canto; si trasforma in gioiello e in fiore, come se
una sola parola potesse ingoiare in sé stessa e imbevere di sé
stessa tutto il Paradiso. Non c'è altro che luce - forma suprema della riflessione e dello specchio. Cresce di canto in
canto, di cielo in cielo: oltrepassa lo splendore del sole: trasforma i volti dei beati, e ancora cresce, cresce, fino a condurci al fulgore di Dio che colma e annienta; mentre con arte sottilissima Dante varia questa sublime monotonia. Con
precisa definizione teologica, Dante ci rivela che la luce discende, attraverso mille rifrazioni e gradazioni, dalla mente
di Dio: «luce intellettual, piena d'amore», lumen gloriae.
Non ha limiti: è metafisica e fìsica; non teme i corpi, non viene offuscata dai corpi, e anzi è piena solo quando viene emanata dai corpi gloriosi.
Quante acque scendono e scrosciano e distillano accanto
a questi splendori. Incominciano dal cielo di Piccarda:
Quali per vetri trasparenti e tersi,
o ver per acque nitide e tranquille,
non sì profonde che i fondi sien persi...
... e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
Quest'acqua, che ci introduce nel Paradiso, discende da Dio:
perché egli è un mare nel quale lo sguardo non penetra, una
«profonda fontana», di cui nessuna creatura ha mai visto «la
prima onda»; e il viaggio di Dante sulla nave della poesia, sul
«legno che cantando varca», attraversa questo sconosciuto
mare celeste. Via via che il Paradiso procede, la luce e l'acqua si identificano. Ecco una «pioggia o fiume» luminoso:
Beatrice è insieme fonte che irrora e sole che scalda; la speranza è illuminazione e distillazione. L'identità delle due immagini si spiega con la loro origine. «La « divina bontà», ardendo in sé, «sfavilla» e poi «distilla» e «piove»: la grazia è
splendore e pioggia; finché i due elementi si congiungono
per sempre nell'Empireo, dove Dante vede l'emanazione divina come
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lume in forma di rivera
fulvido di fulgore, intra due rive
dipinte di mirabil primavera.
Salendo sopra il culmine dei cieli, abbiamo toccato il punto
dove l'acqua e la luce, i due elementi opposti del mondo, si
sciolgono e si unificano per sempre nelle profondità di Dio.
Come ha osservato Jacqueline Risset, lo spettacolo dei cieli è percorso da una velocità vertiginosa. Tutto è lento, spesso, opaco qui sulla terra: ma appena Dante lascia il Paradiso
Terrestre, balza verso l'alto come una folgore scende dalla
nube; anzi come una freccia che tocca il bersaglio prima di
essere partita. Anche gli spiriti scendono dall'Empireo più
veloci dei rapidissimi venti; e questa velocità è un segno di
beatitudine, come la luce, il riso e la danza. Dante sottolinea
il carattere paradossale di questo ritmo, che supera le possibilità del movimento umano. Tutto è istantaneo, o quasi
istantaneo, come nei processi mentali. La velocità è talmente
vertiginosa, oltrepassa talmente i limiti del pensiero umano,
che basterebbe pochissimo - il dito, il soffio di Dio - per farle varcare il punto che divide il tempo dall'eterno. Il tempo
rincorre l'eterno, ed è sempre sul punto di raggiungerlo.
Verso la fine del viaggio, attendiamo dunque che questa
rincorsa si compia: che il movimento si arresti davanti ai nostri occhi, e il tempo balzi all'improvviso nell'eterno e si perda dietro di esso. Attendiamo di vedere Dio: immobile, Uno,
fuori dallo spazio e dal tempo. Ma quanto dobbiamo aspettare! La prima volta che appare, Dio è un punto quasi invisibile, radiosissimo, circondato da nove cerchi di fuoco rotanti,
più veloci e puri via via che si accostano a lui. Qui egli raccoglie attorno a sé tutta la furia del movimento, che si era sparsa nei nove cerchi celesti. Non è il Dio immobile, che avevamo tanto atteso, ma quello dello spazio e del tempo, che
nell'ultimo dei cieli, il Primo Mobile, si offre agli sguardi di
Dante.
Infine varchiamo l'ultima soglia. Il Dio-punto, circondato
dai cerchi di fuoco rotanti, scompare. Dante entra nell'Empireo: il luogo dove si riflette la mente pura di Dio, il lago lu154
minoso, dove è perduta ogni traccia dello spazio e del tempo. Certo, la rosa-anfiteatro dei beati è stabile: ferma, sicura,
anticipa l'ultimo momento della creazione, quando i beati
indosseranno i corpi gloriosi. Nessuno dovrebbe essere più
immobile della luce di Dio, la grazia che non accieca, ma invita a guardare sempre più profondamente; e della mente di
Dante che, «fìssa e attenta», scruta quegli abissi misteriosi.
Qui, finalmente, tutto dovrebbe essere calmo e quieto: niente più agitazione e movimento; aspettiamo di ascoltare il respiro sovrannaturale dell'Unità eguale a sé stessa, l'immobile
Mare divino, che nessun soffio di vento potrà mai increspare. Eppure, nemmeno questa volta è così. La prima visione
che Dante ha della rosa dei beati è una rappresentazione,
una «maschera»: sopra la rosa, egli scorge il mobile fiume fulgente, e le faville-api degli angeli che escono incessantemente dal fiume, posano sui fiori, e «quasi inebriate da li odori»
lasciano i fiori e si sprofondano nell'acqua luminosa, e così
via, senza fine. Quando poi Dante fìssa lo sguardo là in alto,
nel cuore di Dio, l'immagine non è stabile e eguale a sé stessa, ma si trasforma e cresce e si sposta nella mente del viaggiatore.
La prima spiegazione è ovvia. Non è la rosa dei beati e degli angeli che ondeggia, odora e esce da sé, non è il Dio unotrino che si trasforma davanti a noi, ma soltanto la mente
umana di Dante, che sino alla fine scorge il movimento in
ciò che è immobile, il tempo in ciò che è eterno. Anche se è
giunto sulla vetta del regno dei cieli, il viaggiatore terrestre
non fa che confermare la propria impotenza. Ma anche
un'altra spiegazione è possibile. Dante non è un visionario
dell'Uno immobile, come altri filosofi e poeti che hanno
contemplato l'Essere, piegando la lingua a rappresentare ciò
che sta sopra la curva dei cieli, oltre lo spazio e il tempo. La
mistica di Dante è una grandiosa mistica del Movimento divino, più che una mistica dell'Uno, della stasi e della quiete. La
sua passione - passione che non ha dimenticato un attimo
durante la Commedia - sale, come dicono le ultime parole,
verso «l'amor che move il sole e l'altre stelle»: verso quel Dio
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che muove velocissimamente gli angeli e i cieli e la terra e le
cose e le creature e le passioni umane; e che muove anche il
suo libro che in questo momento crediamo di avere chiuso,
mentre continua a agitarsi in noi e attorno a noi con una rapidità che supera quella del tempo.
PARTE TERZA
I giochi del Tao
I GIOCHI DHL TAO
Non c'è libro che vorrei raccomandare ai lettori di ogni
paese più del Chuang-tzu, il capolavoro della letteratura
taoista. Libro unico e meraviglioso, da leggere e rileggere,
sfogliare e risfogliare: da tenere accanto al letto o sul tavolo
da lavoro per mesi interi; un'immagine ci basta per inventare
mondi, una sentenza o un piccolo apologo per riflettere anni, una pagina per cambiare completamente la nostra vita,
un capitolo per trasmigrare nel luogo senza peso del Tao.
Molto spesso non capiamo. Il ragionamento è troppo arduo,
l'analogia troppo lontana: ci arrestiamo un giorno davanti a
una frase: il commentatore capisce molto meno di noi; e
poi, all'improvviso, ecco un lampo di luce, e attraverso mille
veli, mille orifìzi, penetriamo felici nel cuore del testo, dove
si ascolta ancora il mite respiro del Tao.
Credo che nessun libro raccolga e unifichi, meglio di questo, le qualità opposte. È fìsso, concentrato, immobile: tutto
dedito alla rivelazione e all'adorazione dell'Uno ineffabile; e
mentre penetriamo tra le sue pagine, muta come la nuvola,
la pioggia, l'arcobaleno - innamorato della cedevolezza, della molteplicità, delle contraddizioni. Solo se lo leggiamo, riusciamo a capire che i due sguardi che gettiamo sulla realtà
possono identificarsi in uno solo: sentiamo l'Uno nel mutevole, il mutevole nell'Uno. Conosciamo la realtà della terra:
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una realtà colorata di re, di saggi, banditi, contadini, idioti,
animali, montagne, fiumi e alberi, che un pennello delicatissimo trasporta sui fogli di carta. Appena questa realtà si affaccia, ecco qualcuno far apparire dietro di essa la misteriosa
presenza del Vuoto, che toglie ogni peso alle cose e le attraversa d'aria, come spugne imbevute di una sostanza ultraterrena. Così, con la sua stessa sostanza, il Chuang-tzu ci consiglia di non restare di qua, sulla terra, né di andare di là: ma
di soffermarci sul crinale, sul bilico, dal quale tutto ci appare
doppio e sovranamente irreale.
Tranne che nei dialoghi di Platone, non abbiamo mai conosciuto una simile tensione ed eleganza intellettuale: una
mente purissima conduce il pensiero all'estremo del suo rigore, al punto oltre il quale non può spingersi, dove avvertiamo il brivido dell'invalicabile. Ma, proprio lì, il pensiero
viene deriso: Chuang-tzu allude, accenna, ironizza, comincia
a giocare; una grande dimostrazione filosofica diventa un
apologo o un raccontino o una commediola, che potrebbe
piacere a un bambino. Così il pensiero non ha più nulla di
astratto; e ci sorride amabilmente, incarnato in queste deliziose spoglie concrete. Talvolta Chuang-tzu è chiarissimo:
ma, se riflettiamo attorno a quello che dice, mai come ora ci
sembra enigmatico. Talvolta va dietro l'apparenza delle parole: oltrepassa perfino il silenzio: intende ciò che sta oltre la
parola e il silenzio; nomina le cose che non possono essere
dette, e che tuttavia vengono mirabilmente dette attraverso
l'arte di rivelare e di nascondere. Possiede la sapienza più
sottile, il più delicato artifìcio: ma sapienza e artifìcio si sciolgono nella più incantevole, morbida e molle naturalezza.
Cos'è il Tao? Se «ha in sé la sua radice ed è sempre esistito, molto prima della creazione del cielo e della terra», e addirittura prima della nascita dell'Uno, se abita dove non c'è
altezza, né profondità né durata, - non possiamo avere dubbi: il Tao è trascendente. Potremmo chiamarlo Dio, a patto
di cancellare da questa parola le connotazioni cristiane. Il
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Tao è un dio impersonale: freddo, lontanissimo, assente come la più gelida stella del cielo. Possiede la qualità fondamentale che il pensiero occidentale attribuisce all'Essere:
ma è così vuoto, puro, infinito, privo di qualsiasi limitazione
e determinazione, che potremmo anche chiamarlo Nulla.
«Resta sempre senza azione e non c'è nulla che non faccia»:
è immobile, e il quieto, liquido, armonioso movimento
dell'universo procede dalla sua assenza e dalla sua quiete.
Ma, subito d o p o aver detto che il Tao è trascendente,
Chuang-tzu conclude: egli è immanente. Se vogliamo vederlo, dobbiamo guardare con gli occhi interiori questa formica,
questo filo d'erba, questa tegola, questo mucchio di letame:
il Tao è qui, davanti a noi, ubiquo e onnipresente, silenziosa
legge regolatrice di tutte le cose, fluido ritmo dell'universo.
Nel nostro m o n d o non scorgiamo che antitesi: antitesi
che formano la sua sostanza - come lo yin e lo yang-, l'oscurità e la luce, il freddo e il caldo, la femmina e il maschio, la
passività e l'attività, il pari e il dispari, la linea spezzata e la linea retta. Oppure le antitesi generate dalle idee umane. C'è
chi si chiede: il mondo è stato creato da qualcosa o dal nulla?
il Tao esiste o non esiste? Quando viene posto davanti alle
idee, il saggio taoista è assalito da una ostilità profondissima.
Egli detesta l'unilateralità, la rigidezza, la parzialità, la frammentarietà di tutte le costruzioni intellettuali, così care agli
esseri umani, e rifiuta i due termini di ogni dilemma - non si
può dire né che ci sia stato un creatore né che non ci sia stato, non si può dire né che il Tao esista né che non esista (o,
se preferiamo, possiamo ironicamente affermare le due cose
insieme). Il compito del saggio non è di produrre quei pacchetti lucidi e maneggevoli, che sono le idee. Sopra ciascuna
di esse, sopra ogni precetto, intenzione e morale, egli apre
un punto di vista simile a quello di un romanziere, un punto
di vista distante, assente e vuoto, unico e primordiale - il
Tao, che illumina tutte le contraddizioni del mondo.
Così, ritorniamo al luogo dal quale eravamo partiti. Alla fine del nostro percorso, cosa possiamo dire del Tao? Non
possiamo dire più nulla; e dobbiamo abolire dalla nostra
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mente anche le parole con le quali avevamo appena cercato
di circoscriverlo. Come diceva Lao-tzu, il Tao è ciò che si
guarda senza vederlo, che si ascolta senza udirlo, che si tocca senza afferrarlo: esso sorge e non risplende, tramonta e
non è oscuro: se tu gli vai incontro, non ne vedi il capo; se lo
segui, non ne vedi il fondo. Quando qualcuno chiede a
Chuang-tzu che sia il Tao, egli non risponde. «Colui che sa
non parla: colui che parla non sa.» Qualsiasi tentativo di afferrare e di abbracciare con la parola l'unità del Tao è un tradimento, perché significa cadere sotto il giogo della distinzione. Solo un taoista di intelligenza inferiore osa
rispondere: «Per conoscere il Tao, non si deve pensare né riflettere: per restare nel Tao non si deve adottare nessuna
posizione, né applicarsi a nulla; per possedere il Tao, non si
deve partire da nessuna parte, né seguire alcuna strada». Ma
a che valgono queste parole? Ogni discorso umano intorno
al Tao è una fatale caduta rispetto all'esperienza - sopra le
parole e il silenzio - che noi abbiamo di lui.
Se non può discorrere intorno al Tao, il saggio può imitarne la forma nella forma della sua vita. Allontana da sé ogni rigidezza: «smussa ciò che è affilato». La sua mente diventa
molle e cedevole come la medusa, morbida e flessibile come
il giunco. Tra i quattro elementi, sceglie a modello l'acqua:
l'acqua che, se incontra un ostacolo, si arresta, se l'ostacolo
si rompe, corre via; che è rotonda o quadrata secondo il recipiente in cui viene messa e proprio per questa estrema
passività e pieghevolezza è il più forte di tutti gli elementi.
Come l'acqua, la natura del saggio non si può suddividere in
parti: cede a tutte le cose e penetra in tutte le cose: è senza
forma, neutra, insapore; si turba solo quando viene agitata, e
le sue agitazioni non durano a lungo, perché non nascono
da lei, ma dal vento.
Quando ha raggiunto questa condizione, il saggio conosce la beatitudine del Vuoto - col quale il Tao coincide. Sebbene tutti esaltino la perfezione del pieno, egli sa che il se162
greto del mondo riposa sul vuoto: i raggi sono indispensabili per fare una ruota, ma la sua perfezione dipende dal mozzo vuoto: l'argilla è necessaria per modellare il vasellame, ma
la bellezza di un vaso dipende dalla forma vuota che circoscrive; i mattoni sono indispensabili per costruire le porte e
le finestre di una casa, ma ciò che importa è la forma vuota
delle porte e delle finestre. Così egli fa il vuoto in sé stesso,
annullando il proprio io. Annulla i propri desideri, i propri
impulsi, i propri amori, i propri odii: la tristezza e il piacere,
la gioia e la collera. Cancella le proprie esperienze, rinchiudendosi nella propria natura innata. Non guarda, non ascolta, non sente, non conosce, non sa. «Veglia sul tuo interno,
chiuditi all'esterno.» Allora diventa quieto, come il Tao: tranquillo come la baia, silenzioso come il deserto, pacato come
la melodia, esile come l'eco. Senza forma, senza resistenze,
senza desideri, senza volontà, senza passioni, attraversa il
mondo simile a una barca senza ormeggi che va alla deriva
sull'acqua; e riflette nel proprio puro specchio intellettuale
gli opposti dell'universo, tutte le creature che esistono, tutte
le cose che accadono e appaiono - «perfino i peli della barba
e delle sopracciglia». Come raccomandano Lao-Tzu e
Chuang-tzu, non agisce: la passività è l'unica azione perfetta;
l'azione che nasce dal cuore immobile della vita comunica il
suo mite e ininterrotto movimento a tutte le forme.
Il saggio è soltanto questo? Un asceta che veglia sul proprio interno e si chiude al proprio esterno? La morale taoista
è duplice; e appena affermata una cosa, la completa con
quella opposta. Chuang-tzu non ama chi possiede un carattere unilaterale, rigido e inflessibile, e inalbera dei sovrani
principii di comportamento. «Se al creatore piace trasformare il mio braccio sinistro in un gallo, io canterò per annunciare l'alba: se trasforma il mio braccio destro in una balestra, io
ucciderò le quaglie; se trasforma le mie natiche in ruote e la
mia anima in cavallo, io andrò in carrozza.» Così il saggio si
lascia andare alle trasformazioni naturali: quelle del Tao. Siccome il mondo è una perenne mutevolezza, un gioco di crescere e decrescere, colmarsi e vuotarsi, finire e ricominciare,
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siccome le circostanze e i casi della vita cambiano continuamente - egli piega e muta, come le erbe che si incurvano
sotto il vento e le onde che si sciolgono sulla spiaggia. Diventa tutte le cose, assume tutti i colori, ora è ombra ora luce, ora nuvola ora pietra, ora fiume ora montagna.
Il suo movimento non si arresta mai, come un mare che si
sposta continuamente da una riva all'altra, che si allontana
da sé, giunge al proprio contrario, si identifica con lui e poi
ritorna alla propria riva. La sua esistenza è vivere in un polo
anticipando, con la mente, il polo opposto. Se vuole arrivare
alla chiarezza, cammina attraverso le tenebre: se vuole andare avanti, si volge indietro: se vuole arrivare al levigato, cammina sul ruvido: se vuole toccare il culmine, procede nella
bassura: se vuole scorgere il bianco, passa attraverso il contaminato; se vuole possedere la forza, conosce la debolezza e
l'impotenza. Ma, mentre muta, il taoista conosce un segreto:
il suo io vuoto e flessibile è una sostanza porosa, e anche la
realtà è per lui egualmente vuota e porosa; così che io e
realtà si incontrano senza toccarsi, aderire e compenetrarsi
mai. Così il taoista può dire di sé: «traquillamente si trasforma, ma altrettanto tranquillamente non si trasforma». Il suo
totale accoglimento dell'universo coincide con un totale rifiuto: la sua assoluta estroversione con una assoluta concentrazione. Egli prova gioia alle metamorfosi del mondo, ed è
indifferente. Serpeggia e guizza tra le cose come un pesce,
ed è altissimo, levato sopra le cose, come il falco.
La meta alla quale Chuang-tzu aspira sta ancora più in alto.
«Spogliatevi del vostro corpo» egli invoca «abbandonate il
vostro udito e la vostra vista, dimenticate gli esseri e il loro
rapporto, e tutto si riassorbirà nell'indistinzione primordiale. Sciogliete il vostro cuore, lasciate andare il vostro spirito,
annientate la vostra anima, e i diversi esseri del mondo ritroveranno la loro radice comune.» Egli insegna a respirare non
solo coi polmoni, ma col corpo intero a partire dai piedi, così da concentrare e unificare le forze vitali; e a danzare giocando, come gli uccelli. Respirando e danzando, impara a levitare sopra la materia. Non sente più che il suo corpo si
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appoggia né che i suoi piedi riposano su qualche cosa: se ne
va, a piacere del vento, a est, a ovest, come una foglia o un
fuscello disseccato, ignorando se è il vento che lo trascina o
se è lui a trascinare il vento; fino a quando, senza nulla che lo
affatichi o lo ostacoli, egli folleggia, cavalcando la luce,
nell'immensità del vuoto. Così, volando come lo spirito medesimo della leggerezza, risale all'origine, prima che si producesse la distinzione tra lo yin e lo yang: o assiste al momento in cui i due principii opposti si uniscono, formando
l'armonia universale. In quel momento di estasi, non vede,
non sente, non conosce nulla di esterno: la sua mente si unifica con il Tao, che tante volte aveva cercato inutilmente di
esprimere con le parole.
Se avessimo chiesto a Chuang-tzu cosa odiava di più, avrebbe risposto senza esitazioni: «La linea retta» - che le mani degli uomini incominciavano già allora a tracciare sulle cose, per
sottoporle alla geometria dell'intelligenza. «Chi si serve della
sagoma, della corda, del compasso e della squadra per rettificare, offende la natura: chi fa uso della corda, dello spago,
della colla e della lacca per consolidare le cose, va contro la loro qualità: chi piega gli uomini con il rito e li fiacca con la musica, chi li protegge con la bontà e li tiene uniti con la giustizia,
questi corrompe la loro natura originaria» egli dice. La più
perversa incarnazione della linea retta è la morale. Prima che
qualcuno la inventasse, gli uomini andavano per la giusta strada senza conoscere il senso del dovere: si amavano l'un l'altro
senza professare l'ideale dell'amore umanitario: erano sinceri
senza sapere che cosa fosse la lealtà; erano di parola senza conoscere il valore della fiducia. Con l'imposizione della morale, cominciarono a smarrire l'intuizione profonda del Tao, e a
perdere la spontaneità e la scioltezza con la quale si erano aggirati tra le acque nutritrici del mondo. Ma la «linea retta» ha
molte altre incarnazioni: l'idea che, nella vita, importi solo
l'utilità: l'idea che nulla sia più perfetto dell'uomo maturo e
delle cose compiute; l'idea che l'azione buona debba essere
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voluta dalla ragione, accompagnata dalla coscienza e attuata
dalla volontà.
Contro la linea retta, Chuang-tzu elogia appassionatamente la ricchezza, la mobilità, la molteplicità, la spontaneità, la
morbidezza, l'infinità, la vivace tensione fra i contrari che distinguono la natura - questo riflesso della luce del Tao. Nessuno potrebbe essere meno ingenuo di lui quando scrive:
«Lo stato di natura è quello che è: la curva naturale non proviene da nessuna sagoma: la retta naturale da nessuna corda:
il circolo naturale da nessun compasso; il quadrato naturale
da nessuna squadra». Perché mai idoleggiare l'uomo maturo? Quando l'uomo nasce, è flessibile e debole: quando è
forte e rigido - muore. Quando gli alberi nascono, sono flessibili e teneri: quando sono secchi e duri - muoiono. Quello
che vale nella vita è l'incompiuto: ciò che sboccia e non è ancora formato, ma nasconde in sé la futura ricchezza della sua
crescita; le tenere membra del lattante, le cui potenzialità e
possibilità sono infinite.
Per tutto il giorno, il bambino guarda senza muovere gli
occhi, perché il mondo esterno non esiste per lui: cammina
senza sapere dove va e sta tranquillo senza sapere quello che
fa; come lui, il saggio taoista vive avvolto nella naturalezza e
nell'oscurità dell'inconscio. Non pensa a nulla quando sta a
casa, non riflette quando cammina: non cerca mai di perfezionarsi e di progredire. «Compiere senza sapere perché, ecco il Tao.» L'azione buona ignora i progetti e i calcoli: nasce
dall'inconsapevolezza, come il frutto dal fiore. «Il santo che
ama gli uomini ignora il proprio amore: sono gli altri a dargli
questo nome. E sembra che si accorga del suo amore come
se non se ne accorgesse affatto, e che lo sappia come se non
lo sapesse affatto.» Nulla è più arduo e raro dell'ingenuità e
dell'innocenza taoiste: sgorgate da una cognizione completa, amara e ironica della vita, dei suoi contrasti e del gioco di
antitesi che l'attraversa; simile a quel candore supremo, a
quella grazia infantile, a quella dolcezza disincarnata, che soltanto i grandi vecchi posseggono.
Quando Chuang-tzu guarda le cose, ne trasforma comple166
tamente la sostanza. «Avete un grande albero e vi preoccupate della sua inutilità. Perché non lo piantate nel paese del
nulla e dell'infinito? Tutti potranno passeggiare a piacere
sotto la sua ombra e sdraiarvisi a proprio agio» egli scrive.
Non si accontenta di difendere le cose inutili, gratuite e frivole; e di ribadire che il saggio non serve a nulla e a nessuno
- pura essenza, gesto gratuito. Quando contempla la vita,
Chuang-tzu insinua l'irreale nel reale, l'inesistente nell'esistente, il vuoto nel pieno, l'infinito nel finito, l'informe nel
formato, e costruisce una sostanza intermedia, dove «ciò
che è» e «ciò che non è» si equilibrano armoniosamente. Così finisce per scorgere nella esistenza un sogno, che confluisce in un altro sogno e che è a sua volta compreso in un sogno dal quale non ci risveglieremo mai. Ma chi è che sogna e
chi è che viene sognato? «Una volta Chuang-tzu» scrive parlando di sé con la più amabile ironia «sognò che era una farfalla svolazzante e soddisfatta della sua sorte e ignara di essere Chuang-tzu. Bruscamente si risvegliò e si accorse con
stupore di essere Chuang-tzu. Non seppe più allora se era
Tzu che sognava di essere una farfalla, o una farfalla che sognava di essere Tzu.»
LA POLITICA ASSOLUTA
Non vorrei che II libro del Signore di Shang venisse considerato come una singolarità culturale, un testo arcaico cinese piombato chissà come sul nostro tavolo di lettura. Non
importa che i suoi autori siano vissuti tra il quarto e il terzo
secolo avanti Cristo, quando la Cina non era ancora un impero. In nessun altro testo di teoria politica che sia mai stato
scritto, da Machiavelli a Lenin, si esprime così atrocemente il
sogno di una politica assoluta, che cancelli qualsiasi altro
pensiero, sentimento e desiderio umano, costruendo lo spaventoso edificio della Legge e della Forza. I suoi autori possedevano tutte le qualità necessarie per realizzare questo sogno: una mente paurosamente logica, un disprezzo astratto
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per gli esseri umani, una crudeltà adamantina, l'odio per
ogni compromesso, una decisione che non si arrestava davanti a nessun ostacolo, una solitudine disperata, l'incapacità
di pensare e amare il mondo come un mobile gioco di contraddizioni. Così non ci meraviglia la strana aria secentesca
che ogni tanto emana dal libro. Come certi teorici della ragion di stato, il Signore di Shang (per usare questo nome mitico) voleva trasformare la politica in una pura dimostrazione geometrica, semplice come il più semplice dei teoremi.
Il paradosso è che questo libro, così vicino alla logica e rapida Europa, nascesse in Cina - un paese che non conosceva
né politica né legge, ma una complicatissima e duttilissima
arte della saggezza. Là non contava la norma pubblica, ma i
principii naturali e morali, di cui l'arte di governo dovevano
offrire un riflesso: non la prescrizione statale, ma quel complesso di gesti e di riti che era l'etichetta: non la virtù del cittadino, ma quella del figlio e del fratello: non i giudizi legali,
ma il loro valore simbolico; e cosa poteva importare il futile
gesto del riformatore davanti alla forma della tradizione? «A
meno che il vantaggio non sia centuplo, non si deve riformare la legge; a meno che il benefìcio non sia decuplo, non si
deve alterare uno strumento.» La saggezza cinese pensava
che il gesto politico dovesse perdersi nella infinita rete di
connessioni, che formano la vita famigliare, la religione, la
cultura, i costumi quotidiani di ogni paese. Non c'era male
peggiore della pura virtù politica: questo sogno di tutti i rivoluzionari e di tutti i terroristi. Il vero uomo di governo sapeva che la sua non era un'arte della forza, ma un'arte della
debolezza: non un'arte dell'unità, ma un modo di conciliare
e di guidare lievemente, con mano senza nervi, la colorata
molteplicità dell'universo.
Come molti teorici della politica, il Signore di Shang pensava di vivere in un'epoca di decadenza, piena di astuzia e di
dissolutezza. Non si poteva far altro che tornare indietro, in
un'età dell'oro che non era mai esistita, - quando «i primi re
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appesero bilance ai pesi-norme e fissarono le lunghezze del
piede e del pollice», in un tempo di unità e di precisione. Ma
c'era una sola strada per tornare indietro: distruggere le tradizioni. Il Signore di Shang detestava ciò che era complicato,
molteplice, contradittorio. Voleva costruire una società unita, compatta, concentrata in sé stessa, «con la mente rivolta
verso un'unica cosa»: semplice come immaginava fosse lo
spirito dei contadini; e questa società doveva fissarsi nel
tempo, abolire la storia, restaurando l'immobilità delle origini. Chi doveva imporre la semplicità era la Legge, «diritta come una freccia», «senza deviazione e parzialità». Essa avrebbe
semplificato, distrutto, ricostruito, fino a trasformare la varietà del popolo cinese in uno stato di soli contadini e guerrieri. Non c'era posto per altri. La vera meta era la guerra e la
conquista: «impadronirsi dell'impero nelle proprie braccia e
chiudere in un sacco i quattro mari».
Con la sua mente ossessionata dalla Legge, il Signore di
Shang cercava di annullare la vita intima della Cina. In primo
luogo doveva essere distrutta la famiglia: un'ordinanza
proibì a padri e figli, fratelli maggiori e minori di vivere assieme nella stessa casa. Tutte le virtù e i doni tradizionali venivano additati al disprezzo: la pietà filiale, la bellezza, l'amore,
il dovere fraterno, la benevolenza, i riti, l'intelligenza, la sincerità, l'integrità, la fede, la rettitudine, - e sostituiti dai doveri verso lo Stato. «L'amore dei genitori» commentava un testo parallelo «non basta a insegnare la morale a un figlio, ma
sono necessarie le punizioni severe dei funzionari. La gente
è naturalmente viziata dall'amore, ma diviene obbediente di
fronte alla severità.» Il vero nemico erano i libri: perché la famiglia non è che un libro vivente, dove tutte le parole e i fogli e gli spazi bianchi diventano carne. Niente letteratura, né
musica, né poesie, né libri di storia, poiché le parole sono il
vero, indifeso nemico della politica assoluta. «Se lo studio si
diffonde nel volgo, la gente abbandonerà l'agricoltura e si
darà ai dibattiti, alle parole altisonanti e alle discussioni fondate su false premesse.» Il Signore di Shang pensava che il
popolo era stupido, e doveva restare stupido e povero, in
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modo che la stupidità garantisse il potere. Nessuno poteva
cambiare dimora: né esercitare il commercio o le arti e i mestieri, in modo che il movimento non infrangesse la ferrea
stabilità della legge.
La meta del Signore di Shang era alta, anzi altissima: la
Virtù (la Virtù dello Stato) : ma, come la Rivoluzione francese
comprese molto più confusamente, solo la forza, la violenza,
la punizione potevano suscitarla. «La punizione genera forza,
la forza genera potenza, la potenza genera soggezione, la
soggezione genera virtù»: dunque «la virtù trae la sua origine
dalle punizioni». «Voglio ritornare alla virtù per mezzo delle
pene capitali e fare della rettitudine un corollario della violenza.» Secondo questi principii, il Signore di Shang costruì
un sistema perfetto per far regnare la virtù e la felicità in terra. I contadini dovevano controllarsi e spiarsi a vicenda: chi
non denunciava un colpevole era tagliato in due, chi lo denunciava otteneva la stessa ricompensa dei guerrieri vittoriosi. Le piccole trasgressioni erano punite come le gravi, «perché le grandi trasgressioni hanno origine dalle piccole»: chi
faceva un passo più lungo di sei piedi o gettava cenere sulla
strada, veniva bastonato a sangue, chi osava criticare era segnato con un marchio e gli tagliavano il naso. Tassazioni pesantissime rendevano la vita così insostenibile, che i contadini trovavano una specie di felicità e di riposo nella durezza
del servizio militare. L'ultima conseguenza del sistema di
Shang era ricchissima di significato simbolico. Un funzionario d'animo mite non avrebbe mai potuto scoprire i reati dei
sudditi. Non restava che consegnare la difesa dello Stato alla
spietata penetrazione dei funzionari malvagi: solo chi è malvagio conosce veramente il male che si nasconde nel cuore
degli altri. Così il grandioso edificio della Legge, della Virtù e
dello Stato Perfetto era affidato al governo dei malvagi: una
conseguenza che il Signore di Shang scoprì per primo, nel
suo remoto Medio Evo cinese, ma che dopo di allora milioni
di rivoluzionari hanno applicato con scrupolo e diligenza.
L'edificio del Signore di Shang si concludeva nell'utopia.
Dopo un lungo e faticoso esercizio, questo intreccio di leggi
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e di proibizioni, di violenza e di terrore, di punizioni e di ricompense, doveva formare una specie di macchina capace
di funzionare da sola: un mostruoso e automatico Leviatano,
che nulla poteva arrestare. Senza essere comandato, il popolo avrebbe applicato la legge, rinunciando ai propri desideri
individuali. Così le leggi «venivano abolite mediante la legge»: lo Stato si annullava: le cose governavano sé stesse;
mentre il «sovrano riposava su un buon letto e ascoltava il
suono di strumenti a corda e di bambù, ma, nonostante ciò,
l'impero godeva dell'ordine». Come Duyvendak osserva,
queste idee hanno uno sfondo taoista: anche se la rigidissima costruzione di sangue e di ferro del Signore di Shang sia
lontanissima dalla scioltezza e dalla liquidità femminile
dell'universo taoista.
Il vero allievo del Signore di Shang fu il primo imperatore
della Cina, Qin Shihuangdi, che salì al trono nel 221 avanti
Cristo. Il suo numero era il 6: il colore il nero: il punto cardinale il Nord; sotto di lui sei piedi fecero un passo, sei cavalli
trascinarono le carrozze. Ordinò che la politica si decidesse
«secondo la Legge e la Giustizia, e non la Bontà e la Riconoscenza». Ordinò di ardere i libri, e fece uccidere trecentosessanta letterati, uno per ogni giorno dell'anno. Voleva diventare un Uomo Vero, «capace di entrare nell'acqua senza
bagnarsi, di entrare nel fuoco senza bruciarsi, di salire sulle
nubi e i vapori, eterno come il Cielo e la Terra».
Non diventò eterno, non riuscì ad entrare nell'acqua senza bagnarsi e nel fuoco senza bruciarsi. Dovette accontentarsi dei Sei, del Nord e del Nero, e di venire seppellito nelle
profondità della terra da settecentomila prigionieri castrati.
Gli dèi non amavano chi voleva stabilire «il regno della durezza e della violenza». Quando salì sul boscoso monte
Xiang, essi scatenarono contro di lui una tempesta di vento
e di pioggia. Allora, per vendicarsi degli dèi, l'imperatore rasò la foresta e fece dipingere tutto il monte in rosso, come si
usava per i criminali.
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LA CINA E IL CRISTIANESIMO
Quando il padre gesuita Matteo Ricci giunse in Cina, verso
la fine del sedicesimo secolo, i Cinesi videro in lui quasi
un'incarnazione ideale dell'antico saggio confuciano. Egli
univa la raffinatezza spirituale alla semplicità dei modi: nei
gesti, nelle parole e nel comportamento, trovava il felice
punto d'incontro tra l'eccesso di rigidezza e l'eccesso di affabilità, dimostrando di possedere quella sovrana naturalezza,
adorata da Confucio, nella quale la spontaneità, la discrezione, il controllo e la grazia intonano la musica della vita. I
mandarini lo accolsero con slancio misurato nelle loro accademie, riunioni solenni e quasi sacre, dove cori di giovani
cantavano inni morali. Tra essi e il misterioso inviato d'Occidente, c'erano dei punti di concordanza. «Vincere sé stessi»,
«Non fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi»,
erano precetti che si trovavano anche nei Dialoghi di Confucio; e l'etica di padre Ricci, dove il Vangelo era stato trascritto nel linguaggio di Seneca e di Epitteto, sembrava famigliare alle menti neo-confuciane.
Come racconta Jacques Gernet, sotto l'accordo superficiale si estendeva un baratro profondissimo. Appena rifletteva
al suo sogno di evangelizzazione, padre Ricci doveva comprendere che mai nessuno aveva tentato un'impresa così disperata. Un cristiano che cerca di convertire un musulmano
fa appello alla stessa cultura filosofica e religiosa: un missionario in India ricorre ai fondamenti di un'originaria identità
linguistica e a una riflessione filosofica accanitasi attorno agli
stessi temi: ma che poteva fare lui, solo nell'oceano della Cina? Dovunque si volgesse, scorgeva una struttura mentale
radicalmente diversa: un diverso modo di concepire le idee
fondamentali della vita; se voleva far capire la differenza tra
astratto e concreto, tra Essere e fenomeno, la lingua cinese
non gli offriva gli equivalenti linguistici adeguati. Così, metà
convinto metà costretto, immaginò un mito storiografico.
Una parte della tradizione religiosa cinese antica era scomparsa nell'incendio dei libri ordinato dal primo imperatore
172
dei Qin nel 213 avanti Cristo; e questa parte esprimeva l'idea
di un Dio creatore e onnipossente, l'immortalità dell'anima,
l'esistenza di un Inferno, di un Purgatorio e di un Paradiso,
che poi i Cinesi avevano dimenticato. Là, alle origini, i futuri
cristiani e i futuri mandarini praticavano la stessa fede.
Se proponeva il suo Dio agli amici confuciani, padre Ricci
era colpito dalla loro mescolanza di venerazione e di scetticismo. Erano disposti a insinuare le immagini del dio e dei
santi cristiani nelle proprie case, collocandoli accanto alle
immagini confuciane, buddiste e taoiste, che stavano le une
accanto alle altre, conversando in un'ininterrotta accademia:
si prosternavano profondamente davanti a loro; eppure il
gesto di venerazione celava una profonda assenza di fede in
tutti gli dèi. Forse gli dèi ci sono, forse non ci sono, essi
pensavano; e allora tanto vale, per evitare ogni pericolo, inchinarsi davanti agli idoli della folla. La fede cristiana non
tollerava compromessi: aveva un dogma, delle verità rivelate, un seguito inesorabile di conseguenze, costruite con la
precisione delle chiese e dei palazzi che i gesuiti avevano lasciato in Occidente. Appena essi parlavano con un cinese o
con un convertito, questa logica compattezza sembrava
crollare: il cinese era subito lì, a sostituire o a interpretare
un'immagine, a eludere un fondamento, a smussare una
conseguenza, trasformando il solido edificio di pietra in una
labile cattedrale d'acqua. Quando padre Schall cercò di convertire l'imperatore Shunzu, questi rispose: «Avete ragione.
Ma, in fondo, come volete che si riesca a praticare tutte le
vostre massime? Toglietene due o tre delle più difficili, e
forse, poi, potremo accordarci sul resto». Tutti facevano
come l'imperatore Shunzu. Padre Ricci proponeva dogmi e
formule: la verità era una sola, una sola strada vi conduceva,
un solo ragionamento mentale la coglieva; e i Cinesi, buddisti o confuciani o taoisti, gli rispondevano con una punta
inavvertibile d'ironia che «una verità alla quale non si accede
per mille strade differenti e per diecimila ragionamenti analogici non può essere la verità».
Con la loro robusta fiducia nell'harmonia mundi, i padri
173
gesuiti apprezzavano come pochi la bellezza del mondo: la
miracolosa concatenazione che dal sole, dalle stelle e dai
pianeti scende al corpo dell'uomo, alla moltitudine degli animali, alla freschezza delle erbe, ai simboli pietrificati nelle
montagne. Ai Cinesi tutto ciò non bastava: si accorgevano
che l'universo, che i padri gesuiti andavano investigando e
frugando con tanto amore, con cannocchiali e carte geografiche e strumenti di ogni sorta, era soltanto l'ombra dell'altro, impercettibile universo, che avrebbero conosciuto dopo
la morte. I Cinesi vivevano nel qui e nell'ora: il divino era la
stessa natura; tutta la loro immaginazione religiosa era filtrata dagli impavidi, curiosissimi sensi. «È possibile» disse un
giorno il grande imperatore Kangxi ai padri gesuiti «che vi
occupiate sempre di un mondo dove non siete ancora e che
non consideriate nulla quello dove vivete adesso? Credetemi, ogni cosa ha il suo tempo: usate meglio quello che il cielo vi mette tra le mani e rinviate a dopo la vita tutte le cure
che servono solo per i morti. Quanto a me» concluse scherzando «non mi preoccupo per nulla, di tutte queste faccende
dell'altro mondo e non voglio decidere le questioni degli
spiriti invisibili.»
Via via che i missionari conobbero meglio la cultura cinese, e i confuciani si addentrarono nei segreti della religione
cristiana, l'abisso tra le due civiltà, che da principio sembrava
sfumare sotto il segno del Cielo, risultò invalicabile. Mentre i
cristiani credevano in un Dio trascendente, i Cinesi non ponevano alcuna differenza sostanziale tra il Sovrano dell'Alto,
il Cielo, la Terra e i «diecimila esseri»: gli uni sottolineavano
la separazione, gli altri esaltavano l'unità del mondo. Mentre
il Dio cristiano è personale, cosciente e unico, creatore e onnipossente, il Dio cinese è un potere anonimo d'ordine e
d'animazione dell'universo: una forma d'energia (qi), derivata dalle due energie primordiali (yin eyang). Mentre il
Dio cristiano si rivela sopra i monti e le nuvole e si incarna
manifestandosi agli uomini, il Cielo cinese, come dice Con174
fucio, «non parla» e agisce solo in modo indiretto. Con la loro acuminata logica intellettuale, i buddisti portarono a fondo la critica alla fede dei missionari. Dio - essi dicevano - è
senza principio, senza personalità, senza qualità, senza passioni, senza fine: il Dio cristiano, al contrario, possiede una
personalità, delle virtù definite (onnipotenza, onniscienza,
misericordia), delle passioni; e dunque egli non può essere
l'Assoluto.
Tutto lo sforzo dei gesuiti, volto a imporre i valori della
tradizione platonico-cristiana, si dissolveva contro persuasioni antiche di millenni. I missionari opponevano il mondo
delle verità eterne a quello dei fenomeni e delle apparenze;
e la mente agile e prensile dei Cinesi risolveva gli uni nelle altre. I missionari distinguevano anima e corpo, razionale e
sensibile, sentimento e ragione; e i Cinesi scioglievano tutte
le antitesi occidentali nell'unità indistinguibile della natura,
dove i contrarii, eternamente in moto, si succedono, si combinano e si completano. Mencio diceva: «Chi sa usare del
proprio corpo giunge al vero principio: si unisce alla natura
del Cielo per non fare che una cosa con esso. Il sensibile e
l'intellettuale non sono due cose diverse, lo spirito e il corpo
non sono separati da nessuna barriera». La polemica si inasprì: padre Longobardo accusò i confuciani di materialismo.
Allora i Cinesi risposero che i veri materialisti erano i cristiani, perché pretendevano di spogliare l'universo delle sue divine forze invisibili e di trasformarlo in una realtà bruta, senza l'intelligenza spontanea di tutti gli esseri. «È ragionevole»
diceva Huang Wendao «sotto il pretesto di venerare il Signore del Cielo, dichiarare che il Cielo e la Terra sono privi di intelligenza, che il sole, la luna e i pianeti sono cose brute, che
gli dèi delle montagne e dei fiori, gli dèi del suolo e della
mietitura sono dei diavoli e che non è necessario sacrificare
agli antenati?»
Il vero scandalo, per i mandarini confuciani, era l'incarnazione e la morte in croce di Cristo. Padre Matteo Ricci aveva
evitato di parlarne, trasformando la teologia della Croce in
una filosofìa stoico-cristiana e eludendo il destino storico di
175
Gesù. Aveva compreso che l'incarnazione era un'idea centrale in Occidente, dove mediava tra eterno trascendente e
transitorio terreno: questa opposizione era sconosciuta ai
Cinesi, per i quali non vi era dunque alcun bisogno di questa
mediazione. Quando i missionari predicarono lo scandalo
della croce, i Cinesi insorsero. Un Dio che soffre, un Dio che
muore non era una follia inconcepibile, degna dei «barbari»
dell'Occidente? E perché mai questo Dio-uomo, questo figlio di una donna, questo personaggio cogli occhi profondi
e la barba lunga che aveva turbato il popolo coi suoi strani
discorsi, era insorto contro i suoi sovrani legittimi? Se davvero gli uomini dovevano venire salvati, perché il Signore del
Cielo non aveva inviato un santo, che avrebbe diffuso il Tao
celeste? Non so come i missionari cercarono di far comprendere il paradosso, sul quale è fondata la vita di ogni uomo
d'Occidente-, un paradosso che non può venire spiegato, ma
che appartiene alle incrollabili verità fìsiche. Come gli gnostici, i buddisti supposero che il vero Cristo era rimasto in cielo: mentre il dramma svoltosi in terra era stato soltanto una
rappresentazione teatrale, un gioco illusorio di spettri, un
fantastico mascheramento della divinità.
Giunti in Cina col prestigio dei loro cannocchiali, dei loro
astrolabii e della geometria euclidea, i missionari gesuiti credevano nell'astronomia tolemaica. Lassù, in cielo, c'era un
Dio geometra, che un tempo aveva creato e ora governava
un mondo perennemente fisso, suddiviso in parti, limitato
nello spazio e nel tempo, coi suoi settemila anni di età e le
sue sette sfere cristalline. I Cinesi immaginavano invece il
cielo come un solo spazio infinito dove ondeggiavano i corpi
celesti e nel quale, durante un'evoluzione di lunghissima durata, si formavano e disfacevano gli universi per condensazione e dissipazione di un'energia onnipresente. Fu uno dei
punti dove il contrasto fu più vistoso. Gli educati letterati
confuciani e i bonzi colti dovettero guardare con una punta
di ironia i loro confratelli d'Occidente, che credevano a un
universo così semplice e così ordinato, così simile all'invenzione d'un onesto e diligente orologiaio.
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LA CITTÀ DELL'IMPERATORE
I missionari gesuiti che penetrarono nella Cina, ebbero
l'impressione di mettere il piede in un paese più leggero del
nostro. Là, in Europa, dominava la pietra, che trionfava nelle
montagne, negli immensi palazzi dei re e dei signori, nei tuguri abbarbicati ai palazzi, nelle chiese che gli architetti e i
pittori gesuiti innalzavano a gloria del Signore della terra e
dei cieli. La Cina, questa «continuata Vinegia», era il regno
dell'acqua, il più ambiguo degli elementi. I fiumi risalivano il
paese verso il limite della Grande Muraglia, una moltitudine
di canali collegava i fiumi, percorrendo le verdi e dolci campagne coltivate a riso, attraversando la città, giungendo nel
cuore del Palazzo imperiale, dove si allargavano in stagni e in
piccoli mari.
Le navi e le case sull'acqua erano costruite con legni odorosi: le finestre erano velate con sottilissimi drappi di seta o
chiuse da grate con fregi d'oro e trafori, dove splendevano
occhi di madreperla; e mille varietà di arabeschi, alberi, uccelli decoravano le pareti. Tutti i colori - il rosso, il giallo, il
verde, il celeste più squillanti immaginati dalla fantasia umana - venivano impastati con una gomma glutinosa, la quale
formava una vernice simile a una pelle liscia e invetriata.
Quando la luce del sole colpiva questa pelle colorata e odorosa, essa riverberava come uno specchio, i legni sembravano lucidi e immateriali, e il paese dell'acqua diventava, come
l'altra Venezia, il paese dei riflessi e degli echi. Via via che
procedevano nel corpo liquido della Cina, i gesuiti si lasciavano sempre più affascinare da questa incantevole levità delle cose. Qualcuno raccontava che, in una provincia, c'era un
uccello nato dalla corolla di un fiore; e pietre simili a rondini.
Nei palazzi imperiali, un artigiano consacrava la propria esistenza a dare forma ai vapori: mescolava ai profumi arsi sul
braciere polvere di ninfea, e il fumo si innalzava «in una figura piacevole» - una colonna o una sfera o le lettere di una
strana calligrafia. Forse i Cinesi volevano lasciarsi alle spalle il
solido e il liquido, addentrarsi nel diafano, nell'impalpabile,
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nell'aereo; e dare una forma ora geometrica ora bizzarra a
quanto sembra sfuggire ad ogni figura.
Come incantava la fantasia dei missionari gesuiti questa
abitudine implacabile di dare forma a tutte le cose! Matteo
Ricci, Daniello Bartoli e gli eleganti sacerdoti francesi, che
un secolo dopo inviarono in Occidente le loro Lettres édifiantes et curieuses, ammiravano ogni giorno i miracoli della
«etichetta» cinese e li raccontavano ai sacerdoti e alle dame
d'Europa. In quello sterminato paese, tutto era governato
dall'ordine e dalla simmetria: ogni gesto dell'esistenza era
una rappresentazione teatrale, una piccola cerimonia, un rito, un lieve balletto geometrico. Quando due persone si incontravano, univano le mani e le maniche, alzandole e abbassandole, si chinavano fino al suolo o si inginocchiavano
con la testa in terra, voltandosi verso nord: quando arrivava
un visitatore, il padrone di casa disponeva ordinatamente le
sedie nel luogo più alto e le spazzava con le maniche; prima
di invitare a convito, egli usciva nel cortile, s'inchinava verso
mezzogiorno e offriva una tazza di vino al Cielo. L'etichetta
trionfava nell'occasione della morte. Il cadavere rimasto tre
anni in casa, nella sua cassa ben levigata e commessa, tra i
profumi che gli offriva il figlio: tamburi e flauti il giorno dei
funerali: figure di elefanti, di tigri, di uomini illustri, carri
trionfali, castelli, bandiere, piramidi misteriose, tavole con
incensieri e vivande, sacerdoti salmeggianti, i figli in lacrime,
i parenti e gli amici «atteggiati d'una malinconia lavorata ad
arte» - la comunità umana lacerata si confortava con i gesti
dell'apparenza e si avvolgeva nel rito, come se soltanto il rito
potesse proteggerci nel trapasso oltre la morte.
Tra i lettori delle Lettres édifiantes et curieuses c'era qualcuno, come Rousseau, che detestava i Cinesi: «questo popolo letterato, vile, ipocrita, ciarlatano, educato, complimentoso, astuto, furbo e briccone, che converte tutti i doveri in
etichetta, tutta la morale in smorfie e non conosce altra umanità che quella dei saluti e delle riverenze». Ma i missionari
gesuiti erano troppo colti, civili e beneducati per non apprezzare la vittoria quotidiana della simmetria e del rito. Essi
178
vedevano negli eleganti gesti cerimoniali l'incarnazione terrena di quel mirabile ordine cosmico, di quel gioco perfetto
di corrispondenze che Dio aveva creato tra le costellazioni, i
pianeti e la terra: scorgevano nella cortesia l'arte di moderare l'impeto violento ed egoistico delle passioni. Chi coltivava
la forma, onorava il bene: senza forma, non poteva esistere
né bellezza spirituale né azione virtuosa. Certo, essi avevano
imparato dai loro maestri europei a procedere dall'interno
verso l'esterno, dal cuore verso i gesti. Ma chi poteva escludere che l'arte di vivere cinese fosse quella più giusta? Forse
era necessario proporre allo spirito la bellezza e la precisione di alcuni gesti perfetti - un inchino fino a terra, una mano
che pulisce una seggiola, un volto segnato dal dolore. Davanti a quello specchio oggettivo nitidissimo, lo spirito
avrebbe a poco a poco appreso una geometria mentale
egualmente esatta e armoniosa.
Mentre il clima intellettuale d'Europa mutava, i gesuiti scoprirono tra le pieghe del rituale cinese il gioco di una mente
che amava la varietà, la diversità, il bel disordine, il capriccio
più amabile. Non c'era piacere più grande che addentrarsi nel
Palazzo imperiale, dove la mente teatrale e artificiosa di un
grande architetto aveva creato una natura molto più sottile di
quella reale. Qui il pittore di corte dell'imperatore Qianlong,
padre Attiret, non scopriva da nessuna parte la monotonia
dell'odiosa linea retta, che doveva averlo tediato a Versailles,
ma una «antisimmetria» sapientemente calcolata. Tutto serpeggiava, si piegava, si curvava, mostrava ora un volto ora
quello opposto. C'erano viali a zig-zag, ornati di piccoli padiglioni e di piccole grotte: canali ora larghi ora stretti, che correvano dritti, poi facevano un gomito: sentieri con l'acqua da
una parte e gallerie dall'altra: qui un bosco di alberi da frutta,
là un bosco di alberi montani: ponti di pietra tortuosi, pieni di
andirivieni: un'isola scabrosa e selvaggia, dove si elevava un
palazzo di cento stanze; e l'acqua si alleava dappertutto alla
pietra nel modo più bizzarro. Quanto alle abitazioni, sembrava che tutto «fosse stato messo a caso, che un pezzo non fosse
stato fatto per l'altro». Le porte e le finestre erano di ogni fog179
già e figura - rotonde, ovali, quadrate, fatte a forma di ventaglio, di fiori, di vasi, di uccelli, di pesci -; e le gallerie che congiungevano due luoghi facevano cento giravolte, arrestandosi ora dietro un boschetto, ora dietro una roccia, ora intorno
ad un piccolo stagno. Ma padre Attiret non ebbe mai l'impressione di muoversi nel regno del caso. La mente dell'architetto, ignota e lontana come la mente dell'imperatore, si divertiva a giocare con sé stessa: provava a violare le proprie leggi: si
inoltrava nell'ignoto; e poi ritornava arricchita, divertita e rassicurata, tra le convenzioni del mondo umano. Forse - padre
Attiret pensava - dietro i gesti sempre eguali dell'etichetta, si
nascondevano dei sentimenti egualmente capricciosi e varii,
insondabili come quelli di nessun'altra creatura umana.
Alla fine il viaggio dei missionari gesuiti nel paese della
simmetria e del capriccio si concludeva nel Palazzo dell'Imperatore - il centro nascosto dal quale dipendeva il mondo
visibile. L'imperatore indossava un abito giallo, disseminato
di dragoni con cinque unghie; e la sua figura era così sacra,
che i mandarini si genuflettevano davanti al suo abito e alla
sua cintura, o davanti al trono vuoto. Come quello di Dio, il
suo sguardo vasto e tollerante, profondo e meticoloso abbracciava tutti i luoghi dell'immenso impero: vegliava come
un padre sul benessere del suo popolo, alleviando tributi e
inviando riso dove avevano infierito la siccità o l'inondazione; e si chiudeva come un sacerdote antico nel Palazzo digiunando e pregando, invocando dal Cielo il miracolo della
pioggia. Intorno a lui un'aristocrazia elettiva di mandarini,
nella quale i missionari scorsero un'immagine dei filosofi-legislatori di Platone, diffondeva o ispirava la sua parola. Così
lo Stato cinese diventava quello Stato virtuoso, che da migliaia di anni gli uomini avevano inutilmente sognato e che
tornarono disperatamente a sognare alla vigilia della Rivoluzione. L'imperatore insegnava a coltivare la terra, l'imperatrice a filare, e gli abitanti praticavano ogni virtù: onorare i genitori, mantenere la fedeltà ai mariti, difendere la castità,
lavorare i campi, essere frugali, vivere in pace con i vicini e
con i lontani. Tutti i problemi della vita politica e civile sem180
bravano risolti. Con sempre rinnovata meraviglia, i missionari osservavano che, in Cina, la penna si era imposta alla spada: chi possedeva la parola scritta sovrastava la brutalità della
forza; i mandarini comandavano i guerrieri e li percuotevano
davanti a tutti, «come tra noi i maestri battono i putti delle
scuole».
Quando giunsero nel cuore del Palazzo, i gesuiti si accorsero che l'imperatore stava giocando, come se il potere, per
essere veramente sovrano, dovesse esprimersi nella futilità
piena di grazia. Non era mai indaffarato o troppo teso, come
i politici europei, indemoniati dalla sete del dominio. Non
sembrava mai «agire». Lì, nelle sue stanze, egli si stava occupando di musica, o di astronomia, o di matematica, o di pittura, o di giochi d'acqua, o dei bellissimi automi che i missionari fabbricavano per lui. Vicino all'isola artificiale dove
viveva, c'era una città in miniatura: con quattro porte ai quattro punti cardinali; con le torri, le mura, i merli, le piazze, le
strade, i templi, le botteghe, i mercati, i tribunali, i palazzi, il
porto. Molte volte all'anno, gli eunuchi di corte vi rappresentavano il fracasso, il tumulto e le furfanterie di una grande città. In quei giorni ogni eunuco prendeva le vesti della
professione che gli era stata assegnata: uno era mercante,
l'altro artigiano, questo soldato, quello ufficiale. I vascelli arrivavano al porto, le botteghe si aprivano: un quartiere era
per le sete, un altro per la tela: una strada per le porcellane,
una per la vernice; in questo negozio si trovavano mobili, in
quello abiti e ornamenti per le donne, nell'altro libri per i curiosi ed i sapienti. C'erano taverne per il tè e per il vino: alberghi per ogni sorta di gente. All'arrivo dell'imperatore e
dell'imperatrice, circondati dal corteo dei principi, la città in
miniatura, rimasta silenziosa per mesi, si animava improvvisamente. I venditori presentavano per la strada frutti e rinfreschi. I mercanti tiravano per la manica, chiedendo di acquistare le loro mercanzie. Tutto era permesso. Chi gridava,
chi litigava, chi picchiava, chi rubava accortamente; e arrivavano i finti arcieri, portando i finti litiganti e i fìnti ladri dal
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finto giudice dove, tra le risa dell'imperatore, venivano bastonati per finta.
Il senso di questo incantevole apologo era chiaro a padre
Attiret, che lo raccontava ai suoi amici europei. Chiuso nella
piccola isola artificiale, l'imperatore non aveva mai visto il
suo impero: ogni volta che percorreva le città, le case e le
botteghe venivano chiuse e i viandanti allontanati dalle strade: se percorreva le campagne, due fila di cavalieri da ogni
lato gli nascondevano la vista; ed era quasi invisibile ai sudditi. Così egli poteva conoscere soltanto la realtà minima, fìnta,
simulata, recitata, che gli eunuchi inscenavano per lui nella
città in miniatura. Non scorgeva che questa ombra delicata e
burlesca. Era una condanna o un privilegio? Come tutti i potenti, soffriva la condanna di essere escluso dalla realtà, che
pure era costretto a dominare? Oppure godeva il privilegio
di contemplare soltanto quella cosa più sottile e purificata,
che è il suo riflesso teatrale? Come ogni padre gesuita, tanto
innamorato dell'esistenza quotidiana quanto dell'illusione,
nemmeno padre Attiret avrebbe potuto rispondere a questa
domanda.
Nel 1693, l'imperatore Kangxi donò ai missionari un terreno nella città del Palazzo, dove costruirono una chiesa con
ardite scenografie, colonne, arcate, balaustrate, scorci di nuvole dipinte nel soffitto, simili a quelle che in migliaia di
chiese gesuitiche celebravano la gloria di Dio e del suo ordine. Le lettere che i padri dopo di allora inviarono in Francia
erano di studiosi, di viaggiatori, di uomini di mondo, di
amateurs, piuttosto che di gravi missionari. Con occhi aperti, curiosi e vivaci contemplavano la varietà dell'universo:
nessun pregiudizio terreno ostacolava la loro curiosità intellettuale; e il loro stile, così chiaro, acuto, lieto, svelto, spiritoso, ricordava quello del loro allievo Voltaire. Ma, all'imperatore e ai mandarini, mostravano un altro volto. Avevano
compreso che l'immenso paese d'acqua e d'aria, che li aveva
accolti, era disposto ad assimilare le cose più estranee, pur182
chè assumessero forme cinesi. Così si trasformarono con
una capacità camaleontica, con quella straordinaria mobilità
che il loro Ordine aveva sempre dimostrato. Nati a Dòle o a
lssoudun o a Avignone, nella più tenace provincia francese,
assunsero nomi cinesi: indossarono le fogge dei mandarini,
con la veste di seta blu, l'abito nero o viola, il cappello a cono, l'ombrello azzurro, il ventaglio; mangiarono cibi cinesi,
dipinsero come i Cinesi, ebbero funerali cinesi, adattarono i
riti cristiani a quelli cinesi. Con una specie di ardente fervore, cercarono di uccidere in sé stessi le tracce dell'Occidente: quella «certa attività turbolenta, che vuol fare tutto e conquistare tutto d'assalto»; e a poco a poco, acquistarono la
prudenza, la calma, la gravità, la moderazione, la lentezza
maestosa e passiva, che ammiravano nei loro allievi.
Già padre Matteo Ricci aveva intuito che la via più sicura
per penetrare nella Cina era quella della cultura. Così i missionari mostrarono alla corte i bei volumi rilegati, gli astrolabii, gli orologi, i prismi di vetro, le carte geografiche e i mappamondi che avevano portato dall'Europa; e quando i
mandarini videro finalmente tutta l'estensione della Terra,
con l'America e l'Africa, questi paesi che non avevano conosciuto nemmeno nell'immaginazione, si meravigliarono che
il loro immenso paese occupasse un «posto così piccolo».
Studiarono la geografia della Manciuria e della Mongolia: misurarono la Grande Muraglia; prepararono la carta dell'intera Cina. Informati di tutte le scoperte astronomiche dopo
Keplero e Galileo, puntarono i loro cannocchiali verso il cielo: fabbricarono strumenti sempre più perfezionati per l'osservatorio di Pechino; calcolarono le eclissi di sole e furono
incaricati della riforma del calendario cinese. Qualcuno curò
con il chinino la febbre terzana dell'imperatore Kangxi.
Qualcuno dipinse, con una velocità e un estro che padre
Pozzo avrebbe potuto invidiargli, il ritratto dell'imperatore
Qianlong in misure più grandi delle normali, un signore tartaro a cavallo che scoccava la freccia contro la tigre, grandi
scene di cerimonie; o piegò il proprio pennello all'uso cinese, dipingendo sulla seta, - senz'ombra, con tinte unite e li183
nee finissime - alberi, frutti, uccelli, pesci, animali. Qualcuno, infine, fabbricò giochi d'acqua, un leone e una tigre che
camminavano da soli e due automi dalla figura umana, che
portavano un vaso di fiori.
L'episodio più singolare avvenne quando Kangxi, al culmine del potere e sovranamente distaccato da ogni potere, volle coltivare la scienza europea. Era estate; e abitava nella sua
residenza fuori Pechino. Tutte le mattine alle quattro, padre
Thomas, padre Gerbillon e padre Bouvet attraversavano in
portantina la città ancora addormentata e la campagna piena
di canali, portando con sé i libri di aritmetica, di geometria e
gli elementi di Euclide. L'imperatore li attendeva nel suo Palazzo d'estate. Passavano insieme due ore ogni mattina e due
ore ogni pomeriggio, seduti l'uno accanto all'altro sul palco
imperiale, come se nessuna distanza dividesse il Figlio del
Cielo e gli oscuri messaggeri d'Europa, mentre le parole cinesi svelavano i misteri dei teoremi, dei diametri, delle circonferenze, dei cubi, delle sfere, delle parallele che abitano
lo spazio geometrico della mente. La sera i tre gesuiti tornavano a Pechino, passando parte della notte a preparare le lezioni dell'indomani, e il loro allievo ripeteva con la diligenza
di uno scolaro volenteroso ciò che aveva appreso e lo spiegava ai figli. Questa era la strada di Cristo. I gesuiti avevano
capito che potevano penetrare in quel paese geloso, così innamorato della simmetria, solo facendo appello alla virtù
della precisione. Dovevano misurare gli spazi del cielo, gli
spazi della terra, gli spazi della mente: disegnare le figure
percorse dagli astri, le linee dei monti, dei fiumi e delle coste, le sfere e i cilindri; e calcolare il tempo del cielo e degli
uomini. Se fossero stati esatti, com'è supremamente esatto il
Dio che ha creato gli astri, i pianeti e le comete, forse avrebbero potuto convertire a Cristo quei piccoli uomini cerimoniosi.
Sebbene fossero così curiosi della vita spirituale della Cina, padre Ricci e i missionari francesi non compresero la ricchezza della sua religione. Con un'ostinazione e una tenacia
da illuministi, videro in molte delle sue tradizioni soltanto
184
«stravaganze» e «superstizione». I bonzi buddisti sembrarono
loro «una ribaldaglia di gente vilissima»: selvaggi e feroci
asceti medioevali, che mascheravano sotto un aspetto grave
ogni specie di vizi e chiudevano nei sotterranei dei conventi
fanciulle rapite, come i frati domenicani che qualche decennio dopo inventò l'immaginazione di Sade; e videro in loro,
con i loro abiti fino alle calcagna e le maniche lunghe, la contraffazione demoniaca dei sacerdoti cristiani. Del Taoismo
non conobbero quasi nulla; e disprezzarono la mirabile alchimia cinese.
La religione cinese era, per loro, quella dell'imperatore e
dei mandarini confuciani, che pregavano il Cielo. Quel Cielo
pareva loro così prossimo al Dio che avevano esaltato nelle
chiese e nei libri: il Dio creatore, che non si segrega dal
mondo, non si chiude in un Nulla inattingibile agli occhi
umani, ma si riflette nelle molteplici meraviglie della creazione. Con parole stupende l'imperatore Yungzhen aveva detto: «C'è tra il Cielo e l'uomo un rapporto, una corrispondenza sicura, infallibile per le ricompense e i castighi. Quando le
nostre campagne sono sconvolte, o dalle inondazioni, o dalla siccità, o dagli insetti, qual è la causa di queste calamità?
Esse vengono forse dall'imperatore, che si allontana dalla
virtù necessaria per ben governare, e che costringe il Cielo a
impiegare questi castighi per farlo ritornare al suo dovere.
Appena mi avvertono che una provincia soffre, io rientro subito in me stesso: esamino con cura la mia condotta; penso a
rettificare le sregolatezze che possono essersi introdotte nel
mio palazzo. La mattina, la sera, tutto il giorno vivo nel rispetto e nel timore». Questa fiducia che la terra è lo specchio del cielo: che tutto quanto accade tra noi obbedisce ad
un ordine provvidenziale: che tutti gli avvenimenti storici
manifestano la volontà di Dio: che i buoni sono ricompensati e i cattivi puniti in terra: che gli uomini, se fossero virtuosi,
sarebbero anche felici - doveva insieme commuovere e turbare i missionari gesuiti. Nulla era più vicino alla loro fede
nell'armonia del mondo. Ma, forse, erano troppo vecchi (o
troppo giovani) per credere che la nostra vita sia un velo co185
sì trasparente, e che in essa non si manifesti mai nulla di casuale, di assurdo, o di demoniaco.
Col favore dell'imperatore, ispirati da una fede chiara e
semplificata, i gesuiti intrapresero l'evangelizzazione della
Cina. Vorremmo conoscere meglio le difficoltà che incontrarono: come riuscirono, per esempio, a far accettare il paradosso della fede cristiana - la caduta dell'uomo, l'incarnazione e la redenzione di Cristo. Il loro sogno era immenso.
Mentre l'Europa si stava allontanando da Cristo, essi gli preparavano una nuova patria qui, in questa terra dove Egli non
aveva predicato e che sembrava loro naturaliter Christiana.
Se avessero congiunto le verità religiose del Vangelo con le
massime morali di Confucio: se avessero insegnato la fede
all'imperatore virtuoso e alla pacifica aristocrazia di mandarini filosofi: se avessero congiunto la simmetria cinese con la
loro passione religiosa: se avessero unito lo spazio, il tempo,
i riti, i gesti, i colori, i suoni, i vestiti d'Occidente e d'Oriente
- la terra, come pensava Yungzhen, sarebbe diventata lo
specchio trasparente del Cielo. I primi risultati nutrirono la
loro speranza: trecentomila Cinesi si convertirono e nelle
province si moltiplicarono le chiese. Quando padre Parennin penetrò nella cappella che un principe mancese aveva
fatto costruire nel suo palazzo, tutto gli parve più splendido,
vivace, brillante e leggero che in una chiesa europea. I principi digiunavano, frequentavano i sacramenti, leggevano libri
devoti, si inginocchiavano modestamente in un angolo, confusi tra il popolo, «senz'essere visti che da Dio solo». «Abituati come sono a stare nel più profondo rispetto davanti all'imperatore, si crederebbero infinitamente colpevoli se
rispettassero meno l'augusto sacrificio che i re e gli imperatori offrono al Sovrano Signore.» Mai, forse, il rito cristiano
era stato eseguito con un ritmo e una musica così armoniosi,
come tra quegli uomini innamorati dell'etichetta.
Il grande sogno non durò a lungo. Nel 1724, l'imperatore
Yungzhen - proprio colui che i missionari gesuiti proponevano all'ammirazione dei sovrani europei - dichiarò loro:
«Non mancherà nulla alla Cina, quando cesserete di esservi,
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e la vostra assenza non causerà alcuna perdita. Non tollereremo nessuno che ne violi la legge, e che cerchi di distruggerne i costumi. Che direste se mandassi un gruppo di bonzi
e di lama nel vostro paese per predicare la loro legge? Come
li ricevereste?». Il cristianesimo venne proscritto: le chiese
confiscate, i fedeli delle famiglie principesche e popolane
perseguitati; e nella seconda parte del secolo i missionari,
relegati a Pechino, tornarono tristemente alle loro occupazioni di una volta - riparare orologi, fabbricare automi, dipingere ritratti di principi e paesaggi di seta. Nel 1773, papa
Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù. L'ultima
grande utopia europea era tramontata: il Vangelo non si sarebbe mai più coniugato con Confucio: il cielo non si sarebbe mai più rispecchiato nella terra; e, qualche anno dopo,
posseduta da sogni e fantasie meno eleganti, l'Europa sarebbe stata travolta dalla Rivoluzione.
IL SOGNO DELLA CAMERA ROSSA1
Nel Sogno della camera rossa, la Corte imperiale è remota: raramente qualcuno ne varca le soglie: della campagna cinese c'è appena un ricordo; e le regioni del Nord e del Sud dove avvengono le battaglie, imperversano banditi, e si intraprendono traffici -, appaiono così fugacemente, che subito
ce ne dimentichiamo. Tutta la Cina viene concentrata dentro
le mura degli Jia. Dietro le mura di cinta, si intravedono palazzi, alte sale di ricevimento e d'apparato, padiglioni a piani
e balconi, collegati da gallerie sospese: mentre, sullo sfondo,
un parco conserva la freschezza «untuosamente umida» della natura, con la maestà delle fronde, delle colline e degli
scenari di rocce preziose. La nostra avventura è, in primo
1
Cao Xueqin è nato, probabilmente, tra il 1716 e il 1718 ed è m o r t o nel 1763.
Q u a n d o morì, Il sogno della camera rossa ( o p p u r e La storia di una pietra),
il più f a m o s o r o m a n z o cinese, rimase incompiuto. Venne pubblicato a stampa
soltanto nel 1791-92.
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luogo, un viaggio nello spazio: come gli invitati, ci aggiriamo
nei palazzi e nel parco temendo di perderci: attraversiamo
un labirinto di gallerie, sale, corti, cortili, corridoi: tutto
splende di fuochi, di lusso e di grazia; e, da ogni parte, ci viene incontro una famiglia immensa, con l'Ava vitalissima al
suo culmine, signori, signore, concubine, ragazze, bambini,
parenti vicini e lontani, una folla di lacchè, valletti, cameriere, cuoche, inservienti, tra i quali si tesse una sterminata rete
di relazioni che lo sterminato romanzo pretende di ricostruire con l'arte più minuziosa.
La nostra prima impressione è che, in questo mondo segregato, manchino gli uomini. Essi sono lontani: qualcuno
insegue l'immortalità: qualcuno amministra lo Stato: qualcuno commercia; qualcuno coltiva le proprie furie sessuali.
Tutti i palazzi, i padiglioni e il parco degli Jia sono imbevuti
di belletti e di psicologia femminile: la vitalità, la passione,
l'isteria, la bellezza, la fede, l'eleganza, la precisione delle
donne impregnano ogni angolo, con il profumo più sottile e
tenace. Le donne chiacchierano, come soltanto esse sanno
fare: intorno alla qualità di un tè venuto dal Siam, intorno ai
pregi e ai difetti dei romanzi, intorno ai diversi tipi di veli da
tendere davanti alle finestre - blu cielo d o p o la pioggia,
bruno d'autunno, verde d'uovo, vermiglio -, e alle innumerevoli occasioni della loro esistenza rinchiusa. Chiacchierano volubilmente come in Anna Karenina-, e al cicaleccio
trionfante delle signore, fanno eco il cicaleccio e i litigi delle
vivaci, oziose e pettegole cameriere, sedute davanti alle
porte, sulle rocce o sulla riva dei fiumi. Quale incanto risveglia, in noi, questo esclusivo mondo femminile: con l'eco
dei passi nelle stanze e nel giardino, il suono delle risa, il
fruscio delle vesti continuamente mutate, le pietre preziose,
le perle, le fenici, i collari d'oro che sottolineano la bellezza.
La vita che si svolge attorno alle donne non ha segreti per
noi. Sappiamo come siano folti i tappeti e tessuti d'oro i
broccati: quali siano gli elementi di una medicina e quali le
mosse di una partita a scacchi: come si prenda il tè o si
mangi il riso; chi preferisce il pesce e chi lo sformato di
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uova, chi la soia cagliata o le frittelle di rane marinate o l'artemisia con carne di maiale.
Dentro questo luogo segregato, la fantasia architettonica
di Cao Xueqin ha inventato un luogo ancora più segreto: il
giardino della «Vista Totale», dove Baoyu vive insieme alle
cugine e alle cameriere, che incarnano il suo desiderio di vita femminile. Il Giardino è costruito come un'opera d'arte,
con lo stesso calcolo delle masse, delle proporzioni e delle
distanze: l'arte imita la totalità del cosmo, creando il paradiso in terra, il quale riflette, a sua volta, il mondo celeste, che
una volta Baoyu ha intravisto in sogno. Il Giardino è pieno di
salici piangenti, che dispiegano le lunghe ciocche d'oro delle loro capigliature, nascondendo il sole: peschi nella loro
nube di cinabro, albicocchi che portano frutti grandi come
fave, meli a forma di ombrelli, olmi, banani, hibiscus, melograni: pergolati di rose canine, chioschi di peonie arborescenti, glicini; e piante rare, che si arrampicano o pendono
dal bordo dei tetti o strisciano sui gradini. Vi è acqua dappertutto: un ruscello limpido che serpeggia nella verdura, uno
stagno circondato da balaustrate di pietra bianca, un fiume
ondulato e sinuoso come un dragone, illuminato da lanterne
di madreperla e di piuma. Tra il verde e l'acqua, sorgono finte case contadine, un monastero di monache buddiste, un
convento di monache taoiste; e i padiglioni e i chioschi, dalle stanze piene di specchi, di nicchie, di trucchi e di illusioni
teatrali, dove Baoyu e le ragazze vivono la loro esistenza di
sogno.
Quello che accade nel Giardino potrebbe accadere in un
quadro cinese. Una ragazza dorme, ubriaca, su una panca di
pietra: intorno a lei si sfogliano le peonie, così che i capelli, il
viso, il vestito e il ventaglio sono ricoperti di petali rossi e
profumati; una moltitudine di api e di farfalle ronza sopra di
lei, avvolgendo il suo sonno di una fine musica primaverile.
Fa caldo. Nella grande casa degli Jia, padroni e servitori lasciano cedere i loro spiriti vitali alla soffocante stanchezza
della giornata di luglio. Le cameriere dormono, con gli aghi
infilati in mano: gli uccelli tacciono sopra i rami: Braccialetto
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d'oro sta seduta cogli occhi semichiusi e la testa oscillante;
mentre Baoyu, con le mani dietro la schiena, le si avvicina
pian piano, la guarda, le tocca un orecchino ed è preso dal
desiderio: «Hai tanto sonno?» le bisbiglia, e vorrebbe tenerla
per sé. Poi continua la passeggiata. Arrivando al pergolato
delle rose rampicanti, ascolta un leggero rumore di singhiozzi soffocati: si arresta, guarda tra le foglie e le rose, e vede
una ragazzetta accovacciata, che gratta il suolo con uno spillone, incidendo sempre lo stesso carattere di scrittura, e
piange. La riconosce: è una piccola attrice che recita al palazzo: le sue sopracciglia, leggermente arcuate, evocano la convessità delle colline primaverili, mentre negli occhi sembrano incurvarsi i flutti delle onde d'autunno. Il tempo passa, il
cielo estivo si raffredda e si incupisce, un acquazzone bagna
il pergolato di rose. Baoyu resta immobile a contemplare la
ragazza che forse scrive il nome dell'innamorato lontano, e
vorrebbe condividere le sue pene d'amore.
Giunge l'inverno. Quando Baoyu si sveglia, le finestre velate sono imbevute di un chiarore che attira lo sguardo: la
neve, nel corso della notte, si è ammassata sul suolo. Dovunque si estende lo stesso biancore, sul quale si distaccano,
nella lontananza, il verde cupo dei pini e il blu ceruleo dei
bambù. Sembra di vivere chiusi in un cofano di vetro. Appena Baoyu gira il fianco della collina, viene assalito da una folata di profumo: nel cortile del convento, scorge dei susini
invernali, i cui fiori hanno lo stesso incarnato del rosso per
labbra e brillano di uno splendore vivace. Tutte le ragazze
escono dai padiglioni: con le scarpe di cuoio di Russia, cappucci, vesti di zibellino e di marmotta; e indossano, sul biancore della neve, dei mantelli di feltro e di alpaga scarlatti. Siamo già prossimi al segreto del mondo femminile: freddo e
bianco come lo yin, rosso ardente come il belletto e l'immaginazione sensuale che fiorisce nei ginecei.
Tra l'acqua e il verde, tra il bianco della neve e il rosso dei
fiori e dei mantelli, si svolge una avventura che impegna il
destino della civiltà cinese. La Cina aveva sempre concepito
il cosmo come un gioco di funzioni contrapposte: lo yin e lo
190
yang-. la femmina e il maschio, la luna e il sole, l'ombra e la
luce, il freddo e il caldo, l'inverno e l'estate, l'acqua e il fuoco, la terra e il cielo, il bianco e il rosso, il grave e l'acuto, la
passività e l'attività, il falso e il vero, il sogno e il reale. Lo yin
e lo yang si attiravano scambievolmente: ognuno anticipava
l'altro, e dal movimento incessante dei contrari nasceva l'armonia dell'universo. Cao Xueqin conserva in parte questa
antitesi tradizionale: vede, ad esempio, nello yin femminile
il trionfo del mobile e passivo principio acquatico, e l'incarnazione del principio lunare, freddo e malinconico, al quale
sono consacrati alcuni meravigliosi capitoli del romanzo. Ma,
in parte, egli altera quest'equilibrio. Tutta la luce deriva dal
cristallino mondo femminile, mentre quello maschile, che si
concentra nella attività e nei riti confuciani, non emana che
tenebra o una luce pallida e sinistra. I valori leggeri, acuti e
chiari dell'esistenza diventano yin, mentre il peso della terra, che era sempre appartenuto alla donna, viene attribuito
allo yang.
Invece che il polo necessario di una mobile contraddizione, il mondo maschile diventa così negativo: nient'altro che
fango, noia, luoghi comuni, sopracciglia irsute, pelosissime
barbe virili, come dice Baoyu. Sviluppando gli accenni del
Tao tè ching, Cao Xueqin costruisce l'utopia di una vita
esclusivamente yin-. le ragazze del gineceo, prima di essere
oscurate dalla corruzione della realtà e del matrimonio; i sogni e le illusioni delle camere rosse. «Una ragazza prima del
matrimonio» dice Baoyu «è una perla meravigliosa d'un valore inestimabile: una volta sposata, è ancora una perla, ma
privata del suo splendore più prezioso, una perla morta; e
quando invecchia non è più affatto una perla, ma è un occhio di pesce crepato.» Mai l'anima femminile della Cina,
chiusa nel Giardino utopico, era stata espressa con tanta delicatezza: in cielo, anche gli dèi hanno soltanto figure di donne. Se Cao Xueqin fosse stato un artista meno grande, questa metamorfosi avrebbe potuto condurre a un idillio:
mentre, per lui, è una tragedia tremenda. Egli ha compreso
che non è più possibile vivere nel principio maschile, ma solici
tanto nel femminile: non più nel sole ma nella luna, non più
nella realtà ma nel sogno. Tuttavia sa egualmente che la scelta dello yin contro lo yang distrugge l'armonia simbolica
della vita, spezzando il movimento ininterrotto dell'universo. Così la Cina, ferita nel proprio cuore, non può che tramontare - lentamente, molto lentamente - con tutti gli
splendori e le tenerezze di un tramonto dolcissimo: ma tramontare per sempre.
Le vicende terrene di Baoyu si aprono con un doppio
«prologo in cielo», che dà uno sfondo sovrannaturale ai minimi avvenimenti quotidiani e li accompagna con una assonanza simbolica. Ma sarebbe erroneo credere che il cielo sia
qualcosa di diverso dalla terra. Il cielo è soltanto una terra
più luminosa e lussuosa, dove i profumi sono mescolati alle
resine degli alberi perliferi delle foreste magiche, dove il tè è
infuso nella rugiada notturna dei fiori e delle foglie sovrannaturali, dove le toilettes conservano macchie di belletto, dove le dee dell'amore e della disillusione sono dei doppi più
incantevoli delle donne terrene.
Come in un mito buddista e gnostico, la storia di Baoyu è
la storia di una colpa originaria e di una caduta. La colpa resta oscura ai lettori e, forse, a Cao Xueqin. Nei primordi del
mondo, Baoyu è una pietra multicolore, che la dea Nugua
tralascia nel riparare la volta celeste, lesa dagli assalti delle
potenze demoniache. La caduta consiste nell'essersi voluto
incarnare tra noi, dove la gioia e il dolore, il bene e il male
oscurano la pura beatitudine sopra gli opposti. Così egli
giunge tra gli Jia, nella forma di una giada «cangiante come i
vapori luminosi del tramonto», tra le labbra di Baoyu neonato, di cui è insieme l'archetipo e il protettore. Malgrado la
colpa e la caduta, resta una creatura d'elezione. Tra i moltissimi personaggi del romanzo, solo di lui (e di Daiyu) conosciamo la preistoria celeste: solo lui è visitato, in sogno, dalle
visioni e dalle rivelazioni dell'aldilà; e tutti i personaggi resta192
no estasiati dalla grazia, dalla leggerezza quasi aerea, dalla luce radiosa della sua figura.
Tutto dedito allo yin, Baoyu detesta i valori dell'etica confuciana: la venerazione della realtà, il controllo del comportamento, l'utilizzazione pratica della letteratura, il rispetto
dell'autorità e della burocrazia, la vita ufficiale. Il testo che
egli legge più volentieri è il Chuang-tzu, con il suo rifiuto
della legge, della morale e della ragione; e a quel modello
sublime di leggerezza cerca di ispirare la propria leggerezza
giovanile. Quando ha un anno, rivela le proprie aspirazioni.
Appena il padre gli mette davanti degli oggetti, tende la mano per afferrare le scatole di belletto e di cipria, gli orecchini
e gli spilloni, con i quali si mette a giocare. Divenuto adolescente, la massima beatitudine, per lui, è respirare il profumo che viene dalle stanze del gineceo. Ama leccare il rosso
per le labbra: pettina volentieri le sue cameriere: si lava nelle
acque che hanno lavato i corpi delle ragazze; e possiede la
stessa competenza nell'arte delle ciprie e dei belletti come
in letteratura e in pittura. Ma non è un libertino. Il suo desiderio non mira al possesso sessuale: la sua lussuria tenera e
fantastica investe l'intero mondo femminile, il quale è tutto
imbevuto di profumo erotico, senza venire distinto in corpi
separati.
Nel Giardino, Baoyu conosce la completezza della natura
femminile. Ama due cugine, che insieme formano la donna
totale: Daiyu simboleggia la nascita e la morte delle piante e
Baochai il freddo splendore dell'oro: Daiyu è la nevrosi passionale e notturna e Baochai la dolcezza razionale e materna: la prima ama la poesia e l'irreale e la seconda accetta la
realtà; e così, all'infinito, in loro si contrappongono fragilità
e salute, desiderio di morte e desiderio di vita, amore doloroso e amore coniugale, orgoglio smisurato e coscienza di
sé. La stessa antitesi oppone le due cameriere predilette, Folata di Profumo e Nube Azzurra. Baoyu vorrebbe vivere nel
sogno yin del Giardino, circondato dalle ragazze, fermando
il tempo, allontanando l'odiosa maturità e la ripugnante vecchiaia, fino alla morte; e allora vorrebbe che tutte le ragazze
193
si trovassero riunite attorno a lui, «e dalle lacrime piante su
di me da tutti i vostri occhi, si formasse un grande fiume, e il
fiume portasse via, sulle onde, il mio cadavere e lo andasse a
deporre in un luogo segreto e solitario». Questa è, per lui,
l'unica vita felice, che gli ricorda il mondo celeste: sebbene
non sia possibile una felicità perfetta, perché ogni istante
trascorso nel Giardino è intriso dalla sensazione dolorosa
del transitorio. Senza confessarlo, sa che questa esistenza
non può durare. Egli verrà cacciato dal gineceo; e là fuori,
nella vita reale, sarà abbandonato dalla totalità femminile.
Con la sua coscienza esclusivamente yin, Baoyu è una figura lacerata; e quindi conosce sensazioni che sfuggono agli
spiriti totali ed armonici. Ama il gioco. Come un folletto capriccioso ed eccentrico, come un amabile narciso, gode tutti
i piaceri artificiosi del Giardino: legge testi poetici, fa esercizi
di calligrafìa, suona sulla cetra, dipinge, compone versi, ricama fenici, partecipa a danze sull'erba, si copre di fiori, declama, canta; e quando scorge i visi leggermente impolverati di
bianco e rosa dei giovani attori, le labbra che sembrano tinte
del più puro carminio, la freschezza vellutata da fiore di loto,
crede di intravedere l'assoluta grazia terrena. Detesta agire:
il suo supremo piacere è vagabondare oziosamente nel parco, perché così aderisce più morbidamente e passivamente
alle cose. Nessuno possiede la sua delicatezza di sensazioni:
la sua anima è una cassa di risonanza, dove tutte le emozioni
e le passioni destano un'eco. Vorrebbe vivere felice, al culmine della gioia, allontanando dalla mente l'idea del tramonto:
ma sempre di nuovo il pensiero che le cose passano, che i
fiori appassiscono, che le capigliature nere delle ragazze diverranno d'argento, che gli uomini muoiono torna a colpirlo; ed egli soffre e piange e condivide tutti i dolori degli altri,
con una partecipazione e una pietà così strazianti, che la sua
figura ha ricordato a qualcuno quella del principe Myskin,
nell' Idiota. Vive nel sogno e di sogni: il mondo di là gli invia
continuamente le proprie rivelazioni, tanto più luminose di
quelle che gli comunica la nostra terra.
L'esistenza armonica di Baoyu nel Giardino dura per qual194
che tempo: davanti al cielo terso e tranquillo, che illumina
gli alberi e i padiglioni «rallegrati di rosso», talvolta immaginiamo che nulla potrà dissolvere questo Eden. Ma non si
può protrarre l'adolescenza. Non si può vivere sempre di
giochi, di vagabondaggi, di tenerezza e di compassione. Sopraffatta dall'orrore sessuale, la madre vuole espellere il figlio dal Giardino, perché vede in esso un luogo di corruzione: caccia le cameriere; Nube Azzurra muore miseramente
di tisi. Le ragazze cominciano a sposarsi. Baoyu sosta a contemplare le verande e le finestre dei padiglioni abbandonati,
i paraventi e le tende delle camere di servizio, dove rimane
soltanto qualche vecchia cameriera - mentre, nei cortili, tutta la vegetazione delle piante verdi, curvata e schiacciata dal
vento, sembra rimpiangere l'assenza delle padrone. Poi tutto
precipita. La fioritura innaturale di un melo disseccato annuncia sventure: Baoyu perde la giada miracolosa, e diventa
un ebete automa. Daiyu vuole lasciarsi morire, e va a trovare
per l'ultima volta l'amato: i due non articolano una parola,
non abbozzano un gesto, stanno seduti l'uno di fronte all'altra, ridendo con un piccolo riso scemo; poi la ragazza ritorna
nel suo padiglione, abbandonata crudelmente da tutti, brucia le sue poesie, e muore nel momento in cui Baoyu sposa
Baochai mascherata con i suoi vestiti. Le due donne passionali e notturne hanno dunque lasciato la terra. Il grande sogno yin, bianco come la neve e rosso come le labbra delle ragazze, è stato distrutto dal tempo e dagli uomini. Nel
Giardino abbandonato soffia il vento gelido dell'inverno, infuriano i ladri e i fantasmi, un'atmosfera sinistra emana spiriti carichi di minaccia; e «belvederi alteri, alti edifìzi, ambulacri aerei, padiglioni di porfido con terrazze di agata»
vengono abbandonati agli uccelli e alle bestie.
Attraverso tutto il libro, un monaco buddista e un monaco
taoista discendono dal cielo in terra, mediando tra noi e il
cielo. Sembrano personaggi grotteschi, figure da farsa: ma
appena mettono il piede qui, scoppiando in risate di derisione, una folata di vuoto, un brivido di irrealtà e di vanità ci
riempie le ossa di gelo e ci invita a rompere i legami con la
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terra. Alla fine dell'adolescenza, anche Baoyu ascolta questo
brivido di gelo. Il suo amato Chuang-tzu gli ricorda che bisogna far rinascere in noi, sfuggendo al fango, alle passioni e
alle reti di questo luogo di polvere, «il cuore del neonato tutto nudo», «lo stadio del grande principio originale». Così un
giorno, subito dopo aver vinto gli odiosi concorsi confuciani, egli scompare. Tutti lo cercano invano: noi non sappiamo
nemmeno se si sia semplicemente ritirato dal mondo o sia
addirittura scivolato di là, nel regno del Grande Vuoto. Ora
non coltiva più il desiderio delle camere rosse e non soffre
più per i dolori degli altri: ma non è radicalmente mutato,
perché la passività irreale della sua vita nel Giardino era già
un anticipo della attuale passività mistica; si può giungere al
Tao anche attraverso lo spirito del gioco. Alla fine la giada
viene riportata all'origine, sul Picco delle Crete Verdi, dove la
dea Nugua aveva riparato la volta celeste; e, dopo tremila pagine di realtà e di illusione, il romanzo si chiude su sé stesso,
come una sfera.
Mentre percorriamo l'immenso romanzo, trascorrendo di
incanto in incanto, ci domandiamo secondo quale punto di
vista Cao Xueqin abbia scritto il suo libro e con quale occhio
guardi il suo mondo. Il primo sguardo di Cao è quello dei
monaci che dal cielo giungono sulla terra. Tutta la nostra vita
- la realtà e il sogno, amori, passioni, speranze, desideri - è
vana e illusoria: consistente come il gioco di nuvole che il
vento intreccia volubilmente nell'aria. Egli racconta la storia
di un tramonto: i petali delle rose che si sfogliano, una grande famiglia che decade, il Giardino che viene chiuso, la Cina
che finisce e dà un tenero e tragico addio a sé stessa. I personaggi muoiono con facilità estrema: l'esistenza è una cosa
tanto fragile, che abbandonarla e fare un passo nel regno del
Grande Vuoto è come passeggiare oziosamente, tra le nove
e le dieci, nel parco degli Jia. Ma Cao Xueqin ha anche lo
sguardo di Baoyu adolescente. Questa nostra vita vana è una
cosa incantevole: così bella e radiosa, che anche gli dèi la
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imitano nel loro spazio. Egli è innamorato delle superfici
dell'esistenza: le guarda e le raffigura, come se null'altro ci
fosse; testimonia i minimi avvenimenti, registra ogni ora e
ogni minuto, fìssa il perituro, racconta tutti gli usi e le mode
e le abitudini della Cina in una mirabile enciclopedia vivente.
Così, nel Sogno della camera rossa, respira il soffio degli
antichi testi taoisti, così lontano dal pensiero occidentale.
Nel medesimo istante Cao Xueqin conosce la profondissima
adesione alle cose e la profondissima distanza dalle cose: è
affascinato dalla realtà e resta sovranamente distaccato da essa. Con quale minuzia sono rappresentate le superfici: tutti i
passaggi delle azioni sono presenti, tutti i particolari oggettivi sono evocati; eppure questa rappresentazione è leggera
come una carta velina o quei petali appassiti di rosa che
Daiyu seppellisce nel giardino. Non c'è la violenza corposa,
con cui un romanziere occidentale si impossessa voracemente della realtà e ne dà un equivalente: non c'è scorcio o
sintesi o profondità, ma un eterno «primo piano», dedicato
sia ai personaggi maggiori che a quelli minori. Qualche volta,
abbiamo l'impressione che, se chiudessimo per un istante
gli occhi, l'immensa raffigurazione si dissolverebbe nel nulla
dal quale è uscita.
Il senso del libro sta forse in una frase dell'ultimo capitolo,
dove si dice che è stato scritto «affinché gli uomini apprendano che il meraviglioso non è meraviglioso, il banale non è
banale, il vero non è vero, il falso non è falso». Come il Tao,
Cao Xueqin insegue una forma suprema, che insinua il meraviglioso nel banale, il vero nel falso, l'irreale nel reale, il mistico nell'illusorio, il vuoto nel pieno, l'infinito nel finito; e
ogni opposto prende il luogo dell'altro, in un gioco di riflessi che non ha fine. Uno dei temi centrali del libro è quello
della specularità delle cose. Ogni tema si rispecchia, come
Baoyu che sogna il suo sosia, il Baoyu «reale»: sogna che ha
un parco come il suo, delle cameriere come le sue, un padiglione come il suo, una cugina malata come la sua; mentre il
sosia fa il suo stesso sogno, e racconta di esser penetrato nel
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padiglione del Baoyu «illusorio» e di averlo visto mentre stava sognando.
Forse nessun romanziere occidentale possiede l'oggettività di Cao Xueqin: l'occhio chiaro e comprensivo, che fonde severità e dolcezza nella precisione della giustizia; l'intelligenza che maschera l'implacabilità del fato con la dolcezza
soave dei modi. Non prende partito, non condanna: accetta
la realtà, perché un grande artista non può far altro; e non
commenta mai, non interviene con la sua voce, cerca di
scomparire come narratore, perché sa che il suo unico compito è quello di essere uno specchio pluricolore e simbolico
portato sulle case e sui giardini dell'universo. Con il suo passo lentissimo, minuzioso ed eguale, racconta le vicende degli Jia, dello yin e dello yang-, nulla, mai, di rapido e di drammatico; persino i molti eventi tragici si sciolgono nella
fluidità inalterabile del racconto: il tempo atmosferico è segnato con estrema precisione, soffriamo il freddo degli inverni e il caldo delle estati; eppure sembra che il tempo non
passi mai, che Baoyu non cresca e che la vita nel Giardino sia
inalterabile ed eterna, l'unica possibile in terra. Sebbene l'intreccio sia costruito con rara maestria, nell'immensa zona
centrale del libro non accade nulla: tutti gli avvenimenti della realtà sono tenuti lontani, la storia non lascia tracce; non
c'è altro che la pura, incontaminata esistenza, questi minimi
fatti sciolti in un compatto tessuto melodico, che ispira senza fine la delicatezza della mente di Cao. Così l'ambizione
della letteratura moderna dopo Cechov è stata realizzata in
questo libro, in questa cattedrale incompiuta, da un grande
artista che diceva di averlo scritto per gioco, «per ingannare
la noia delle sere piovose, seduto alla sua tavola davanti alla
finestra, sotto la lampada, in compagnia di due o tre amici,
dello stesso umore del suo, e come lui sazi di arak e di riso».
198
PARTE QUARTA
In
Islam
ALLAH, IL MISERICORDIOSO
Gli uomini sono come dei bambini, che assistono ad uno
spettacolo di marionette. La cortina misteriosa si apre: le
marionette di pezza si affacciano sulle tavole di legno: danzano, parlano, strillano, si levano in piedi e si siedono, recitando, per la gioia dei loro piccoli ascoltatori, la storia di Aladino o Ali Babà e i quaranta ladroni. I bambini seduti nella
stanza ammirano le figure di pezza, e credono che siano loro
a parlare e a danzare, a conoscere l'amore e l'odio, la gioia e
il dolore. Gli sguardi infantili sono ciechi. Nell'oscurità della
sera, non scorgono i fili sottili come capelli, che il burattinaio
tiene nelle sue mani sapienti. Tra di loro, siede soltanto qualche iniziato. I suoi occhi contemplano quei fili esili come ragnatele, che da una parte sono attaccati alle figure di pezza noi stessi, creature di carne e di sangue - e dall'altra si perdono in cielo. Lassù gli angeli tengono in mano i fili invisibili;
e guardano verso l'alto, in attesa degli ordini che il capriccioso e onnipossente Burattinaio vorrà impartire loro.
Un tempo, il mondo non esisteva: Allah era un «tesoro nascosto», celato nelle profondità del proprio mistero, sconosciuto perfino a sé stesso, avvolto dalla tenebra dell'indistinzione. Quando egli volle conoscersi, creò il mondo. Dio
emerse dalle regioni del mistero per brillare sugli orizzonti:
come l'idea rara, che ossessiona la mente di uno scrittore,
201
tenta in ogni modo di esprimersi attraverso il gioco delle parole. Ora, tutto ciò che noi vediamo è una immagine di lui.
La sterminata regione dei corpi, gli alberi, gli uomini, le luci,
le ombre sono sembianze del suo unico volto. Dio è il chiostro dove si rifugia il monaco cristiano, il tempio dove vengono venerati gli idoli, il prato dove brucano le gazzelle, la
Ka'ba dove si prostra il pellegrino, le Tavole dove è stata
scritta la legge mosaica, il Corano ispirato a Maometto. Noi
crediamo di agire sulla scena della terra: mentre egli è l'unico attore, l'anima segreta dei burattini che parlano e si muovono sulle tavole di legno. Noi crediamo di vedere, parlare e
ascoltare: mentre egli è l'occhio che vede e la cosa veduta,
l'orecchio che ascolta e la parola pronunciata.
Allah non si è incarnato come il Dio cristiano. Egli è soltanto «entrato» nelle forme create, come un'immagine
«entra» e si riflette dentro uno specchio. Chi contempla le
cose, non conosce la luce divina: la scorge deformata e trasformata, come la luce che penetra in un filtro di vetro colorato viene tinta dal giallo o dal rosso. Il nostro m o n d o è
l'ombra rispetto alla persona, la figura specchiata rispetto
all'immagine, il frutto rispetto all'albero. Il cielo è soltanto
un punto uscito dalla penna della perfezione di Dio: la terra
è un bottone del giardino della sua bellezza, il sole una piccola luce emanata dalla sua saggezza, la volta celeste una
bolla del mare della sua onnipotenza. Così il credente, che
si slancia verso le forme create per conoscere Dio, incontra
la delusione più atroce: giacché il mondo è un velo che ci
nasconde il suo volto. Non sappiamo se ce lo nasconda perché il velo è troppo spesso: o perché la manifestazione di
Dio è così intensa, la rivelazione così luminosa da accecare il
nostro occhio, simile all'occhio dei pipistrelli, che di giorno
non vedono a causa della debolezza della loro vista. Sebbene Dio si manifesti in tutte le cose, egli è nascosto ed assente, e noi sogniamo invano la sua piena rivelazione. Sebbene
tutti gli esseri siano segnati dalla sua impronta, non possiamo scorgere nessuna traccia che ci conduca fino a lui. Egli
abita infinitamente lontano.
202
Nessuno lo conosce, neanche la volta celeste. Come potrebbe sapere ciò che sta dietro il velo, lei che da milioni di
anni gira impotente davanti alla sua soglia? Se non lo conosce il cielo, tanto meno possiamo conoscerlo noi. I nostri
sensi non lo scorgono: l'intelligenza non lo definisce né lo
paragona; i sostantivi e gli aggettivi delle lingue umane non
riescono ad esprimere l'ombra più remota della sua natura.
La ragione resta interdetta nel suo amore appassionato per
lui: lo spirito sconcertato, l'anima desolata, il cuore insanguinato dal proprio sangue. L'unica conoscenza che possiamo
avere di Dio è la coscienza di non poterlo conoscere. «Non
sai» egli disse una volta «che l'incapacità di comprendere è
comprensione? Quindi ti basti avere dalla nostra Presenza la
fortuna di sapere che sei escluso da lei, incapace di guardare
la nostra Maestà e la nostra Bellezza.» Chi desidera conoscere Dio, deve rinunciare a lui, ed espatriare senza pensieri e
senza parole, nell'ombra lontana e luttuosa del tramonto.
Questa rinuncia è la nostra salvezza. Appena rinunciamo ad
esprimerci, Dio si impadronisce delle nostre parole, le cancella, cancella noi stessi, e fa sorgere sul vuoto malinconico
del nostro tramonto la luce brillante del proprio Oriente.
Quando qualcuno considera il comportamento di Allah
con le misure umane, lo trova imprevedibile e assurdo. Nella
notte nera come il corvo, egli invia un bambino con una lampada: poi suscita un vento rapido e gli dice: «Alzati e va' a
spegnere quella lampada»; infine chiama il bambino sulla
strada e gli domanda perché mai l'abbia spenta. Oppure getta nel mare un uomo con le mani legate dietro la schiena, e
gli grida: «Fai attenzione! Attento che l'acqua non ti bagni».
Ci impone delle regole di comportamento, e ignora le regole che ci ha imposto. Non ha alcun obbligo verso di noi:
nemmeno di giustizia. Se ci dona la sua grazia e il suo beneficio, non lo fa per dovere: se ci ricompensa per le nostre
azioni, non lo fa perché si senta legato da un obbligo, ma soltanto perché ama essere generoso. Talvolta prodiga a un uo203
mo cento carezze e abbatte un altro con cento colpi di frusta, senza che il primo abbia compiuto un solo atto devoto, e
il secondo abbia peccato. Talvolta fa soffrire, tormenta, distrugge un innocente soltanto per dimostrarci che egli è
l'unico Signore del proprio regno.
Se lo conoscessimo veramente, avremmo paura di lui e
non dei nostri peccati. Un giorno disse a Davide: «Abbi timore di me come hai timore del feroce leone». Allah è simile al
leone per la violenza, lo slancio, la forza, il terrore che incute, e perché agisce come agisce e non se ne preoccupa.
Quando ci uccide, il suo cuore non soffre per la nostra morte: se ci risparmia, non lo fa per pietà verso di noi; siamo
troppo spregevoli per meritare un suo pensiero. Chi vive
contro di lui, conosce il fuoco dei carboni ardenti sul petto
martoriato. Chi vive insieme a lui, è esposto a sventure numerose come i grani di sabbia del deserto, le gocce nel turbine della pioggia, le foglie sui rami. Non finisce di sorprenderci. Dopo averci assalito con la forza del leone, ci inganna con
l'astuzia del serpe. Quando Satana venne condannato, Gabriele e Michele piansero. Dio disse loro: «Perché piangete?».
Gli arcangeli risposero: «Signore, noi temiamo i tuoi tranelli». E Dio disse: «Avete ragione. Non consideratevi mai al sicuro dai miei inganni».
Come il Dio della Bibbia, Allah è geloso. Se scorge il cipresso levarsi verso il cielo, fiero della sua grazia, lo abbatte
al suolo. Appena il sole raggiunge lo zenit, lo precipita nella
bassura del tramonto; e se il disco lunare risplende nella sua
pienezza, gli impone di decrescere. Egli non sopporta che
dedichiamo ad altri - padri e figli, mogli e mariti - una parte
del nostro amore. Quando Giacobbe e Giuseppe si ritrovarono, il padre disse al figlio: «Luce dei miei occhi, tu che facesti scendere tante lacrime sul mio viso, tu che mi precipitasti nella casa del dolore, tu che accendesti un braciere
nella mia anima, hai vissuto a lungo senza occuparti di me,
come se non mi avessi mai conosciuto. Perché non mi hai
scritto una sola lettera? Come hai potuto lasciarmi nel dolore, senza notizie?». Giuseppe si rivolse al suo servitore: «Va' a
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prendere le lettere» gli disse. L'uomo obbedì e portò migliaia
di fogli, in testa ai quali stava scritto: «In nome del Signore»:
il resto era bianco come la neve. Giuseppe disse al padre:
«Le lettere che tu vedi erano indirizzate a te. Ma ogni volta
che ne finivo una, un vento celeste cancellava le parole che
avevo scritto tranne il nome del Signore. La carta riprendeva
il suo colore di latte, la scrittura scompariva senza lasciar
traccia. Un giorno mi apparve Gabriele: "Non scrivere più
una parola a quel vecchio" mi disse. "Se lo farai, la scrittura
nera come la pece scomparirà, e il foglio riprenderà il suo
candore"».
Eppure questo Dio lontano, questo Dio nascosto, questo
Dio inconoscibile, questo Dio assurdo, questo Dio della forza e del terrore, - sta accanto a noi e ci ama. Lo crediamo
perduto nella distanza dei cieli, difeso da settantamila cortine di luce e di tenebra; ed egli ci è più vicino della vena del
nostro collo, del nostro respiro, della nostra immagine riflessa allo specchio, o dell'amata accanto alla quale dormiamo.
Conosce una strada segreta per giungere nel cuore di ognuno. La sua misericordia è simile a un mare senza confini. Se
in questo mare lavassimo le lordure di tutti i peccatori, l'acqua rimarrebbe limpida come l'acqua di fonte; e se ne dessimo un bicchiere a ciascuna delle creature terrene, il suo livello non diminuirebbe di un millimetro. Egli disse: «Se voi
venite verso di me camminando, io verrò correndo verso di
voi». Si fa conoscere dai propri fedeli, li spinge a obbedirgli e
depone nei loro cuori i germi dell'amore per lui, senza che
essi ne abbiano merito. Appena ci proponiamo una buona
azione, l'angelo la segna sulle sue pergamene prima che l'abbiamo compiuta; e se la compiamo, ne segna dieci. Poi Dio
la moltiplica settecento volte, facendola iscrivere nel grande
libro del Destino.
Allah accoglie nel suo paradiso anche i peccatori, come se
l'avessero sempre amato e venerato. Un uomo andava sulla
strada che conduce all'inferno. Gli angeli guardiani, che du205
rante la vita usavano camminare non visti davanti e dietro di
lui, ora erano visibili come poliziotti e gridavano: «Vai, o cane, nel tuo canile». L'uomo guardava indietro, verso la sacra
presenza di Dio; e le sue lacrime cadevano come pioggia
d'autunno. Aveva in cuore solo una pura speranza. Dio gli
disse: «O uomo senza meriti, non hai visto la nera pergamena dei tuoi peccati? Cosa ti aspetti? Perché indugi?». Lui rispose: «Signore, tu sai che io sono migliaia di volte peggiore
di quello che hai detto: ma dietro i miei sforzi e le mie azioni, dietro la bontà e il male, la fede e l'infedeltà, dietro il vivere giustamente o l'agire disubbidendo, - io avevo una grande speranza nel tuo amore. Mi volgevo verso la tua pura
grazia, e non guardavo alle mie opere». Allora Dio disse agli
angeli: «Portatelo indietro, perché non ha mai perduto la
speranza in me. Cancellerò le sue colpe. Lo accenderò come
un rogo, e consumerò il suo peccato, la necessità e il libero
arbitrio». La medesima dolcezza e benevolenza, Allah la esercita verso gli infedeli. Quando un adoratore del fuoco sparse
del miglio sulla pianura coperta di neve, perché gli uccelli se
ne nutrissero, Dio gradi il suo gesto e gli fece dono della fede. Così quei grani di miglio sparsi nella neve germogliarono
nel suo cuore.
Se qualcuno si chiede perché la misericordia di Allah ci
consenta di peccare, Egli ci risponde con questa parabola.
«Un asceta girava intorno alla Ka'ba, in una notte piovigginosa e senza luna, dove ogni traccia di Dio sembrava scomparsa dal mondo. Presso la porta del santuario si fermò e disse:
"Mio Signore, preservami dal peccato, affinché io non mi ribelli mai al tuo desiderio". Una voce che proveniva dal cuore
della Ka'ba gli sussurrò: "O Ibràhim, mi chiedi di preservarti
dal peccato, e tutti i miei servi mi chiedono questo. Ma se io
ti preservassi dal peccato, voi sareste privati della mia misericordia. Se tutti gli uomini fossero innocenti, a chi accorderei
la mia grazia?"».
206
LA BIBBIA VISTA DALL'ISLAM
Abu Ga'far Muhammad at-Tabari nacque attorno all'839
nella Persia settentrionale; e la sua sterminata opera di storico e di teologo sarebbe dimenticata, o conosciuta appena
dagli specialisti, se un sogno non avesse folgorato la sua
mente. Non voleva raccontare soltanto la storia dei suoi tempi, o di un'epoca limitata, ma tutta la storia del mondo, cominciando dalla creazione fino alle guerre che ai suoi tempi
insanguinavano il mondo arabo. E non voleva narrare nemmeno una versione di ogni fatto, ma tutte le versioni che gli
uomini raccontano di ogni evento, così che il suo libro diventasse quell'intreccio di realtà e di eventualità, di possibilità e di impossibilità, o di possibilità opposte, che forma
l'universo. Così passò la giovinezza viaggiando: in Egitto e
nella Siria, nella Persia e in Iraq, per raccogliere le tradizioni
arabe, iraniche, ebraiche, cristiane, sia quelle consegnate
nella Bibbia, nel Corano e nel Libro dei Re, sia quelle che
avevano una vita più locale ed effimera. Poi si fermò a Baghdad, dove aprì una scuola, scrisse un commento al Corano,
e cominciò a comporre le Notizie dei Profeti e dei Re.
La sua ispirazione gli veniva da Maometto: ma in un modo
così paradossale, da meravigliare una coscienza cristiana,
che ha alle spalle una catena certa di tradizioni. Quando il
Profeta era alla Mecca, venne da lui un gruppo di ebrei, e gli
pose ventotto questioni tratte dal Pentateuco. Maometto
non conosceva le risposte, ma disse agli ebrei: «Risponderò
alle vostre questioni». Sperava che l'angelo Gabriele venisse
a istruirlo. Ma Gabriele non venne: dieci giorni passarono, e
Maometto era addolorato e sconvolto, mentre gli ebrei e gli
abitanti della Mecca sostenevano che Maometto non sapeva
nulla, e che il Corano era il penoso delirio di un insensato.
Alla fine del quindicesimo giorno, dopo averlo fatto soffrire
e dubitare di sé, Gabriele discese dal cielo e portò le risposte
alle ventotto domande. Maometto non possedeva dunque
un tesoro di ispirazioni, come Gesù e Paolo: una scienza
compatta e continua, da rivelare agli esseri umani; era mise207
ro, perplesso e ignorante come ognuno di noi. La sapienza
stava nell'alto, nella mente adamantina di Allah: come un sapere remoto ed inattingibile. Maometto era soltanto una voce: puntuale e discontinua. Ogni volta che chiedeva soccorso, ogni volta che gli angeli gli rivelavano la sapienza di Allah,
comunicava agli uomini la creazione di Adamo o l'ultimo
giorno.
Sotto le ispirazioni di questa voce intermittente, Tabari
scrisse le Notizie dei Profeti e dei Re. «Riferirò in quest'opera
la creazione dell'universo, quale fu la prima cosa che Dio
creò in questo mondo e quale fu la prima creatura. Riferirò
tutto quello che è accaduto da Adamo fino al tempo attuale:
farò conoscere questi avvenimenti profeta per profeta, popolo per popolo, re per re»; come se la storia fosse un rotolo
di pergamena, che si svolge lentamente davanti ai nostri occhi. Così Tabari raccontò la storia di Israele: quella dei sovrani iranici e di Gesù: quella dell'impero sasanide e delle tribù
arabe preislamiche; la vita di Maometto, dei quattro primi califfi, degli Omayyadi e degli Abbasidi. Quando giunse al 915,
aveva scritto centoventi volumi. Aveva quasi ottant'anni, e
poteva morire.
Quest'opera gigantesca si è perduta. Qualcuno ne compose una silloge in dodici volumi, tralasciando molti dei fatti e
delle versioni, che Tabari aveva accolto nel suo delirio di
completezza. Quarantanni dopo la morte di Tabari, il sovrano del Khuràsàn e della Transoxiana ordinò al suo vizir,
Bal'amì, di tradurre in persiano le Notizie. Bal'amì non si accontentò di tradurre: ricorse ad altre fonti, specie per i tempi più antichi; adottò una sola versione per ogni fatto, tagliò,
scorciò, fuse, talvolta polemizzò con il suo grande maestro.
Di questa traduzione, la parte iniziale, quella che racconta la
Bibbia, è probabilmente la più bella.
Spero che molti lettori leggano appassionatamente questo libro: venerabile come un testo sacro e incantevole come
le Mille e una notte. Nessuno meglio che Tabari, devoto
mussulmano sunnita, può rivelarci come le due civiltà religiose, che oggi si combattono miseramente, siano sorte
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l'una sull'altra, awiticchiate come due alberi che uniscono le
loro radici. L'Islam adottò con amore le grandi figure dell'Antico Testamento: Adamo, Abramo, Giuseppe, Mosè, Salomone: se ne impadronì, le ritoccò, le trasformò; e ora abbiamo
la sensazione che gli uomini abbiano ascoltato due volte la
stessa musica - sempre la stessa musica, ma la seconda volta
orchestrata così diversamente, da incantarci con il suo splendore e colore di suoni.
La prima impressione che ci lascia il mondo islamico è di essere molto più vasto di quello ebraico-cristiano. Nella Genesi,
Dio tentò una creazione sola. Invece di concentrarsi sulla terra
deserta e vuota e sulle tenebre e la superficie delle acque,
avrebbe potuto ripetere il suo gioco creatore su altre stelle; e
anche là produrre germogli, erba verde, alberi da frutto, e
quel brulichio di serpenti acquatici e di volatili e di animali domestici e di rettili che gli diede tanta gioia: o una moltitudine
di creature mai viste; e infine creare su altre terre un Adamo
diverso dal nostro. Non ne fece nulla: perché Adamo doveva
condurre ad Abramo e a Israele, meta della creazione.
Se nel mondo islamico, racconta Tabari, lasciamo durante
la vita i confini di questa terra, dobbiamo camminare per
quattro mesi nella tenebra; e quando le nostre forze sono
spossate e nessuna speranza di salvezza ci consola, incontriamo la montagna di Qàf. Essa circonda tutta la terra, come
un anello circonda il dito di una mano femminile: è la madre
e la radice e il fondamento di tutte le montagne; e se non
esistesse, la terra tremerebbe di continuo, perché avrebbe
perduto la sua base, e le creature non potrebbero vivere. Come nella Gerusalemme celeste dell'Apocalisse, su Qàf non
c'è sole né luna né stelle - perché sole, luna e stelle appartengono a una creazione meno pura. Ma non c'è nemmeno
tenebra: lo smeraldo e il blu di cui la montagna è composta
emanano una luce azzurro-smeraldina così intensa da illuminare tutte le pietre, le gole e gli abissi; e da rendere splendido perfino il nostro cielo.
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Ai piedi della montagna di Qàf, si estendono due immense
città di smeraldo, Jàbalqà e Jàbarsà. Dobbiamo ricordare ancora una volta la Gerusalemme celeste: le misure sono le stesse: un quadrato di dodicimila parasanghe di lato - segno della
totalità e della perfezione. La popolazione è incalcolabile.
«Ogni città ha mille fortezze, e in ognuna di queste fortezze
c'è una guarnigione di mille soldati che vi fanno la guardia
ogni notte. L'uomo che vi fa la guardia non ripete il suo turno
che l'anno dopo.» Nemmeno qui c'è sole e luna: il tenero azzurro smeraldo di Qàf illumina ogni torrione, ogni merlo della fortezza: ogni soldato che veglia la notte; e dal suolo proviene un'altra luce, perché anche le mura e i minerali e perfino la
polvere emanano un brillante splendore smeraldino.
Qui Allah ha progettato una storia diversa da quella umana: perché gli abitanti di Jàbalqà e di Jàbarsà non discendono
da Adamo, e non hanno mai sentito parlare di lui e di Satana.
Non sappiamo quando e come sia avvenuta questa creazione. Sappiamo soltanto che, a differenza della nostra, la razza
di Jàbalqà e di Jàbarsà vive in una condizione edenica. Noi,
Adamiti, ci nutriamo di carne, indossiamo vestiti che coprono le nostre nudità un tempo innocenti, conosciamo i sessi,
e siamo dunque sottoposti alla corruzione e alla generazione. Lassù, gli abitanti delle due perfette città quadrate si nutrono di erbe, non portano vestiti, non hanno sessi diversi,
non generano figli. Convertiti da Maometto all'islamismo
nella notte del suo viaggio celeste, hanno verso Allah la perfetta obbedienza degli angeli.
Il mondo islamico è anche più esteso nel tempo. La nascita di Adamo, che nell'Antico Testamento chiude i sei giorni
della creazione, in Tabari-Bal'ami è preceduta dalla creazione degli angeli, dalla loro ribellione, dalla sovranità di Satana
e dalla sua ribellione, che occupano migliaia di anni agli inizi
del tempo. Poi nasce Adamo. Ma ancora una volta la tradizione islamica trasforma quella ebraica. Nella Genesi, la creazione di Adamo è un atto superbamente solitario di Dio: nel
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mondo appena nato, che conosce da poco la luce del sole e
della luna, e dove non si ascolta nessuna voce angelica, Dio
forma l'uomo dalla polvere della terra, a «sua immagine e somiglianza»; e non c'è nient'altro che quel gesto artigiano,
quel fronte a fronte tra Dio e l'uomo, quegli occhi creatori
puntati sulla creatura unica. Il mondo islamico delle origini è
invece popolatissimo: una grande scena di teatro, un coro
sonoro e colorato, dove prendono la parola, uno dopo l'altro, Allah, gli angeli, Satana, la terra, Adamo.
Da principio, non è un coro obbediente. Allah, che sembra un sovrano molto più assoluto di Dio, incontra delle resistenze alla sua opera, che a prima vista ci sembrano inconcepibili. Quando rivela il suo piano agli angeli, essi rispondono: «Vuoi mettere sulla terra chi vi porterà la corruzione
e spargerà il sangue, mentre noi cantiamo le tue lodi ed
esaltiamo la tua santità?». Quando Gabriele lo comunica alla
terra, essa risponde: «Che accadrebbe se Allah con la mia
materia desse forma a creature, e in seguito queste creature
portassero su di me il male e facessero scorrere ingiustamente il sangue?». Così sia Gabriele sia Michele abbandonano l'opera; e solo l'angelo della morte, che non bada alle
proteste della terra, scende alla Mecca, dove poi sarebbe
stata posata la Ka'ba, e raccoglie argilla di ogni specie: nera,
bianca, rossa, gialla, azzurra, offrendola a Dio. La sorte di
Adamo è già segnata. Non è ancora stato formato, né la sua
mano ha accolto incautamente il frutto dell'albero della vita,
entrando nel regno della morte, e già l'angelo della morte
fissa il suo destino di creatura limitata.
Nella Bibbia, la creazione di Adamo sembra istantanea:
Dio prende la polvere dalla terra, vi soffia l'alito di vita; e
l'uomo è subito un essere vivente, che passeggia nel giardino dell'Eden. In Tabari-Bal'ami, tutto avviene molto lentamente. Con l'argilla colorata fornitagli dall'angelo della morte, Dio forma Adamo e l'abbandona. Nessuno, né angeli né
demoni, aveva mai visto una figura così gigantesca. Per quarantanni, il suo corpo immenso e vuoto giace disteso sul
suolo: l'argilla diventa secca come un ramo di palma abban211
donata nel deserto, e dà un suono cupo; l'angelo del male
entra nella bocca del corpo vuoto e l'esplora. Alla fine Dio
ordina all'anima di entrare nelle membra distese. L'anima si
insinua nella gola e, dovunque arriva, l'argilla, la polvere, il
fango diventano ossa, nervi, vene, carne, pelle: quando arriva al capo, Adamo starnutisce e dice: «Lode a Dio!». Poi Dio
gli insegna una scienza segreta, che non aveva insegnato agli
angeli. Apprende al gigante d'argilla il nome dei demoni e
delle fate che si trovano sulla terra, dei quadrupedi che stanno nel mare e fuori del mare, degli animali che pascolano,
che brucano, camminano, volano: il nome delle cose secche
e delle cose umide, delle cose leggere e delle cose pesanti;
dell'inverno, dell'estate, del cielo, della terra, della montagna, della pianura e del deserto. Forse gli insegna anche (ma
né Tabari né Bal'ami ci hanno lasciato nessuna notizia) il nome delle altre creature quasi angeliche, che in quel momento vivevano già nelle grandi città quadrangolari, illuminate
dalla luce celeste della montagna di Qàf.
Quando l'angelo del male tenta Adamo e Eva, essi mangiano il frutto dell'albero della vita e dell'eternità. In quel momento, dice Tabari, «la loro pelle si staccò dal corpo, e la carne rimase allo scoperto, come ora la nostra. La pelle che
Adamo aveva in paradiso era simile alle nostre unghie: quando si staccò, rimase soltanto sulle punte delle dita quel poco
che noi abbiamo. Così ogni volta che Adamo e Eva guardavano le unghie delle loro dita, ricordavano il paradiso e tutte le
sue delizie». Adamo viene gettato nell'Hindustan: Eva presso
la Mecca; il serpente a Isfahan. Adamo comprende la propria
colpa: capisce di aver peccato contro Allah; si getta in adorazione, con il viso contro la terra, e piange. Le lacrime scendono dagli occhi come ruscelli, calano a valle e fanno crescere tutti gli alberi e gli arbusti medicinali, che al tempo di
Tabari i mercanti indiani andavano a cogliere sulle pendici
dei monti indiani. Nella Genesi, la tragedia rimane miracolosamente inespressa: appena un gesto rivela la colpa: nessuna lacrima viene versata; il volto di Adamo e di Eva rimane
asciutto come in una scultura romanica.
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Cento anni più tardi, Allah - il Benigno, il Misericordioso perdona Adamo; e questa volta le lacrime di gioia, toccando
terra, generano il narciso, l'amaranto e tutti i fiori della pianura. Poi comincia la sua vita di lavoro e di pena. Nella Genesi, gettato e abbandonato sulla terra, Adamo trae ogni risorsa
da sé stesso: «col sudore della fronte» lavora i campi pieni di
spini e di triboli, cerca l'erba dei campi, semina il grano, prepara il pane, fino «al suo ritorno alla terra». Nella leggenda
islamica, Adamo non è mai solo: le mani soccorrevoli di Allah gli inviano gli angeli, per aiutarlo e educarlo. Gabriele
scende dal cielo: insegna ad Adamo a trarre il ferro dalla pietra, a costruire gli attrezzi agricoli, a seminare, a trasformare
il grano in farina, a costruire un forno di ferro e a fare il pane. Infine - ultimo dono - gli porta dal cielo il bue da lavoro.
Malgrado questo fìtto battere di ali angeliche, la conclusione è tragica, come nella tradizione ebraica. Sulle porte
dell'Eden, Dio dispone i cherubini; e la «fiamma della spada
guizzante» terrà per sempre lontani gli uomini dall'albero della vita, fino a quando altri angeli annunceranno la Gerusalemme celeste e nuovi alberi della vita. Allah non ha bisogno della
spada guizzante dei cherubini. Fino ad allora, Adamo sfiorava
con la testa il primo cielo, e discorreva cogli angeli. Dio manda Gabriele, che muove lievemente l'ala sul capo di Adamo, e
riduce la sua statura a novanta metri. Adamo piange, perché
non può più ascoltare la voce degli angeli. Gabriele gli parla:
«Dio ti saluta e ti dice: "Ho fatto di questo mondo una prigione per te; e ho diminuito la tua statura affinché tu vivessi in un
carcere"». Quali siano le differenti tradizioni culturali, l'eredità ebraico-cristiano-islamica è unanime. Questa terra è un
carcere; e se vogliamo conoscere altre voci e visioni, dobbiamo ascoltare la musica celeste o contemplare le luminose rivelazioni ultraterrene, che di tempo in tempo vengono a interrompere la fitta tenebra della nostra prigione.
Il Dio della Bibbia è un superbo e autoritario Dio della
creazione. Come ama quell'opera di sei giorni, che gli è riu213
scita così buona, bella e perfetta, dalla luce alla notte, dalla
terra alle acque, dalle erbe agli alberi, fino all'immensa varietà e fecondità degli esseri viventi! Allah ha creato la terra
con una fantasia non minore: vi ha profuso tutto il suo talento di colorista; eppure prova verso la sua fattura una specie
di altera indifferenza. «Se io non avessi creato le creature» dice «non ne avrei alcun danno: ora che le ho create, se non
fanno quello che ho prescritto loro, e se non eseguono i
miei ordini, non me ne viene alcun detrimento e, se obbediscono ai miei ordini, non me ne viene alcuna utilità.» Il mondo è stato fatto per l'uomo: è il suo «tappeto», il suo «letto»,
la sua «culla», e se la pioggia scende e se la faccia della luna è
abbrunata e se le erbe e gli alberi crescono, tutto questo non
mira che all'utilità e alla gioia dell'uomo. Allah è prossimo a
ciascuno di noi: affettuoso, amoroso, infinitamente paziente
verso le nostre follie e i nostri peccati: spesso è «intimo», come mai Mosè avrebbe osato immaginare il suo Dio; e che
importa se non lo scorgiamo, quando una moltitudine di angeli, alti e splendenti, dalle grandi ali colorate, discende fra
noi, portando la quiete, la bellezza, la leggerezza di cui abbiamo bisogno?
Se leggiamo la Genesi, l'Esodo e poi Tabari, abbiamo l'impressione di un completo cambiamento di tono. Nessun testo ci rende, come la Bibbia, il tremendo del sacro: il furore,
la terribilità ed enigmaticità del sacro. Qui, tutto è più familiare. Certo, le Notizie dei Profeti e dei Re contengono anche
una storia sacra, che si tiene stretta ai passi del Corano : ma è
come diffusa in una immaginazione fantastica, che ha i colori della favola e della leggenda. La favola ha una dignità altissima, perché appartiene al Regno di Salomone, che nel
mondo islamico ha un rilievo non meno grande del Regno di
Abramo. Tutti gli aspetti della favola sono presenti: il miracoloso, che viene moltiplicato (le dodici strade tra le acque del
Mar Rosso): la piccola storia realistica (il coltellino e il limone di Zulaykhà e delle sue amiche), il comico eccentrico, il
grottesco portato all'assurdo (Nimrod che assalta il cielo), fino a tocchi di lievissima grazia araba, come le unghie di
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Adamo e di Eva. La possente brevità, gli scorci barbarici della
Bibbia si attenuano. Tutti i particolari, sia i minimi che i massimi, sono posti in primo piano, come se avessero la stessa
dignità prospettica. Non c'è tensione drammatica: non c'è
né alto né basso, non c'è cambiamento di toni o di voce.
Qualsiasi cosa accada, ascoltiamo la continuità fluviale della
narrazione, che scioglie e annulla ogni differenza di materia,
che sopraffà qualsiasi ostacolo, e innalza sopra tutti i contenuti la voce pura, la voce ininterrotta, la voce indifferente del
racconto.
Le pagine di Tabari odorano, come la Bibbia, di deserti e
di grandi pascoli, di greggi, cavalli, e cammelli: di carovane
incessanti, di soste lungo i pozzi, e falò che di colpo infiammano la notte. Qui, i Patriarchi della Genesi e dell 'Esodo, legati a Dio da un patto e da un'alleanza, guidavano gli ebrei
verso la Terra Promessa. In Tabari, il tema dell'aspirazione e
della tragedia di Canaan è quasi scomparso. Sebbene i profeti continuino a incarnare l'appello di Allah, che da Adamo
conduce sino alla rivelazione di Maometto, essi posseggono
un dono più misterioso: quello di una sapienza segreta o di
una magia superiore, concessa da Allah ai suoi figli prediletti.
Né Tabari né Bal'ami lasciano intravedere ispirazioni esoteriche o mistiche. Ma Adamo possiede la scienza dei nomi:
Giuseppe è l'interprete e il signore dei sogni: Mosè ha il dono divino della magia e risuscita i morti; e una figura misteriosa, al-Hidr, possiede delle conoscenze esoteriche, che
sfuggono persino ai Patriarchi.
Questo tema della sapienza segreta culmina nella figura di
Salomone, cuore delle Notizie dei Profeti e dei Re. Salomone ha il dominio supremo dell'universo, che gli è garantito
dal possesso di un anello, sul quale sta inciso il nome occulto di Allah. Quale regno del mondo potrebbe resistergli? Allah gli ha spalancato il regno della natura: i venti obbediscono al suo comando, e gli portano alle orecchie tutte le
parole pronunciate sulla terra, a bassa o ad alta voce, dalle fate e dagli uomini, dai demoni, dagli uccelli e dai pesci. Conosce il linguaggio segreto degli uccelli, e comunica per mezzo
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di loro. Ma forse la concessione più sottile (e pericolosa) è
un'altra. Salomone sa che i demoni hanno poteri soprannaturali, ignorati dagli uomini: essi trovano i tesori e le perle in
fondo al mare, fabbricano automi, costruiscono templi e
città. Grazie ad Allah, egli acquista un dominio quasi assoluto su di essi: fa edificare loro il tempio di Gerusalemme; e
abbiamo l'impressione che la sovranità del mondo sia perfetta soltanto quando il celeste e il terrestre, il sacro e il demoniaco, l'aereo e l'abissale obbediscono docilmente al medesimo cenno.
Con questo sovrano delle fate e dei venti, lasciamo il suolo fermo dove vivono e soffrono gli uomini e penetriamo nel
regno della féerie, che nessun ostacolo limita. Non c'è più la
Genesi, l'Esodo o I Re, con quelle guerre sanguinose, con
quelle adorazioni empie, e le lunghe soste nel deserto. Non
c'è che ricchezza, splendore e meraviglia. Tabari racconta
che Salomone aveva un tappeto lungo cinquecento parasanghe. Quando il tappeto era disteso, vi faceva disporre trecento troni d'oro e d'argento: la sua corte e il suo esercito,
con i cammelli e le trombe. Poi ordinava agli uccelli di congiungere le ali, così da riparare dal sole lui, la corte e l'esercito; e comandava al vento di sollevare il tappeto con tutti gli
uomini e i tesori, fino all'altezza di un miglio. Il tappeto nascondeva il sole e, giù in terra, gli uomini scorgevano soltanto il sovrano dei venti. Così Salomone percorreva il mondo,
dominando la vastità intera dell'universo, i cieli, le terre e gli
abissi, mentre tutte le parole e i suoni echeggiavano al suo
orecchio sapiente.
Questo m o n d o religioso non rivela incrinature. Anche
Tabari parla di Giobbe e dei suoi dolori di giusto. Ma tutto
quello che rende per noi così indimenticabile la sua storia il dubbio su Dio, sulla giustizia di Dio e sull'harmonia mundi - non lascia nelle sue pagine la minima traccia. Almeno in
lui, il volto di Allah non tollera ombre. Certo, c'è Satana, che
tenta l'uomo e induce i potenti della terra a rivaleggiare con
Allah. Ma, fra poco, la speculazione mistica salverà dall'ob216
brobrio anche il principe del male; e lo renderà il più perfetto e il più disperato dei «monoteisti».
Di questo grande arazzo, credo che molti lettori ameranno soprattutto una frase: «La prima cosa che Allah creò fu il
calamo, e tutto quello che volle creare, disse al calamo di
scriverlo. Poi, quando si fu messo a scrivere, Allah creò il cielo, la terra, il sole, la luna e gli astri, e allora la sfera terrestre
cominciò a girare». Dunque, tutto esiste per essere raccontato: la creazione non è necessaria, ma è necessario il movimento della penna che trascrive le cose accadute. La penna
non si arresta mai; e mentre Abramo diventa Mosè, e Mose
Gesù, e Gesù Maometto, e Maometto gli ultimi Sasanidi e i
califfi Omayyadi e Abbasidi, la penna di Allah, quella penna
che il devoto Tabari sapeva di essere diventato, racconta la
storia degli uomini. Finché un giorno, non sappiamo quando, verrà il giudizio e la fine del mondo. Secondo Bal'aml,
Davide disse: «Dio ha creato una città, larga e lunga dodicimila parasanghe. In questa città ci sono dodicimila palazzi, e
in ogni palazzo dodicimila appartamenti, tutti pieni di grani
di senape. In una stanza di questi palazzi, c'è un uccello che
ogni giorno becca un grano di senape. Quando tutti questi
grani saranno consumati, verrà il giudizio». In quel momento, l'ultima penna finirà di coprire di segni la carta.
LE MILLE E UNA NOTTE
Le mille e una notte è un libro che non esiste. Oppure è
un libro soggetto a infinite incarnazioni e metamorfosi, come una nuvola in cielo: o come i suoi jinn, i suoi demoni,
ora piccoli ora immensi, ora liberi ora sigillati dentro un vaso
di rame. In ognuno dei codici che lo contengono (ma ne conosciamo pochi, in confronto a tutti quelli nascosti nelle biblioteche del mondo), assume una forma diversa. Certi manoscritti riportano una ventina di storie: altri centinaia; lo
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stesso racconto si allunga o si accorcia, si moltiplica o si semplifica, procede rapidamente verso la conclusione o si dimentica per strada, variando i nodi essenziali dell'azione.
Stabilire un'edizione critica è impossibile. Non resta che abbandonarci ai piaceri della molteplicità, e leggere tutti i manoscritti che esistono nelle biblioteche dell'universo.
Gli innumerevoli amatori delle Mille e una notte hanno
accolto con favore l'edizione (a cura di René R. Khawam),
che risale a un codice del tredicesimo secolo, il più antico e
forse il migliore, il quale proveniva dalla Siria o dall'Egitto.
Non siamo dunque troppo lontani dalle origini del libro, che
affondano nel nono e nel decimo secolo; e possiamo leggere
Le mille e una notte come le leggevano i califfi, i visir, i mercanti e i mercantucci (e quante donne astute, passionali e
curiose!), ai tempi dell'invasione mongola. Ma nel vecchio
manoscritto mancano alcune storie meravigliose: Storia di
Harun
al-Rashid e del gioielliere, Storia del cavallo d'ebano, Storia di Hàsib Karìm al-Din, I viaggi di Sindbàd, Storia della città di rame, Storia di Hasan di Basra, Aladino e
la lampada magica, che andarono a confluire nell'edizione
egiziana di Bulaq (1835), dalla quale discende la traduzione
italiana pubblicata da Einaudi. Non basta. Se leggiamo il terzo volume della deliziosa versione di Antoine Galland, apparsa all'inizio del diciottesimo secolo, troviamo racconti assenti da tutte le altre edizioni. E se sfogliamo l'immenso
testo di Joseph Charles Mardrus (1899-1904) - un capolavoro dimenticato della letteratura francese, per metà un falso
gremito di profumi e di spezie e di lussurie fin de siècle -, vi
scopriamo un'altra ventina di racconti che vengono da chissà dove, forse dalla fantasia del grande falsario. Così ci accadrà ancora, suppongo, se prendiamo in mano le traduzioni
inglesi di Lane, di Payne e di Burton, o quelle tedesche di
Zinzerling, di Habicht e di Littmann, o tanto più se frughiamo tra i codici di Parigi, del Cairo e di Teheran.
Come nessun altro libro del mondo, Le mille e una notte
sono inesauribili. E dopo un'estate e un autunno passati insieme a Shahrazàd e Hàrun al-Rashìd, ho l'impressione che
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l'universo sia nient'altro che Mille e una notte. Sono certo
che, se frugo nelle soffitte della mia casa o salgo sugli alberi
del giardino, troverò altre Mille e una notte nei vecchi bauli
e tra i rami dei pini: storie d'origine indiana, greca, iranica,
turca, abbaside, egiziana; oppure narrate da una vecchia favolatrice toscana, che senza saperlo ha ripreso un filo lascialo cadere, dodici secoli fa, da una ragazza dai capelli neri che
aveva letto le gesta dei re antichi, le notizie dei popoli passati, poesie, racconti, proverbi, sentenze, e cercava di sfuggire
alla morte.
La cornice delle Mille e una notte è il più bell'apologo che
conosca sull'arte di raccontare. All'origine del racconto c'è il
tradimento. L'eros femminile - il possente, astuto e demoniaco eros femminile, che preferisce gli schiavi negri e i garzoni di cucina agli alti, luminosi sovrani - beffa il potere. Il
potere si vendica, uccidendo le donne. Ma, a questo punto,
quando l'universo sta per venire lacerato e smarrire metà di
sé stesso, interviene l'insinuante astuzia femminile. Shahrazàd sposa il sovrano: come le altre mogli, è condannata a
morire all'alba; e ogni notte narra alla sorella una storia, che
il sovrano ascolta. Non si preoccupa di raccontare storie morali o di illuminare le donne con una luce migliore, cancellando gli eventi della cornice. Con la suprema libertà dei
grandi narratori da ogni fine morale, talvolta rappresenta
donne traditrici e infami. La salvezza dal tradimento e dalla
morte sta soltanto nel fatto stesso di raccontare.
Così sappiamo tutto sulle storie delle Mille e una notte, e
su quelle che, da allora, migliaia di donne e di uomini continuano a dire e a scrivere nei caffè arabi e nelle case d'Europa. Narrare è - all'origine - un dono femminile, una parola
che una donna rivolge a un'altra donna, e che l'uomo ascolta. Shahrazàd comincia le sue storie quando l'oscurità annuncia, da lontano, il giorno: legato all'eros, ai demoni, ai
fantasmi e alle lingue segrete, il racconto nasce dalla notte,
vive della notte, ma vince le tenebre e fa nascere ogni volta il
giorno per tutti noi che parliamo e ascoltiamo. Anche Ulisse,
alla corte di Alcinoo, narra nella tenebra, e tutti i suoi ascol219
tatori avrebbero voluto trascorrere ogni notte a sentire le avventure prodigiose, come se Ermes, con la sua bacchetta
magica, avesse sottratto il sonno alle loro palpebre. Ma la sfida di Ulisse è molto meno disperata di quella di Shahrazàd.
Ulisse non vuole sconfiggere la morte: mentre ogni notte,
prima del sorgere dell'alba, il racconto di Shahrazàd deve
spostare, rinviare, allontanare la morte che ci attende ogni
istante. Con queste astuzie, con le sue storie erotiche, di avventure marine, di passioni, di enigmi, di scienze segrete, la
grande parola femminile lusinga e annulla la forza del potere
virile.
Spesso Shahrazàd e i suoi continuatori narrano storie di
destini: tra le più belle storie sul destino che siano mai state
scritte, come quella del Facchino e le dame e quella dei
Cuori gemelli (Il visir Nur al-Din e suo fratello Shams alDin). È un destino che non saprei definire con precisione:
talvolta divino, talvolta astrologico, talvolta semplice principio narrativo. Esso impiega il caso come il più fedele dei servitori: produce miracolose corrispondenze tra eventi e personaggi: fa unire o separare le linee delle vicende: si
nasconde nei minimi oggetti o particolari, come la confezione di una marmellata di melagrane, generando una deliziosa
mescolanza di solenne e di futile; è farsesco, sinistro, gioca
con le illusioni e il volto molteplice delle cose, come se il
doppio fosse il suo regno. Dal destino l'uomo si difende come può. Ora pecca per distrazione, dimenticanza, curiosità:
ora cerca con l'attenzione più meticolosa di evitare i suoi divieti. Non c'è nulla da fare. Con l'ironia più crudele, con
un'eleganza leggera e geometrica, il racconto ci dimostra
ogni volta che gli uomini non possono sfuggire al destino.
L'arte di Shahrazàd ama la precisione e la lucidissima scansione della mente. Specie nei testi più antichi, coltiva la storia a cornice: una storia contiene una storia, che a sua volta
contiene una storia, che contiene ancora una storia, e tutte
si riflettono l'una nell'altra, mentre i personaggi si spostano
da racconto a racconto, come se lo spazio narrativo non
avesse limiti. Ogni evento o personaggio si ripete più volte:
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Shahrazàd cerca di creare ripetizioni, rispecchiamenti, riflessi, echi, corrispondenze, analogie. Giunta quasi all'epilogo,
dopo aver proposto tutti gli enigmi, la storia tenta un rinvio
o una serie successiva di rinvii, per non concludere, ripetendo il disperato rinvio di Shahrazàd di fronte alla morte. Il tono cambia con rapidità vertiginosa, gli enigmi sono risolti,
tutto si capovolge: finché la complicazione della trama si
scioglie nella semplicità (apparente) del lieto fine.
Nell'immenso edifìcio delle Mille e una notte, qualcuno
ascolta Shahrazàd: non solo la sorella e il marito, ma Hàrun
al-Rashid, il grande califfo abbaside, il quale è la sua esatta
controfigura. Di Shahrazàd non sappiamo nulla: per noi è
una voce senza timbro; mentre sappiamo tutto di Hàrun alRashld. È onnipossente, indifferente e ironico come Dio. Ma
Hàrun non sopporta il proprio potere assoluto: è torturato
continuamente dall'insonnia, oppresso dalla malinconia. Allora si maschera: travestirsi è la vera vocazione del potere
assoluto: si maschera da mercante, da derviscio, da pescatore; e agisce come un buffone o un illusionista. La notte,
mentre in un'altra reggia risuonano i racconti di Shahrazàd,
attraversa la sua città, Baghdad, che non conosce. Guarda,
scruta, ascolta, ispeziona, spia come un veggente, perché
vuole esercitare sino in fondo il potere, il quale è pieno soltanto nella forza dello sguardo e dell'udito. Che meraviglia
allora se tutti i racconti di Shahrazàd e quelli dei suoi continuatori vengono a risuonare nel suo orecchio? Se soltanto
Hàrun al-Rashid, l'onnipresente e onniveggente, può svelare gli enigmi?
Non possiamo comprendere nulla delle Mille e una notte
e della civiltà islamica, se non ricordiamo che vi esiste una
doppia creazione. La prima è quella di Adamo, da cui noi siamo discesi. Ma c'è anche un'altra creazione, molto più ricca
e misteriosa, che comprende tutto il meraviglioso, il demoniaco e il feerico, e costituisce il regno di Salomone. Questo
regno sta accanto al nostro mondo: vive una vita parallela,
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ha delle leggi particolari, talvolta si insinua nella nostra esistenza; e viene benedetto e protetto dall'Islam (Maometto
annuncia la sua rivelazione anche ai jinn), mentre la coscienza cristiana tende a considerarlo come diabolico e stregonesco.
Il sovrano è Salomone, il re mago, il saggio esoterico, che
regna sopra il visibile e l'invisibile, ascolta tutte le parole pronunciate nella terra e nei cieli, conosce il linguaggio misterioso degli uccelli, e porta al dito un anello, con inciso il nome segreto di Dio, che gli assicura la signoria dell'universo.
Ormai è morto, e sta seduto su un trono d'oro, con l'anello
luminosissimo al dito, nella lontana isola di smeraldo. Ma, almeno nelle Mille e una notte, le sue creature obbediscono
ancora alle sue leggi, perché nello spazio del racconto egli è
immortale. Le creature di Salomone sono infinite. I jinn
buoni e cattivi, ora bellissimi ora mostruosi, col corpo d'aria
e di fuoco: i popoli semiumani dell'aria e del mare: gli animali, specie i serpenti: gli oggetti magici (il cavallo d'ebano
che vola nei cieli, il pavone d'oro che segna le ore, il cannocchiale che fa vedere a centinaia di miglia): le gemme della
terra e del mare, queste luci solidificate: l'Oriente; i narratori
di storie e di fiabe, e noi che le ascoltiamo e entriamo sotto
la benedizione ambigua di Salomone.
Il regno di Salomone è aereo, lieve, ignora lo spazio e il
tempo o vince qualsiasi limite imposto dallo spazio e dal
tempo, con le sue ali e i suoi tappeti miracolosi e i palazzi
che sorgono in un istante. Predilige la magia della metamorfosi. Sotto il segno, quasi sempre, di una mano femminile, ecco che le forme cominciano a cambiare: con rapidità
vertiginosa, un jinn diventa leone, poi avvoltoio, poi scorpione, poi gatto, poi serpente, poi lupo, poi verme, poi gallo, poi melagrana, poi fiaccola ardente; e la metamorfosi, ora
divina ora malvagia, può essere sia una gioia (cosa c'è di più
bello che mutare forma?), sia un rischio demoniaco, dal quale si esce soltanto con la morte. Quanto ai figli di Adamo, il
loro rapporto col regno di Salomone è complicato: devono
amarlo e temerlo, corteggiarlo e sventarne le insidie. In alcu222
ni grandi racconti, gli uomini confessano di amare di amore
assoluto soltanto le figlie dei jinn -. le donne-pesce, le donneuccello, che cercano di sfuggire alla presa umana e di tornare nel loro mondo leggero. Alla fine gli uomini riescono a vivere insieme alle figlie dei jinn-. perché il grande sogno,
inseguito dai narratori delle Mille e una notte, è di avvicinare il regno di Adamo e quello di Salomone, gli uomini e i demoni e gli animali e le piante, e di fonderli in un solo, radioso universo.
Vicino al regno di Salomone c'è il nostro mondo: la vita
quotidiana, il qui, amati in tutta la molteplicità delle loro forme. Tutti i personaggi pensano che «la vita è il bene più prezioso»: tutti credono che bisogna «assaporare i piaceri
dell'istante»; e questa folla di piccole formiche, avide, sensuali, attive, astute, intriganti, come zampetta sulla divertentissima superficie della terra! Le mille e una notte sono percorse da una formicolante ricchezza di sensazioni terrene,
filtrate dalla ragione: il profumo dei fiori e delle spezie, il sapore dei frutti e della frutta secca, dei cibi e delle cose zuccherose, enumerati in elenchi meticolosi; il bagno, l'odore
dei corpi femminili, della legna bruciata, del muschio e
dell'ambra, Eros, la conversazione, la musica, il gioco degli
scacchi, il vino, il sonno. Poi ci sono i grandi saloni delle case, pieni di tappeti, di tende, di sofà, di stoffe ricamate, di cuscini di damasco: i giardini verdissimi, immagini dell'Eden,
dove scorre l'acqua e cantano gli uccelli; e le domestiche
che chiacchierano, cantano, suonano, complottano, fanno
l'amore. Siamo nello spazio irreale del racconto; e non ci
meravigliamo se le classi sociali siedono solidali l'una accanto all'altra, e i mercantucci, i sarti, i barbieri, i cammellieri, gli
spazzini, i ragazzi di scuderia si trovano trasformati, da un
giorno all'altro, in sontuosi visir.
Nel regno di Adamo, la bellezza è un valore essenziale: la
rivelazione di Dio sulla terra - ancora più, forse, della fede in
Allah. Quando l'uomo e la donna bellissimi attraversano le
strade di Baghdad o di Bassora o del Cairo, il volto sfolgora;
e i passanti rimangono affascinati e senza memoria, come le
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amiche di Zulaykhà davanti all'apparizione di Jussuf. Tutte le
mille e una notte sono un monumento all'eterno femminino: discendenti da Adamo o da Salomone, le donne sono vitali, imperiose, violente, virili: mentre gli uomini, quasi androgini, «dal passo grazioso e elastico, ondeggiante come il
ramo di salice e la canna di bambù», teneramente e dolcemente passivi, cedono senza resistere al furioso fascino erotico delle donne. L'amore scoppia all'improvviso, come la
folgore. Non è necessario vedere il volto amato (talvolta il riflesso del nostro): basta il nome, o l'immagine dipinta su un
foglio. Come nei romanzi ellenistici e nei testi mistici sufi,
esiste soltanto l'amore-passione, il desiderio travolgente, la
fatalità amorosa, la malattia dei sensi, il dolore che sconvolge
tutte le fibre, e talvolta conduce alla follia e alla morte.
Quante navi, quante carovane, quanti porti e mercati gremiscono Le mille e una notte\ Non importa che mentre i calligrafi copiavano le storie di Shahrazàd, raccolte nel nostro
codice, i mongoli avessero già distrutto, probabilmente, la
grande rete del commercio arabo. La vera passione è il viaggio: irrefrenabile e labirintico come il racconto. Ogni giorno
i mercanti vendono i loro beni, cedono i loro negozi, comprano le merci desiderate nei paesi lontani, si mettono in
strada, percorrono le leghe e le contrade, come se il suolo
della terra fosse un pezzo di tela fine, che si avvolge attorno
a un bastone. Mentre i giorni si succedono alle notti e le notti ai giorni, continuano a camminare. Quanti regni vedono,
quante strade attraversano sotto i sette climi, quanti passi
misurano, quante merci vendono, acquistano, scambiano...
Il mare li attende: la quiete, quando le onde si svolgono dolcemente, come le pagine di un libro: il grido e il furore della
tempesta; e l'oceano che si allarga smisuratamente all'orizzonte, senza che si scorga una terra lontana.
Il viaggio è interminabile, da un mare a un altro mare, da
un continente a un continente, da un'isola a un'isola, da un
porto a un porto. I mercanti attraversano i paesi conosciuti,
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l'Egitto, l'Arabia, l'Iraq, l'Iran, il Turkestan, l'India, la Cina.
Poi - senza che possiamo avvertire mai il brivido del passaggio - balzano nella geografia fantastica: questo immenso
paese, che si estende dopo il nostro, o accanto al nostro, o
sopra il nostro, nel regno di Salomone, ed è molto più vasto,
molteplice e popoloso dei paesi fantastici che appaiono nei
testi dell'Occidente medioevale. Ecco il Monte Nero, il Monte delle Erbe, la Montagna degli Smeraldi, la Città del Corallo, il Regno degli Uccelli, il Castello delle Gemme; e le isole,
le isole che non finiscono mai, ora edeniche ora terribilmente rischiose, dove si concentra il meraviglioso dell'universo.
Poi il viaggio ci conduce nelle città abbandonate, Iram delle Colonne o la Città di Rame o la Città Bianca, un tempo abitate dagli zoroastriani, o costruite da re empi, che volevano
imitare il Paradiso Terrestre. Le porte sono immense, intarsiate di pietre preziose, i castelli sono vasti come città, i padiglioni d'oro e d'argento, la ghiaia è di crisoliti, perle e giacinti. Dietro il cerchio delle mura, tutto è vuoto e desolato: non
ci sono voci di esseri umani; il gufo urla, i corvi gracchiano
nelle case e nelle strade, piangendo coloro che le hanno lasciate. I custodi, i servi, i guardiani, i soldati, i principi sono
divenuti di pietra: o dormono sui loro letti di seta, con la pelle animata come quella dei vivi. Nel mercato, tutte le frutta e
le verdure e gli oggetti di cuoio sembrano intatti, ma si sgretolano e si polverizzano tra le mani. Una lapide funebre e
sontuosa («Dove sono coloro che hanno regnato sui paesi,
che hanno sottomesso gli uomini, che hanno guidato gli
eserciti? Dove sono i Cosroe dai folti castelli? Hanno lasciato
la terra come se non fossero mai esistiti») ci ricorda che siamo entrati nel regno della morte. La morte regna sul mondo
di Adamo come su quello di Salomone: nessuno può sfuggirle; nemmeno Shahrazàd, che l'ha vinta per qualche tempo
con là forza insinuante del racconto.
Il viaggio non si arresta nemmeno qui. Qualcuno, nei tempi antichi, ricerca Maometto: invano, perché Maometto non
è ancora nato e non si può vincere il tempo. Qualcuno ricerca una donna sconosciuta - una donna-uccello o una donna225
pesce, che abita in uno sconosciuto paese fantastico. Quale
ne sia la ragione, il viaggio continua. Attraversa tutte le isole,
tutti i mari, tutti i continenti, tutti i regni: perché l'essenza
della quéte è di essere illimitata, di superare il monte Qàf dove finisce il nostro mondo, e di avanzare ancora oltre, tra i
quaranta mondi colorati ognuno di un colore diverso, dove
nessuno conosce Adamo, Eva, il giorno e la notte.
Quando scrisse il Faust II, Goethe amava moltissimo i luoghi segreti delle Mille e una notte: le tombe, i pozzi, le scale
che scendono senza fine, le cavità, le caverne abitate, le stanze nascoste, i palazzi sotterranei dove regnano le principesse
dei jinn. Lì, nel profondo, dove vivono anche le Madri, stanno i tesori e i misteri. I continuatori esoterici di Shahrazàd ci
ripetono che il narratore ha un doppio compito. Da un lato,
sa benissimo che scendere nelle caverne dove abitano i misteri è immensamente difficile. Non ci sono strade: non ci
sono guide; non ci sono maestri. Nulla è più pericoloso che
cercare di conoscere i segreti: una legge lo proibisce, ed egli
può violarla solo a spese della vita. Ma, d'altra parte, il narratore esoterico non può fare a meno di affrontare questo rischio. Con tutta la sua astuzia e la sua forza, deve scendere
nelle tombe, nei pozzi, nelle caverne, nei palazzi sotterranei:
investigare gli enigmi, portarli alla luce e raccontarli ai suoi
lettori, con quella parola giocosa e velata che insieme li nasconde e li rivela. Forse non verrà punito dalla legge, perché,
con una parte di sé, salvato dalla morte, non appartiene più
al genere umano.
Nessuno ci dice quale sia la vera strada per giungere nel
cuore segreto della terra. Nelle Mille e una notte, ci sono
molti saggi, persino tra i facchini, i barbieri e le serve: venerati dalla folla e ricchi di quella scienza universale, che si apprende nei libri. Questi saggi pretendono di insegnare al
narratore che la sapienza sta nascosta nei volumi. Ma egli
non è della loro razza. Non ascolta le loro parole troppo
umane. Sebbene possegga tutti i libri e li abbia letti e com226
pulsati cercando di assimilarli, ha compreso che la saggezza
non vive dentro di loro.
Dove deve dunque cercarla? In un racconto famosissimo,
Hàsib Karim al-Din conosce la sapienza solo quando la regina dei serpenti si immola per lui, muore e gli dona il succo
del suo corpo. In quel momento, il cuore di Hàsib diventa la
«sede della sapienza». Hàsib non è altri che il ritratto del narratore esoterico delle Mille e una notte. La regina dei serpenti, amica di Salomone, rivela anche a lui tutti i segreti della natura vivente, della terra segreta e degli animali celesti e
terreni: quella sapienza che i libri degli uomini non contengono. Ma la regina dei serpenti non ha bisogno di sacrificarsi
per lui. Lo stesso narratore si immola o desidera sacrificarsi
per noi, ogni volta che comincia un racconto, mentre la notte comincia cedere all'alba: la sua fantasia è il succo che trasforma il nostro cuore nella «sede della sapienza». Così, sfuggito alla morte, dotato di tutti i doni della natura sotterranea,
il narratore esoterico diventa il nuovo Salomone: il Salomone vivente, seduto sul trono nella lontana isola di smeraldo.
Quando Galland, nel 1704, pubblicò il primo volume dei
suoi Contes arabes, chez la veuve de Claude Barbin, au Palais, sur le second Perron de la Sainte-Chapelle, l'Europa
ebbe l'impressione di ascoltare una musica nuova. Una simile leggerezza di tocco: un così incessante piacere di narrare:
la fusione della féerie, dell'opera buffa, della storia d'avventure, del viaggio, della quète esoterica: la frivolezza alleata alla tragedia: la geometria all'inverosimile: la naturalezza sovrana con cui il reale si scioglieva nel fantastico e il fantastico
nel reale; l'impressione che il sovrannaturale abitasse tra
noi, in mezzo a noi, senza che ce ne fossimo mai accorti...
Tutta l'Europa impazzì. Prima i rapidi spiriti settecenteschi, come Montesquieu, e poi i più accesi spiriti romantici,
che trovarono nelle Mille e una notte, tra i fantasmi del regno di Salomone, lo spunto di ogni delirio. Non si capisce II
flauto magico né la seconda parte del Faust senza Le mille e
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una notte: né Coleridge, Hoffmann, De Quincey, Balzac,
Nerval, Dickens, Stevenson, Hofmannsthal, la Blixen, forse
nemmeno Proust. Oggi qualcuno vorrebbe essere Shahrazàd, la voce pura: qualcuno Hàrun al-Rashid, lo spirito che
ascolta, trasforma e si trasforma. Appena la piccola regina
comincia a raccontare, come non cedere a quella voce mite
e quieta, inalterabile, alta sui fatti, che continua a narrare sino alla fine del mondo, quando l'ultimo uccello avrà beccato
l'ultimo granello di senape?
IL VERBO DEGLI UCCELLI
Un giorno tutti gli uccelli della terra vennero a parlamento. C'era l'upupa: malata d'amore per il suo sovrano, per anni aveva percorso la terra e il mare, superando valli, monti e
deserti, attraversando spazi infiniti, sfidando tempeste. C'era
l'usignolo: viveva nel giardino d'amore, innalzando un dolce
lamento dalla sua dolorosa passione per la rosa purpurea;
aveva ispirato il pianto del flauto e il lamento della cetra. Il
pappagallo sfoggiava un mantello verde, chiuso da un collare di fuoco, e il pavone, con le penne che ostentavano centomila colori, pretendeva di vivere nel Giardino dell'Eden. La
pernice, con tocchi di rossetto sul labbro, amava soltanto i
bagliori artificiosi delle pietre preziose. La colomba intonava
un canto, che spargeva intorno a sé sette scrigni di perle.
L'airone era appena giunto dal lido dell'oceano: aveva il cuore traboccante di sangue, per il suo desiderio dell'acqua di
mare, che qualcuno gli aveva negato.
«Non esiste luogo al mondo» gli uccelli dissero «che non
abbia un re: perché mai nel nostro paese non regna un sovrano? Una simile condizione è inaccettabile. Dobbiamo
unirci in sodalizio e partire alla ricerca di un re.» In quel momento l'upupa, eccitata e trepidante, portando sul petto i
simboli di chi conosce la via, balzò nel centro dell'assemblea. «Amici uccelli,» cominciò «io sono l'inviato dell'invisibile. Io ebbi notizia della creazione e ne conobbi i segreti. Noi
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abbiamo un re senza rivali che vive oltre la montagna di Qàf,
l'ultimo monte, l'ultimo cielo stellato. Il suo n o m e è Simurgh. Egli ci è vicino, ma noi siamo ad una distanza infinita
da lui. La sua dimora è protetta da una gloria inviolata, il suo
nome è inaccessibile alle lingue terrene. Più di settantamila
veli celano il Simurgh, che sta oltre la luce e la tenebra. Come potrebbe il nostro intelletto volare là dove egli risiede?
Quando mai scienza o ragione potranno giungere alla sua dimora? Non si conoscono vie che conducano a lui, eppure
senza di lui non è possibile vivere.» Quand'ebbe finito di parlare, tutti i centomila uccelli presero a fantasticare intorno al
Simurgh. Un ardente desiderio di lui si impadronì dei loro
cuori, e li rese impazienti oltre ogni limite.
Con questa straordinaria scena, ha inizio il più famoso
poema mistico di tutti i tempi, Il verbo degli uccelli di Farld
od-Din Attàr, vissuto in Persia tra il dodicesimo e il tredicesimo secolo. Malgrado la nostra curiosità, Attàr non ci descrive il Simurgh: il grande uccello che vive oltre l'ultimo cielo,
oltre la luce e la tenebra, è Dio; e Dio non può venir rappresentato. Dobbiamo accontentarci di ritrovare nei tessuti sasanidi e nelle miniature safavidi i tratti di un immenso uccello dalle ali sfolgoranti e dalla coda variopinta, che riunisce in
sé le proprietà di ogni animale conosciuto - grifone e usignolo, aquila e leone, drago, tigre e antilope -; e ammirare la
sua maestà, nella quale la dolcezza si unisce al rigore, la crudeltà si nasconde dietro la benevolenza.
Un'altra omissione ci sembra più dolorosa. Il lungo viaggio degli uccelli verso il Simurgh non è descritto, come lo è
invece in altri testi persiani: Attàr ne rappresentò soltanto la
fase conclusiva. Questo vuoto tra la prima e l'ultima parola è
colmato dagli insegnamenti dell'upupa agli uccelli riuniti ai
suoi piedi; e da parabole, apologhi, raccontini - lievissimi alla superficie e gravi di contenuto simbolico -, che esprimono indirettamente, come in un riflesso e in uno specchio, il
senso dell'itinerario religioso. Il verbo degli uccelli non è
uno di quei testi che esprimono direttamente un'esperienza
mistica, via via che si attua e i tocchi dolorosi ed estatici di
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Dio si imprimono nella lampada o nella caverna del cuore.
Non ha nulla in comune con gli scritti di Hallàj, o con quelli
di san Giovanni della Croce. Esso raccoglie una prodigiosa
ricchezza di esperienze mistiche, un vertiginoso ardimento
intellettuale, una stupenda genialità nell'orchestrare le metafore, una fantasia sontuosa. Tutto ciò che giunge da ogni
soffio dell'ispirazione viene raccolto in una forma, che possiede insieme la compattezza del trattato e la libertà del racconto.
Mentre il viaggio dei centomila uccelli non accenna a cominciare, l'upupa parla dei misteri della creazione. «Sappiate
che quando Simurgh, come un sole splendente, mostrò dietro un velo il suo volto, proiettò sulla terra ombre infinite
che poi contemplò con il suo purissimo sguardo. Fece dono
al mondo della sua stessa ombra, da cui sorsero incessantemente uccelli infiniti. I disparati volti degli uccelli nel mondo
non sono che il volto del Simurgh...»
Non possiamo fraintendere le parole dell'upupa: i centomila uccelli che attendono, e i miliardi che dopo di allora nacquero sulla superficie del mondo, e noi stessi e tutto quello
che verrà, siamo formati dalla sostanza di Dio. Siamo identici
al Simurgh. Per conoscersi e farsi conoscere, Dio si riflette
nell'universo e nell'uomo. L'Unica sostanza, pura come la luce del sole, si diffonde, si riproduce, si moltiplica nelle ombre
infinite - le apparenze dell'universo. Ma questa manifestazione di Dio non è assoluta: la sua rivelazione è attenuata, mitigata, adombrata da settantamila veli. Chi contempla le cose e gli
uomini, non conosce la luce divina: la scorge deformata e trasformata. Il nostro mondo è l'ombra rispetto allo splendore
di Dio: la figura specchiata rispetto allo specchio. Così 'Attàr
esprime il paradosso, che rende tanto arduo a un cristiano
penetrare nell'unità polare del mondo islamico. Come Dio è
insieme trascendente e immanente all'universo, gli uomini
sono identici e opposti al Simurgh: una penna caduta dalla
sua coda sfavillante e la tenebra che la contrasta. Non è facile,
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per un cristiano, vivere questa identità paradossale. Non è facile sentirci così prossimi al cuore di Dio, capire di essere formati dalla sua stessa sostanza, avvertire che in tutte le vene
dell'universo corre il suo sangue: e insieme conoscere l'irrimediabile separazione da lui.
Il Simurgh è come un re - continua l'upupa -: un re bellissimo, dallo sguardo simile a un'aurora luminosa, che aveva
fatto innamorare di sé tutti i suoi sudditi. «Chi avesse osato
levare lo sguardo verso quel volto, veniva immediatamente
decapitato, e chi fosse stato così temerario da pronunziare il
suo nome, ne aveva la lingua mozzata all'istante, chi avesse
soltanto desiderato unirsi a lui, smarriva per sempre la ragione e i sentimenti. I sudditi continuavano a perire nella loro
disperata ricerca, essendo incapaci di vivere con lui e privi di
lui.» Così, un giorno, nella sua crudele benignità, il re decise
di far costruire un castello: sulla sua sommità venne disposto uno specchio: il re saliva ogni giorno sulla torre, si guardava, e il suo volto, riflesso, poteva essere ammirato da
chiunque. Questo specchio - commenta 'Attàr - è il cuore
umano: nel quale possiamo scorgere i misteri sovrani di Dio
e le vigne e i frutteti e gli orti dell'universo creati da Dio; noi
dobbiamo lucidare e levigare il cuore, per riuscire a contemplare senza macchia gli sguardi, la coda, le penne variegate
del Simurgh. Ma, vivendo nel cuore, noi continuiamo a vivere soltanto nel riflesso divino. «Restando smarrito in un'ombra, come potrai cogliere l'essenza di Simurgh? Se invece saprai trovare una chiave che apre le porte, vedrai il sole
nell'ombra, e poi l'ombra svanire nel sole, e così sia.» Queste
parole rappresentano il percorso spirituale che si svolge nel
Verbo degli uccelli. Il mistico è colui che muove dal riflesso,
dalla conoscenza indiretta di Dio verso il sole e l'esperienza
immediata di Dio: egli annienta l'ombra divina che lo domina e lascia che il Simurgh faccia trionfare in lui il proprio fulgore.
La ricerca del Simurgh è lunghissima e disperata. Su questa strada - prosegue l'upupa -, l'intelletto umano non serve. «L'amore è fuoco, l'intelletto fumo.» Il mistico è un cuore
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ardentissimo, composto di fuoco, col volto infiammato e ribelle: un folle temerario, che desidera bruciarsi come la falena che si precipita nel bagliore della candela; un insonne,
che veglia sino all'alba, gemendo e sospirando, mentre le altre creature giacciono sprofondate nel sonno. Ciò che gli importa, più che il premio e la meta, posti oltre ogni cielo, è
l'impossibile ricerca, l'inesausto desiderio, l'angosciosa inquietudine. Mentre rinuncia ad ogni cosa terrena, la brama
del Simurgh si moltiplica in lui, come se tutte le immagini di
infinito che agitano l'animo umano si fossero rovesciate nel
suo cuore.
Quale strana ricerca. Noi ci attenderemmo che, fin dal primo momento, l'uccello mistico si gettasse dietro le spalle le
cose profane. Con una specie di furia, egli si impossessa invece di tutte le forme della passione amorosa profana. Predilige la passione demoniaca, che si impadronisce del cuore e
del corpo: la passione che è pena, dolore, tormento, desolazione (mai gioia): la passione che cerca l'abiezione, l'infamia, la vergogna, la lacerazione, la ferita, la distruzione; e si
muove con estasi inebriata nei regni della morte. In
quest'amore c'è qualcosa di preziosissimo. «Quel che nel nostro mondo trovi di meraviglioso è fatto di sangue e di lacrime.» Il dolore è l'elemento più umano dell'uomo: gli animali non soffrono, gli angeli non soffrono; ma il dolore valica
ogni limite umano, balza oltre la terra, ci porta nel regno di
Dio, al di sopra degli angeli. L'angoscia è la forza che ci spinge verso il Simurgh: la nostra ricerca di lui non è che angoscia; alla corte del grande uccello, noi non dobbiamo portare scienza, mistero, devozione, cose che lassù abbondano ma «l'ardore della tua anima e l'afflizione del tuo cuore, giacché» dice l'upupa «nessuno in quella reggia dispone di simili
beni».
Così, utilizzando le più profonde forze umane, gli uccelli
mistici valicano le frontiere umane. Ardono tutto quello che
conoscono e posseggono. «Ritira le mani da ogni cosa e adora il Signore! Tutto ciò che è altro da Lui, gettalo; e, d o p o
averlo gettato, distruggilo; e dopo averlo distrutto, incendia232
lo! E infine raccogli le ceneri e disperdile, affinché il vento
della Sua gloria ne cancelli ogni traccia.» Gli uccelli rifiutano
gli oggetti una volta amati; e l'orgoglio spirituale, le estasi e
le illuminazioni religiose, le autorità della terra, ogni pensiero di bene e di male, di paradiso e d'inferno - dei quali il Simurgh ride superbamente. Come pellegrini, lasciano il mondo terreno. Sulla strada della ricerca, conoscono il deserto
della solitudine, il terrore del vuoto, la vertigine dell'illimitato. Il vento del distacco soffia così violentemente da frantumare la volta celeste. L'universo svanisce nel nulla - ma se i
cieli e la terra vanno in frantumi, gli uccelli immaginano che
sia soltanto una foglia che cade da un ramo: se ogni cosa
cessa di esistere, fanno conto che lo zampino di una formica
sia caduto in un pozzo. Avanzare in questo universo nullificato riempie di stupore, di terrore e di angoscia. Ogni uccello
diventa come un pezzo di ghiaccio, o un cadavere essiccato,
o la fenice. Nel suo nativo Hindustan, essa suona dal becco
lunghissimo una musica melanconica e misteriosa: la musica
della tua morte, della mia morte, della morte di tutti i colori
e le apparenze del mondo.
Finalmente il viaggio verso il Simurgh, così a lungo annunciato dall'upupa, prese inizio. Centomila uccelli viaggiarono
per anni traversando valli e montagne, percorrendo gli spazi
astrali, consumando gran parte della loro esistenza nella ricerca interminabile. Molti volatili annegarono in mare, molti
furono uccisi dal terrore, molti perirono sulle cime delle alte
montagne, molti ebbero le ali bruciate dal caldo del sole e il
cuore calcinato come carne alla griglia. Altri furono divorati
dai leoni e dalle pantere che infestavano le strade: altri morirono di sete con la gola riarsa nei deserti: altri si uccisero follemente tra loro per il possesso di un chicco di miglio: altri si
ammalarono e furono abbandonati lungo la via; altri ancora
si arrestarono a contemplare i fenomeni dell'universo. Gli
uccelli che avevano iniziato il viaggio riempivano il mondo
con il frastuono colorato delle loro ali; e ora di tutta quella
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folla non restavano che trenta uccelli, invecchiati, affaticati
ed abbattuti, col cuore spezzato, l'animo accasciato, senza
più penne né ali, quasi senza corpo.
Un giorno i trenta uccelli arrivarono alla corte del Simurgh. Un araldo venne a riceverli, e aprì le porte del palazzo. Quindi sollevò settantamila veli, e in quell'istante la luce
del sole rifulse su di loro. Gli uccelli si spogliarono di ogni
aspetto terreno: le anime si annullarono completamente, i
corpi arsero fino a ridursi a mucchietti di cenere. Un ignoto
stupore rapì le loro menti, e tutto quanto in passato avevano
vissuto o non vissuto venne rimosso dal cuore. Finalmente i
raggi del sole di Dio «vennero riflessi dallo specchio delle loro anime. Nell'immagine del volto del Simurgh contemplarono il mondo, e dal mondo videro emergere il volto del Simurgh. Osservando più attentamente si accorsero che i
trenta uccelli altri non erano che Simurgh, e che Simurgh
era i trenta uccelli: infatti, volgendo nuovamente lo sguardo
verso Simurgh, videro i trenta uccelli, e guardando ancora sé
stessi rividero Lui. O meraviglia, questo era quello e quello
era questo!». Cosa era avvenuto? Il grande sogno di ogni mistico si era realizzato sul trono di quella corte fantastica? In
quello specchio, il riflesso, l'ombra divina - che noi siamo si era trasformata in luce divina? L'uomo era diventato identico a Dio, e Dio identico all'uomo? L'unione aveva finalmente
trionfato sulla separazione? L'universo, che ci era sempre
parso dominato dal gioco delle apparenze, rivelava in ogni
luogo l'iridescenza del Simurgh?
Pensieri come questi, o simili a questi, dovettero attraversare la mente dei trenta uccelli. Sgomenti e confusi, rimasero a pensare: pensarono senza pensieri, e poi interrogarono
senza parole il Simurgh, chiedendo spiegazione di questo
assoluto mistero, dove il «noi» e il «tu» apparivano uniti. Senza parole, rispose non l'araldo o il messaggero, ma l'essenza
stessa di Dio, il suo ultimo volto di luce e di tenebra, nascosto dietro l'ultimo velo. 'Attàr ci ha conservato questa risposta: la risposta, crudele e benigna, ironica e mite, di Dio a
qualsiasi u o m o tenti di avvicinarsi al suo segreto. Tutto il
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viaggio che i centomila uccelli avevano compiuto, quelle valli o stazioni attraverso le quali erano avanzati, quelle montagne, deserti, oceani e astri che avevano valicato, quelle morti
penose durante la strada, quei trenta corpi senz'ali - non
erano stati che illusione. Essi non erano mai usciti dal cuore
- lo specchio nel quale Dio si riflette -; e in quello specchio
immensamente più grande che ora si era aperto alla corte
dei cieli, non avevano visto che la pura immagine divina di sé
stessi. Non avevano visto il Simurgh. Noi non possiamo conoscerlo: «Chi mai potrà spingere il suo sguardo sino a Noi?
Quando mai una formica potrà contemplare le Pleiadi o sollevare un'incudine?». «Non sai - Egli aveva detto un'altra volta - che l'incapacità di comprendere è comprensione? Quindi ti basti avere della nostra Presenza la fortuna di sapere che
sei escluso da lei, incapace di guardare la nostra Maestà e la
nostra bellezza.» Così il sogno di trovare nell'uomo la stessa
sostanza di Dio venne deriso dalla sommità dell'altissimo
trono; e la ricerca mistica di 'Attàr sembra concludersi con
un fallimento grandioso.
Ma la parola del Simurgh è sovranamente ambigua, come
la sua coda dai mille colori. Ecco che, proprio alla fine, mentre il libro sta per chiudersi su questa disperazione definitiva,
Egli annuncia la speranza aperta a tutti gli uccelli. «Annullatevi in Noi, nella gloria eterna, e in Noi troverete la porta di voi
stessi.» Gli uccelli ascoltarono queste parole. Di essi non rimase nemmeno un mucchio di cenere: nemmeno un pensiero o una sensazione o un sentimento. Si annullarono eternamente: si persero nel Simurgh, dimenticando persino di
essersi perduti; e la loro ombra si dissolse nel sole. Così la
grande metafora affacciata all'inizio del poema si dispiegò
completamente, in tutta la sua complessità di significati. Nella perdita di ogni qualità umana, la luce aveva definitivamente trionfato sull'ombra. Tutto, ormai, era luce. Gli uccelli erano usciti dal riflesso, dallo specchio, dal cuore, a cui
sembravano condannati. Avevano varcato la soglia dell'illusione. Senza diventare Dio o conoscere il suo segreto, avevano raggiunto l'unione tanto sognata. La dualità era scompar235
sa dall'universo. Non c'era più divisione o separazione. Non
esisteva altro che l'Unico.
Cosa accadesse lassù, nella valle dell'annullamento, è impossibile raccontare. Come trenta gocce, gli uccelli si erano
persi nel mare del mistero; e noi non riusciamo nemmeno a
riconoscere quelle gocce - l'upupa, la pernice, l'usignolo,
l'airone, che una volta avevano dimorato sul lido del nostro
oceano. Forse, qualcuno di loro avrebbe potuto dire: «In verità non so nulla, non so né questo né quello. Mi sono innamorato, ma ignoro di chi. Dell'amore che mi governa io neppure ho coscienza, il mio cuore trabocca di passione ed è
vuoto».
DUE LIBRI DI NEZAMI
Come la miniatura persiana, la letteratura persiana è quasi
ignota in Italia, dove soltanto il n o m e di Omar Khayyàm
sembra essere filtrato, sia pure attraverso trascrizioni che
l'hanno stravolto. Il lettore di poesia ha ancora davanti a sé
un tesoro inesplorato; e se avrà pazienza e costanza, se avrà
il coraggio di accogliere un sistema metaforico profondamente diverso dal nostro, conoscerà la stessa esperienza
che, centosettant'anni fa, sconvolse e trasformò Goethe:
una provincia che gli rivelerà un volto mai intravisto della
poesia, un gruppo di poeti che la sua venerazione potrà collocare insieme agli artisti supremi. Da questo incontro non
nascerà forse, come allora, un nuovo Divano occidentaleorientale. Ma le albe e le notti di NezàmI ci accompagneranno d'ora in poi per sempre, come il «novo pellegrin» di Dante, le chiare acque di Petrarca, gli albatros, i fari e gli
incensieri di Baudelaire, la nave naufragata e gli uccelli di
Hopkins.
Fin dalle prime righe, NezàmI definisce Leylà e Majnun
(1188) come il libro di una assenza: vi manca la «grazia», la
«letizia», «il giardino e il banchetto», tutta l'esperienza della
regalità, della guerra, della caccia, dell'avventura, che sola
236
poteva dare alla poesia la gioiosa pienezza di sensi di cui essa, secondo Le sette principesse, non poteva fare a meno. I
due poemi si o p p o n g o n o come l'ombra e il sole: Leylà e
Majnùn sono un'esperienza di concentrazione assoluta, Le
sette principesse di indefinita espansione: il primo libro è
grandiosamente monocromo, il secondo infinitamente policromo; il primo è desolato, il secondo trionfale. Ma, come
sapeva NezàmI, l'anima follemente innamorata di sé stessa,
l'anima nuda che ama l'altra in sé stessa e Dio nell'altra non ha bisogno dell'orchestra che i colori intonano nell'universo. Le basta il grigio della pietra, il giallo della sabbia desertica, l'azzurro o il nero della volta celeste.
Qualche volta, Majnùn, «l'amante folle», invidia gli altri innamorati. Gli altri hanno scelto la donna che preferivano: lui,
invece, ama chi sopra le sue spalle e a suo nome ha scelto il
destino, foggiando una catena (chi può dire se amica o nemica?) che egli non può spezzare: gli altri baciano, abbracciano, posseggono la donna amata; mentre il suo amore (anche
se nessun padre nemico lo allontanasse) non tollera il possesso, proscrive la vicinanza, esige la distanza e l'eterna separazione. Ma proprio a causa della separazione, egli vive soltanto d'amore: l'amore lo pervade, lo possiede, distrugge
qualsiasi altra realtà attraversi il suo animo; tutti gli altri esseri umani, tutti gli altri oggetti gli sono ignoti o indifferenti, e
il suo io si scioglie come un cero arso da una fiamma troppo
forte. Una vampa ha incenerito il suo cuore: dalla sua mente
si è cancellato ogni ricordo; non conosce più il proprio nome, non sa nemmeno chi ama e da chi è amato. Un giorno
trova un foglio di carta su cui stanno scritti il nome di Leylà e
il suo: egli cancella quello di Leylà. «Perché» gli chiedono «ne
conservi uno solo?» «È meglio» risponde «se di noi due rimane un solo nome: chi conosce l'amore sa bene che dietro
l'amante subito traspare l'amata.» «Ma perché» insistono
«cancellare il suo nome?» «E meglio» dice Majnùn «che sia io
stesso in vista e non ciò che è prezioso: è meglio che l'essenza rimanga celata e che appaia solo l'involucro, meglio che
io sia il velo dell'amata, che io sia la conchiglia della perla!»
237
Come al-Hallàj, avrebbe potuto dire: «tu credi di vedermi esistere, ma ti sbagli, non sono io ciò che esiste: è l'amata».
Quest'amore non conosce soste né indugio: nessuno di
quei piaceri e di quegli incantesimi intellettuali fioriti, nella
cultura occidentale, intorno al ricordo e alla separazione
amorosa. Malgrado la separazione, non c'è alcuna distanza:
mai Majnùn è stato così vicino a Leylà da quando gli viene impedito di vederla. Perché quest'amore è fuoco, fuoco sempre
riacceso, fuoco che brucia l'anima e il corpo, fuoco incapace
di spegnersi: fuoco che desidera eternamente il dolore, la lacerazione, le lacrime e l'estasi della morte, e che senza il dolore e la morte smarrisce sé stesso. «O voi che ignorate che cosa
sia il dolore, via da me, andatevene! Io sono perduto, non venite alla mia ricerca... Lasciatemi finalmente solo con il mio
dolore!» Così «l'amante folle» giunge molto più vicino all'ultima essenza d'amore degli amanti felici che, nelle Sette principesse, si posseggono voluttuosamente nei giardini, tra i colori
e i profumi dell'universo. Nezàmi sa bene che questa passione rivela almeno un'ombra demoniaca: giacché il fuoco è materia infernale e Majnùn, nell'assolutezza della propria passione, si ribella contro la fede coranica. Eppure l'amore di
Majnùn per Leylà - con quella totale identificazione nell'altro,
con quella vuota desolazione, con quello slancio verso l'inattingibile - è una metafora, forse l'unica che possediamo, del
desolato e impossibile rapporto amoroso che spinge l'anima
umana verso Dio.
Con questa unica passione in cuore, con la camicia e la veste lacerata, precipitato nell'abiezione, Majnùn lascia la città e
le tende: esce dal bene e dal male; e, come l'ultimo degli stranieri e dei vagabondi, raggiunge la desolazione del deserto,
dove il suo io si rispecchia. «Ormai non aveva più nulla in comune con gli altri uomini, era come se dal libro del mondo
avesse cancellato il suo nome, non era morto e non apparteneva più ai vivi.» Lì, nel deserto, nel profondo del dolore, della solitudine e della separazione, nascono i suoi versi, che
presto divengono celebri in tutto il mondo arabo e persiano.
Nel cuore del deserto, l'amante folle ricrea attorno a sé un
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nuovo Eden, come quello che cuori senza la sua fiamma avevano distrutto migliaia d'anni prima di lui. Vive in pace tra gli
animali, come Salomone, il sovrano degli animali. «Leone e
cervo come sentinelle lo proteggevano, e ogni animale del
deserto si affrettava per venire a servirlo... Quando desiderava dormire, la volpe con la coda sgombrava il terreno, la gazzella correva a leccargli i piedi, l'onagro gli offriva il suo dorso
in appoggio e il fianco del daino era il guanciale.»
L'amore gli fa conoscere il vano e l'effimero dell'esistenza:
«guarda dunque cos'è una foglia, cos'è un ramo, nella vastità
di un giardino?». Vive solo del proprio fuoco: smette di bere
e di cibarsi, esce dalla condizione umana, balza fuori dal
mondo, scende nella morte, mentre indugia ancora nella vita. Leylà e Majnun si incontrano una volta sola, in un palmeto dalle fronde fitte e intricate, e quando si parlano, il deserto dell'eterna separazione si trasforma in giardino. «Ora ti
getto indietro la treccia sulla spalla, ora discosto i riccioli dal
tuo volto, ora inumidisco di lacrime il lino della tua veste,
ora improvviso versi, ora imprimo segni di viola intorno alle
tue guance di rosa, ora sollevo il tuo volto di rosa liberandolo dalla violetta della tua chioma, ora ti stringo tra le mie
braccia, ora ti porgo il libro del dolore.» Poco dopo, Leylà l'essenza, la perla - muore, e il fagiano della sua anima abbandona il nido. Majnùn la piange: le sue lacrime fanno zampillare una fonte, tutto il deserto la piange insieme a lui; le
spine dei rovi gettano faville per i gemiti, le pietre si tingono
di sangue. Anche la conchiglia della perla, anche il velo
dell'essenza deve morire: Majnùn posa il capo sul tumulo di
Leylà, invoca Dio perché gli conceda l'acqua di vita, e abbandona la terra, che aveva conosciuto soltanto il suo dolore.
Scritto nove anni più tardi, Le sette principesse è il poema
della creazione. Dio è il creatore sovrano. «O Tu che hai creato il mondo dal nulla, il nome Tuo, che è il principio di ogni
nome, è il primo principio e l'ultima fine: primo dei primi
all'inizio del conto, ultimo degli ultimi alla fine di tutto.» I do239
ni di Dio sono scesi sulla terra come una fiumana sovrabbondante di grazia: l'hanno dominata, l'hanno intrisa, l'hanno
inumidita, l'hanno illuminata, l'hanno pervasa; e ora nemmeno una lettera scritta dalla calligrafìa dei cieli ha una stortura,
o un punto non è al posto giusto. Sebbene Nezàmì conosca
le ombre, e le sventure e i disastri della terra, ribadisce che la
creazione è una sfera perfetta e provvidenziale. Vuole cogliere il procedimento di Dio: Egli ha una vita insondabile e irraggiungibile nel Non-Spazio, che solo una volta Maometto riuscì a cogliere, balzato in un viaggio vertiginoso, dopo aver
strappato mille veli di luce, davanti alla Luce senza velo. Ma
Nezàmì sa che l'avventura di Maometto non si ripeterà mai
più. Il compito di un poeta come lui, di un umile e superbo
«tesoriere della parola», deve essere quello di cogliere il volto
di Dio (sia pure l'ultimo e più superficiale) nelle creazioni naturali e umane. È un compito immenso, al quale dovette chiedersi se le sue forze bastavano. Aveva rappresentato la ricerca
di Dio nell'anima desolata e separata dall'amore. Ora, come
sarebbe riuscito a raffigurarne tutta l'estensione cosmica? Come avrebbe potuto descrivere gli splendori trionfali, la sovrabbondanza regale, il pomposo eccesso di profumi, di colori e di musiche, la prodigalità di gioielli, di albe e di notti, di
primavere e di inverni, con cui Dio - il più sublime degli artefici - si era manifestato alla sua corte, alla quale anche noi,
sebbene ultimi, apparteniamo?
Così, scrivendo Le sette principesse, si propose di fondere
insieme un poema teologico e un poema astrologico, un
poema eroico e un poema cavalleresco, le favole e le storie
d'amore, le storie di spettri e le gemme della sua lirica, come
volesse rivaleggiare con questo Dio-cornucopia. Il personaggio principale è un re della tradizione sasanide, Bahràm Gur,
entrato nella leggenda già nel Libro dei re di Ferdousi. Egli
incarna molti modelli di regalità: è il re sacro della tradizione
iranica, che rinnova la fecondità della natura e porta la giustizia sulla terra, e il re-cacciatore, il re-atleta della tradizione
preiranica; ma è anche l'adolescente dionisiaco, che passa la
vita, chiuso nel suo palazzo o nel suo giardino, tra i piaceri
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del vino e dell'amore. Trascorre la giovinezza nel magico castello di Khavarnaq, un «castello d'argento, che erge le sue
torri verso la luna»: un palazzo che rispecchia le immagini
celesti - azzurro all'alba per il riflesso del cielo vestito d'azzurro, giallo quando il sole emerge dalle pieghe dell'orizzonte, bianco quando le nubi velano l'astro del giorno. Lì, un
pomeriggio, conobbe il suo futuro destino. Penetrò in una
stanza, che nessuno aveva mai aperto; e scoprì che un pittore sconosciuto aveva dipinto sulle pareti la sua effigie, «giovane adolescente con perle sparse alla cintura, con una tenera peluria profumata sul volto di luna, tutto d'argento dalla
corona alla cintola»: intorno a lui, in circolo, stavano sette
bellissime principesse dei sette continenti e ognuna lo contemplava con uno sguardo innamorato. Ogni notte, inebriato, pieno di desiderio, Bahràm Gur penetrava nella stanza e
sognava di incontrare le ragazze che gli erano state destinate
dal pennello misterioso.
Intorno a questo esile spunto favolistico, Nezàmì costruì
un libro grandioso, che riproduce le diverse nature dei pianeti e il loro influsso sulla terra. Migliaia di vivaci, continue,
elettriche relazioni e corrispondenze legano la vita degli astri
e la vita del mondo: quello che accade lassù trova un'eco tra
gli alberi dei nostri prati e le pareti delle nostre case; ogni
pianeta possiede un continente della terra, un colore, un
giorno della settimana. Sotto l'insegnamento di un architetto-astrologo, Bahràm Gur si propose di vivere un'esistenza
puramente astrale, conoscendo quaggiù i colori, i profumi, i
vini, i piaceri, i racconti che concordano con la natura dei
cieli. L'architetto costruì un castello con sette cupole, ognuna di una tinta diversa, secondo l'indole dei sette pianeti. La
cupola di Saturno scompariva nel nero come il muschio:
quella di Giove era color del sandalo: quella disegnata sotto
gli auspici di Marte era rossa: la cupola che sapeva di Sole
era gialla come una collana d'oro: la cupola protetta da Venere aveva il volto bianco: quella nutrita da Mercurio ostentava
un vittorioso turchese; la cupola benedetta dalla Luna verdeggiava di letizia. Sotto ogni cupola, i muri, i letti, le tende,
241
le cortine, i tappeti, i cuscini, i vasi, i fiori immersi nell'acqua
avevano un solo colore. Bahràm Gur sposò le sette principesse effigiate sui muri: l'India, Bisanzio, il Kharèzm, la Russia, l'Occidente, la Cina, l'Iran gli offrirono i loro tesori; e
quando le sette ragazze giunsero nel castello, indossarono
anch'esse le vesti del loro pianeta.
Così, per qualche tempo, la vita di Bahràm Gùr conobbe
la qualità astrale. Abbandonati i pensieri e le preoccupazioni
dello Stato, ogni sera saliva da una principessa. Il sabato, si
vestiva di nero e si recava nella nera cupola di Saturno, dove
lo attendeva la nera principessa indiana: la domenica, vestito
di giallo, raggiungeva la gialla cupola del Sole, presso la principessa bizantina: il lunedì innalzava un parasole verde, e si
trasferiva nel verde padiglione della Luna, dove l'aspettava la
principessa del Kharèzm: il martedì, vestitosi di rosso su rosso, si avviava alla cupola rossa di Marte, dove abitava la principessa slava dai rossi capelli: il mercoledì, col suo abito di
turchese, simbolo di vittoria, penetrava nel padiglione turchese di Mercurio, presso la principessa dell'Occidente: il
giovedì, colorando di sandalo la veste e la coppa, entrava
nella cupola marrone di Giove, dove la principessa di Cina
dagli occhi sottili bruciava del sandalo; il venerdì, con ornamenti bianchi, si recava nel padiglione bianco, dove stava la
principessa dell'Iran, mentre Venere intonava l'inno regale
per salutarlo.
Vivendo nel riflesso astrale, cosa conosceva Bahràm Gur
dei pianeti? Mentre il fuoco ardeva, le tenebre scintillavano
di ceri, la stanza lo fasciava con le sue ombre di cipresso ed
egli beveva un vino più rosso del sangue del fagiano, - il re
scopriva che l'essenza dei pianeti stava nelle storie che ogni
sera una nuova Shahrazàd gli raccontava davanti al fuoco,
penetrando sempre più profondamente con le parole probabili e improbabili, realissime e assurde dentro il tappeto
gemmeo della notte. Ogni storia aveva un colore diverso. Sera dopo sera, Bahràm conosceva una città cinese dove tutti
gli abitanti erano vestiti di nero, alberi e prati verdi come seta verde, il sangue di cento teste tagliate, l'albero di sandalo,
242
il deserto colore del sandalo, bianche fanciulle dalle gambe
d'argento... I pianeti non erano altro che questo: riflessi di
colore passati attraverso una bocca umana. Le principesse
raccontavano favole, apologhi, racconti, che NezàmI aveva
in parte tratto dal folclore indiano e persiano, e che sarebbero riapparsi nelle Mille e una notte. Era un mondo morbido
e voluttuoso, dove dominavano i piaceri e le gioie dei sensi:
oppure apparizioni e ossessioni demoniache, come se la vita
non fosse altro che questo gioco di piaceri e di spettri in una
metamorfosi baluginante.
In Leylà e Majnun, NezàmI aveva ammonito: «Godrà la
pace colui che in questo mondo non è mai stato in pace, colui che non si è radicato nella vita di questo mondo, che come un fulmine l'ha attraversata nascendo e morendo. Nel
mondo del transeunte non ti arrestare, se non vuoi averne
dolore: a colui che mette radici in questo mondo, la pace del
cuore rimane preclusa! Soltanto chi è morto a questa vita,
sarà vivo nell'altra!». Mentre Bahràm viveva nelle cupole, un
ministro malvagio opprimeva i sudditi e dilapidava il tesoro,
e le armate cinesi varcavano le frontiere dell'Iran. In un
istante, come colpito da una folgorazione, il re comprese
che la vita astrale, tra le immagini femminili, i colori e i profumi, fa parte della creazione di Dio: è uno dei fiori della
creazione divina - e p p u r e è anche la sede della vanità e
dell'effìmero, e con un gesto dobbiamo lasciarcela cadere alle spalle. In poco tempo, Bahràm ristabilì la giustizia nella
Persia; e poi scomparve in una caverna - nella vita eremitica,
nella morte, in quel Non-Spazio, dove Maometto aveva incontrato la luce senza velo di Dio.
Nell'architettura dell'universo, credo che NezàmI avesse
scelto per sé stesso la parte di Salomone: il grande re
d'Oriente, il signore della natura, il sovrano del visibile e
dell'invisibile. Come nuovo Salomone, aveva un doppio
compito. Doveva rappresentare lo splendore rutilante di colori, la prodiga vita erotica, la rigogliosa selva fiorita, che at243
traversano la natura: ma anche i misteri, gli enigmi invisibili
della creazione - enigmi che egli scopriva con la sua fede di
credente, la sua scienza astrologica e la sua intuizione di
poeta. Sapeva che la perla era l'originaria sostanza cosmica;
ed ecco, tutta la sua scienza del visibile e dell'invisibile, tutto
ciò che era appariscente e ciò che era misterioso, tutto ciò
che era concreto e ciò che era astratto doveva diventare una
collezione di perle, di ori, di zaffiri, di diamanti, di turchesi,
più splendenti di quelli reali, giacché nessuna gemma splende come la metafora di un grande artista. Il poeta non era altro che «il gioielliere del Tesoro del Mistero»: «l'orafo infilatore di questo vezzo di perle, che ha riempito di g e m m e
l'orecchio del mondo». Le sue gemme erano parole: dovevano avere la luce e la durezza della pietra, scintillare e conquistare gli sguardi, ma sapere anche di carta, di inchiostro, di
penna, e raccogliere in sé tutte le parole che altri gioiellieriscribi avevano disseminato sui loro fogli di carta, e che lui
aveva letto avidamente. Avrebbe intessuto e ricamato queste
vecchie parole: come il più squisito tessitore; o come il vecchio alchimista, che sa trasformare il rame in argento e l'argento nel più eletto degli ori.
Come gioielliere e alchimista di metafore, Nezàmi occupa
nella poesia un luogo supremo, e davanti ai miracoli nella
sua arte qualsiasi lettore europeo richiama alla memoria i
prodigi di Shakespeare e di Gongora, di Donne e di Basile.
Appena apriamo Leylà e Majnun e Le sette principesse, ci
colpisce una fantasia metaforica che sembra non avere confini: cascate di immagini acquatiche, cornucopie di immagini
floreali, prodigi di razzi nel cielo, arcobaleni dei sette colori e
delle loro sfumature infinite. Una piccola parte di queste metafore obbedisce a un codice di equivalenze e di convenzioni: ma le equivalenze sono così numerose da formare, da sole, un tappeto dall'intreccio complicato, prezioso e quasi
incalcolabile. Ogni situazione non è accompagnata da una
sola immagine, ma da una serie di immagini, che si susseguono e si sostituiscono e si accumulano, senza esaurire mai
la nostra sorpresa, fino a formare una rappresentazione a
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più strati. Lo stesso paragone può avere una doppia motivazione: o essere applicato a contenuti radicalmente diversi.
Le metafore parallele sono divaricate tra loro, talvolta lontanissime e contraddittorie, in modo da generare bagliori assurdi: mentre l'eccesso e l'iperbole producono volontariamente o involontariamente il grottesco e l'inverosimile.
L'artificio e la natura si attraggono, e la realtà viene antropomorfìzzata. Quasi costantemente, il primo termine di paragone è abolito, e si forma una pura collezione di gemme metaforiche, di cui spesso ci divertiamo a smarrire il significato.
Se tutta la realtà bruciasse in un rogo immenso, l'immenso
tappeto metaforico di NezàmI, questo giardino dove gli astri
ci hanno invitato tra i profumi e i colori, resterebbe in piedi,
in alto, solitario e trionfale e inattingibile nel vuoto.
Quando Rumi stava morendo, uno sceicco gli disse: «Che
Dio ti guarisca prontamente!». Rumi rispose: «Che i vostri
auguri di salute si applichino d'ora in poi a voi stessi! Tra
l'Amante e l'Amato, non resta più che una camicia di crine.
Non volete che la si tolga e la luce si congiunga alla luce?».
Poi promise ai suoi discepoli, come Cristo: «In tutte le circostanze in cui vi troverete, siate con me e ricordatevi di me,
affinché io mostri me stesso a voi: quale sia l'abito che indosserò, sarò sempre con voi, e diffonderò su di voi la moneta
dei pensieri». Infine declamò una piccola poesia:
Il re del pensiero senz'ombra
danzando se ne è andato
verso l'altro paese,
il paese della Luce.
Il 17 dicembre 1273 lasciò la terra. Il giorno del suo funerale, i lettori del Corano leggevano i versetti più belli con una
dolce pronuncia: i Muezzin chiamavano alla preghiera della
Resurrezione: venti gruppi di eccellenti cantori recitavano i
245
canti funebri che Rumi stesso aveva composto; mentre i corni
e le trombette mescolavano i loro suoni annunciando la buona novella. Tutti piangevano, gridavano, gettavano lamenti.
Erano presenti i membri delle diverse comunità e nazioni:
Cristiani, Giudei, Greci, Arabi, Turchi; tutti tenevano in alto i
loro libri sacri. Secondo il loro costume, i Cristiani e i Giudei
leggevano dei versetti dei Salmi, del Pentateuco e del Vangelo. Avevano compreso che Rumi era l'ultimo dei profeti. Mentre i musulmani riconoscevano in lui il Maometto della loro
epoca, essi scorgevano nella sua luce la luce che era irradiata
dalle parole di Mosè e del Cristo.
Se cerchiamo di sapere chi fosse il più famoso poeta del
mondo persiano, i testi agiografici disegnano per noi la figura leggendaria del santo islamico. Secondo Aflàki, era un
prodigioso taumaturgo e illusionista: risuscitava morti, faceva miracoli, prevedeva il futuro, commerciava con le creature angeliche e demoniache, interpretava i sogni, possedeva
un corpo doppio e trasparente, che gli permetteva di camminare nell'aria e di occupare contemporaneamente due
luoghi nello spazio. Qualche tratto sembra più individuale.
Era animato da un continuo fuoco, da un incessante ardore,
da un'inesauribile ebbrezza: l'amore terrestre e divino era,
per lui, un'esperienza di arsione e di metamorfosi; portava
tutte le sensazioni e i pensieri al massimo della tensione, oltre il punto di rottura, quando tutto il materiale umano scintillava e bruciava a una fiamma celeste. Eppure era mite, tenue, delicato: non amava chi nega: rideva dolcemente, come
distaccato da sé stesso; e al culmine della sua estasi trovava
un'estrema precisione intellettuale. Amava la danza. Nel turbine dei gesti, rivelava il vertiginoso turbine circolare di Dio:
la danza dei pianeti, delle acque, degli alberi, delle foglie: la
separazione che ci rende infelici; e i segreti metafisici e le
musiche, che l'anima apprese in Paradiso.
Grazie alle cure di Eva de Vitray-Meyerovitch, possiamo
conoscere i testi in prosa di Rumi : Le livre du dedans e Maitre et disciple, raccolto dal figlio Sultàn Valad: dialoghi che il
poeta tenne coi suoi discepoli, monologhi che forse de246
clamò davanti al muro della separazione, nei quali trascorre
con sovrana naturalezza di argomento in argomento. Come
ogni mistico, Rumi nutre una profonda diffidenza per la lingua, che colloca sotto la forza della visione. La parola produce i contrasti che rendono angosciosa e scissa la nostra vita,
tra sì e no, tra bene e male, tra Islam e non Islam: non ci consegna mai le cose che noi ricerchiamo - ma è appena un
cenno, un'allusione, un movimento, che ci invita a seguire
un altro, enigmatico movimento che si perde nella lontananza. Come distinguiamo i raggi brillanti e volatili del sole soltanto quando si riflettono sopra un muro, la parola di Dio è
un sole sottile e brillante, che ammiriamo soltanto quando si
riflette sopra un altro muro, un altro denso intermediario - i
comandamenti e le interdizioni.
Rumi avrebbe voluto contemplare la parola senza questa
fatale opacità, cogliendola nei suoi colori vibranti e infinitamente sottili. Come riuscirci? Come scavare una parola interiore dentro la parola esteriore? Come esprimersi al di là della lingua? Da un lato, egli tradusse la sterminata ricchezza di
pensieri e di sensazioni intelligibili e non-intelligibili, che
affollava la sua mente, con un tesoro di immagini, che esprim o n o ogni sfumatura dell'enigma e, insieme, lo lasciano
oscuro e irrisolto. Dall'altro, ricorse ai semplici, quasi infantili aneddoti della tradizione sufi. Nulla sembra trasmettere
più facilmente la verità mistica: eppure, dentro l'aneddoto,
si cela un abisso tra il profondo contenuto mistico e la semplice forma terrena; e da questo contrasto, nascono i baleni,
le folgori, gli incantesimi luminosi che illuminano la mente
dei suoi lettori-ascoltatori.
Allah è, per Rumi, la vertigine di unicità, che incanta e accieca il pensiero musulmano. Egli è unico, come dice Ibn
Arabi, senza secondi, senza compagni, senza simili e senza
figli: possessore senza associati, re senza ministri; artigiano
della creazione, senza che nessuno abbia preso disposizioni
insieme a lui. Se ha creato il mondo dal nulla, non l'ha fatto
247
per evitare un male, o per trarne un profitto, o a causa di un
pensiero che gli è venuto, o a causa di un motivo che lo ha
spinto, ma per una Volontà pura da qualsiasi modificazione
contingente. Egli vive sopra i contrari: il sì e il no, il bianco e
il nero, il bene e il male, la fede e la non-fede. Ma, se vive sopra i contrari, come facciamo a comprenderlo, noi che comprendiamo le cose solo attraverso i contrari? La sua essenza
ci sfugge. Egli è velato dalla sua Unicità. Qualsiasi idea ci facciamo di Dio nel nostro spirito, Egli è differente da essa. Ha
strade senza limiti. Quello che è senza limiti non può essere
spiegato, perché il commento e la spiegazione sono dei procedimenti limitati. L'infinito non può essere contenuto nel finito.
Rumi sa di non poter paragonare Dio a nessuna delle immagini umane: Dio è incomparabile; eppure, con un paradosso che definisce il suo atteggiamento religioso, sempre
nuovi paragoni, immagini e analogie si affollano nella sua
mente per circoscrivere l'Unico. Il più amato tra questi paragoni è l'Oceano, questo simbolo dell'infinito: immobile nelle
sue profondità e agilissimo alla superficie, sempre in movimento, sempre in trasformazione, come Dio - proprio lui,
l'eternamente stabile - è il signore delle trasformazioni e
delle metamorfosi. Noi dobbiamo essere come i pesci, che si
volgono interamente verso l'Oceano e la cui anima è l'Oceano: il loro nutrimento, il loro abito, la loro dimora, il loro letto, il loro sonno e il loro risveglio, tutto questo è l'Oceano.
«Seduti, in piedi, distesi, si ricordano di Dio e meditano sulla
creazione dei cieli e della terra.»
Malgrado il divieto, la mente analogica dell'uomo si volge
a Dio e lo definisce con una coppia di contrari. Dio è il vicinissimo e il lontanissimo: così vicino, che conosce ciascuno
dei nostri pensieri e delle nostre immaginazioni, e a causa
della sua estrema prossimità non possiamo vederlo; così remoto, così indefinibile, così assurdo, che possiamo appena
intravedere l'orma del suo profumo sulla terra. Nessuno ha
una potenza così tremenda e arbitraria come la sua. Quando
la sua luce si manifesta senza veli, non resta né cielo, né ter248
ra, né sole, né luna. Eppure chi è più generoso di lui, chi è
più tenero, delicato, misericordioso? Non è il Perdonatore,
l'Amico?
Questo Dio nascosto viene spinto da una forza incomprensibile a rivelarsi. Come dice un celebre hadith-, «Ero un
tesoro nascosto e ho desiderato essere conosciuto». Per conoscersi e farsi conoscere, Dio si riflette nell'universo e
nell'uomo, che sono un solo specchio di lui. L'Unica sostanza, pura come l'acqua, si diffonde, si riproduce, si moltiplica,
come le ombre in una cittadella: la verginità immacolata del
bianco dà luogo al mondo «dei colori e dei profumi», dove
noi abitiamo. Ma questa manifestazione di Dio non è assoluta: la sua rivelazione è attenuata, mitigata, adombrata, avvolta da settantamila veli di luce e di tenebre. Se la bellezza divina si fosse manifestata senza veli, l'occhio umano non
avrebbe potuto sopportarla. Si tratta dunque di un fatale fallimento? Di uno scacco della nostra pupilla troppo debole e
della mente mediocre? La devozione di Rùmi ci invita a contemplare Dio nelle sue opere, invece che nell'Essenza; e,
con un altro capovolgimento paradossale, giunge a preferire
questa conoscenza velata alla conoscenza assoluta.
Così, tutto ciò che i nostri sguardi contemplano nello
specchio colorato e profumato dell'universo è un riflesso di
Dio. Come una bella donna getta zolle di terra e pietre
dall'alto di una terrazza per essere guardata, così i cieli, la
terra, il sole, gli astri, - non sono che zolle di terra e pietre
che l'Amato getta dal mondo sottile in questo mondo contingente perché noi lo vediamo. Dovunque lo scorgiamo: in
basso e in alto, a sinistra e a destra, avanti e indietro, nel
buono e nel cattivo: nella notte e nel giorno, nelle navi che
percorrono i mari, nella pioggia che scende dal cielo per dare vita alla terra, nel mutamento dei venti, nelle nubi che sono costrette al nostro servizio: nella terra secca e nel lago,
nell'uccello e nel pesce: in sapienti, ignoranti, giusti, tiranni;
nel fiore dell'alba, nel fiato della sera, nel mormorio del boschetto, nella scintilla della pietra, nell'occhio d'oro del metallo... Il «tesoro nascosto» di Dio è esploso, ha reso la terra
249
più brillante dei cieli, e con amore inebriato gli occhi di
Rùmi ne percorrono tutti i segni. Non bisogna guardare lontano: basta che l'uomo scruti in sé stesso per scoprirvi Dio e
l'universo. Un Sufi era tuffato nella meditazione. Un impertinente gli domandò: «E che, dormi? Guarda queste vigne,
contempla questi alberi, queste piante verdi, queste impronte della misericordia divina. Obbedisci all'ordine di Dio, perché Egli ha detto: "Guarda". Volgi il tuo viso verso questi segni della sua misericordia». Il Sufi rispose: «O uomo vano, le
sue impronte sono nel cuore: ciò che è all'esterno, non sono che i segni dei segni. I veri frutteti e le vere verzure si trovano nel cuore: il riflesso su quanto si trova all'esterno è come il riflesso in un'acqua corrente».
Se Dio si riflette così nell'universo, l'universo non può che
essere buono. Non c'è nessuno più lontano di Rumi da un
atteggiamento manicheo: non c'è nessuno che annunci con
parole più esaltate l'armonia provvidenziale della storia umana. Dio ci appare ora dietro il bene ora dietro il male. «Se egli
fa perire un profeta, o lo immerge nella sventura, e dà a un
empio e a un tiranno vita, salute, piaceri, regno e sovranità,
siccome è Dio che ha deciso così, bisogna considerare buone le due condizioni.» Davanti all'onnipervasiva presenza di
Dio nell'universo, ogni differenza di religioni, di fedi, di istituzioni è una pallida ombra, destinata a sciogliersi nello slancio del cuore. Quando Rumi parlava agli infedeli, essi piangevano. «Non è necessario» commentava «che comprendano
questi discorsi. Comprendono quella che ne è la sorgente.
Confessano tutti l'unità di Dio, che Dio è il creatore, che dà
il pane quotidiano, che penetra tutto. Quando ascoltano
questi discorsi che trattano di Dio, sorgono in essi inquietudine, desiderio e nostalgia. Da queste parole sentono il profumo del loro Amato e di colui che desiderano. Se i cammini
sono differenti, il fine è unico. Non sai che diversi cammini
conducono alla Ka'ba?» Così Rumi insegnava ad amare tutti
gli oggetti limitati: insegnava ad amare nel finito l'ombra
dell'infinito; e con quale felicità del corpo e della mente, del
cuore e delle parole, ne inseguiva l'apparizione tra noi. «Non
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andare» diceva «nella vicinanza della disperazione: esistono
delle speranze. Non andare nella direzione dell'oscurità: esistono dei soli.»
La straordinaria ricchezza della condizione di Rumi nasce
dal fatto che in lui si uniscono drammaticamente i due atteggiamenti spirituali opposti: il neoplatonico e lo gnostico.
Questa terra è insieme, per lui, la casa dell'anima e la casa
dell'esilio, il migliore dei mondi possibili e l'oscuro carcere,
che imprigiona i nostri spiriti e i nostri corpi. Così ora Rumi
ci racconta una storia opposta a quella che ci aveva raccontato. Chi contempla le cose, non conosce la luce divina. Il
mondo - che prima ci manifestava il volto di Dio - è il velo
che ce lo nasconde. Viviamo un'esistenza di sogno. Nel grande specchio, che ci aveva rivelato tutti i colori e i profumi divini, appaiono soltanto le pallide illusioni dei sensi. E se almeno ci raccontassero una storia continua! Ma il tempo è
fatto di punti, di istanti, di irruzioni folgoranti e fugaci, prodotti dalla rapidità dell'azione divina: tra ognuno di questi
istanti si estende un abisso, che nessun ponte mentale può
valicare; tra ognuna di queste irruzioni, la creazione è annichilita.
Così dobbiamo lasciarci alle spalle i veli e i riflessi, i profumi
e i colori, abbandonare il carcere e il terrore della separazione.
In piedi, amici, partiamo. È tempo di lasciare questo mondo.
Il tamburo risuona dal cielo, ecco che ci chiama.
Ecco: il cammelliere si è levato, ha preparato la carovana,
e vuole andarsene. O viaggiatori, perché dormire?
Davanti a noi, dietro di noi, si elevano il suono delle
[campanelle, il tumulto della partenza.
Ad ogni istante, un'anima, uno spirito si invola verso dove
[non c'è più luogo.
Senza che noi lo abbiamo cercato, Dio si fa trovare all'improvviso; e da questo momento, lo cerchiamo insaziabilmente. Ci eravamo illusi. Un tempo ci aveva travagliati il desiderio,
l'inquietudine, l'amore per quello che non vedevamo, non
251
sentivamo e non comprendevamo. Ora ci accorgiamo che
questa inquietudine non è altro che la ricerca di Dio: il quale è
appunto il sempre diverso, il sempre differente, colui che si
mostra sotto centomila aspetti e colori. Ci guardiamo indietro: non verso la fine, come gli apocalittici, ma verso il principio dell'uomo e di noi stessi. «Che bisogno c'è di guardare la
fine? Se si è seminato all'inizio del grano, alla fine non spunterà dell'orzo; e se si è seminato dell'orzo, alla fine non spunterà del grano.» Guardandoci alle spalle, saliamo i gradini della scala della creazione. Eravamo stati minerale, poi pianta,
poi animale: infine uomo; diverremo angelo, lasciando per
sempre la terra.
Supera anche la condizione angelica: penetra in
quest'oceano, affinché la tua goccia d'acqua possa
[diventare un mare.
Una volta i Cinesi dicevano: «Noi siamo gli artisti migliori»;
e i Bizantini rispondevano: «È a noi che appartiene la perfezione e il potere». «Vi metterò alla prova» disse il re «e vedrò
chi di voi ha ragione nelle sue pretese.» Allora i Cinesi dissero: «Dateci una sala, e che ce ne sia una anche per i Bizantini». C'erano due stanze, di cui le porte si corrispondevano: i
Cinesi presero l'una, i Bizantini l'altra. I Cinesi pregarono il
re di dare loro cento colori; e il re aprì il suo tesoro perché
ricevessero quello che desideravano. I Bizantini dissero:
«Nessuna tinta o colore conviene al nostro lavoro: basta che
noi cancelliamo la ruggine». Chiusero la porta e si misero a
pulire i muri, che divennero chiari e puri come il cielo.
Quando i Cinesi ebbero finito, il re entrò e vide le loro pitture: la visione entusiasmò il suo spirito. Poi, andò verso i Bizantini, che aprirono la porta. Il riflesso delle pitture cinesi
colpì i muri che erano stati purificati da ogni ombra. Tutto
quello che il re aveva visto nella sala dei Cinesi sembrava ancora più splendido qui: rapiva lo sguardo. Questo è l'ideale
di Rumi e dei Sufi. Non più desideri, sensazioni, pensieri,
sentimenti: non più io: «La tua esistenza è un peccato al quale nessun altro è paragonabile»: nessuna incrostazione psico252
logica; e nessuna di quelle arti e di quei talenti, che gli uomini apprezzano tanto. L'io purificato deve diventare un cristallo, uno specchio nitido, terso e passivo, dove si riflettono i
colori e i profumi del mondo terreno e le sottigliezze del cielo che si avvicina.
Il cielo non è altro che la fine della dualità. «Dio è così pieno di grazia che, se gli fosse possibile morire, morirebbe per
te, affinché si abolisca la dualità. Siccome la sua morte è impossibile, muori tu stesso, affinché Egli si manifesti in te e si
annienti la dualità.» Il fedele Sufi si annulla: cancella la sua figura, come i Bizantini avevano cancellato ogni traccia di colori dalla superficie dei muri. Diventa come la falena, che
brucia le ali e il corpo nella fiamma della candela: diventa come il nuotatore che si immerge nell'oceano, dimenticando
l'io, lo sforzo, l'azione e il movimento, e annega nell'acqua,
condividendo ogni impulso dell'acqua; diventa come il cavallo, che è caduto nella miniera di sale, vi rimane per anni, e
si trasforma in una statua di sale. Dio è l'orecchio attraverso
il quale l'uomo sente, l'occhio attraverso il quale vede, la lingua attraverso la quale parla, la mano che afferra. In questo
momento, l'uomo non dice: «Tu sei Dio, e io sono il tuo servitore»: sarebbe pretesa ed orgoglio, perché affermerebbe la
propria esistenza ed instaurerebbe la dualità. Non dice nemmeno: «Egli è Dio», perché fonderebbe la dualità. Come Hallàj, egli dice: «Io sono Dio»: io sono annullato, Dio solo resta; annunciando l'unica presenza di Dio nella dissoluzione
totale del mondo.
Allora i sensi divinizzati si trasmutano. Il fedele Sufi parla
con l'occhio: guarda con la lingua: vede e conversa con
l'orecchio; ascolta con la mano. Tutto ritorna all'Uno. I mille
colori, che ci avevano incantato e lusingato per tanto tempo,
ritrovano lo splendore accecante del bianco: le molteplici
forme si dissolvono nell'unica forma; Dio si mostra senza veli, nel candore della sua unicità.
253
PARTE QUINTA
La morte degli dèi
LA CADUTA DI MESSICO
I
In una notte del 1506, sotto il segno di Montezuma II, gli
Aztechi attesero la fine del ciclo di cinquantadue anni, che
scandiva il loro tempo, e l'inizio di un nuovo ciclo. Tutto dipendeva dagli avvenimenti celesti. Se la stella Aldebaràn
avesse prolungato la sua corsa nello zenit del firmamento, il
cielo e il mondo avrebbero proseguito il loro cammino. Ma
se Aldebaràn non fosse apparsa, o se quel piccolo punto si
fosse immobilizzato all'improvviso nel cangiante tappeto celeste, sul lago e le montagne di Messico sarebbe scesa la fine.
Un terremoto avrebbe distrutto il sole: discesi sulla terra e
tramutati in fiere, le stelle e i pianeti avrebbero divorato gli
uomini; templi, palazzi, montagne, nuvole, tutto quanto gli
altri cicli avevano costruito e contemplato, sarebbero precipitati nella più informe rovina.
Dodici giorni prima, gli Aztechi spensero i fuochi, e cominciarono a digiunare. Gettarono nel lago i blocchi di pietra e di
legno, che simboleggiavano gli dèi famigliari, le pietre dei focolari, le pietre delle macine: distrussero i vecchi mantelli, le
delicate e sontuose architetture di piume, gli ornamenti, le
preziose ceramiche, tutte le piccole cose della vita quotidiana
che si erano dolcemente accumulate in cinquantadue anni.
257
Le donne incinte portavano sul volto delle maschere verdi. I
bambini mascherati venivano tenuti svegli a forza. Gli uomini
montavano la guardia, sorvegliando ogni casa dalle incursioni
degli spiriti della notte. La vigilia i sacerdoti indossarono le vesti dei loro dèi: si misero in strada a poco a poco, camminando lentamente e in silenzio, verso una collina presso Messico.
La notte, milioni di occhi ansiosi e terrorizzati scrutarono il
cielo - il cielo, così incerto, così fragile, così soggetto a perire
-, dove apparve finalmente il piccolo punto luminoso e mobile di Aldebaràn. Un sacerdote uccise una vittima, e le accese
una fiamma sul cuore. Mentre la folla cantava e risuonavano
trombe e tamburi, quella fiamma diventò un grande focolare,
che splendeva lontano. Recando torce fiammeggianti, passi
agili e veloci raggiunsero i templi degli dèi, i palazzi e le capanne, per portare ad ognuno la benedizione del fuoco e la
certezza che le stelle e i riti avevano salvato ancora una volta la
vita del mondo.
Poi vennero i presagi. Nel 1508 fu vista nel cielo «come
una fiamma, come una lama di fuoco, come un'aurora. Sembrava piovere a piccole gocce, come se forasse il cielo: si allargava alla base, si restringeva alla vetta. Fino al mezzo del
cielo, fino al cuore del cielo essa ardeva, fino al più profondo
cuore del cielo giungeva. Così la si vedeva, laggiù all'Oriente:
si mostrava, sgorgava nella metà della notte, sembrava fare il
giorno, faceva il giorno, e più tardi il sole levandosi la cancellava». Altri prodigi seguirono la spettrale luce notturna. Arse
il tempio di Huitzilopochtli: apparve una cometa divisa in tre
parti: l'acqua si mise a ribollire e a turbinare nel lago di Messico; di notte una donna piangeva e gemeva, gridando: «Miei
carissimi figli, ecco già la vostra partenza! Miei carissimi figli,
dove vi condurrò?». Finalmente, i pescatori del lago presero
con la rete un grosso uccello cinereo, simile a una gru - simbolo del popolo azteco. Lo portarono a Montezuma. L'uccello aveva nella testa uno specchio sferico, affumicato e forato
nel centro: lo specchio del grande dio Tezcatlipoca. Vi appariva una notte di profonda oscurità, tratti di cielo stellato e la
costellazione dei Gemelli: il cielo era così scuro, che Monte258
zuma volse gli occhi verso il sole, non riuscendo a credere
che fosse giorno. Quando guardò di nuovo lo specchio, il
cielo notturno era scomparso: da oriente degli uomini venivano correndo da tutte le parti, preparandosi alla battaglia, e
dei caprioli li portavano. Subito chiamò i sacerdoti-indovini.
Disse loro: «Non sapete quello che ho visto? Come se degli
uomini venissero correndo da tutte le parti...». Ma, quando i
sacerdoti guardarono, lo spettacolo era svanito, e lo specchio affumicato nascose i segreti del loro futuro.
Qualche tempo dopo, gli uomini dello specchio giunsero
sulle rive del Messico: nel 1518, Juan de Grijalva; Hernàn
Cortés sbarcò il 21 aprile 1519, con undici navi e cinquecento soldati, sulla costa di Vera Cruz. Gli Spagnoli non sapevano di essere spiati ogni momento dagli informatori dell'onnipresente Montezuma, che scorsero le navi con le vele
spiegate, i cavalli, i levrieri, le armature simili alla pietra, le
barbe bionde o colore del fuoco, le colubrine e le bombarde. Quando gli informatori tornarono a Messico, l'inquieto
Montezuma diede ordine ai pittori di corte di dipingere la
scena che aveva interrotto il silenzio del Golfo. I pittori
ascoltarono il racconto, e lo rappresentarono con il pennello. Nessuno aveva mai visto nulla di simile. Montezuma raccomandò a tutti il segreto: «Nessuno dirà mai una qualsiasi
cosa, nessuno lascerà sfuggire una qualsiasi cosa dalle labbra, nessuno si permetterà una parola a questo proposito,
nessuno lascerà filtrare qualche parola involontaria».
Col soccorso dei racconti, delle pitture e delle antiche leggende messicane, Montezuma credette di comprendere chi
fosse quell'uomo vestito di nero e il suo seguito. Quetzalcoatl, il «Serpente Piumato», era uno dei quattro grandi dèi
del suo popolo. Aveva scoperto il mais: aveva insegnato l'arte di polire le giade e le pietre preziose, di tessere le stoffe
policrome, di confezionare i mosaici con le piume degli uccelli tropicali; la doppia scienza della misurazione del tempo
e delle rivoluzioni stellari, il calendario e le cerimonie. Tutto
quello che era puro e penitenziale, tutto quello che accenna259
va alla metamorfosi della vita in morte e della morte in vita
eterna, stava sotto il suo segno.
Una doppia leggenda circondava la sua scomparsa. Una
dea-maga lo aveva costretto a mangiare un fungo allucinogeno e a congiungersi con lei. Quando si risvegliò, il dio pianse
per questa caduta irrimediabile nel mondo del peso: lasciò il
Messico e giunse sulle rive dell'«acqua celeste»: indossò l'insegna di penne e la maschera, preparò un rogo e si diede
fuoco, come avevano fatto molti dèi agli inizi dei tempi, per
consentire l'esistenza dell'universo. Le ceneri si innalzarono
lievi sopra il rogo, e tutti gli uccelli preziosi del Sud vennero
a guardare, mentre il suo cuore diventava la Stella del Mattino e ascendeva brillando verso il sole. Secondo altri, Quetzalcoatl era fuggito sulle coste dell'Oceano Atlantico, ed era
scomparso a Oriente su una zattera di serpenti, profetizzando la restaurazione del proprio regno e il ritorno dell'età
dell'oro. Montezuma, questo re-sacerdote, che discendeva
da Quetzalcoatl per parte di madre, non aveva più dubbi. La
figura che aveva intravisto fuggevolmente nello specchio affumicato, la figura che i suoi pittori avevano effigiato per lui,
era il dio del vento e del tempo, dell'arte e della preghiera,
che ritornava tra i suoi.
Durante la vita, Quetzalcoatl aveva appassionatamente
amato la splendida ed effimera maschera - la quale cela
l'oscurità del corpo umano e contiene in sé stessa, nel gioco
dei colori e delle penne, il segno di una completa metamorfosi spirituale. Ora Montezuma chiese ai sacerdoti di
aprire il tesoro del tempio, dove erano conservate le acconciature degli dèi. Ne trasse l'abbigliamento di Quetzalcoatl:
una maschera di serpente lavorata in turchesi: un'armatura
di parata in piume di quetzai. una collana di giada intrecciata con un disco d'oro: uno scudo d'oro frangiato di piume di
quetzai. uno specchio fatto come una corazza, incrostato di
turchesi: sandali d'ossidiana: orecchini in turchesi, da cui
pendevano delle conchiglie d'oro: un mantello dai bordi
rossi; il bastone del vento, curvo alla cima, con pietre di giada bianche come stelle. I messaggeri di Montezuma giunse260
ro da Cortés e gli dissero: «Il dio ha sofferto molte fatiche, è
stanco, il dio deve riposare», e lo rivestirono con l'abbigliamento divino. Non sappiamo cosa provasse Cortés vedendosi trasformato in un araldico e multicolore uccello tropicale:
né se comprendesse il senso sacro di questa vestizione. Probabilmente la trovò un ridicolo omaggio di un popolo barbaro. I testi spagnoli non ce ne informano. Ci parlano di due
grandi dischi - uno d'oro, che raffigurava il sole, l'altro d'argento, che raffigurava la luna, entrambi sottilissimamente incisi di figure -, con i quali Montezuma pose il cielo ai piedi
del dio ritornato.
Quando i messaggeri tornarono da Montezuma, erano
sconvolti: Cortés aveva mostrato le sue navi e il suo esercito
di uomini corazzati, aveva fatto sparare le colubrine e le
bombarde, ordinato una carica di cavalleria sulla spiaggia.
«Noi dobbiamo dirgli quello che abbiamo visto, e questo è
terrificante: nulla di simile è mai stato visto.» Attendevano gli
dèi, di cui avevano contemplato tante volte la figura; ed essi
erano apparsi loro come l'assolutamente misterioso, l'incomprensibile. Chi era diventato Quetzalcoatl? Erano abituati a scorgere gli dèi nelle più strane apparizioni bestiali: ma
in questi uomini-cavalli, in questi uomini-cani, in questi uomini-di-metallo, accompagnati da mostruosi animali antropomorfi, quel sacro, che veneravano con animo devoto,
sembrava scomparso. Un canto epico nàhuatl conserva intatto il terrore del primo incontro: «Sono venuti in gruppo,
sono venuti raccolti, sono venuti sollevando la polvere. Le
loro lance di metallo, le loro lance di pipistrello, era come se
lanciassero dei lampi. E le loro spade di metallo, come l'acqua ondeggiavano. Era come se risuonassero, i loro corpetti
di metallo, i loro caschi di metallo. E altri vengono tutti in
metallo, vengono interamente fatti di metallo, vengono lanciando dei lampi. Sono qui diffondendo dei grandi terrori,
sono venuti qui seminando un grande spavento. E i loro cani
vengono conducendoli, vengono davanti ad essi, vengono
tenendosi sul davanti, vengono appostandosi sul davanti,
vengono soffiando. La loro bava cade a piccole gocce. Subito
261
i loro cavalli si mettono subito ciascuno in ordine, si allineano come solchi, si mettono in ranghi, si mettono in linee. E
quattro cavalli vengono avanti, vengono primi, vengono in
prima linea rispetto agli altri: vengono alla testa degli altri,
conducono gli altri. Si voltano perennemente, si rivoltano
continuamente. Vengono a mettersi sotto gli occhi delle persone. Vengono guardando da tutte le parti, vengono spiando
da tutte le parti: dappertutto se ne vanno a vedere tra le case, vengono esaminando tutto, vengono guardando verso
l'alto delle terrazze. I cavalli nitriscono forte; traspirano molto, è come dell'acqua che cade da loro; e la loro schiuma cade a grosse gocce per terra, come se fosse sapone. E quando
avanzano, crepitano grandemente, schioccano, martellano,
come se lanciassero delle pietre. Subito, la terra, si buca, si
scava, dove essi alzano le zampe...».
Durante le guerre, gli Aztechi non dimenticavano di essere degli uomini di religione e di teatro. Le battaglie erano
squisitamente ritualizzate, senza imprevisti, inganni o sorprese, come cerimonie teatrali che costituivano il primo atto
della tragedia di venerazione e di sacrificio, recitata ogni
giorno in onore degli dèi. Appena incontrarono gli Spagnoli,
compresero oscuramente cosa fosse la vera forza: la forza armata dalla ragione, la forza che si controlla, che si propone
dei fini, e lentamente li raggiunge: la forza che ha perduto
ogni consacrazione religiosa; la forza che si propone soltanto la distruzione dell'avversario. «Venivano per la guerra, venivano in armi, venivano bardati per la guerra, coi loro scudi,
colle loro spade a filo di ossidiana, coi loro randelli puntuti
che portavano sulle spalle. Venivano sollevando la polvere...»
Lassù, a Messico, la città sembrava abbandonata. Nessuno
più usciva, nessuno veniva. Le madri non lasciavano soli i
bambini. Le strade, una volta gremite di folla, erano vuote e
desolate. I signori si riunivano in gruppi, piangendo. «Non
c'erano che colli avvizziti, colli chinati. Ci si salutava piangendo, si piangeva gli uni cogli altri, per salutarsi.» Gli uomini
del popolo dicevano: «Che possiamo ancora fare? Perché, ecco che stiamo per morire, ecco che stiamo per perire, ecco
262
che stiamo già là in piedi, attendendo la nostra morte». Montezuma, che avrebbe dovuto salvare con il suo gesto l'armonia del cosmo e dell'impero, era triste. Non conosceva più il
sonno né il cibo: non parlava a nessuno: sospirava; e avrebbe voluto nascondersi agli dèi tornati dall'Oriente. «Quando
ebbe inteso, ha semplicemente curvato la testa: è semplicemente rimasto seduto curvando la testa, ha abbassato il collo, è rimasto seduto abbassando il collo: non ha più parlato;
è rimasto seduto come un malato, abbattuto a lungo, come
se fosse annientato. Tutto quello che ha risposto è dir loro:
"Che fare? Dove prenderemo la fuga? Si coprirà veramente
di piaghe la nazione dei Messicani? Dove saremo condotti?
Che fare? Dove andare, per nulla? Cosa possiamo? Dove andare, in verità?".»
Aveva vissuto fino allora, come un greco o un romano,
sotto il segno di molti dèi, conciliando la sua fedeltà a Quetzalcoatl, il dio della famiglia materna e dei sacerdoti, con la
fedeltà a tutti gli altri dèi messicani, che forse, nella sua mente, fondeva in un'unica figura. Ora, improvvisamente, era posto di fronte a una scelta tremenda. Cosa doveva fare? Prendere le parti del suo dio ritornato, che veniva a sconvolgere
il fragile cielo, il fragile equilibrio del mondo azteco? O difendere Messico dalla prossima età dell'oro? Comprese che non
apparteneva a nessuno: oppure apparteneva a tutti, ai vecchi
dèi come alla Stella del mattino; e non poteva combattere
Quetzalcoatl né abbandonare Huitzilopochtli o Tezcatlipoca.
Così la sua condotta fu un solo intreccio di ambiguità, di
contraddizioni, di incertezze, di sospensioni, di rinvìi.
Mandò i suoi maghi a incantare Cortés e il suo esercito: non
sappiamo se per ripetere la magia che aveva cacciato Quetzalcoatl, o metterlo alla prova. La magia fallì; e non gli restò
che temporeggiare, rinviare il ritorno del dio, coprendo
Cortés di regali e insieme pregandolo di non salire a Messico
- perché le strade erano cattive, il paese era sterile, non
c'era cibo, la città era circondata dall'acqua e non vi si poteva
entrare che in canoa. Ma, nel fondo del cuore, sapeva che
tutto quanto faceva era inutile. Quello che gli astri avevano
263
deciso, e i segni della fiamma celeste o dello specchio oscuro avevano presagito, si sarebbe verificato. Lui non poteva
che attendere passivamente la volontà del cielo.
II
Davanti a Montezuma, tra le coste e le montagne sconosciute del Messico, stava Hernàn Cortés, l'elegante, ironico
gentiluomo vestito di nero, figlio della vecchissima e giovanissima Europa. Sebbene fosse povero, aveva subito recitato
la parte teatrale del grande guerriero. Si era fatto prestare
quattromila pesos per acquistare un'uniforme da «capitano»
- un pennacchio di piume, al collo una catena d'oro con la
sua medaglia, un abito di velluto ricamato in oro - e stendardi e bandiere con le armi reali e una croce.
Nessuno possedeva, come lui, il dono di Ulisse. Aveva l'occhio rapido, la mente sinuosa, la capacità di adattarsi a qualsiasi situazione, il dono di sapersi trovare a proprio agio in
un mondo completamente straniero: riusciva a improvvisare
ogni volta una decisione esatta, mentre le decisioni degli Aztechi erano paralizzate dalla coscienza di lottare con gli dèi.
Gentilissimo conversatore e diplomatico, conosceva l'arte
della menzogna, della parola mascherata, finta e elusiva, e
vinse in primo luogo con le parole quel signore delle parole
che avrebbe dovuto essere l'imperatore azteco. Trasse dal
Vangelo i principii di una politica machiavellica: omne regnum in seipsum divisum desolabitur, aveva letto. Seppe
trarre partito da tutte le divisioni politiche che incontrò in
Messico, dalle crepe e incrinature che trovò in quell'edificio
non finito di costruire: si fece credere forte quando era debole: utilizzò il gesto, la fama, l'apparenza; sfruttò con ironia
la sua leggenda divina, facendosi passare per immortale e
dotato di un'arte miracolosa nel conoscere il futuro e il pensiero degli altri. Gli Aztechi non avevano mai conosciuto un
simile intreccio di doti. Quello che dovette soprattutto sorprenderli fu l'ostinazione, l'inflessibile partito preso, la forza
264
crudele e inesorabile di volontà: quella capacità di decisioni
eroiche ed estreme, di cui diede prova bruciandosi le navi alle spalle ed assediando Messico sino alla fine. In un mondo
dominato dagli astri, dove l'arte suprema era quella di interpretare i segni, chi avrebbe potuto volere con una forza così
demoniaca?
Il viaggio verso Messico fu lungo e faticoso, e attraversò le
mille incertezze che l'incertezza di Montezuma disseminava
lungo la strada. Cortés e Bernal Diaz del Castillo non celavano il proprio entusiasmo. Le terrazze e le case dei villaggi, i
templi e i santuari, tutti intonacati di bianco, ricordavano il
bianco accecante dei paesi di Spagna. Arrivati a Tlaxcala - la
città rivale di Messico -, il mercato affollatissimo, le stoffe, i
gioielli d'oro e d'argento, i lavori di piume, le ceramiche di
tutte le forme, l'ordine perfetto della folla oscurarono ogni
ricordo della patria. Dovunque giungessero, chiedevano di
Messico e di Montezuma. I dignitari aztechi parlavano della
città costruita sull'acqua, dei grandi argini, dei ponti, delle
fortezze e dei templi, delle immense ricchezze e degli eserciti dell'imperatore. Mentre Montezuma cercava di rallentare il
loro viaggio, cresceva in tutti il desiderio di vedere la città,
come i cavalieri erranti nell'Amadigi inseguivano i castelli
fantastici. Cortés registrava il proprio desiderio con un tono
più austero: Diaz del Castillo aveva un temperamento più
semplice e favoloso. Si guardavano intorno con occhi limpidi. Volevano conoscere, capire, affondare in quell'immenso
paese, dove si raccoglievano tutte le cose che erano sempre
sfuggite loro. Forse, se avessero continuato, sarebbero davvero balzati nell'Amadigi. Volevano capire - ma non sapevano che avrebbero capito soltanto a costo di distruggere, pietra dopo pietra, gli incantesimi nati dall'acqua verde del lago.
Via via che si avvicinavano alla meta, passavano di meraviglia in meraviglia vedendo tanti paesi, alcuni costruiti sull'acqua e altri in terraferma, e il grande argine che portava a
Messico, così largo e diritto. Vaste città, edifici, e templi smisurati sorgevano dall'acqua. I soldati erano ammutoliti, e si
domandavano se tutto fosse soltanto un sogno. La sera, ripo265
savano nei palazzi-giardino: pieni di alberi e di fiori, con fontane d'acqua dolce dai bordi muniti di scale. Non si stancavano di ammirare gli alberi diversi, di odorarne i profumi, di
osservare i sentieri persi tra i fiori: chi aveva conosciuto l'Andalusia credeva di ritrovare l'incanto d'acqua e di verde della
Spagna moresca. Il 9 novembre 1519 giunsero a Messico. Un
gran corteo di nobili, coi mantelli multicolori, un fulgore di
piume e d'ornamenti d'oro, venne loro incontro. Avevano in
mano dei mazzolini di fiori, spazzavano il suolo dove l'imperatore sarebbe passato, e stendevano tappeti perché non
toccasse la terra. Camminavano a testa bassa, in segno di deferenza. Una musica di tamburi e di trombe, di sonagli e di
conchiglie, di zufoli e di ocarine li accompagnava. Quando
giunsero davanti a Cortés, ciascuno toccò la terra con una
mano e la baciò.
Infine giunse una portantina ricamata d'oro, protetta da
tendine e trasportata a spalle da quattro dignitari, che indossavano dei mantelli azzurri. Montezuma ne scese, appoggiandosi a due signori. Anche lui splendeva d'azzurro e
d'oro, i due opposti colori del sole. Portava sulla fronte un
diadema triangolare d'oro e di turchesi: il manto blu-verde e
la fascia attorno ai fianchi erano tempestati di turchesi: i
braccialetti, gli orecchini e i sandali erano d'oro; mentre il
labbro inferiore era attraversato da una spilla di cristallo dove stava infissa una piuma di colibrì. Cortés si tolse il modesto collare di diamanti di vetro e lo passò attorno al collo di
Montezuma: Montezuma gli offerse due collari di conchiglie
rosse e di grosse perle. Finalmente lo spagnolo scorgeva il
sovrano che regnava sopra l'impero del sogno, mentre il
messicano vedeva il dio ritornato dal lungo viaggio in Oriente, senza più maschera, prigioniero di un corpo, degradato e
trionfante.
Vorremmo sapere esattamente quali parole Montezuma e
Cortés si dissero quella mattina del 9 novembre: come il re
onorò il dio, come il dio-uomo dedicò quelle parole a un sovrano più grande di lui. Abbiamo soltanto due discorsi letterari, l'uno in uno spagnolo elaborato e atteggiato, l'altro in
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un nàhuatl stilizzato e variato. «Non sei tu?» disse Cortés a
Montezuma. «Non sei tu, già? Allora, tu, sei Montezuma?»
Montezuma rispose: «Sì, sono io». Subito si rialzò per incontrare lo sguardo di Cortés, si chinò davanti a lui, poi lo tirò a
sé, si levò con fermezza e gli disse: «Oh, nostro signore! Hai
sofferto molte fatiche, sei stanco: ecco che sei arrivato sulla
tua terra, ecco che ti sei avvicinato alla tua città di Messico,
ecco che sei disceso sulla tua stuoia, sul tuo seggio, che io ti
ho custodito, che io ti ho conservato. Io non sto semplicemente sognando, io non sto facendo unicamente dei sogni,
non vedo tutto questo solo nel sonno, non sogno solo di vederti, perché ti ho visto faccia a faccia. Già da cinque anni,
già da dieci anni, ero invaso da cattive impressioni. Ho guardato laggiù, verso il luogo sconosciuto da dove sei uscito, di
tra le nubi, di tra le nebbie. È dunque questo che avevano
detto morendo i signori sovrani, che tu saresti venuto a farti
conoscere alla tua città, che tu saresti disceso qui, sulla tua
stuoia, sul tuo seggio. E, ora, questo è avvenuto. Tu sei venuto: hai sofferto molte fatiche, sei stanco: avvicinati alla terra,
riposati; va' a fare conoscenza col tuo palazzo, riposa il tuo
corpo...».
Trascorsero pochi giorni di quiete, nei quali gli Spagnoli e
i Messicani vissero amichevolmente nella città piena di vita.
Il 12 novembre Montezuma prese per mano Hernàn Cortés,
e gli mostrò dall'alto di una piramide il suo impero. Mentre
nubi di incenso onoravano gli dèi del sole e della guerra, ai
loro piedi si stendeva il lago, «l'acqua di pietra verde», gremito di giardini natanti coltivati a verdura, e formicolante di canoe che trasportavano merci. Ecco l'immensa capitale e i
suoi sobborghi: le piccole strade continuamente spazzate, i
canali rettilinei, gli argini ben costruiti, i ponti, i grandi acquedotti, gli imbarcaderi: le case senza finestre, simili a case
arabe, con le terrazze e le corti coperte di giardini e di fiori;
le torri, i santuari e le fortezze biancheggianti, i templi smisurati che «sorgevano dall'acqua, tutti fatti di pietra, come
negli incantesimi della storia di Amadigi». Nessuno tra gli uomini di Cortés aveva mai visto nulla di simile. Né Granada,
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né Costantinopoli, né Roma, nessuna delle capitali dove li
aveva spinti la miseria, la brama d'avventura e l'ardore della
guerra, era sembrata loro così grandiosa, così ricca, così brulicante di vita.
La scoperta continuò lungo le strade e i canali di Messico.
Gli Spagnoli visitarono la piazza del mercato di Tlatelolco,
dove tutti i giorni si raccoglievano cinquantamila persone,
con un brusio d'alveare incessante. Avevano visto nei loro
paesi ogni sorta di mercati e di fiere: quelli di Salamanca o di
Medina del Campo; ma non avevano mai contemplato una
così straordinaria immagine del Tutto. L'universo vivente degli animali e delle cose era distribuito e suddiviso in un ordine perfetto, e ogni merce si vendeva in una strada speciale.
Da una parte, stavano i mercanti d'oro e di pietre preziose:
c'erano stupendi lavori d'argento fusi col fuoco: un piatto ottagonale, uno spicchio d'oro e l'altro d'argento, uniti insieme nella fusione: un pesce con una squama d'argento e una
d'oro: un pappagallo con la lingua, la testa e le ali che si
muovevano; una scimmia che giocava coi piedi e la testa, e
teneva nelle mani un fuso come se filasse, o una mela, come
se mangiasse. C'erano vasi in terracotta di tutte le forme e
dimensioni: urne, recipienti, serbatoi grandi e piccoli, orci,
acquamanili, alcarraze, dipinte e verniciate. Nella strada accanto si apriva il giardino artificiale dei tappeti e dei tessuti:
fili di cotone in matasse di tutti i colori, che ricordarono a
Cortés il quartiere dei Setaioli a Granada: cuoi di caprioli col
pelo e senza, colorati in bianco e rosso, cuoi di lontra, di puma, tasso e gatto selvatico, conciati e naturali; e la ricchissima gamma dei colori per gli artisti.
Il centro del mercato era la festa odorosa delle cibarie.
Nelle strade dedicate alla caccia, si raccoglievano gli uccelli:
quaglie, pernici, anatre selvatiche, gheppi, pigliamosche,
piccioni, tortore, pappagalli, gazze, arzavole: e i piumaggi e i
becchi degli uccelli da preda. Vi erano cervi, daini, tacchini,
caprioli, lepri, conigli, ghiri, piccoli cani commestibili, muti
e senza pelo, di cui gli Aztechi erano ghiotti. Poi cominciava
l'oceano delle verdure e delle frutta: le cipolle e gli agli, il
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crescione e i cardi, le ciliegie e le prugne, simili a quelle
d'Europa: miele d'api, cera di favo, miele di canna di granturco, miele di agave, vino di agave. Lì accanto, il lago di
Messico offriva sulla piazza i pesci, i crostacei, le rane, e uno
strano caviale di uova di rane, raccolto alla superficie
dell'acqua.
Quando l'occhio era stanco, apparivano le botteghe degli
erboristi, con tutte le radici e le piante medicinali dell'America: le botteghe dei barbieri, piccoli alberghi; ristoranti
all'aperto, dove le donne offrivano pasticci di carne e dolci
di miele, tazze di cioccolato odorose di vaniglia e il succo fermentato dell'aloe. Poco più avanti, nell'angolo dei piumai, il
Messico rivelava di essere un'invenzione della leggerezza. I
mercanti avevano portato dal Sud le piume verdi dorate del
quetzai, quelle azzurro-turchesi del xiuhtotol, le piume rosse e gialle dei pappagalli. Ora, nel chiuso della bottega, o sotto la luce, davanti agli occhi stupiti degli Spagnoli, gli artigiani creavano con le piume una farfalla, un animale, un fiore,
le erbe e le rupi, o una grande armatura da parata, come
quella che Montezuma aveva offerto a Cortés. Prendevano le
piume con mollette sottili, e l'attaccavano alla tela con una
materia gelatinosa: univano tutte le parti sopra una lamina di
rame, e le spianavano fino a rendere la superficie dell'immagine così liscia, che sembrava dipinta col pennello. Il lavoro
era delicato e faticosissimo. Mentre Bernal Diaz li ammirava,
gli artigiani stavano un giorno intero a mettere, togliere o aggiustare una piuma: a guardare da una parte e dall'altra, al
sole, all'ombra, contro luce, per armonizzare i colori e raggiungere l'irraggiungibile perfezione.
In quei primi sei giorni a Messico, gli Spagnoli visitarono
un'altra immagine del Tutto. Il palazzo di Montezuma era
una città bianca e quadrata, dove si entrava sia a piedi sia in
barca, scivolando lungo i canali. Conteneva tribunali e tesori,
sale per le danze e sale per gli artigiani: saloni di pietra e di
legno odoroso, con sculture, affreschi, ornamenti lavorati
con piume; e cortili, ricoperti da tende per il sole. Nel centro
del palazzo si aprivano i giardini, con alberi e fiori di tutte le
269
specie conosciute. Canali li attraversavano riempiendo vasche: uscendo dalle vasche, l'acqua saltava e si polverizzava
in una minutissima pioggia, cadendo sui fiori delle terre calde. Stagni d'acqua dolce e salata offrivano asilo agli uccelli
palustri e marini. C'erano giardini zoologici, con le belve feroci e i rettili: grandi uccelliere; e un padiglione di fenomeni
viventi, con uomini lillipuziani o deformi. Ma queste raccolte, che alimentarono la nascente passione collezionistica di
Cortés, non bastavano al desiderio di Montezuma. Come il
sovrano degli Incas, voleva avere il Tutto immediatamente
spalancato e percepibile davanti ai suoi occhi; e aveva fatto
riprodurre in una sala tutte le creature viventi, gli animali
della terra e delle acque in oro, argento e pietre preziose,
così da rivaleggiare con i puma, i pappagalli e i quetzai viventi che gremivano il suo giardino.
La moltitudine, che vogava sulle canoe, che comprava e
vendeva, che camminava sugli argini del lago, offrì agli Spagnoli uno spettacolo più armonioso di quello delle loro città.
Ecco i guerrieri consacrati allo splendore del sole, con i mantelli colorati che imitavano il disegno delle conchiglie marine, dei serpenti e dei demoni, e con gli ornamenti di piume.
Ecco i mercanti, consacrati alla notte: partivano in spedizione la notte, tornavano dopo il tramonto, nascondevano le
mercanzie e dissimulavano l'opulenza sotto abiti vili e stracciati, come se volessero allontanare la maledizione del guadagno. Ecco i sacerdoti, «quelli che vedono, che si dedicano
ad osservare il corso e il procedere del cielo, quelli che voltano rumorosamente i fogli dei codici, quelli che hanno in potere la saggezza e la pittura, quelli che stabiliscono lo svolgersi dell'anno, e il susseguirsi dei destini e dei giorni e dei
mesi». Ecco gli artigiani, i Toltecas, discendenti da una razza
misteriosa e squisita, che lavorava da secoli gli smeraldi e le
piume, l'oro e la giada; e il popolo dei contadini. Guardando
quella folla immensa, che sembrava doversi riprodurre e
moltiplicare in eterno, - chi avrebbe potuto credere che tutto fosse condannato, in pochi anni, a perire?
Non sappiamo cos'altro gli Spagnoli videro in quei giorni
270
di sosta - gli unici che trascorsero senza possedere e distruggere ciò che qualcuno voleva soltanto conoscere con
occhi meticolosi. Tutto il giorno sentirono le trombe e le
conche risuonare dall'alto dei templi, annunciando le divisioni del tempo. Forse qualcuno intravide, verso l'alba, un
sacerdote sacrificare delle quaglie: senza sapere che quegli
uccelli erano il segno delle «quattrocento stelle del Nord e
del Sud», che scompaiono all'apparizione del sole. Ignorarono che, quando un bambino nasceva, la levatrice gli diceva:
«Eccoti venuto in questo mondo, dove i tuoi genitori vivono
nelle pene e nelle fatiche, dove regnano il calore eccessivo, il
freddo e il vento. Noi non sappiamo se vivrai a lungo tra noi:
non sappiamo quale è la sorte che ti è riservata. La casa dove
sei nato non è che un nido. Il tuo paese, la tua eredità, tuo
padre sono nella casa del sole, in cielo». Ignorarono che la
levatrice toccava il petto del bambino dicendo: «Ecco l'acqua
celeste, ecco l'acqua purissima che lava e pulisce il tuo cuore, che toglie ogni macchia. Ricevila. Che voglia purificare il
tuo cuore»: gli gettava qualche goccia sulla testa e aggiungeva: «Che quest'acqua entri nel tuo corpo e che vi viva - quest'acqua celeste, quest'acqua azzurra!». Ignorarono che, nei
collegi, i giovani sacerdoti si levavano tutte le notti, in silenzio, per offrire incenso agli dèi. Ignorarono che, quando un
uomo si confessava, il sacerdote gettava dell'incenso sulla
fiamma invocando il cielo: «Madre degli dèi, padre degli dèi,
ecco un poveruomo che viene. Viene piangendo, triste, angosciato. Forse ha commesso dei peccati. Forse si è ingannato, ha vissuto nell'impurità. Viene col cuore pesante, pieno
di dolore. Signore, nostro padrone, tu che sei vicino e che
sei lontano (Tu, altissimus et proximus), fa' cessare la sua
pena, pacifica il suo cuore».
All'improvviso, il 14 novembre, con una delle sue audacissime mosse di giocatore d'azzardo, Cortés andò a prendere
271
Montezuma nel suo palazzo e lo condusse prigioniero nel
palazzo dove era alloggiato. E uno degli enigmi della conquista. Perché Montezuma accettò la violenza del carcere? Perché non fece sollevare l'esercito e la popolazione contro gli
Spagnoli? La conquista sarebbe finita così, col massacro dei
falsi dèi venuti a turbare la vita di Messico. Quella di Montezuma era una civiltà del sacrificio: all'inizio del tempo, gli dèi
si erano gettati sul rogo, per far sorgere il sole e la luna; e,
ogni giorno, i guerrieri venivano immolati nei templi, perché
il sole continuasse il proprio corso nel cielo e l'equilibrio cosmico venisse salvato. Ora, Montezuma doveva sacrificarsi
come i suoi guerrieri piumati. Gli astri avevano svelato i segni del destino. Gli dèi erano tornati; e Montezuma doveva
abbandonare il palazzo, lasciare la corona, chinare il capo,
per fare la volontà degli dèi e impedire che il suo popolo ignaro - si sollevasse contro di loro. Non c'era nessun'altra
salvezza, se non nuova umiliazione, nuova sconfitta, in fondo alla quale - chissà quando - si sarebbe accesa la luce della redenzione. Un gran numero di dignitari vennero al palazzo di Montezuma. Lasciarono i loro vestiti di cerimonia; e a
piedi nudi, piangendo silenziosamente, condussero il loro
signore nella dimora che gli era stata destinata. Montezuma
disse loro: «Vi supplico di accordare a questo signore l'obbedienza che accordavate a me stesso. Voi gli renderete tutti i
tributi e i servizi che mi avete reso sino ad oggi, come io mi
impegno a obbedirgli in tutto quello che mi ordinerà». Mentre faceva questo discorso, piangeva a calde lacrime, manifestando il dolore più grande.
Così, per qualche mese, Montezuma e gli invasori convissero nello stesso palazzo. Il grande re accettò di diventare
uno strumento nelle mani degli Spagnoli: riceveva ambascerie, prendeva decisioni, amministrava la giustizia, come se
fosse libero - e faceva imprigionare i dignitari che non volevano accettare il dominio. Conobbe l'umiliazione estrema.
Cortés gli fece mettere i ferri ai piedi - e lui pianse un'altra
volta. Mentre i più alti signori aztechi gli parlavano con il capo rivolto a terra, scalzi e vestiti di stracci, ora fu obbligato a
272
sopportare la compagnia di soldati orgogliosi, vanitosi e
scortesi, che possedevano tutti i difetti che la sua civiltà condannava: fu costretto a giocare insieme a Cortés, che barava
per derubarlo, e a dormire insieme a un rozzo marinaio. Ma,
tra lui e i suoi strani dèi, si stabilì presto un rapporto di affetto, o di complicità, come può stabilirsi tra i violenti e assurdi
signori del cielo e gli uomini che, sorridendo e piangendo,
chinano il capo davanti a loro. Cortés diceva di amarlo come
sé stesso: Montezuma gli rispose offrendogli in sposa una figlia: diventò amico di un paggio spagnolo, che gli parlava in
nàhuatl-, e donava continuamente gioielli e stoffe ai suoi carcerieri. Conobbe qualche giornata di distensione, come la
traversata del lago di Messico su un brigantino che Cortés
aveva fatto costruire. I più intelligenti fra gli Spagnoli compresero di aver conosciuto, per la prima volta, un «principe
della terra». Montezuma possedeva tutte le qualità che l'etichetta azteca raccomandava ai sovrani: la cortesia, la prudenza, la calma: la gravità e la semplice maestà del comportamento; e il sorriso di autoironia con cui la regalità rivela la
propria essenza gentile dietro il decoro che la nasconde.
Una cosa ci rimane oscura. Montezuma credeva ancora
che gli Spagnoli fossero dèi? Fino a quando lo credette? E fino a quando gli Aztechi condivisero la sua illusione? Molti segni avrebbero dovuto metterlo sull'avviso. Cortés fece buttare giù dalle scale dei templi le immagini delle divinità
messicane e mise al loro posto quelle della Madonna e dei
Santi: chiese che i sacerdoti aztechi le adorassero e le ornassero di fiori; e raccontò a Montezuma la creazione del mondo, l'incarnazione e la morte di Cristo. Possibile che Quetzalcoatl ritornato annunciasse una teologia così diversa da
quella che era stata sua? Montezuma non offese i propri dèi.
Disse dolcemente a Cortés che «... quanto alla creazione del
mondo, da molto tempo sappiamo anche noi come stanno
le cose. Per il resto, non possiamo rispondervi altro che noi
adoriamo i nostri dèi perché li riteniamo buoni: altrettanto
dev'essere dei vostri; meglio dunque smettere di parlarne».
Poi gli Spagnoli entrarono nel tesoro di Montezuma, distrus273
sero le architetture e pitture di piume, arsero i tessuti, strapparono le pietre preziose dai gioielli, fusero i capolavori
dell'artigianato azteco, per cavarne soltanto delle sbarre
d'oro: dimostrando così di ignorare che tutte le opere dei
Toltecas erano un inno che le mani scrupolose degli uomini
avevano innalzato al cielo. Infine, durante l'assenza di
Cortés, Pedro de Alvarado fece massacrare i guerrieri aztechi, raccolti per celebrare la festa di Huitzilopochtli, violando
lo spazio che gli dèi si riservavano sulla terra - la festa, la celebrazione del sacro. Montezuma rimase ferito in quanto
aveva di più caro. Ma, forse, dovette dirsi che quello che distingue gli dèi è l'imprevedibilità, l'assurdità e l'arbitrarietà
delle azioni. Non si può prescrivere una strada agli dèi. Dobbiamo soltanto accettarli. Non osava dirsi che gli astri lo avevano ingannato, e che tutti i suoi sacrifici a Quetzalcoatl, tutti i rinvìi e le umiliazioni, erano stati tragicamente vani.
Tutto, allora, precipitò. I Messicani elessero un nuovo re,
assediando gli Spagnoli nel loro palazzo. La lunga soggezione si trasformò in furore. Cortés ritornò con altri soldati, e
chiese a Montezuma di ordinare la sospensione dell'assedio. Montezuma sapeva che non aveva più alcun potere:
ma gli dèi dell'Oriente avevano ancora una tale forza sul
suo spirito, che bevve l'ultimo calice dell'umiliazione, indossò il mantello tempestato di turchesi, si pose in capo il
diadema, e salì su un balcone. Alcuni guerrieri si fecero sotto il palazzo e, con le lacrime agli occhi, gli dissero: «Oh signore, gran signor nostro, quanto ci rincresce il vostro dolore e tutto il male dei vostri figli e famigliari! Abbiamo
promesso agli dèi che nessuno degli stranieri uscirà vivo da
Messico». In quel momento si levò un tumulto, e una pietra
colpì Montezuma alla testa: gli Spagnoli gli si fecero attorno, cercando di rianimarlo; ma lui non volle essere curato.
La lunga umiliazione aveva preso fine insieme alla vita.
Qualche giorno più tardi, gli Spagnoli lasciarono Messico.
Nella notte, furono assaliti e massacrati. Cortés sfuggì a malapena. Gli Aztechi pensarono che non sarebbe tornato mai
274
più, e pulirono, ornarono, abbigliarono come una volta di
turchesi e di piume i loro templi.
L'anno dopo, Cortés riapparve sulle rive del lago, con una
moltitudine di alleati indiani. Salirono di nuovo sulle cime
dei templi, contemplando dall'alto, con un entusiasmo aguzzato dal desiderio di vendetta, «la grande città e il lago gremito di canoe, che andavano e venivano». Cominciò una
guerra di sterminio, condotta con una conseguenza, una violenza e una volontà di distruzione, che ricordarono agli Spagnoli l'assedio di Gerusalemme nel primo secolo dopo Cristo. Cortés accerchiò la città e fece tagliare il grande
acquedotto. Avanzavano quartiere dopo quartiere, casa dopo casa, barricata dopo barricata, mentre tredici brigantini
assediavano la città dalla parte del lago. Ma penetrare in
quell'intrico di canali, di piazze, di argini e di piccole strade,
era difficile. Tutte le notti i Messicani riprendevano il terreno
perduto di giorno, potenziando le loro difese, allargando le
brecce negli argini, piantando nel fondo del lago selve di pali per impedire il movimento dei brigantini. Cortés rischiò la
morte presso la piazza di Tlatelolco. Gli Aztechi catturarono
sessantasei Spagnoli: ogni notte ne immolavano qualcuno
nei templi, alla luce dei falò e al suono dei tamburi, dei corni
e delle trombe.
Cortés decise di radere al suolo la città che aveva tanto
amato. Ordinò ai soldati di distruggere tutte le case: di spianarle, di colmare i canali, e di trasformarli in una desolata
terra ferma. L'avanzata continuò, come un incubo, la notte e
il giorno, ritmata dal terribile rullare dei tamburi e dal suono
sacrificale dei corni aztechi. Nella città, «tutto era stato mangiato: la lucertola, la rondine, la paglia di mais, e la gramigna
del natron. E hanno masticato il legno colorato del tzompantli, e hanno masticato i gigli d'acqua, e l'intonaco, la pelle concia, e il cuoio di cavallo che facevano grigliare, cuocere, arrostire, che cucinavano per mangiarlo, e l'arbusto
tetzmatl, e la polvere di mattone che masticavano». Le strade
erano piene di donne e di bambini che morivano di fame:
così magri, così scarniti e lamentevoli, da strappare lacrime
275
sero le architetture e pitture di piume, arsero i tessuti, strapparono le pietre preziose dai gioielli, fusero i capolavori
dell'artigianato azteco, per cavarne soltanto delle sbarre
d'oro: dimostrando così di ignorare che tutte le opere dei
Toltecas erano un inno che le mani scrupolose degli uomini
avevano innalzato al cielo. Infine, durante l'assenza di
Cortés, Pedro de Alvarado fece massacrare i guerrieri aztechi, raccolti per celebrare la festa di Huitzilopochtli, violando
lo spazio che gli dèi si riservavano sulla terra - la festa, la celebrazione del sacro. Montezuma rimase ferito in quanto
aveva di più caro. Ma, forse, dovette dirsi che quello che distingue gli dèi è l'imprevedibilità, l'assurdità e l'arbitrarietà
delle azioni. Non si può prescrivere una strada agli dèi. Dobbiamo soltanto accettarli. Non osava dirsi che gli astri lo avevano ingannato, e che tutti i suoi sacrifìci a Quetzalcoatl, tutti i rinvii e le umiliazioni, erano stati tragicamente vani.
Tutto, allora, precipitò. I Messicani elessero un nuovo re,
assediando gli Spagnoli nel loro palazzo. La lunga soggezione si trasformò in furore. Cortés ritornò con altri soldati, e
chiese a Montezuma di ordinare la sospensione dell'assedio. Montezuma sapeva che non aveva più alcun potere:
ma gli dèi dell'Oriente avevano ancora una tale forza sul
suo spirito, che bevve l'ultimo calice dell'umiliazione, indossò il mantello tempestato di turchesi, si pose in capo il
diadema, e salì su un balcone. Alcuni guerrieri si fecero sotto il palazzo e, con le lacrime agli occhi, gli dissero: «Oh signore, gran signor nostro, quanto ci rincresce il vostro dolore e tutto il male dei vostri figli e famigliari! Abbiamo
promesso agli dèi che nessuno degli stranieri uscirà vivo da
Messico». In quel momento si levò un tumulto, e una pietra
colpì Montezuma alla testa: gli Spagnoli gli si fecero attorno, cercando di rianimarlo; ma lui non volle essere curato.
La lunga umiliazione aveva preso fine insieme alla vita.
Qualche giorno più tardi, gli Spagnoli lasciarono Messico.
Nella notte, furono assaliti e massacrati. Cortés sfuggì a malapena. Gli Aztechi pensarono che non sarebbe tornato mai
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più, e pulirono, ornarono, abbigliarono come una volta di
turchesi e di piume i loro templi.
L'anno dopo, Cortes riapparve sulle rive del lago, con una
moltitudine di alleati indiani. Salirono di nuovo sulle cime
dei templi, contemplando dall'alto, con un entusiasmo aguzzato dal desiderio di vendetta, «la grande città e il lago gremito di canoe, che andavano e venivano». Cominciò una
guerra di sterminio, condotta con una conseguenza, una violenza e una volontà di distruzione, che ricordarono agli Spagnoli l'assedio di Gerusalemme nel primo secolo dopo Cristo. Cortés accerchiò la città e fece tagliare il grande
acquedotto. Avanzavano quartiere dopo quartiere, casa dopo casa, barricata dopo barricata, mentre tredici brigantini
assediavano la città dalla parte del lago. Ma penetrare in
quell'intrico di canali, di piazze, di argini e di piccole strade,
era diffìcile. Tutte le notti i Messicani riprendevano il terreno
perduto di giorno, potenziando le loro difese, allargando le
brecce negli argini, piantando nel fondo del lago selve di pali per impedire il movimento dei brigantini. Cortés rischiò la
morte presso la piazza di Tlatelolco. Gli Aztechi catturarono
sessantasei Spagnoli: ogni notte ne immolavano qualcuno
nei templi, alla luce dei falò e al suono dei tamburi, dei corni
e delle trombe.
Cortés decise di radere al suolo la città che aveva tanto
amato. Ordinò ai soldati di distruggere tutte le case: di spianarle, di colmare i canali, e di trasformarli in una desolata
terra ferma. L'avanzata continuò, come un incubo, la notte e
il giorno, ritmata dal terribile rullare dei tamburi e dal suono
sacrificale dei corni aztechi. Nella città, «tutto era stato mangiato: la lucertola, la rondine, la paglia di mais, e la gramigna
del natron. E hanno masticato il legno colorato del tzompantli, e hanno masticato i gigli d'acqua, e l'intonaco, la pelle concia, e il cuoio di cavallo che facevano grigliare, cuocere, arrostire, che cucinavano per mangiarlo, e l'arbusto
tetzmatl, e la polvere di mattone che masticavano». Le strade
erano piene di donne e di bambini che morivano di fame:
così magri, così scarniti e lamentevoli, da strappare lacrime
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anche ai loro aguzzini. Gli Aztechi non volevano arrendersi.
Chiesero dalle barricate a Cortés perché non finiva rapidamente di ucciderli, come il sole che in un giorno e in una
notte faceva il giro del mondo.
La fine fu segnata, come l'inizio, dai presagi del fuoco.
«Quando fece notte, subito, allora, è piovuto, è piovuto a
piccole gocce. Faceva notte quando un fuoco è apparso. Lo
si è visto così, è apparso così, come se venisse dal cielo, come un turbine di vento. Veniva girando come un fuso, veniva
volteggiando. Era come se una brace scoppiasse in pezzi, alcuni molto grandi, alcuni molto piccoli, alcuni soltanto come
delle scintille. Come un vento di metallo, si è levato, faceva
un gran rumore, scricchiolava, crepitava. È girato attorno al
muro che era vicino all'acqua. Subito è andato in mezzo
all'acqua, là si è annientato.» La mattina dopo, gli ultimi difensori si arresero senza combattere, e i brigantini penetrarono nel piccolo golfo. L'ultimo imperatore fu preso. Portato
da Cortés, gli disse che aveva fatto tutto quello che poteva
per difendere i Messicani, la città e sé stesso e, mettendo la
mano sul pugnale, «Uccidimi» gli disse piangendo. La città
era piena di morti: cadaveri nella laguna, cadaveri dissanguati, cadaveri di morti di fame, di annegati, di asfissiati dalla decomposizione dei corpi. Sul lago cessò all'improvviso ogni
rumore: non più fracasso di tamburi, di corni e di trombe,
non più colpi di fucile e di cannone, o strepito e urla di combattenti: si spense ogni voce; e un silenzio pauroso cadde
sopra gli dèi morti, i templi, la piazza una volta così animata,
i palazzi di Messico.
Quando si sparse la notizia che il potere di Messico era stato distrutto, i dignitari venivano da tutti i paesi a far atto di sottomissione a Cortés e a giurare fedeltà a Carlo V Alcuni accompagnavano i loro bambini, «e come noi diciamo: lì c'era
Troia, quelli dicevano ai figlioli: lì v'era Messico». Messico era
vivo soltanto nelle parole dei vincitori, che rimpiangevano di
aver distrutto con le loro mani gli incantesimi sorgenti dall'acqua, e compiangevano i vinti. Anche quella delicata creazione
di astri, di acque e piume era finita: come Troia, come Geru276
salemme, come Ctesifonte, come Costantinopoli; e come stava già per cedere il giovane impero di Carlo V
LA MORTE DEGLI DÈI
I
Nel 1590, Garcilaso de la Vega cominciò a scrivere i Commentari reali degli Incas. Per parte di madre, era bisnipote
del sovrano inca Tupac Yupanqui, che regnò sul Perù verso
la fine del XV secolo: mentre il padre era stato un conquistador spagnolo. Aveva abbandonato la patria da quasi trent'anni, con una piccola eredità lasciatagli dal padre: aveva combattuto nelle guerre di Granada, tradotto in spagnolo i
Dialoghi d'amore di Leone Ebreo, composto una Storia della Florida. Se ora, quando la nostalgia l'assaliva più acutamente, ripensava al suo paese, gli pareva di essersi dimenticato alle spalle un luogo di contrasti e di estremi - dove il
condor apriva le sue ali lunghe cinque metri e gli uccelli-mosca e i colibrì, così minuscoli che sembravano farfalle, così
esili che come api si tuffavano nel calice dei fiori, offrivano al
cielo le preziose penne color azzurro dorato, color oro fino,
color oro verde splendente, oppure vaghe come le tinte moribonde dell'arcobaleno.
Tutta la sua vita in Europa gli lasciava un senso inquieto di
fallimento e di frustrazione. Gli pareva di essere soltanto il
discendente di una razza inferiore, incapace di tenere la penna in mano. «Posseggo appena la forza di un indiano nato tra
gli indiani e cresciuto tra armi e cavalli»: «quel poco di latino
che so, l'ho appreso nel gran fuoco delle guerre della mia
terra, tra armi e cavalli, tra polvere e archibugi, di cui mi intesi meglio che di lettere». Ma questo sentimento di inferiorità,
che da un lato lo spingeva ad avvolgersi compiaciuto nel
manto stupendo della prosa spagnola, dall'altra gli faceva
cancellare il suo passato europeo, come se fosse soltanto un
inca, esclusivamente un inca, ultimo figlio della razza sconfit277
ta ed oppressa. Allora nacque nella sua mente il desiderio di
conservare con le parole - quelle parole scritte che i suoi padri non avevano mai conosciuto - il passato della propria
razza, il nome dei re e degli dèi, la successione delle conquiste, la descrizione dei palazzi e dei templi, come veniva irrigato il terreno, come veniva governato il paese, chi parlava la
lingua segreta del potere e della venerazione, chi sacrificava
agli dèi, quale mistero aveva spinto i suoi padri verso la gloria e il disastro.
Cosa avrebbe raccontato agli innumerevoli lettori spagnoli, che sperava di conquistare con le sue parole di amore e di
sofferenza, e ai pochi lettori incas, che forse avrebbe ridestato dal torpore? Dopo la conquista, moltissimi guerrieri e
missionari spagnoli avevano rievocato quella civiltà improvvisamente emersa dall'ombra: qualcuno di questi testi, opera di un meticcio come lui, li aveva tra le mani, e li utilizzò
con la facilità e la naturalezza che guidava gli scrittori umanisti nel saccheggiare i propri modelli. Ma egli possedeva una
fonte più preziosa. Se ricordava la sua infanzia, trascorsa con
la madre a Cuzco, mentre il padre era chissà dove, occupato
con i sanguinosi giochi del potere, ricordava una scena sempre eguale. Stava giocando, da solo o con qualcuno dei suoi
coetanei, quando uno dei suoi zii o prozii o dei suoi molti
parenti regali, veniva a trovare la madre. «Mentre io, bambino che ero, entravo e uscivo più volte dal luogo dove stavano e mi rallegravo di udirli, come accade a coloro che prestano orecchio a favole», gli zii e prozii rievocavano la
grandezza dell'impero inca; e quindi passavano alle cose
presenti, rimpiangendo la fine degli dèi e dell'impero, e dicendo con lacrime e sospiri: «Da regnanti, siamo divenuti
vassalli». La sua infanzia era trascorsa tra queste favole di
grandezza, tra questi ricordi, tra questi sospiri, tra queste lacrime di disperazione.
Finché un giorno Garcilaso si rivolse al più anziano dei
suoi parenti: «Zio,» gli disse «che ricordo avete della nostra
antichità? Quale fu il primo dei nostri Incas? Come si chiamava? Quale origine ebbe la nostra stirpe? Quali sono stati i no278
stri dèi - gli dèi che oggi sono morti? Quali sono stati i nostri
riti e le nostre feste - quei riti e quelle feste che io non oso
conoscere?». Il vecchio cominciò a rivelare quanto conosceva al giovane che, armato di una nuova lingua, conscio delle
terribili e seducenti forze della scrittura, sarebbe divenuto
uno scrittore spagnolo, preservando la verità dei vinti nella
lingua dei vincitori. Il grande libro di gloria, dolore e sconfìtta nacque così, dalle ansiose domande che un giovane meticcio rivolse intorno al 1555 in una casa di Cuzco. Non conosco rivelazione più toccante: un vecchio melanconico e
incerto, una civiltà travolta e sommersa affidare le proprie
speranze di sopravvivenza alle parole di un ragazzo, che stava per avanzare - da solo - in un futuro incomprensibile.
II
Sollecitata dalle parole del vecchio zio, la fantasia di Garcilaso tornava di continuo verso i luoghi della sua gente. La
leggenda raccontava che, dopo il diluvio, i primi tenui raggi
del sole si posarono sopra il lago e l'isola di Titicaca; e vicino
al lago il dio supremo Viracocha scolpì sassi dalla figura umana, da cui nacquero i primi uomini. Molti secoli dopo, la razza umana viveva ancora nella barbarie, quando l'altro dio supremo - il sole - depose un figlio e una figlia nelle acque del
lago. Ordinò loro di fìngersi uomini, nascondendo la propria
scintilla solare. In tutti i luoghi dove si trovavano a dormire,
dovevano conficcare nel terreno una barra d'oro lunga un
metro: appena la barra penetrava nel terreno, lì dovevano
fermarsi e costruire la casa. Usciti dal lago, i due figli del sole
presero la strada verso il settentrione, e tentavano di conficcare la barra d'oro nel suolo delle brevi pianure che si aprivano all'improvviso tra le montagne. Non vi riuscivano mai:
la terra si rifiutava tenacemente di accogliere quella scintilla
pietrificata di luce, quella preziosa quintessenza della sostanza solare. Quando ormai disperavano, giunsero ad una piccola locanda. Piantarono ancora una volta la barra d'oro, la
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quale penetrò con grande facilità nel suolo e scomparve come se fosse attesa, inghiottita dal grembo della terra.
Attorno a quel luogo sorse Cuzco, la città simile a un puma. L'enorme fortezza di Sacsahuaman, sopra un colle altissimo - edificata con massi così giganteschi, che uno «era indotto a pensare che fosse frutto di un incantesimo, tanto
sembrava impossibile che braccia umane avessero spostato
quelle pietre» - era il capo guerriero e feroce della belva: la
città era il corpo; e il fiume Vilcamay era la mobile, inattingibile coda del puma. Il vecchio zio di Garcilaso l'aveva conosciuta prima che gli Spagnoli l'offendessero e la degradassero. Allora, quando giungeva dalla campagna, Cuzco gli
appariva in tutto il suo splendore dorato. Attraversava i sobborghi della città, chinando il capo davanti agli abitanti, che
parlavano una lingua misteriosa; e arrivava sulle sponde di
due torrenti montani, che scorrevano in canali lastricati, come in una città olandese. Le acque erano pulitissime e purissime, simili alle acque della montagna. Le donne incas venivano a bagnarvisi, ed egli aveva spesso trovato lungo le
sponde (o scorto tra le ombre delle acque) delle piccole
spille, degli esili ornamenti d'oro, che le donne avevano
inavvertitamente lasciato cadere. Aveva raccolto quegli ornamenti, come si raccolgono tutti i relitti preziosi e delicati che
la vita abbandona dietro di sé, spoglie incomprensibili nelle
quali dovremmo forse cercare la sua essenza.
Restava a lungo così, con quei gioielli tra le dita, chiedendosi quale donna li avesse perduti, dove ora fosse, e che
pensieri accarezzasse in quel momento. Ma nemmeno allora, nemmeno quando più si abbandonava alla fantasticheria,
dimenticava di abitare in una realtà sacra, che l'avvolgeva da
ogni parte con il suo abbraccio. Quella Cuzco, che gli sembrava così semplice, così quotidiana, così famigliare - donne
che si bagnano lungo un fiume - era l'ombelico della terra, il
cuore del cosmo, l'immagine della perfezione. Era legata alle
cose supreme. La fortezza di Sacsahuaman la avvicinava al
cielo, dove splendeva il disco solare; e il suo asse era orientato verso il lago Titicaca, dove il sole era disceso per la prima
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volta dopo il diluvio. Passeggiando per le quattro strade
principali, lo zio di Garcilaso le scorgeva formare una croce,
come le strade delle città sacre costruite oltre l'oceano, lungo fiumi più lenti e tranquilli. Nel cuore delle quattro strade
- proprio dove i figli del dio avevano piantato la barra d'oro
- sorgeva il tempio del sole; e dal centro del sole in terra che
era Cuzco, lo spazio sacro si irraggiava in tutte le direzioni verso Quito e le rive deserte del Cile, verso il mare pescosissimo e i boschi dell'Amazzonia -, e in ogni punto restava
qualcosa della benefica forza celeste.
Una volta egli si trovò a Cuzco per la festa di Inti Raymi,
che cadeva subito dopo il solstizio di giugno. Già prima
dell'alba, la grande piazza nel centro della città era piena di
gente. Tra i nobili del regno, molti giunsero avvolti in una
pelle di puma, con il capo nascosto nel cranio della bestia feroce, o portavano delle ali da condor attaccate alle spalle giacché il puma e il condor erano emblemi del sole. Ad un
tratto, ogni brusio tacque: giunse l'inca, preceduto da uno
stuolo di Indiani, che spazzavano la strada togliendo ogni festuca di paglia dal suolo. Il sovrano era trasportato a spalle,
su una lettiga nascosta da un tendaggio e tappezzata da penne di pappagallo. Sembrava che volasse sulla terra; e quel
lento, immobile volo sopra le spalle dei portatori era già un
anticipo del volo definitivo che l'avrebbe condotto in cielo,
nel palazzo degli dèi, accanto a suo padre il sole.
Arrivato sulla piazza, l'inca scese. Una treccia di differenti
colori gli cingeva sei volte il capo formando sulla fronte una
frangia di lana scarlatta. Due penne bianche e nere gli ornavano il capo. Erano penne di un uccello rarissimo, che si trovava in un deserto ai piedi delle montagne. La leggenda raccontava che quegli uccelli sacri erano appena due: come i
due figli del sole. Quando veniva scelto un nuovo Inca, il cacciatore del re metteva il piede tra le sabbie di quel deserto,
penetrava tra quelle nevi: catturava con le reti i due uccelli,
strappava loro due penne e poi li lasciava liberi, ai loro voli
solitari e felici. Mentre lo zio di Garcilaso guardava Tinca, gli
sembrava che egli proteggesse lui e tutti gli Incas «con le ali
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del suo cuore», li ricoprisse «col delicato tessuto del suo petto», e li accarezzasse con le «molteplici, potenti sue mani».
Finché l'inca viveva, essi non erano soli sulla superficie del
mondo. Con i suoi tenui gesti consacrati, avvicinava il cielo e
la terra, li fondeva in un punto di mediazione; e garantiva la
vita degli animali e delle piante, la vita dei nobili che gli si
affollavano intorno, la vita dei contadini che lavoravano i
campi, la vita di tutti gli uomini che, forse, abitavano le sconosciute terre dell'Oriente e dell'Occidente.
Il cielo era ancora grigio. I nobili attendevano in silenzio
che il sole sorgesse, guardando con gli occhi protesi verso
Oriente. Appena il sole apparve, si accoccolarono per adorarlo: non fissavano arditamente i raggi cogli occhi, perché
un tabù lo vietava; col capo chino si accontentavano di seguirne le irradiazioni sulle rocce di un monte, sulle acque nitidissime dei due torrenti, sulle pietre levigate del tempio.
Con i gomiti sollevati, con le mani aperte verso il cielo, gli
mandarono dei baci attraverso l'aria. Poi Tinca si pose alla testa della processione, e cominciò a cantare. I nobili lo seguirono. Cantando, battevano i piedi; e quanto più il sole saliva
nel cielo, secondo l'orbita che qualcuno o egli stesso aveva
prescritto, tanto più forte il suono - che si esprimeva in
quella lingua misteriosa parlata soltanto a Cuzco - saliva supplicando nelle regioni dell'aria. Fino a mezzogiorno le voci
continuarono a salire di tono, a modularsi, ad arricchirsi,
toccando un diapason quasi insostenibile, insieme disperato
e glorioso, come se volessero raggiungere il luogo che sta oltre i suoni. Per un momento tutto rimase stabile e fermo,
chiuso nella perfezione dell'istante che esce dalla curva del
tempo. Appena il sole cominciò a discendere, le voci diventarono a poco a poco più lievi e tenui. Al tramonto, i volti si
fecero tristi, le voci malinconiche e fosche: poi calarono e
all'improvviso si spensero. Il cielo era quasi grigio. Quando il
sole cadde spossato nelle braccia della notte e scomparve
nei gorghi dell'oceano, gli Incas sollevarono di nuovo le mani venerando per l'ultima volta l'astro che forse li aveva abbandonati per sempre.
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Mentre questo coro riempiva la città-puma, l'inca prese
due recipienti d'oro, pieni di alcool di mais. Invitò il sole a bere dal recipiente che teneva nella mano destra: lo versò in una
tinozza, dalla quale il liquido usciva attraverso una condotta
di pietra levigatissima, giungendo fino al tempio. L'Inca bevve
un sorso dal recipiente che teneva nella sinistra; e ne versò
poche gocce nei recipienti che gli porgevano i nobili «affinché
quel liquore, santificato dal sole e dall'Inca, comunicasse le
proprie virtù a chi lo beveva». Il sovrano entrò nel tempio, sulle cui mura esterne lo zio di Garcilaso scorse un fregio d'oro
ricordare l'onnipresenza del dio. Sulle pareti interne, incontrò le stesse placche e le medesime lastre. Poi, nel centro del
tempio, nel cuore dell'ombelico della terra, nell'intimità segreta di ogni spazio sacro, conobbe la rivelazione. La figura
del sole era cesellata su una piastra massiccia d'oro: un volto
guardava verso di lui dal centro di innumerevoli raggi di luce;
e medaglioni egualmente d'oro lo circondavano. Non ebbe il
tempo di chiedersi se quel volto fosse un volto umano o bestiale, o appartenesse a una stirpe inaudita: non ebbe il tempo di domandarsi se assomigliasse allinea, come la sostanza
assomiglia alla sua ombra. In quel momento, mentre le voci
sulla piazza salivano di tono, i raggi del sole scesero sull'effigie, vennero rifratti e moltiplicati dai medaglioni, un fulgore
gli arse gli occhi; e il volto del sole gli venne sottratto. Come
prima nella piazza, il «divino» aveva attratto gli uomini; e poi si
era negato, avvolto da uno splendore che getta nell'oscurità i
loro occhi.
Il viaggio nel tempio continuò. Lì vicino si aprivano cinque
grandi stanze. La prima era la casa della luna, foderata di lastre d'argento, «poiché dal suo bianco colore la si riconoscesse»: la seconda, con il soffitto disseminato di astri piccoli
e candidi, era dedicata a Venere, alle stelle e alle Pleiadi: la
terza al baleno, al tuono e al fulmine; mentre nella quinta un
artigiano aveva dipinto su una lastra i colori dell'arcobaleno,
che sfumavano l'uno nell'altro, come le penne sul petto dei
colibrì e degli uccelli-mosca. Il medesimo artigiano aveva lavorato nel giardino, trasformando tutta la natura in oro e in
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argento, con quella stessa preziosa capacità illusionistica,
che ispirava i suoi confratelli nelle corti d'Europa.
Lo zio di Garcilaso rimase incantato. Scorse piante, erbe e
fiori di tutte le specie: aiole fiorite: piante di mais dallo stelo
d'argento e dalle rigonfie pannocchie d'oro; e alberi d'alto
fusto, con le foglie, i fiori e i frutti, alcuni dei quali cominciavano a sbocciare, altri erano a metà maturi, altri completamente maturi sembravano ammollirsi e cedere tra le mani
che li coglievano. In un angolo, una catasta di legna pareva
pronta ad ardere sopra i bracieri di corte. Perduto in
quest'Eliso senza odori, in questa primavera dorata e pietrificata, il vecchio contemplò le bestie che strisciano - serpi, ramarri, lucertole e lumache - aggirarsi tra le erbe immortali:
mentre sopra una roccia gatti di montagna, vigogne, cervi e
caprioli, daini e guanachi e un gregge di lama con i suoi pastori ricordava, nel cuore della città, che le altitudini della
montagna erano prossime. Nessuna voce rompeva gli spazi:
falchi, pernici, tortorelle, pellicani in atto di gettarsi sopra la
preda, usignoli dalla voce stonata, cardellini gialli e neri, colibrì e uccelli-mosca, are coloratissime stavano fermi sopra i
rami, o sembravano sul punto di muoversi in volo. Lo zio di
Garcilaso era rimasto solo, fra le forme che fingevano l'apparenza della vita. Non sapeva in quale mondo si stesse movendo. Non sapeva se le piante e gli animali che aveva visto erano quelli della realtà, che la devozione degli Incas aveva
consacrato agli dèi nel materiale che gli dèi amavano. O se
quelle pannocchie di mais, quei lama, quelle lucertole, quei
falchi, quegli usignoli erano le vere piante, i veri animali,
foggiati dalle mani del sole e della luna, mentre le piante e
gli animali, che aveva conosciuto nella realtà, erano soltanto
delle imitazioni maldestre.
Ritornò nella piazza, mentre le voci declinanti celebravano
il sole al tramonto. Qualcuno aveva trasportato le mummie
dei sovrani, che di solito stavano sedute sopra uno sgabello
nel tempio del sole: non mancava loro un capello, né un sopracciglio né un ciglio; una sottile pellicola d'oro sostituiva
gli occhi, che guardavano verso il basso, perché nemmeno
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essi potevano contemplare l'immagine dell'astro. Un padiglione venne innalzato per ciascuno di loro: vi furono deposti per ordine, seduti sui troni, circondati da paggi e da donne, che agitavano i flabelli e trattavano i re come se fossero
stati vivi. Vicino ad ognuno stava un piccolo reliquario, dove
erano appoggiati i capelli, le unghie, i denti e tutto ciò che le
membra dei sovrani avevano abbandonato durante la vita.
Un paggio offriva loro un pasto e una tazza di alcool di mais,
che venivano arsi su un braciere di ferro. Quando udì questo
racconto, Garcilaso ebbe un brivido. I morti avevano lasciato
l'ombra nella quale di solito abitano - l'ombra dove i sacerdoti cattolici cercavano di confinarli per sempre -, e si erano
mescolati tra i vivi. La vita poteva sopportare un simile assalto? In quel momento, i suoi padri non diventavano degli
spettri anche loro - più morti dei morti? E, dal passato,
quell'ombra non si rovesciava sopra il suo capo? Garcilaso
non poteva comprendere che nella piazza di Cuzco, nel cuore dell'ombelico del mondo, i suoi avi gustavano una goccia
di tempo sacro. Tutte le barriere cadevano: le barriere che,
nell'esistenza quotidiana, dividono gli dèi e gli uomini, le
piante e gli animali, le forme e le cose, l'alba e il tramonto, i
vivi e i morti, il passato e il presente. Senza saperlo, per lo
spazio di una giornata, i suoi avi vivevano là dove i giorni, i
battiti del tempo, le antitesi e le suddivisioni sono abolite.
La sera era giunta. Le voci degli Incas si erano spente da
poco nella grande piazza. Le mummie erano di nuovo nel loro soggiorno. Mentre lo zio di Garcilaso tornava a casa, ripensava a quello che aveva visto. Due volte, sulla piazza e nel
tempio, aveva dovuto abbassare gli occhi davanti all'inattingibile. Eppure quel sole radioso era troppo famigliare, troppo vicino e manifesto, per consacrargli l'eccesso amoroso
del suo cuore. Allora ricordò una cosa che qualcuno gli aveva raccontato. Un giorno, durante le feste di Inti Raymi, l'Inca Huayna Capac, violando il tabù, fissò gli sguardi sul sole. Il
sommo sacerdote, che gli stava accanto, disse: «Che fai, Inca? Non sai che non è lecito?». Il re tacque e abbassò lo
sguardo: ma poco dopo tornò a levarlo e, con la stessa auda285
eia, lo rivolse al sole. Il sacerdote insistette: «Bada» disse «a
quel che fai. Oltre ad essere vietato fissare liberamente gli
occhi sul sole, tu dai il cattivo esempio a tutto il tuo impero,
che è qui raccolto per dimostrare la venerazione che spetta a
tuo Padre». Allora Huayna Capac rispose: «Io ti dico che questo Padre Sole deve avere un altro Signore maggiore e più
potente, il quale gli ordina di percorrere le strade che ogni
giorno segue senza mai riposarsi...».
Lo zio di Garcilaso conosceva il nome di quell'«altro Signore», a cui Huayna Capac aveva alluso. Era Viracocha, il
dio della parte inferiore di Cuzco, che era legato al basso, alla terra, all'acqua e alla costa, mentre il sole proteggeva l'alto, il cielo, il fuoco e la montagna. Egli apparteneva alla parte
superiore di Cuzco ed avrebbe dovuto venerare soprattutto
il sole, che quella mattina gli era apparso nella sua gloria. Ma
Viracocha era nascosto, invisibile, incomprensibile quanto il
sole era manifesto e visibile: tanto oscuro quanto l'altro era
luminoso - come se ognuno dei due dèi di Cuzco incarnasse
una metà precisa del mondo. Non poteva scegliere tra di loro: avrebbe dovuto essere, volta a volta, alto e basso, fuoco
ed acqua, costa e montagna, luce ed ombra; eppure qualcosa lo spingeva a interrogare la figura nascosta nell'ombra.
Così cominciò a ripetere tra sé le parole di un salmo:
A Viracocha, potere di tutto ciò che esiste,
Santo, Signore, Creatore della luce nascente.
Chi sei? Dove sei? Non potrò mai vederti?
Nel mondo di sopra, nel mondo di sotto,
da quale mai lato del mondo
si trova il tuo trono?
Dell'oceano celeste o dei mari terrestri,
quale abiti?
Viracocha, creatore dell'uomo, Signore,
con i loro occhi macchiati
i tuoi servitori desiderano vederti.
Posso contemplarti e conoscerti,
posso considerarti e comprenderti?
Oh abbassa i tuoi sguardi sopra di me,
oh ascoltami e sceglimi,
impedisci che io mi estenui e muoia!
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Forse, se avesse continuato a ripetere queste parole per
giorni interi, come per un giorno intero i sacerdoti del sole
avevano cantato il trionfo e il tramonto del loro dio, non si
sarebbe estenuato, non sarebbe mai morto.
Con la mente fìssa a quella voce quasi sopraffatta, che ritornava a lui da una lontananza di trent'anni, Garcilaso de la
Vega vergò decine di pagine. Poi si interruppe. Aveva bisogno di distanza. Se voleva capire la civiltà che stava rappresentando, doveva rifugiarsi in uno spazio neutro, dove quella voce malinconica cessasse di echeggiare. Del resto, i suoi
antenati erano stati molto meno patetici del loro tardo discendente spagnolo. Nelle loro azioni e nei loro monumenti,
nelle loro leggende e nella loro organizzazione sociale, si
esprimeva una mente matematica, che dava ordine al mondo. Dove essi apparivano, il caos veniva bandito, la confusione era illuminata da una luce limpida come quella che, ogni
mattina, splendeva sugli ori del tempio del sole. Tutta la
realtà, dove gli Europei dell'epoca di Garcilaso si perdevano
come in una selva intricata e contradittoria, veniva riassunta
in pochi principii mentali e in poche contrapposizioni logiche. Il Numero imponeva la sua perfezione alla Storia. La società era divisa per due, per tre, per quattro, per cinque, per
dieci, per multipli sempre più grandi di dieci, fino a quando
l'intero corpo sociale, disposto a cerchio come la città di
Cuzco, fosse raggiunto dalla suddivisione del numero. Lo
spazio era dominato dalla medesima visione prospettica:
mentre la storia - proprio lei, ribelle ad ogni tentativo di numerazione - veniva distinta in epoche, in cicli, in regni, segnati ciascuno dallo stesso numero perfetto.
Se molti di questi numeri si erano perduti nel tempo di
una generazione, Garcilaso conosceva la rappresentazione
che la cultura inca dava di sé stessa, l'immagine splendida e
illusoria che voleva far conoscere agli altri - l'immagine che
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proprio lui, frugando nel ricordo e tra le parole scritte,
avrebbe rivelato alle generazioni meravigliate. Egli comprese
che, se il potere spagnolo non aveva un senso tranne che
nella propria furia disperata, il potere inca voleva essere
un'«arte delle connessioni». Connettere, legare, avvicinare,
stringere relazioni e rapporti tra l'alto e il basso, gli dèi e gli
uomini, i vivi e i morti, le diverse regioni dell'impero, le diverse popolazioni, le diverse parti della città e i diversi numeri... Tutto il senso della vita stava in questo inesauribile
tessere. Così gli Incas avevano voluto che i loro desideri fossero trasparenti nei simboli più conosciuti dell'impero: i
ponti e le strade.
Sopra le gole montane e i fiumi che scendevano rapidamente verso valle, essi gettarono i loro fragilissimi e resistentissimi ponti di vimini, che si incurvavano ondeggiando sotto il passo dei viandanti. Tra gli altipiani e i deserti della
costa, costruirono sedicimila chilometri di strade, più larghe
delle strade romane. Alberi e cespugli odoriferi rinfrescavano con la loro ombra il viandante affaticato: locande accoglievano i lettighieri; e dei messaggeri, scelti per la loro agilità e resistenza, portavano le notizie per l'Inca. Erano
installati in capanne, situate a breve distanza l'una dall'altra:
per non perdere un solo minuto, ognuno di essi annunciava
il suo arrivo suonando la conca, affinché il corriere della stazione seguente potesse andargli incontro, ascoltare il messaggio e partire a sua volta. Ma stringere connessioni non bastava. La vera arte delle connessioni stava nello stabilirle, e
subito dopo nascondere il gesto della mano che le aveva stabilite. Così accadeva nelle costruzioni incas: le grandi pietre,
che parevano giunte lì «per incantesimo», erano meravigliosamente connesse le une alle altre, tanto che fra di esse non
passava nemmeno la lama di un coltello. Qualcuno versava
del piombo fuso o dell'oro nelle giunture: tutte le pietre
sembravano un'enorme pietra, una sola montagna, uscita intera dal grembo della terra; e nel punto d'incontro scintillava
dell'oro, ricordando che la fusione si era compiuta perfettamente, che le membra sparse dell'impero, le molteplici pie288
tre separate del tempio o della fortezza erano diventate un
solo edificio vivente.
Se Garcilaso doveva credere ai ricordi di suo zio, dentro
questo edificio tutto veniva regolato in modo minuzioso e
quasi ossessivo. Non vi era spazio per l'avventura, e per quel
caso dove egli aveva vissuto, soffrendo, combattendo e scrivendo, durante i cinquant'anni della sua vita. Le parole «libertà» o «individuo», che egli aveva cominciato a conoscere
in Europa, non significavano nulla in un mondo dove una
burocrazia cinese, formata da controllori meticolosi e invisibili, si insinuava nelle minime evenienze e nei più intimi recessi della vita domestica. A Cuzco come a Quito, nelle montagne come nelle pianure lungo il mare, gli Indiani
pranzavano e cenavano a porta aperta, perché i messi
dell'Inca potessero liberamente entrare a casa loro. Il messo
entrava, portava nelle piccole capanne rotonde coperte di
paglia il ricordo benevolo, astratto e impersonale dell'imperatore: esaminava l'ordine, la pulizia e il decoro dell'abitazione: la cura e la diligenza di cui il marito e la moglie davano
prova, l'obbedienza e la laboriosità dei figli: usciva, ritornando nell'ombelico del mondo; e di lì a poco i contadini venivano premiati con lodi pubbliche, o fustigati pubblicamente
alle braccia e alle gambe. Nessuno poteva restare senza lavoro: nemmeno i malati e gli invalidi, i quali erano obbligati a
frugare i pidocchi in ogni parte del corpo, chiudendoli in
cannucce, che ogni settimana dovevano consegnare allo
scrupoloso funzionario imperiale. Poi giungevano altri funzionari - i custodi del quipu -, che elencavano con le loro
cordicelle colorate i beni d'ogni singolo abitante, d'ogni villaggio, dell'intera provincia. Registravano quanta materia prima era stata distribuita tra i lavoratori e quante riserve erano
state portate nei magazzini reali: quante nascite, morti, matrimoni erano accaduti in ogni villaggio e in ogni provincia.
Infine le corde colorate venivano spedite a Cuzco, dove il
grande archivista rivelava all'imperatore, appena egli ne
avesse il desiderio o il capriccio, quanti pascoli e boschi, poderi e coltivi, miniere e sorgenti, laghi, fiumi e saline, alberi
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fruttiferi e selvatici, bestiame grande e minuto riempissero le
terre del suo impero. Tutto - Garcilaso aveva l'impressione
- esisteva soltanto per venire elencato e contabilizzato: perché il mondo era un archivio, che ogni mattina il sole ordinava con la sua luce meticolosa.
Come in tutte le costruzioni perfette della mente umana,
la Legge onnipresente che reggeva quest'edificio luminoso
era insieme mite e tremenda. Era tremenda, perché il delitto
compiuto non aveva importanza. Il colpevole poteva aver rubato un poco di guano, o staccato un frutto da un albero sul
bordo della strada: poteva, forse, aver peccato soltanto di
pensieri e di omissioni; egli veniva egualmente ucciso - poiché non aveva peso la natura del delitto, ma il fatto che una
violazione era accaduta, che la Legge era stata offesa, che
l'Inca-dio era stato ingannato. Tutti i reati erano lo stesso
reato, perché tutti disubbidivano alla Legge. Ma questa Legge tremenda era anche la più misericordiosa. Nel tempo di
noviziato, il futuro sovrano indossava l'abito più povero e vile e con quello appariva in pubblico: per rendere presente
alla memoria che, quando fosse divenuto imperatore, non
avrebbe dovuto spregiare i poveri, ma ricordarsi di essere
stato uno di loro. La Legge dell'Inca assicurava il mantenimento dei contadini vecchi e malati: negli anni di carestia, i
suoi granai soccorrevano i poveri: egli imponeva a tutti obblighi ben conosciuti; e se veniva a sapere che lavorare nelle
miniere di mercurio era dannoso per la salute, ecco, per ordine dell'imperatore, le miniere venivano chiuse e il nome
stesso di mercurio veniva abolito dalla lingua. Così la Legge
era venerata, temuta e amata, come l'Inca da cui emanava.
Spesso criminali, di cui nessuno conosceva i delitti, denunciavano alla giustizia i peccati nascosti nel loro cuore. Temevano che, se non l'avessero fatto, le loro colpe avrebbero
portato all'impero malattie, morìe, cattivi raccolti; e cercavano di placare gli dèi con la propria morte.
La vita degli Incas non assomigliava completamente
all'immagine che Garcilaso aveva rappresentato con tanto
amore. La perfezione del numero non dominava l'immensa
290
estensione dello spazio. Se i ponti di vimini varcavano arditamente i fiumi in piena, se le strade raggiungevano i più remoti angoli delle montagne, se le pietre continuavano a nascondere le loro giunture, l'«arte delle connessioni» conosceva qualche incertezza. Tutta la vita quotidiana non era regolata dall'alto: la burocrazia non era così onnipresente e
scrupolosa: qualche persona e qualche oggetto sfuggivano
agli archivi; la Legge non era così sacra e tremenda. Come in
tutte le società umane, il caso e il capriccio facevano la loro
apparizione anche a Cuzco e a Quito. Forse era meglio così,
perché se l'ideale degli Incas si fosse pienamente realizzato,
l'assoluta utopia avrebbe mostrato il suo orribile volto tra le
vette delle Ande. Ma a Garcilaso non importavano molto le
smentite della realtà. Dal fondo del suo dolore, egli rappresentava un sogno: un sogno che, prima di lui, aveva visitato
gli imperatori e i sacerdoti incas; e che ora egli cercava di
imporre alle immaginazioni sfrenate, inquiete e desiderose
degli Europei del suo tempo. Si sa quale forza di contagio
abbiano i sogni: per due secoli, dopo Garcilaso, gli Europei
cercarono di immaginare come sarebbe stato bello vivere
nel regno del sole.
IV
Garcilaso ignorava che l'impero inca era una creazione relativamente tarda, che aveva trionfato sopra imperi di altissima civiltà, dai quali desunse l'arte, il cerimoniale, il sistema
amministrativo, le tecniche d'irrigazione. Ma i sacerdoti incas nascondevano l'origine della loro cultura, e pretendevano che la «storia», nei paesi dell'America meridionale, fosse
cominciata con loro. Nei primi capitoli dei Commentari, dal
sapore stupendamente lucreziano, i precursori degli Incas
sono visti come dei «pagani». Veneravano le erbe, gli alberi,
gli alti colli, grandi rocce e fessure fra di esse, profonde caverne, i ciottoli e le pietruzze di diverso colore che si trovano nei torrenti. Veneravano le fonti copiose e i fiumi: la ter291
ra, l'aria che respiravano, poiché grazie ad essa vivono gli esseri umani: il fuoco perché li riscalda; gli innumerevoli pesci
del mare - le sardine e il muggine, lo squalo, l'orata e il granchio. Come se ignorassero ancora la distinzione dei sessi, le
membra dei maschi si congiungevano con le membra dei
maschi, le donne cercavano le donne; e nei templi si praticava la sodomia sacra. A questo mondo selvaggio, informe e
caotico, i guerrieri incas appresero, secondo la leggenda, gli
usi della civiltà: l'agricoltura, l'arte di tessere, l'arte di cuocere i cibi, di arare, di seminare, di scavare canali, di filare, di
cucire vestiti; e l'abitudine di seppellire i morti. Come feroci
missionari, quasi volessero distruggere la ragione del male
selvaggio, perseguitarono gli omosessuali. Li bruciarono vivi
nelle piazze: ne bruciarono le case, le raserò al suolo e appiccarono il fuoco agli alberi dei loro poderi.
Appena penetrati nella storia, gli imperatori e i sacerdoti incas si sforzarono di cancellare dalla storia tutto ciò che la distingue: il movimento continuo, l'arbitrio, l'inquietudine, la
diversità, la discontinuità, il desiderio, la violenza. Vissero nella storia, come se fosse fatta di un'altra sostanza - un'imitazione di quella sostanza eterea, che conoscevano il giorno di Inti
Raymi, gustando nella piazza del sole una goccia di tempo sacro. La società inca doveva restare immobile, identica, eguale
a sé stessa, chiusa nel suo sogno di perfezione. Nessuno doveva varcare i confini della sua classe; e i figli della gente comune non potevano apprendere le scienze, «onde non avessero a insuperbire, arrecando danno allo Stato». Nessuno
doveva cambiare la foggia del vestito. Nessuno poteva sposare una donna di una diversa provincia, di un diverso villaggio
o di un diverso gruppo sociale. Nessuno poteva trasferirsi in
un altro quartiere, perché avrebbe confuso l'ordinamento decimale della società. Chi lasciava il suo gruppo e la casa senza
ragione, era solo un uomo vano e curioso, che sarebbe stato
capace dei più atroci delitti, e doveva venire punito. Tutte
queste leggi non sarebbero bastate, se i sacerdoti incas non
avessero tenuto lontano dall'impero la moneta e la scrittura,
le più temibili alleate della storia. L'oro e l'argento erano mi292
nerali consacrati al sole e alla luna, che le mani scrupolose degli artigiani disponevano sulle mura dei templi: nessuno doveva desiderarli e degradarli, «comprando» qualcosa con le
monete, come avrebbero fatto gli Spagnoli. Quanto alla parola scritta, essa è due volte scandalosa, perché non ha corpo,
non suona, non echeggia negli spazi dell'aria, come fa il «fuoco roteante» della parola vivace; e perché diventa subito di
nessuno e di tutti, invece di rimanere a lungo nascosta in
menti segrete.
Senza monete, senza scrittura, senza tempo, gli Incas raccontarono a voce (o ai nodi diversamente colorati dei quipus) gli avvenimenti della loro storia passata, che a sua volta
Garcilaso de la Vega confidò ai fogli morti e muti della scrittura. Garcilaso non sapeva che quella non era una «storia». I
dieci imperatori del leggendario passato incaico, ognuno dei
quali aveva regnato cento anni, erano in realtà i capi delle
dieci parti in cui si divideva l'organizzazione sociale di Cuzco: proiettati magicamente all'indietro, come altrettanti re di
una dinastia. Il Numero sopraffaceva un'altra volta la Storia.
Mentre il pensiero europeo contemporaneo - del quale Pizarro e Almagro erano figli senza saperlo - era affascinato dal
demonismo e dalla molteplice ambiguità del potere, i sacerdoti incas cercavano di allontanare dal trono dei loro sovrani
ogni ombra di desiderio e di violenza. I dieci sovrani si assomigliavano l'uno all'altro, come ombre lasciate cadere dalla
stessa figura mitica. Quell'unico re - si chiamasse Manco Capac o Sinchi Roca. Tupac Yupanqui o Pachacutec - era benevolo, mite, affabile, prudente, munifico: radioso come il sole
di cui era figlio e da cui traeva lo splendore ordinato dei propri raggi.
Così le conquiste politiche di ogni Inca diventavano, nella
leggenda tramandata da Garcilaso, una specie di azione missionaria, guidata da un monarca evangelico. Quando si affacciavano sulle frontiere dei popoli vicini, i messaggeri del re
affermavano di voler convertirli «alla conoscenza e all'adorazione del sole». «L'Inca, figlio del sole,» insistevano i messaggeri «non intende procurarsi terre per tiranneggiarle, ma so293
lo per far del bene ai loro abitatori, secondo l'ordine ricevuto da suo padre.» Dopo aver constatato come le leggi
dell'impero fossero amorevoli e utili, i popoli «selvaggi» le
accettavano volentieri; e «uomini e donne, vecchi e bambini,
con grande festa e allegria, con fragorosi canti ed ovazioni,
accoglievano l'Inca come signore». Se tentavano di far resistenza, Tinca muoveva loro una guerra senza furore. Accerchiava il nemico senza affrontarlo in battaglia: cercava di
prenderlo per fame; cercava di indurre le mogli e i figli rimasti a casa a persuadere i mariti ed i padri. Mai, a nessun costo, permetteva alle sue truppe di portare offesa alle proprietà e alle persone degli avversari. «Dobbiamo risparmiare
i nostri nemici,» dichiarò uno degli Incas «oppure faremo il
nostro danno, dato che presto essi e tutto quanto loro appartiene, dovrà essere nostro.» Così, anche in questo caso, i
popoli stranieri chinavano il capo e andavano a chiedere
perdono al re, «indossando gli abiti più vili, restando a capo
e a piedi nudi, deposti i mantelli e con indosso soltanto una
camicia». Chiuso nei suoi drappeggi, il re non appariva. Un
messaggero spiegava con dolci parole agli afflitti che egli
«non era venuto in terra per privarli dell'esistenza né dei
possessi...».
Quest'edifìcio compatto di re generosi e di miti azioni politiche subì un'incrinatura almeno una volta, quando il pensiero politico inca fu costretto ad affrontare drammaticamente la violenza che, perfino nel mito, si insinua tra le
azioni degli uomini, le inquieta e le travolge. Garcilaso racconta che Tinca Yahuar Huacac sentiva di essere segnato dal
destino, perché nell'infanzia i suoi occhi avevano pianto lacrime di sangue: viveva nell'angoscia per questo presagio incomprensibile: non osava intraprendere azioni di guerra; e
restava a casa, mandando il fratello a combattere, «ora aspettandosi grandi successi, ora invece pieno di sfiducia a causa
del cattivo presagio». Finalmente il presagio, che aveva tanto
angosciato il suo animo, si compì. Suo figlio crebbe perfido,
feroce, protervo, iracondo, vendicativo: come se una forza
ostile volesse preparare in lui una figura opposta in ogni li294
neamento alla figura mitica di un Inca. Allora il padre espulse
il figlio dalla reggia, e lo fece condurre nelle alte praterie
presso la città, dove i pastori pascolavano lungo i torrenti i
bestiami del sole, e gli impose di mescolarsi a loro, come il
più umile dei guardiani.
Passò qualche tempo. Un giorno, mentre il figlio reietto
stava disteso ai piedi di una roccia, guardando le greggi del
sole, gli apparve uno straniero, col viso coperto da una lunga
barba e una veste fino ai piedi, che teneva alla catena un animale dagli artigli di puma. Forse il principe era sveglio, con i
sensi tesi e sovreccitati, in uno di quei momenti dove l'animo
si protende oltre il presente: forse era visitato da quei sogni
lucidissimi, che ci rivelano, come in un lago di trasparenza, il
futuro nostro e del mondo. L'uomo barbuto era il dio Viracocha - l'oscuro dio del basso e del mare -; e gli rivelò che molte popolazioni delle province di Chinchaysuyo stavano per ribellarsi al dominio inca. Abbiamo dunque questo scandalo:
proprio il crudele, l'escluso venne visitato dal dio, quasi che il
messaggero dell'aldilà potesse rivelare sé stesso e il presagio
soltanto a chi non apparteneva alla figura mitica. Ma, nel momento stesso in cui Viracocha scelse il figlio reietto come propria emanazione, lo strappò dal mondo malvagio in cui viveva
e lo gettò nel luogo della luce. Il figlio raccolse le truppe,
sconfisse i ribelli in battaglia, salvò il paese dalla rovina, dando
prova di essere un grande Inca, come tutti gli altri che prima
di lui avevano tenuto il trono. La frattura era stata dunque ricomposta. Un violento aveva infranto la perfezione del pensiero politico inéa: ma era stato «scelto» e consacrato dal dio,
che lo reinserì nella sfera sacra del potere.
Quale luogo abbia avuto la violenza non nel pensiero, ma
nella vita quotidiana degli Incas, è difficile dire. Tutto lascia
credere che, anche a Cuzco, come nelle antiche teocrazie
del Medio Oriente, che tanto assomigliano all'impero inca, i
«figli del sole» abbiano mentito, ingannato, offeso, vilipeso,
ucciso, trascinati dallo «smunto Assassinio». Ma è ugualmente probabile che i gesti compiuti ogni anno alla festa del sole
e la mediazione del pensiero politico abbiano mitigato e
295
neutralizzato la violenza. Quando si avvicinò la fine dell'impero, e Garcilaso non era ancora nato, questa sapiente ideologia venne strappata e lacerata, come un esilissimo e inutile
velo, dalle passioni degli uomini. Nel 1528, Huascar e
Atahualpa, i due figli dell'Inca Huayna Capac, si mossero
guerra. Sangue venne versato: interi gruppi e popolazioni
sterminate; e l'aristocrazia inca non riuscì più a risollevarsi
da questo colpo. Se dobbiamo credere a Garcilaso, una figura come quella di Atahualpa non era mai stata vista sul trono
degli Incas : questo politico machiavellico, tanto astuto quanto crudele, tanto cauto quanto feroce, tanto «volpe» quanto
«leone», sembrava appartenere piuttosto alla storia europea,
come uno scandalo che gli occhi non potevano contemplare. Prima di giungere sulle navi spagnole, l'Europa era già a
Cuzco: l'Europa, col suo potere senza consacrazione, senza
connessione, senza mito, senza luce, senza mitezza.
V
Poi venne la fine - preceduta, come quella di Ctesifonte,
di Costantinopoli e di Messico, da presagi sinistri. Risalivano
ai tempi di Huayna Capac, quando qualcuno aveva profetato
che presto genti straniere avrebbero abbattuto il regno e la
religione di Cuzco. Mentre l'ombra del tramonto si diffondeva sopra il giardino d'oro e d'argento, sopra i leggeri ponti di
vimini, le strade sotto gli alberi, i morti nella grande piazza, i presagi si moltiplicarono. Vi furono terremoti, flussi e riflussi, comete verdi che mettevano sgomento. Durante la festa
del sole, apparve un condor, messaggero del sole, inseguito
da falchetti che cercavano di ucciderlo a colpi di rostro. Come se chiedesse soccorso al suo dio, il condor si lasciò cadere nella piazza. Era malato, ricoperto di scaglie rognose, quasi nudo di piume; e pochi giorni dopo moriva. L'ultimo
presagio fu più terribile. Nelle ore serene di una notte chiarissima, la luna apparve circondata da tre immensi aloni: il
primo color sangue, il secondo verde scuro e il terzo pareva
296
di fumo. Un indovino osservò questi aloni e si accostò a
Huayna Capac. Aveva il volto ottenebrato dalla tristezza, lacrimava e riusciva appena a parlare. «Mio Signore,» egli disse
«sappi che tua Madre la Luna, nella sua pietà, ti avverte che
Viracocha, creatore del mondo, minaccia il tuo sangue regale e il tuo impero con grandi sventure. Quel primo cerchio
sanguigno che tua madre ha attorno a sé significa che, dopo
poco che te ne sarai andato a riposarti presso tuo Padre il
Sole, scoppierà una guerra crudele tra i tuoi discendenti e
molto del tuo sangue regale sarà versato. Il secondo cerchio
verde scuro ci annuncia che dalle guerre e dallo sterminio
dei tuoi deriverà la distruzione della nostra religione e del
nostro Stato, e tutto si convertirà in fumo, come indica il terzo cerchio, che appunto sembra fatto di fumo.» Un messaggero interruppe l'indovino. Annunciava all'imperatore che
degli stranieri stavano navigando lungo le coste settentrionali del suo regno.
Quando gli Spagnoli giunsero a Cajamarca e a Cuzco, una
parte degli Incas videro in loro delle immagini di Viracocha.
Un'ombra sacra, tra venerabile e terrificante, li circondava.
Cavalcavano enormi animali dai piedi d'argento: splendidi
nelle vesti e nelle corporature, avevano la barba nera o la barba rossa: possedevano tuoni; e qualcuno li aveva visti parlare
da soli nascosti dietro «certi panni bianchi», visi davanti a fogli, come una persona parla con l'altra. Ma quei «fogli bianchi», che gli Incas avevano tenuto con cura lontani dai loro
confini, li riempirono di stupore e di terrore. Forse lì, proprio
lì, nelle pagine di quelle Bibbie, di quegli editti, di quei messaggi che gli Spagnoli inviavano loro, si nascondeva il nemico
oscuro, che avrebbe distrutto tutto ciò che avevano più amato. Avrebbero potuto fronteggiare le corazze, i fucili, i cavalli
dalle zampe d'argento: ma chi poteva vincere la magia incomprensibile delle parole scritte? Quando Pizarro inviò una lettera ad Atahualpa - racconta una stupenda tragedia quechua questi la prese, la portò all'orecchio e la ascoltò a lungo. Poi
dichiarò ai suoi dignitari e all'inviato spagnolo di non sentire
nulla. La lettera non parlava, e cosa significavano quei segni?
297
«Se la guardo da questo lato,» egli disse mostrandola «è un
brulichio di formiche. Se la guardo dall'altra parte, mi sembra
che siano le tracce che le zampe degli uccelli lasciano sulle rive fangose di un fiume. Vista così, sembrerebbero cervi con la
testa in giù e le zampe all'aria. E a guardarla soltanto così, somiglia a dei lama che abbassano la testa, e a delle corna di cervi. Chi la può capire?» egli concluse, scuotendo la testa. «No,
no, mi è impossibile divinarla.»
Il fascino, che aveva avvolto i viracochas giunti da Oriente, si dissipò come una nube. Ogni alone sacro, ogni venerazione, ogni reverenza caddero dalla mente degli Incas, che
videro negli Spagnoli soltanto degli uomini come loro - peggiori di loro. Mentre essi avevano tanto cercato di esorcizzare la violenza, gli Spagnoli erano l'incarnazione della violenza scatenata, che gode e trionfa di sé. Erano la pura,
ineluttabile forza: che né il fuoco del sole brucia, né il freddo
trafigge, né il monte schiaccia sotto i suoi macigni, né gli
abissi degli oceani ingoiano; la forza selvaggia e caotica della
storia, che era giunta a travolgere le delicate geometrie della
loro mente, le connessioni tra le innumerevoli cose e le estasi del tempo sacro. Se i loro artigiani decoravano d'oro le
facciate e le pareti dei templi, gli Spagnoli volevano possedere quell'oro - che nessuno, in realtà, può possedere, perché
è soltanto una scintilla pietrificata di sole. «Erano come un
uomo disperato, istupidito e folle,» scrisse un indio del tempo di Garcilaso «che ha perso il giudizio per il desiderio
dell'oro e dell'argento. A volte non mangiavano, per il pensiero dell'oro e dell'argento, a volte facevano gran feste, poiché gli pareva di averlo già tra le mani, tutto quell'oro e
quell'argento. Come un gatto domestico quando ha il topo
tra le unghie, allora si calma, altrimenti continua a far la posta e si affanna e tutta la sua attenzione e i suoi pensieri sono
tesi lì, e finché non l'acchiappa non ha pace, ma sempre lì ritorna, così furono quei primi uomini...»
Il crollo fu atroce. In pochi anni, la grande aristocrazia inca - i discendenti di Sinchi Roca e di Pachacutec, di Tùpac
Yupanqui e di Huayna Capac - diventarono dei parassiti, avi298
di soltanto di stemmi, di abiti spagnoli e redditi immeritati.
Tanta abilità politica e organizzativa, tanta duttilità e tanta
forza, tanta vis imperii, tanta capacità di assimilare il diverso,
di reggere e di abbracciare i dominati - scomparvero nel fumo che aveva avvolto il disco della luna.
Molte volte Garcilaso de la Vega - da ragazzo, mentre ascoltava i racconti dello zio, o adulto, ripensando alla sua vita fallita - deve essersi chiesto perché tutto era finito così presto e
così miseramente. Dimenticava che gli dèi incas non erano
immortali, come il nuovo Dio nel quale credeva con tanto fervore. Erano dèi fragili, soggetti alla decadenza, e potevano
morire. Per tenerli in vita, bisognava amarli, curarli, proteggerli con le più tenere attenzioni, venerare le loro immagini,
innalzare loro sacrifici. Se gli Indiani non sacrificavano il lama
o l'alcool di mais, il sole non avrebbe più brillato nel cielo, la
pioggia non sarebbe caduta, i campi non avrebbero più dato
raccolti, le greggi sarebbero deperite, malattie e sventure di
ogni sorta avrebbero colpito l'impero. Se l'Inca - che incarnava gli dèi in terra - fosse morto in modo scandaloso, il sole
avrebbe cessato di inviare al mondo Toro del suo calore, Viracocha sarebbe scomparso nella sua ombra estenuata, e insieme a loro tutti gli dèi delle pietre e delle fonti sarebbero morti. Uccidendo Tinca Atahualpa, gli Spagnoli suscitarono negli
Incas il terrore che i loro dèi fossero morti: il cielo era vuoto,
la terra era vuota; e da quel momento Tesile edificio costruito
attorno a un punto invisibile cominciò a lacerarsi, a dissolversi, a precipitare nell'abisso.
La natura fu la prima a rimanere sconvolta. Appena gli occhi degli dèi si fecero di piombo, le nubi lasciarono il cielo,
diventando nere. La luna, intirizzita, col viso malato, rimpicciolì. I precipizi rocciosi intonarono canti funebri, il fiume
mugghiò con enorme dolore, lacrime scesero a torrenti, la
terra tremò, l'estensione del tempo si ridusse a un impercettibile battere di ciglia, gli elementi si ribellarono e piansero,
la notte allargò le sue ali, un vuoto infinito avvolse ogni cosa.
Quanto agli Indiani, col peso degli dèi morti, come potevano vivere? Se Viracocha, il sole, le huacas avevano lasciato il
299
mondo, non aveva più senso respirare, piantare il mais, percorrere le strade alberate, mangiare, amare, numerare, morire, muovere ogni giorno dei gesti simili a quelli del rito. Tutto era diventato eguale: tutto era egualmente spento e
cadaverico; e tanto valeva convertirsi e cambiare vestiti. Soli,
senza padre né madre, senza che nessuno li proteggesse
«col delicato tessuto del suo petto», senza che nessuno li ricoprisse «con le ali del suo cuore», cantavano:
Sotto estraneo dominio, cumulati i tormenti
e distrutti,
perplessi, sperduti, negata la memoria,
soli;
morta l'ombra protettrice,
piangiamo,
e non sappiamo a chi o dove rivolgerci.
Stiamo delirando.
Sopporterà il tuo cuore,
Inca,
questa nostra errabonda
dispersa vita,
da pericoli incontabili accerchiata, in mano d'altri,
calpestata?
Tutto andò in rovina. I preziosi canali di irrigazione vennero abbandonati: le terrazze ordinate che si inerpicavano lungo le pendici delle Ande crollarono: le strade furono danneggiate dai cavalli e dai veicoli a ruota spagnoli: le vecchie
terre rendevano meno: i depositi di provviste furono saccheggiati; le greggi di lama vennero massacrate dai conquistatori. Gli Incas vennero strappati dalle case e dai santuari,
dove avevano vissuto una vita comune. Dovettero abbandonare le capanne rotonde, che già nella forma rendevano
omaggio al sole; e chiudersi in piccole case rettangolari, lontanissimi dai propri campi. I tributi si accrebbero, mentre i
grandi proprietari usurpavano le terre della comunità. Come
schiavi, coloro che linea aveva «accarezzato con le molteplici, potenti sue mani», lavoravano sulla terra del padrone anche i giorni festivi: coltivavano le proprietà del governatore
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della provincia, prestavano servizio nella locanda, venivano
dati in affìtto nelle zone vicine; e appena tornavano a casa,
qualcuno li veniva a cercare a colpi di frusta per un altro lavoro. Molti vennero trasportati nelle miniere di Potosi, dove
scavavano alla luce della candela, chiusi per cinque giorni e
cinque notti nelle viscere della terra. A questi esseri perplessi, sperduti, errabondi, senza ombra protettrice, senza memoria, restava un solo rimedio. Se gli dèi erano morti, anch'essi potevano morire. Molti si impiccarono: altri si
lasciarono morire di fame o masticarono erbe velenose mentre le madri sgozzarono i figli appena nati.
Nel 1537, Manco Capac si rifugiò nelle montagne di Vilcabamba, a nord di Cuzco. «Là sarebbe stato al sicuro dai cristiani. Là non avrebbe più udito i nitriti e lo scalpitio dei loro
cavalli, e le loro spade non avrebbero più martoriato la carne
del suo popolo.» Manco Capac aveva raggiunto una delle zone sacre dell'impero inca: tra le montagne, le acque ribollenti dei fiumi, e la vegetazione tropicale della non lontana
Amazzonia. A Vitcos c'era una huaca-, un oggetto sacro. Un
gigantesco masso di granito bianco rifletteva le proprie forme in una polla d'acqua nera; e chi guardasse in quell'acqua,
dove intravedeva appena il grande fantasma bianco, si trovava strappato a sé stesso, al tempo, ai pensieri abituali. Intorno al masso di granito, tutto ritornò come a Cuzco, nei giorni delle grandi feste. Con le penne bianche e nere sul capo, il
sovrano venne di nuovo portato a spalle sulla lettiga: le voci
salutarono con gioia il sorgere del sole e piansero la sua
scomparsa. L'Inca sacrificò i lama e l'alcool di mais, e il liquido divino, il sangue immolato gocciolarono per le fessure
del granito bianco, discesero nell'acqua nera, che si increspò
per un momento davanti agli occhi dei pellegrini: poi il re
penetrò nel tempio, sostò davanti all'immagine accecante
del sole, guardò forse gli alberi, le piante di mais, le serpi, i
ramarri, le tortore, i pellicani d'oro e d'argento; mentre qualcuno aveva portato all'aperto le mummie degli Incas. Manco
Capac proclamò che il dio cristiano era soltanto un pezzo silenzioso di panno dipinto, uno di quei fogli dove le zampe
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degli uccelli o dei cervi o dei lama avevano lasciato il loro incomprensibile segno: mentre le huacas facevano sentire la
loro voce ai fedeli e tutti potevano scorgere in cielo il sole e
la luna. Un rivolgimento cosmico si andava preparando. Tra
poco il vecchio sole sarebbe morto, e ne sarebbe nato uno
nuovo. Tutte le huacas del regno erano risuscitate, per dare
battaglia al Dio cristiano. Questa volta, Dio e gli Spagnoli sarebbero stati vinti: gli invasori sarebbero stati uccisi; e il mare si sarebbe gonfiato sopra le loro città, per cancellarne
eternamente il ricordo.
Questa palingenesi non avvenne. Gli dèi incas - gli «dèi
ricchi e felici», che avevano dato l'acqua, la pioggia, la luce, il
mais, il crescere, il generare, il potere, la gloria - erano davvero morti, come avevano preteso i sacerdoti cattolici. Il dio
della parola scritta aveva sconfitto gli dèi della parola viva e
segreta. La luce del sole era stata domata. Nel 1572 l'ultimo
Inca, Tupac Amaru, venne preso prigioniero e portato a Cuzco. Vestito a lutto, con le mani legate, con una corda attorno
al collo, Tupac Amaru fu condotto attraverso le strade della
capitale, cavalcando un mulo bardato di velluto nero. Due
sacerdoti cattolici «gli dicevano delle cose a consolazione
dell'anima». Il patibolo sorgeva sulla piazza maggiore di Cuzco, davanti alla cattedrale, nello stesso luogo dove una volta
l'Inca adorava il sole. Migliaia di Indiani erano giunti da ogni
parte del regno, per assistere alla morte del loro sovrano. A
terra non vi era più spazio; e si erano arrampicati sui muri,
sulle finestre, sui tetti delle case, o sulle colline intorno alla
città dalle quali guardavano verso la piazza.
Quando Tupac Amaru salì il patibolo, la folla degli Indiani
emise un tale grido di dolore, che qualcuno avrebbe potuto
credere «che il giorno del giudizio universale era giunto».
Quelle voci diventarono una voce sola: una parola unica di
afflizione, come quella che getta chi è lasciato per sempre
nell'abbandono. La sorella apparve d'improvviso ad una finestra e, con voce rotta dai singhiozzi, gridò: «Dove stai andando, fratello mio, principe e unico re dei quattro suyos?».
In quel momento, Tinca alzò e lasciò ricadere la mano de302
stra; e all'improvviso i lamenti e le grida cessarono, tutti
trattennero il respiro e nella piazza si fece un silenzio
profondissimo, come se non vi fosse una sola persona vivente. Volgendo il viso verso i capi incas, Tupac Amaru disse
a voce alta nella propria lingua: Oiari guaichic. La sua voce
era stanca ma ferma, come quella di chi ha tutto scontato e
perdonato. Disse che aveva chiuso il corso della sua vita e
terminato il suo destino. «Signori,» aggiunse «sappiate che
io sono un cristiano. Mi hanno battezzato e voglio morire
nella legge di Dio. E devo morire. Sappiate che tutto ciò che
io e i miei antenati incas vi abbiamo detto finora - che dovete venerare Viracocha, il sole, pietre bianche, fiumi, montagne - è completamente falso. Quando vi dicevamo che parlavamo al sole e che il sole ci aiutava con i suoi consigli, tutto ciò era falso.» L'ultima parola era stata pronunciata: il
figlio del sole aveva rinnegato suo padre, le parole di implorazione e di lode che erano state pronunziate sulla piazza di
Cuzco, i sacrifici, i riti, i gesti di connessione - tanto il dio
dell'apparenza quanto l'introvabile dio dell'ombra.
Ormai il tempo era finito. Come un agnello sacrificale, Tupac Amaru poggiò la testa sul ceppo. Il boia avanzò, gli afferrò i capelli nella mano sinistra, gli tagliò di colpo il capo e
poi l'alzò, affinché tutti gli Indiani potessero vederlo. In quel
momento, le campane della cattedrale, dei monasteri e delle
chiese che in quarantanni erano sorte sopra i resti dell'«ombelico del mondo», cominciarono a suonare a morto, commemorando il tempo scomparso. Il corpo venne sepolto
nella cappella maggiore della cattedrale: la testa confitta sulla punta di una picca, presso il patibolo. I testimoni raccontano che diventava ogni giorno più bella; e la notte gli Incas
discendevano dalle montagne per adorare l'ultima reliquia
dei loro dèi.
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RITRATTO DI MONTAIGNE
Molto tempo fa, un amico mi disse che conosceva un solo
modo di leggere Montaigne. Lo leggeva d'estate. Ogni pomeriggio prendeva la sua vecchia edizione in tre volumi: una di
quelle edizioni dove il testo non porta il segno delle stratificazioni successive che l'hanno formato; e andava sotto un pino
o un tiglio, presso un piccolo fiume. Era il suo locus amoenus, dove anche gli antichi leggevano i loro poeti. Credo che
il mio amico avesse torto. Mi sembra che il solo luogo dove si
possa leggere Montaigne sia una biblioteca: possibilmente
una di quelle grandi biblioteche cinquecentesche o secentesche, che ornano i palazzi aristocratici e le abbazie di tutta Europa. Le librerie salgono verso il soffitto altissimo: intorno gallerie serpeggiano, si elevano, si insinuano, portando ai diversi
scaffali; e il legno, levigato e ammorbidito dal tempo, conserva il chiaro e l'oscuro, il compatto e il nodoso degli alberi olivo e noce, quercia, rovere e olmo -; così che il lettore, seduto col libro in mano, crede di essere avvolto da una foresta
lussureggiante, di cui anche i libri fanno parte.
Montaigne aveva la sua biblioteca al terzo piano di una torre. Seduto al tavolo, vedeva con un solo sguardo i libri, schierati in cinque file, pronti a essere sfogliati se l'assaliva un capriccio o un'inquietudine. Ne aveva quasi mille, dei quali ce
ne sono giunti settantasei, col suo nome e talvolta le sue annotazioni. Aveva Cesare e Plutarco, Terenzio e Lucrezio, Plotino, Filone e Petrarca, l'Historia del descubrimiento de la India di Lopez de Castaneda, i Dialoghi d'amore di Leone
Ebreo, le opere di Erasmo, di Poliziano e di Dionigi d'Alicarnasso, il de odoribus di Teofrasto, la Cosmographie universelle del Mùnster, Il catechismo di Bernardino Ochino.
Dai mille libri estrasse cinquantasette sentenze: le fece
iscrivere sulle travi del soffitto, in modo che proteggessero o
deridessero dall'alto il suo lavoro di commentatore. «Tutte
queste cose, con il cielo e la terra e il mare, non sono nulla a
paragone della somma totale di tutte le somme» (Lucrezio).
«Non comprendo» (Sesto Empirico). «Dio non vuole che altri
304
sappia al di fuori di lui» (Erodoto). «Tutte le cose sono troppo
diffìcili perché l'uomo possa comprenderle» (Ecclesiaste).
«La vita più dolce è non pensare a niente» (Sofocle). Undici
sentenze appartenevano all'Ecclesiaste, il libro prediletto dagli scettici mistici, o dai mistici scettici - la razza più amabile
della terra -: ma la maggior parte di esse sono false o manipolate, perché l'instancabile mistificatore amava talmente l'Ecclesiaste da reinventarlo a suo modo. La biblioteca aveva tre
grandi finestre, «di ampia e libera prospettiva», dalle quali entravano i soffi dei venti, i raggi di sole, i riflessi delle nuvole, gli
odori degli alberi, e, due volte al giorno, il suono dell'Ave Maria. Se si affacciava alla finestra, vedeva il castello, la corte, il
pollaio dove le galline, le oche e le anatre si preoccupavano di
nutrire la sua esistenza; e più lontano le colline del Périgord,
dove lo sguardo si perdeva quasi all'infinito.
Montaigne scrisse molte menzogne: forse la parola non è
esatta; riempì il suo libro di mistificazioni, giochi ironici e autoironici, piccole scene teatrali recitate insieme da lui e dal
lettore immaginario, che abita gli Essais come una presenza
segreta. Certo la più grande, fra queste menzogne o mistificazioni, fu di non possedere memoria: «non ne riconosco in
me quasi traccia alcuna, e penso che non ve ne sia al mondo
un'altra tanto straordinaria per la sua debolezza». Dicendo
così, voleva difendere la naturalezza, la semplicità, la franchezza, la fluidità, l'assoluto presente del proprio spirito,
che secondo lui gli eroi della memoria non possedevano.
Ma, in realtà, la memoria di Montaigne è una delle grandissime memorie dell'Occidente: come quelle di Dante, di Petrarca, di Shakespeare e di Goethe. Conservava in sé quasi
tutta la civiltà classica, e parte di quella cristiana. Bastava una
parola, un cenno, un'allusione. E subito tutte le parole e le
immagini, tutta quella foresta-biblioteca fiammeggiante che
portava nel suo spirito, risuscitavano dal silenzio offrendosi
alla sua penna, come un immenso concerto di suoni e di voci umane.
Non era una memoria barbarica, come affermò Emilio
Cecchi. Non aveva nulla in comune con quella dei grandi ar305
tigiani ottomani, che ad Aquisgrana ornarono il pulpito
d'oro con gli avori, i cristalli e gli scacchi dell'Egitto e di Bisanzio - tesori rapinati e ostentati sontuosamente davanti al
pubblico imperiale e feudale. Montaigne sentiva un vuoto o
una lacuna dentro di sé, che dovevano essere colmati con la
ricchezza degli altri: gli sembrava che il suo terreno non fosse capace di produrre fiori troppo splendidi. Se leggeva, piluccava ora un acino ora un altro: ora tre versi ora una frase;
e specie quando frequentava il meraviglioso Plutarco, come
poteva fare a meno di rubargli una coscia, o un'ala? La citazione splendeva come una gemma; e insieme creava un sottofondo ricco e delicato, lontano e ardito, dietro il suo discorso in primo piano. Alla fine, ciò che era estraneo - ma
nulla è mai estraneo nella letteratura - veniva assimilato: la
frase altrui entrava nella sua, e la sua nella altrui: la tarsia si
insinuava nella tarsia vicina; Lucrezio e Seneca diventavano
la sua carne e il suo sangue. «Le api saccheggiano fiori qua e
là, ma poi ne fanno il miele, che è tutto loro; non è più timo
né maggiorana.» Forse, dai tempi delle Confessioni di Agostino nessuno scrittore aveva posseduto un dono così superbo
per trasformare la ricchezza dei libri nel ritmo nervoso e succoso della sua prosa.
Nulla vorrei conoscere meglio di ciò che sta dietro le spalle degli Essais, come una presenza muta e sconosciuta. In un
passo del secondo volume, Montaigne afferma che essi sono
nati da «un umore malinconico, prodotto dalla tristezza della
solitudine». Qualche anno fa, Giovanni Macchia parlò di «serena disperazione»: «come può cogliere un uomo condannato a viaggiare, che sa di non dover mai approdare a nessuna
terra». Ma quella disperazione fu - sempre - così serena? E la
melanconia nacque soltanto dalla solitudine e dalla reclusione nella Torre? Non ci fu altro - di più inquieto, furioso e
acuto?
In alcuni passi degli Essais, pare di avvertire l'eco di un fallimento o di una sconfitta metafisica. «Sarebbe far torto alla
306
bontà divina» aveva scritto nell'Apologia di Raymond Sebond «se l'universo non cooperasse con la nostra fede. Il cielo, la terra, gli elementi, il nostro corpo e la nostra anima,
tutte le cose vi cospirano... Questo mondo è un tempio santissimo, nel quale l'uomo è introdotto per contemplarvi delle statue, non foggiate da mano mortale, ma quelle che il
pensiero divino ha fatto sensibili: il Sole, le stelle, le acque e
la terra, perché siano per noi immagine di quelle intellegibili.» «Tutto quello che è sotto il cielo, è sottoposto a una stessa legge e a una stessa sorte.» Il suono di queste frasi è quello delle grandi architetture filosofiche rinascimentali.
L'universo è una meravigliosa catena di relazioni e di rapporti, che dalle stelle scende alle piante, alle pietre e all'uomo.
Forse Montaigne immaginò di descrivere questo «tempio
santissimo», raccontando le «statue», le leggi, i fenomeni, gli
eventi naturali ed umani; e il miracoloso rapporto che lega
l'Essere e l'apparenza. Se questo è vero, anche lui credette
per un istante nell'harmonia mundi, e in una Teodicea.
Se è mai esistito, questo tentativo di spiegare e glorificare
l'Armonia del mondo si dissolse come un miserabile castello
di carte, al soffio del primo e fragile vento. Fin dalle prime righe, gli Essais proclamano che non c'è nulla di più «vano, vario e ondeggiante» dell'uomo e del mondo. Non esiste alcuna legge di coscienza, di natura, o di ragione. Tutto muta,
fluttua, si perde, scompare, come l'acqua e il vento. Il mondo è dominato dal caso. Forse è soltanto un sogno: «noi vegliamo dormendo, e vegliando dormiamo». Quanto all'uomo, quest'essere cavo, vuoto, privo di bellezza, salute,
saggezza e di tutte le qualità essenziali, i suoi sensi lo ingannano miseramente. La ragione - una specie di «tintura» - è
incapace di cogliere qualsiasi verità, non solo intorno a Dio
ma intorno al minimo oggetto. E poi l'uomo non ha volontà
né forza. Non ha persona - perché è un coacervo miserabile
di frammenti. Non è che opinione - la quale varia secondo i
popoli e i climi, e di uomo in uomo, e nello stesso uomo di
minuto in minuto. E se infine, per cercare di cogliere qualcosa di stabile e solido, Montaigne si volge verso sé stesso, cosa
307
trova? Nient'altro, ancora una volta, che vanità, varietà, movimento, e mistero. «Io che mi spio più da vicino, che ho gli
occhi incessantemente tesi su me stesso,... a malapena oserei dire la vanità e la debolezza che trovo in me. Ho il piede
così instabile e malsicuro, lo trovo così facile a crollare e così
pronto a vacillare, e la mia vista così sregolata, che a digiuno
mi sento tutt'altro che dopo il pasto; se la salute mi ride e la
serenità di una bella giornata, eccomi amabile: se ho un callo
che mi fa dolere l'alluce, eccomi corrucciato, stizzoso e intrattabile... Ora mi va di far tutto, ora niente; quello che mi fa
piacere in questo momento, talvolta mi sarà penoso.»
Nemmeno Pascal, che leggendo Montaigne vedeva «con
gioia la superba ragione così invincibilmente offesa colle
proprie armi», fu così pungente. Tra tutti i nemici del genere
umano - Cioran assicura che sono i suoi soli amici -, nessuno ha mai infangato la nostra presunzione, nessuno ha mai
insultato la nostra figura con tale furia, piacere, estro, divertimento, ferocia, malignità, tenacia, bizzarria; e, nel fondo,
una inconcepibile dolcezza.
Molto al di sopra delle vanità, sta il Dio remotissimo, nel
quale Montaigne crede: un Dio «sconosciuto», come quello
che Paolo trovò ad Atene, senza nome, senza ragione né intelligenza, che le nostre congetture ed analogie non possono comprendere - molto simile al «Dio oscuro» dei mistici.
Ci sono dei brani, negli Essais, dove l'uomo, il cieco-nato
che vive nella notte, attende la grazia: «l'uomo nudo e vuoto,
consapevole della propria naturale debolezza, pronto a ricevere dall'alto qualche forza estranea, sprovvisto di scienze
umane e tanto più atto ad accogliere in sé quella divina, incline ad annullare il proprio giudizio per fare un posto maggiore alla fede...: un foglio bianco preparato a ricevere dal dito di Dio quelle forme che gli piacerà imprimervi». A tratti
sembra che la mite e fredda grazia divina stia per scendere
sul foglio bianco dell'uomo, colmandolo colla sua luce, disegnandolo con le sue forme, e sollevandolo «eccezionalmente» nel regno dei cieli. Era il momento atteso dagli spiriti religiosi, che leggevano Montaigne verso la fine del sedicesimo
308
secolo - come san Francesco di Sales. Ma, negli Essais, la
grazia divina non scese mai sul foglio bianco dell'uomo. Non
vi disegnò nulla. Dio rimase nell'alto dei cieli, senza nomi e
mani, insondabile nella sua essenza. Montaigne non diventò
un mistico.
Non saprei dire cosa diventò: certo non un filosofo scettico; o nessuna delle molte etichette che gli storici della filosofia amano incollare sulla fronte del più fuggevole degli
scrittori. In una specie di totale capovolgimento, tutte le parole di Montaigne cambiano segno: ora sono una cosa e insieme il loro contrario. Così, mentre egli deride la vanità, la
varietà e la mutevolezza, allo stesso tempo le ama come fossero l'essenza preziosa dell'universo. Ama la natura che gioca. Ama la fantasia, il capriccio, la sorpresa, l'inventività del
caso, che schernisce i nostri programmi e intenzioni. Ama il
vento: «più saggiamente di noi, si compiace di mormorare,
di agitarsi, e si contenta delle funzioni sue proprie, senza desiderare la stabilità, la solidità, qualità non sue». Ama l'oscillazione. Ama tutto ciò che è ombra. Ama tutto ciò che è mescolato, confuso, rappezzato, screziato - la voluttà, che
geme e muore d'angoscia. Ama l'incerto; e usa volentieri
espressioni come «forse», «in certo modo», «si dice», «io penso». Ama le fugaci, incantevoli, dorate apparenze - che ci
portano lontano da ogni certezza.
Quanto all'uomo, attrae Montaigne per le stesse ragioni
per cui l'aveva schernito. L'uomo è discontinuo, frammentario, composto di pezzetti, ognuno dei quali va per conto
suo: cambia ogni istante; non conosce la verità, ma la insegue e la caccia insaziabilmente. «Nessun intelletto generoso
si ferma su sé stesso: aspira sempre ad altro e va al di là delle
proprie forze; ha slanci che oltrepassano le sue possibilità;
se non avanza e non si affretta e non indietreggia e non si urta, è vivo soltanto a metà; le sue indagini sono senza limite, e
senza forme; il suo alimento è stupore, caccia, ambiguità.»
Alle volte, non c'è nulla di più bello della futile opinione, che cambia «come le pietre le quali assumono un colore più
brillante o più opaco secondo la foglia del castone su cui so309
no poste». Davanti a questo incontenibile elogio del vento e
dell'acqua e della screziatura, come non immaginare che il
fantastico libro scritto nella Torre rappresenti il momento
taoista dell'Occidente?
Montaigne non sarebbe fedele a sé stesso se non ci proponesse un altro capovolgimento. Finora ci aveva detto che
non c'è natura, ma solo opinione e abitudine. Ora, tanto più
intensamente quanto più si avvicina alla vecchiaia, esalta la
Natura: lei, la Madre perennemente stabile e diversa, la Madre enigmatica e misteriosa, la Madre benigna, la Madre saggia e dolce che ci guida felicemente e sicuramente, che ci
consola, soccorre e ci tende la mano. «Non c'è niente di inutile nella natura; neppure l'inutilità stessa; niente si è introdotto in questo universo, che non vi occupi un posto opportuno.» Noi la portiamo dentro noi stessi; e se la seguiamo
secondo il «precetto antico», se non ci lasciamo trascinare
dalla scienza, dall'opinione e dall'artificio, non potremo sbagliare, e saremo felici. «Felicemente perché naturalmente.»
Negli Essais, la Madre Natura si incarna nella figura di Socrate. Con una passione che via via si accresce, Montaigne
adora Socrate. Non gli importa nulla delle sue idee metafisiche, che getta nell'immenso cesto dei rifiuti dove sono raccolte le follie della mente umana. Adora Socrate perché non
sta mai a casa: perché va in giro, ozia, vagabonda, interroga,
chiacchiera, insaziabilmente curioso degli eventi più futili e
dei pensieri più sublimi. Lo adora perché è un dilettante, e
un personaggio da commedia: gli piace la sua incantevole
naturalezza, la bonomia, la semplicità, il furore dionisiaco, la
incontenibile conversazione - sfacciata e vana come la sua.
Anche Montaigne è un dilettante: il più grande tra i dilettanti moderni; e si prende gioco di sé, affermando che le sue
sono «le fantasticherie di un uomo che delle scienze ha assaggiato solo la crosta esteriore, nella sua infanzia, e ne ha ritenuto soltanto un'immagine generica e informe». «Non c'è
ragazzo che non possa dirsi più sapiente di me.» Nella gran310
de biblioteca, tra un soffio di vento e il gracidio delle oche,
sotto la ironica protezione delle sue sentenze, egli non fa
piani né progetti. «Ora sfoglio un libro, ora un altro, senza
ordine e senza disegno, come capita; ora fantastico, ora annoto e detto, passeggiando...» Sa tutto, ma quando scrive la
sua penna riesce a dimenticare (la dimenticanza è madre
della memoria) quello che sa.
«Fra le cento membra e le cento facce che ha ogni cosa, io
ne prendo una, ora per lambirla soltanto, ora per sfiorarla,
ora per penetrarla fino all'osso. E vi do un colpo, non più
ampiamente ma più profondamente che posso. Seminando
qui una parola, là un'altra, scampoli staccati dalla loro pezza,
slegati, senza disegno e senza promessa, non sono tenuto a
trattare la questione sino in fondo...» Ma, se il dilettante non
possiede la conoscenza limitata e totale dello specialista, ha
un immenso vantaggio su qualsiasi specialista. Ha un'esperienza diretta di ogni cosa di cui parla. Entra dentro di essa,
scende nel fiume della fluidità universale: prende la cosa singola, la gusta, la assapora, la palpa con tutta la sensualità della mente e del corpo. La sua fantasia è così grande che può
assaporare perfino la propria morte, oltrepassando i limiti
dell'esperienza. Così il suo libro di essais (come suggerisce
l'uso linguistico del tempo) è un «esercizio», un «preludio»,
una «prova», un «tentativo», una «tentazione», un «nutrimento»: un «gustare», un «verificare», un «pesare», un «computare»; e, come è naturale, un «pericolo» e un «rischio».
Con la ironica nonchalance del dilettante, Montaigne
fìnge di sottovalutare il proprio libro. Ciò che conta - ripete
- è la mia vita. «Il mio mestiere e la mia arte è vivere»: «Ho
dedicato tutti i miei sforzi a formare la mia vita. Ecco il mio
mestiere e la mia opera. Io sono facitore di libri meno di
ogni altra cosa.» Montaigne non ha mai scritto nulla di più
elusivo. Se qualcuno, al mondo, fu facitore di libri, questi
fu Montaigne; e in modo assoluto e quasi commovente. Ci
sono grandi poeti che scrivono un libro, e lasciano che la
loro esistenza corra per la sua strada, verso la salvezza o la
perdizione, come se non li riguardasse. Mentre scriveva gli
311
Essais, il libro faceva, formava, costruiva la vita di Montaigne: si distaccava da lui; rifletteva su di lui, fantasticava su di
lui, pensando cose che egli non aveva mai immaginato: ritoccava un tratto, ne cambiava un altro; e così finiva per trasformare la sua vita. Da quando entrò nella Torre, prigioniero della Torre e degli Essais, Montaigne non conobbe altra
vita di quella che essi vivevano, crescendo davanti ai suoi
occhi, mutando e spostandosi, come una creatura vivente e
estranea. Ma, proprio per questo, si conosceva benissimo:
di rado uno scrittore ha definito con tanta precisione (meno
quando voleva trarci in inganno) chi era e cosa era il suo
libro. Gli Essais stavano davanti ai suoi occhi come uno
specchio implacabile: non doveva far altro che leggervi, e
raccontarci ciò che vi aveva visto.
L'uomo che ha scritto gli Essais (o che è stato scritto dagli
Essais) vive sotto un doppio segno astrologico: «ho l'indole»
dice «fra il gioviale e il malinconico». Questa combinazione
tra due segni astrologici risveglia, in lui, una fantasia e una
immaginazione immense: un desiderio di tutte le esperienze
possibili (sia pure condotte dentro il libro); l'amore di ogni
cosa visibile. Nessuno è più immoderato di quest'uomo della misura. Attratto da tutte le cose che non gli somigliano,
vuole mutare, cambiare, fluttuare: ama il viaggio come la
condizione naturale dell'uomo: «sì, lo confesso, io non vedo
nulla, neppure in sogno e col desiderio, su cui possa fermarmi; solo la varietà mi appaga, e il possesso della diversità, se
pure qualcosa mi appaga»; e con voluttà accetta tutte le cose, diventa un altro, si piega a ciò che gli propone la vita. A
volte, sembra freddo, duro, insensibile - come tutti i curiosi,
costretti a chiudersi nel gelo, per non disperdersi nelle esperienze. Di solito, riesce a stabilire un equilibrio mirabile tra
estroversione e introversione, e a fonderle l'una con l'altra.
Se viaggia, lo fa per concentrarsi. Mentre si dissipa, si ritrova.
Mentre si raggiunge e si conquista, si perde. Scrive per vivere, e vive per scrivere. Se pensa alla morte, e esce da sé colla
mente volando nei cieli dell'altro mondo, lo fa per vivere
meglio qui, in mezzo a noi.
312
Questo è il segreto di Montaigne: il segreto, come si dice,
del suo equilibrio. Tutte le sue fantasie, gli eccessi, i furori,
le inquietudini, i terrori, i mostri, le chimere, le follie hanno
bisogno di un limite, e si rinchiudono in un mondo moderato e temperato. «Si ha ragione di porre allo spirito umano
barriere più strette possibili. Nello studio, come nel resto, bisogna contare e regolare i suoi passi, bisogna assegnargli ad
arte i limiti della sua caccia.» Come questo spirito smisurato
sia riuscito a trovare la propria misura: come quest'uomo liberissimo abbia saputo legarsi con cento catene, - è un miracolo, che nessuno ha forse mai spiegato. O c'è una sola
spiegazione. Registrando tutte le fughe o le ossessioni, spostando e variando di continuo la mira della sua caccia, il libro
ha costruito il mondo mobile e chiuso, dove Montaigne ha
vissuto. Non è la vetta di una montagna. È una «bella pianura
fertile e fiorente», dove arriviamo «per strade ombrose, erbose e dolcemente fiorite, agevolmente e per un pendio facile
e liscio», e dalla quale possiamo vedere tutte le cose al di sotto di noi. Quale aria vi respiriamo: quale soavità, quale gioia,
quale armonia, quale sovrana naturalezza, quale amabilità,
quale sorridente liquidità, quale perenne distensione di tutto ciò che è teso e aggrovigliato.
C'è un territorio, in questa pianura, che esce completamente dall'equilibrio dove Montaigne ha chiuso sé stesso. È
il fuoco, il furore, il delirio, l'invasamento, l'ispirazione divina, che gli deriva dalla lettura dei testi platonici. Non aveva
simpatia per la metafisica platonica: ma nessun libro lo segnò mai più profondamente del Simposio e del Fedro. Il mirabile saggio sull'amicizia risuona dei loro echi. Il poeta che
Montaigne descrive in un altro saggio è l'ispirato platonico:
«assiso sul tripode delle Muse, versa di furia tutto quello che
gli viene in bocca, come la cannella d'una fontana, senza ruminarlo e pesarlo, e gli sfuggono cose di diverso colore, di
sostanza contraria e in un flusso inuguale. È il linguaggio originario degli dèi». Con la stessa furia Montaigne parla degli
effetti della poesia, che rapisce e devasta il nostro giudizio; e
313
dell'erompere improvviso dell'ispirazione dentro di lui,
quando scrive «le sue fantasticherie più folli e profonde».
Malgrado il suo equilibrio, Montaigne sa che il fuoco della
poesia e della follia, che egli porta dentro di sé come il più
raro e prezioso dei doni, può trascinarlo in chissà quale abisso. Con passione e terrore, guarda in questo abisso. Quando, a Ferrara, vede Torquato Tasso rinchiuso nell'Ospedale
di sant'Anna, sopravvissuto a sé stesso: quando contempla
in lui uno di quei duttili e roventi spiriti malinconici portati
invincibilmente alla follia, gli sembra di vedere uno spirito
fraterno, quasi la sua ombra. «Che salto ha fatto ora, per la
propria concentrazione e il proprio fervore, un uomo tra i
più penetranti e ingegnosi?... Non lo deve a quella sua mortale vivacità? A quella chiarezza che l'ha accecato? A quella
esatta e tesa comprensione della ragione che gli ha fatto perdere la ragione?... A quella sua rara attitudine agli esercizi
dell'anima, che l'ha ridotto senz'esercizio e senz'anima?»
Gli Essais sono un mistero ancora più grande del suo autore. Montaigne conosce quanto il libro sia «nuovo» e «stravagante» e «fantastico» - e non certo perché parli di lui: tanti altri l'avevano fatto. Era insieme un'enciclopedia, come quelle
che piacevano agli spiriti della tarda antichità e del Medioevo:
una raccolta di casi possibili e impossibili: il «succo» di tutti i libri che Montaigne aveva letto: una discussione sui massimi
problemi del cosmo, dell'uomo e della storia - e poi, inestricabilmente unito, il ritratto di un uomo e di un'esperienza.
Quell'uomo è lui; e non c'è niente che diverta e rallegri e stupisca tanto Montaigne, che prova per sé stesso una inesauribile simpatia e meraviglia. Il suo io muta ogni istante: il suo
pensiero si cerca e si esprime mentre si cerca, via via che
un'espressione gli sembra «momentaneamente definitiva»; e
intanto gioca con quell'io-libro, lo ostenta e si ostenta, lo esibisce e si esibisce, lo denigra e si denigra, trascorrendo con
piacere infinito dagli Essais a sé stesso.
La materia degli Essais non sono le idee - Montaigne non
314
si è mai sognato di compiere un atto così inutile come pensare ma «fantasticherie», «chimere», «mostri fantastici», ossessioni, capricci che, nelle sue mani, assumono il carattere
di immagini figurative («grotteschi», diceva) o di linee bizzarre e tortuose o di semplici scariche di energia. Non c'è una
sola linea retta, come se una maledizione le avesse cacciate
dal mondo. Tutto è piega, angolo a gomito, ghirigoro, curva,
ricciolo, groviglio: tutto è frammento; tutto è salto di tema,
alternanza, divagazione, contraddizione, improvviso e folgorante scorcio analogico.
Per molto tempo Montaigne cercò un modello con cui giustificare la sua impresa, fino a quando, negli ultimi anni di vita,
comprese che l'esempio dei suoi capricci e delle sue screziature erano i Dialoghi di Platone e qualche testo minore di
Plutarco. «Essi non temono queste sfumature, e hanno una
grazia meravigliosa nel lasciarsi così portare dal vento... Mi
piace questa andatura poetica, a salti e a sgambetti. E un'arte,
come dice Platone, leggera, volubile, divina... Oh Dio, in queste vivaci scappate, in questa variazione, quanta bellezza c'è; e
tanto più quando tende al trascurato e al fortuito!... Bisogna
avere un po' di follia...» Presto trovò molti nomi per il suo libro. Gli Essais diventarono una rapsodia, o una passeggiata,
o unafricassea, o un pot-pourri, o un intarsio. Erano, soprattutto, una variazione-, e nell'arte musicale della variazione
Montaigne fu maestro a molti secoli di letteratura.
Con la solita chiaroveggenza, Montaigne definisce il suo
stile: «Il linguaggio che mi piace, è un linguaggio semplice e
spontaneo, tale sulla carta quale sulle labbra; un linguaggio
succoso e nervoso, breve e serrato, non tanto delicato e leccato quanto veemente e brusco... piuttosto difficile che
noioso, sregolato, scucito e ardito...». Ci colpisce la sovrana
rapidità del movimento: la velocità dei rapporti analogici e
intellettuali: la sistematica trascrizione fisica dei dati spirituali, che trasforma l'attività interiore in un'attività visibile, che
avviene in uno spazio; l'alternanza di concentrazione e di
compiaciuta lentezza, di frasi epigrammatiche e di periodi
enormi e sbilenchi. Via via che gli Essais crescono, assomi315
gliano sempre più a una conversazione. Montaigne si diverte
a imitare il timbro di una voce, che parla, chiacchiera, commenta, divaga, colorisce, recita, si esibisce, perde tempo,
sbiadisce, trionfa. L'ascoltatore è insieme vicino e lontano: è
Montaigne, che ascolta parlare il suo libro; siamo noi che,
dopo quattro secoli, continuiamo a dividere con lui una conversazione interminabile.
Gli Essais sono uno dei grandi libri della vecchiaia, anche
se forse la vecchiaia non portò a Montaigne la saggezza che
egli sognava e disprezzava. Qua e là, cogliamo accenti quasi
disperati: «Io sento che nonostante tutte le mie difese la vecchiaia guadagna via via terreno su di me. Resisto finché posso. Ma non so alla fine dove mi condurrà. In ogni caso, sono
contento che si sappia di dove sarò caduto». «Il mio mondo
è finito, la mia forma è svuotata; io appartengo tutto al passato... Il tempo mi abbandona: senza di esso nulla si possiede.» Ma non invecchiava mal volentieri. Gli sembrava di essere più libero dalle maschere con le quali si era nascosto il
viso; e di poter diventare indiscreto e quasi impudente. Se
tutta la sua vita era stata una fluttuazione, ora fuggiva da sé,
si sottraeva a sé stesso, con un ardire che nulla frenava.
Aveva avuto molti modelli: aveva amato Catone, Cesare ed
Epaminonda; ma il suo unico modello, mentre si avvicinava
alla morte, era Socrate, cogli occhi sporgenti e ubiqui da toro, e il suo furor dionisiaco. Una specie di continua ebbrezza, una sfacciata esibizione percorre gli ultimi saggi. «Soprattutto ora che vedo la mia vita così breve nel tempo, voglio
aumentarla nel peso; voglio frenare la sua velocità nella fuga
con la mia prontezza nell'afferrarla, e con il vigore dell'uso
compensare la fretta del suo scorrere; a misura che il possesso della vita è più breve, tanto più profondo e pieno deve
renderlo.» Intorno il cielo era calmo. Nessun desiderio, timore o dubbio o difficoltà turbavano l'aria. Nessuna speranza volteggiava davanti ai suoi occhi. Non aveva che presente:
nudo presente; e lui rallentava il tempo, dava ad ogni minuto il suo pieno significato, «studiava, assaporava e ruminava»
ogni esperienza.
316
Sebbene gli studiosi dubitino che Montaigne abbia mai
letto le Confessioni di Agostino, mi sembra impossibile che
ignorasse un testo allora così amato, e prediletto da coloro
che amava. Certo la costruzione degli Essais sembra la replica e il rovesciamento, probabilmente involontari, del libro
«gocciolante di lacrime», che era così caro a Petrarca. Le Confessioni cominciano col raccontare la vana vita di un uomo,
concludendo nei misteri di Dio, del tempo e della creazione.
A pezzi, a bocconi, gli Essais cominciano a parlare dei supremi problemi dell'universo, chi è l'uomo e cosa è la natura e
se vi è una legge e cos'è la presenza di Dio: vi mescolano la
storia del mondo, da Roma ai cannibals, e la vita e l'esperienza di un uomo, che ha rimuginato queste chimere. Verso
la fine, tutto si rovescia, si restringe, si concentra, come in
un imbuto. Il soggetto diventa uno solo: Michel de Montaigne: anzi il suo corpo: quando dorme, quando fa colazione,
se suda o beve vino puro, quanto lo faccia soffrire il mal della pietra, di che colore è la sua orina, quando va a cavallo, e
che gli piacciono i meloni e le salse e grattarsi, mentre non
gli piace la carne dura. In questo rovesciamento a forma di
imbuto, c'è un grandioso gusto beffardo. Non c'è altro che
questo, - pare dire Montaigne. Tutto qui. L'universo, coi
suoi dèi e le sue stelle e i suoi pianeti dalla corsa prescritta, si
è ridotto al corpo di un cinquantacinquenne, che soffre il
mal della pietra.
In una pagina famosa del Port-Royal, Sainte-Beuve raccontò i funerali immaginari di Montaigne. «Montaigne è morto: posano il suo libro sulla sua bara.» Dietro la bara c'è mademoiselle Gournay, la «figlia per alleanza»; e poi Bayle e Naudé,
«gli scettici ufficiali». Poi, a gruppi o in fila, si snodano tutti gli
altri: tutti coloro che da Montaigne trassero ispirazione per
un libro di massime, di saggi, di caratteri, di confessioni, per
commedie e lettere e romanzi e racconti, o soltanto per dar
estro allo stile. Ecco La Rochefoucauld, La Fontaine, Madame
de Sévigné, Molière, Saint-Évremond, La Bruyère, Fontenelle,
317
Marivaux, Montesquieu, Voltaire e Rousseau... In un angolo
sta Pascal, il doppio-nemico, che prega.
Sainte-Beuve non s'accorse che in quella amabile folla di
spettri, convenuti da tutte le parti del mondo, c'erano altri
scrittori, forse i veri eredi di Montaigne, alcuni dei quali egli
non conosceva. Ironico e splenetico, c'era in primo luogo
Sterne: il Tristram Shandy è gli Essais trasformato in un romanzo-labirinto, con più vuoto, aria e fumo. Un allievo di
Sterne, Diderot, derivò dalla voce di Montaigne la voce sfacciata e beffarda del suo Nipote di Rameau. In Aut-Aut, il più
grande dei saggisti romantici, Kierkegaard, imparò dagli Essais l'arabesco, la divagazione, la dissonanza, il cambiamento
di tono: la linea rotta, spezzata, frantumata, il desiderio di
uscire dal libro. Flaubert non assomigliava affatto a Montaigne: eppure il Bouvard e Pécuchet è un monumento
all'idiozia umana, costruito a forza di citazioni (come in parte sono gli Essais).
Forse il figlio più autentico era l'ultimo, non so se l'ultimissimo, venuto da lontano, da Vienna e Ginevra, dove attendeva dal suo libro, come Montaigne, la soluzione della
propria vita. Era Robert Musil, nella sua triplice uniforme di
matematico, ufficiale e Monsieur le Vivisecteur. Quell'architettura aerea e improbabile, quello scetticismo sovrano,
quell'amore per l'enciclopedia, quel senso di vuoto, quella
incessante divagazione e conversazione, quell'amore per le
metafore fisiche che esprimono il pensiero, tutto ciò che
regge L'uomo senza qualità, - non è forse un'ultima eco del
libro «vario e ondeggiante» scritto nella Torre, tra il gracidio
delle oche e l'orizzonte infinito?
I.A MUSA DEL PASSATO
Credo che i greci dell'età classica - coloro che leggevano
Sofocle e Platone, ammiravano Fidia e le stele del Ceramico
- avrebbero amato profondamente quella grandiosa meditazione sulla morte che è In Arcadia ego di Nicolas Poussin, al
318
NICOLAS POUSSIN, Et in Arcadia ego [Les bergers d'Arcadie] Louvre, Parigi,
Louvre. Avrebbero amato quella gravità, quel vasto senso
della tragedia, e quella quiete, quella serenità, quell'armonia,
scaturite da non si sa quale sorgente nascosta, che permettono di varcare, con un balzo leggero, il regno della morte.
Non so cosa Poussin sapesse dell'arte greca: cosa intravedesse di lei, attraverso la sua foltissima cultura romana. Ma,
quando, nel 1639 o nel 1640, cominciò a deporre sulla tela i
colori mesti e fondi del quadro, egli voleva certo allontanare
dalla mente ogni ricordo delle vanità barocche, che qualche
anno prima erano penetrate anche nella sua pittura. Non
rappresentò nessuno dei segni della morte: né teschi né ossa né corpi disfatti né rovine; né vermi, farfalle, topi, insetti,
frutta in putrefazione, come nei quadri di allora. E non volle
nemmeno alludere al tempo che passa, e ci conduce verso la
fine. Non dispose nessuna clessidra, nessuna fontana che
versa acqua, ricordando alla nostra memoria che gli uomini
sono effimeri, e tutto è passeggero e caduco nell'universo.
In apparenza, Poussin volle allontanare anche il pensiero
della morte. Nel cuore dell'Arcadia pastorale, deserta, senza
abitazioni, senza greggi, senza zampogne, senza feste, innalzò una tomba massiccia e quasi cubica, che sembra un
monumento: un monumento di proporzioni perfette, come
se l'arte musicale delle proporzioni - quest'arte quasi divina
- potesse annullare l'angoscia della morte. Ma poi, su questo
monumento, incise una scritta terribile: Et in Arcadia ego«Io, la morte, sono anche in Arcadia». Non c'è dunque limite
al suo potere: non solo nella terra che noi abitiamo o sul mare dove cerchiamo di fuggire da noi stessi, non solo tra le
clessidre e tra i frutti in putrefazione, ma in quel paese beato
e utopico, l'Arcadia, che sembra sottratto al tempo. Chi può
resisterle? Non l'uomo: anche se non è necessario, come
supponeva Félibien, che un pastore giaccia sotto le pietre. E
nemmeno la natura: perché, sulla destra del quadro, degli alberi quasi secchi ci ricordano che la vitalità della natura può
interrompersi senza rimedio. Non c'è che lei, la morte, l'innominata: tanto più presente perché innominata; e incombe
su questo quadro, che rinuncia ai simboli funerari, molto più
319
che su tutte le preziose e sontuose vanità secentesche: nuda, impersonale, invincibile.
Come è grave Et in Arcadia ego, come gronda di pensiero! Tra i quadri di Poussin, questo meraviglioso pittore di ciò
che abita le cave pareti del nostro cranio, forse è il quadro
più imbevuto di pensiero, e che lo ascolta passo passo, via
via che si inoltra attraverso le fasi successive della meditazione sulla morte. In primo luogo, c'è il pastore inginocchiato,
che decifra lentamente con la mano l'iscrizione, la segue dal
basso in alto, e la raccoglie e la riflette nella mente, soffermandosi sulla parola centrale: cioè che l'innominata regna
anche in Arcadia. Il pastore getta sulle pietre un'ombra,
che disegna il simbolo della morte: una falce. Non è un caso:
perché l'uomo è il punto più debole dell'universo, la più fragile tra le creature, e l'ombra è la sua proiezione. Così scorgiamo per la seconda volta la morte sulla pietra: come iscrizione, come falce. E l'ombra cancella quasi completamente
una parola: ego; l'ego dell'uomo, la sua parte più caduca.
Sembra che non ci sia salvezza. Siamo chiusi dentro la sfera
della mortalità, dalla quale non riusciamo ad uscire - se tutti
gli uomini, persino quelli che pensano e interrogano, gettano ombra.
Il pastore a sinistra, che si abbandona col braccio sulla
tomba, pare inquieto, prostrato, distante, avvolto da una malinconia profondissima. Non guarda le lettere sulla tomba:
non le ispeziona con la mano, come fa il suo compagno.
Sembra conoscere tutto da sempre, come se niente avesse
segreti, per lui, nell'universo.
A questo punto la nostra lenta ispezione del quadro - lenta e meticolosa come quella del pastore, che tasta e interroga le pietre - deve interrompersi. La parte destra di Et in Arcadia ego è completamente diversa da quella sinistra, e la
contraddice e la capovolge. Con la sua mano robusta e delicata, Poussin ci introduce in un altro mondo, che non ha
nulla a che fare con quello arcadico. Ecco la donna abbigliata
320
all'antica, in contrasto con i pastori Arcadi seminudi: splendidamente vestita, come una dea, una sacerdotessa, o una figura allegorica, con squillanti colori gialli e blu; sembra venire da altrove, da qualche luogo soprannaturale, che ha
improvvisamente invaso l'Arcadia. In lei, che è il secondo
centro della rappresentazione, si nasconde il mistero del
quadro. Chi è? La morte? Il destino? La scrittura? Una semplice sacerdotessa? Una dea? Athena? Mnemosine? O la ragione,
come sembra suggerire Cesare Ripa?
Non esistono documenti o paralleli, né nella pittura del
tempo, né in quella di Poussin; e qualsiasi interpretazione
della donna è soggetta a dubbi e contestazioni. Vorrei chiamarla la Musa del passato. China lievemente il capo e sorride
in modo grave, perché possiede «un sapere», quello che le è
dato dalla distesa del tempo. È triste, giacché ogni tentativo
di entrare nel passato affronta l'ombra, la vertigine della
morte, la polvere dei sepolcri: ma è anche quieta e serena,
poiché il racconto del passato calma le anime inquiete e malinconiche. Presso il capo della donna si innalzano degli alberi, in parte quasi secchi come ciò che è morto, in parte
verdi come il tempo che si reincarna e rinasce e torna presente. Tutto, alla fine, viene rovesciato: non c'è più la morte
con la terribile frase ripetuta e i colori spettrali dell'ombra;
ma la luce, la vita e la gioia, con gli squillanti colorì gialli e blu
della veste femminile, che ricordano i colori della giovinezza
veneziana di Poussin, e trasformano in musica le angosce e i
pensieri funerari, che in questo momento torturano ancora i
due pastori.
La donna o la dea posa la mano sulle spalle di un terzo pastore. Lo conforta, lo consola, gli comunica la sua sapienza,
leggera come un grave sorriso. Mentre il pastore che interroga la morte ci volta le spalle, questo terzo pastore ci guarda
direttamente in viso. Non getta ombre: non cancella l'ego: il
suo viso è chiaro e ardimentoso: la sua figura sembra esprimere una certezza; e le sue dita indicano un'altra volta la
scritta: Et in Arcadia ego. Cosa ci comunica dunque? Ci ricorda la rivelazione che, con un tocco dolce della mano, gli
321
ha confidato la Musa del passato. La morte è dovunque, anche in Arcadia: il tempo ci perseguita da ogni parte; ma la
sua ombra è domata dalla nostra mente, che la racconta e la
trasforma in vita, verde come l'albero d'alloro e squillante
come le vesti femminili.
Il semplice gesto della dea sembra immobilizzare il quadro. Tutto è fermo, come forse in nessun altro dipinto di
Poussin. Questo paesaggio non muterà mai: queste rocce,
queste macchie, questi alberi, questa tomba, questi pastori,
e perfino queste nuvole, sono qui, e così, e per sempre.
Questo istante è eterno, come le belle proporzioni, i gesti e i
modi misurati delle figure, e l'armonia dei colori e dei suoni.
Non c'è più acqua, né clessidra, né tempo. L'Arcadia, che
sembrava sconfitta dalla morte, ha vinto la morte: l'Arcadia,
il luogo dove si coglie «il ramo d'oro», che ci guida verso i segreti della terra.
LE FAVOLE DI BASILE
Non sappiamo quasi nulla di Giambattista Basile. Sappiamo
che nacque a Napoli nel 1575 e morì a Giugliano nel 1632: che
fu a Candia, Venezia, Mantova: fece il soldato, il marinaio, il
governatore di paesi e città della Campania e della Basilicata:
appartenne all'Accademia degli Stravaganti di Creta e all'Accademia napoletana degli Oziosi; e il suo capolavoro uscì postumo, e non finito, tra il 1634 e il 1636. Ma chi fosse quel napoletano «smilzo e focoso, tutto muscoli e nervi, bruno e
fosco di colorito, con folte sopracciglia e occhi grandi e nerissimi», descritto e immaginato da Mario Praz, ci resta completamente sconosciuto. Per quanto percorriamo II racconto
dei racconti, non c'è una fessura, o un pertugio o uno specchio, attraverso i quali possiamo ritrovare almeno una traccia
o un'ombra di lui. Nessuno scrittore secentesco è più misterioso, impassibile, nascosto come in una tomba dietro le volute barocche e le fantasie favolistiche del suo libro.
Basile aveva un'immensa memoria, dove raccolse, come
322
un folclorista erudito dell'Ottocento, un tesoro ricchissimo
di favole, tradizioni, usi, costumi, proverbi, modi di dire, giochi infantili di Napoli e del contado. Non «faceva altro che rivoltare le casse vecchie del cervello e frugare in tutti i nascondigli della memoria»; e poi gettava questi ricordi nel suo
calderone shakespeariano, come le streghe del Macbeth vi
gettano, per preparare il «brodo infernale», bisce di palude,
occhi di ramarri e dita di ranocchio, peli di pipistrello e lingue di cane, zampe di lucertole, fegato di giudei, ali di gufo,
scaglie di drago, budella di tigre, nasi di turchi, diti di bambini strozzati in culla:
Doublé, doublé toil and trouble:
Fire, bourn; and, cauldron, bubble.
Come avvampò il fuoco di Basile: come gorgogliò l'immenso
calderone; e come la miscela stregonesca preparata nel Racconto dei racconti fu folta, densa e fantastica!
Sul fondo di questo fuoco e di questa pentola gorgogliante, dobbiamo immaginare di leggere le discussioni e i trattati
secenteschi sulla Malinconia. Il racconto dei racconti è una
grande macchina per sopraffare e cancellare la Malinconia
dal mondo. All'inizio del libro appare la figlia del re di Vallepelosa, che non ride mai, come Eraclito; e la sua figura si ripete in altri personaggi, che non aprono le labbra al segno
della gioia. Per rallegrare la figlia, il re di Vallepelosa chiama
acrobati, giocolieri, ginnasti, cantanti, ballerini, animali ammaestrati. Tutto è inutile: finché una vecchia strega alza la
veste, come Baubò davanti a Demetra, mostrando il sesso
cespuglioso; e a questo spettacolo Zosa, per la prima volta
nella sua vita, «sta quasi per svenire dalle risa». Il libro deve
ripetere e moltiplicare il riso originario di Zosa: il racconto è
la vera cura contro la Malinconia; fa «svaporare gli affanni,
sfrattare i pensieri fastidiosi e allungare la vita». E per i cinquanta racconti, narrati in cinque giornate dai dieci narratori, echeggia questo riso immenso, che brilla, esplode, genera
la vita, feconda la terra, produce i fiori, fa schiattare gli uomini e le fate, - sebbene lontano continui ad estendersi, ine323
splorato e inesauribile ma onnipresente, il nero lago della
Malinconia.
Per vincere la Malinconia, Basile segui la stessa strada che
avevano indicato Baubò, la vecchia strega e molti scrittori
del Cinquecento: degradando in mille modi, e con sempre
nuove fantasie, invenzioni e trovate, la vita del mondo. In
primo luogo, la bellissima villa toscana del Boccaccio, con
cortili, logge e pitture, prati, fonti e meravigliosi giardini, diventò una reggia da trivio; e gli eleganti narratori e narratrici
del Decamerone, Pampinea, Fiammetta, Neifìle, Panfilo e Filostrato, si trasformarono in «Zesa sciancata, Cecca storta,
Meneca gozzuta, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa,
Ciulla musuta, Paola sgargiata, Ciommetella tignosa e Iacova
scquacquarata». In secondo luogo, la Fiaba, la Fiaba senza
tempo, che vive nel paese di Non-Dove, si incarnò a Napoli e
nel contado napoletano; e quasi tutti i personaggi ebbero
dei nomi precisi e abitarono in un tempo e in un luogo preciso, come Cola Iacovo Aggrancato di Pomigliano e sua moglie Masella Cernecchia di Resina.
Qualche volta gli splendori della favola brillano ancora:
l'oro abbaglia, l'argento strabocca, le gioie stralucono, i servitori brulicano: bellissimi giardini mostrano spalliere di cedrangoli e grotte di cedri; e le damigelle escono con lo specchio, la boccettina d'acqua profumata, il diadema e le
collane. Molti personaggi declamano le loro cantate metaforiche come tenori, baritoni, soprani e contralti di un futuro
teatro d'opera. «Addio, che ti lascio, bella Napoli mia! Chissà
se potrò vedervi più, mattoni di zucchero e mura di pasta
reale!... Non ti posso lasciare, o Mercato, senza andarmene
marcato di doglia! Non posso staccarmi da te, bella Chiaia,
senza procurare mille piaghe a 'sto cuore! Addio pastinache
e foglie molli, addio zeppole e migliacci... Addio fiore delle
città, coccopinto d'Europa, specchio del mondo, addio Napoli non plus, dove ha posto i termini la virtù e i confini la
grazia!»
Di solito la Napoli di Basile è plebea, miserabile, chiassosa,
turpe: «contrasti con vetturini, imbrogli con tavernari, assassi324
nii di gabellotti, pericoli di mali passi, cacaiole per i mariuoli»;
taverne, bordelli, bische, malefemmine. Mai, nella letteratura
italiana, Napoli è stata così viva e reale: mai abbiamo sentito
questo sapore, questo odore, questo fetore, che esce e imbeve le pagine, come quattro secoli fa i vicoli e le strade. Con
una parte di sé, Basile era un moralista, che vedeva dappertutto i segni del mondo alla rovescia: «buffoni regalati, furfanti stimati, poltroni onorati, assassini spalleggiati, zanettoni
patrocinati e uomini dabbene poco apprezzati e stimati». Ma,
in realtà, la degradazione dei costumi e le disgrazie dei virtuosi gli interessavano pochissimo. Ascoltava e vedeva. Come
Orecchie di lepre, metteva l'orecchio a terra e sentiva tutto
quello che si dice per il mondo: loschi accordi di artigiani,
consigli di ruffiani, appuntamenti di innamorati, lamenti di
servitori, soffiate di spioni, pissipissi di vecchie, bestemmie di
marinai. Come il più aguzzo e preciso dei visionari, scorgeva
la realtà molecolare: la maestra di cucito che insegna alle ragazze il punto a catenelle e le filettature: la cagnetta smarrita
che ritrova il padrone e gli abbaia, lo lecca e scuote la coda; o
la figlia della vecchia pezzente, che fa rosolare sette cotenne
in un pignattino, e le mangia avidamente.
L'universo, di cui Napoli è la metafora più appariscente, è
una congrega di mostri, di idioti e di rifiuti. Ecco gli Orchinanerottoli, con la testa più grossa di una zucca d'India, la
fronte bitorzoluta, le sopracciglia unite e pelose, gli occhi
storti e grinzosi, la bocca bavosa: le vecchie, con le ciocche
scarmigliate, le tempie spennate, gli occhi scalcagnati, la
bocca di cernia, la barba di capra, la gola di gazza, le mammelle a bisaccia: ecco i babbei, i tonti, gli idioti, che sfiorano
la demenza e affascinano e incantano chi li vede; - e tutti i
cocci di orciuoli, i pezzi di vasi e di coperchi, i fondi di pignatte e di tegami, gli orli di catinelle, i manici di anfora...
Tra questi rifiuti, la vita si è ridotta all'estremo. Si mangia e si
defeca. Tutti divorano, trangugiano, ingurgitano, ingollano,
inghiottono, ingozzano, strippano, pappano, ruminano, rosicano, ripuliscono quello che c'è in tavola: pastiere e casatielli, polpette, maccheroni e raffioli, pastinache e foglie mol325
li, piccatigli e ingratinati, franfelicchi e biancomangiare; Napoli è un'immensa città-torta, che Basile divora con gli occhi
e coi denti. Subito dopo, tutti defecano. Lo sterco assume
ogni forma: genera complicazioni, virtuosismi e ordigni barocchi: invade il dizionario, percorre il linguaggio amoroso;
fino a che, in momenti di quasi delirio, il mondo ci sembra
una sola diarrea dovunque proliferante.
Mostri, nani, vecchie, sciocchi, idioti, ingordi e defecatori si
raccolgono nei cinquanta racconti con un solo scopo. Vogliono farci ridere. Vogliono fare scoppiare nella malinconica Zosa, nelle narratrici e in noi che leggiamo, la risata immensa, a
piena gola, a crepapelle, hénaurme come in Rabelais e Flaubert, dionisiaca, assurda, grandiosamente fantastica, che uccide per sempre la nera pianta della Malinconia. Nel libro, Zosa
ride e sposa il suo principe. Noi ridiamo? Alcuni racconti sono
di un così strepitoso virtuosismo, che anche a noi vengono le
lacrime agli occhi dalla gioia. Non è certo che ridiamo alla fine. L'universo di Basile è così pesante, folto e inestricabile,
che a volte ci sembra il fosco sogno delle streghe del Macbeth, che continuano a cuocere il loro brodo infernale.
Meglio di ogni altro scrittore di fiabe, Giambattista Basile
comprese il segreto della favola: il quale non consiste tanto
nell'evocazione del meraviglioso e dell'impossibile, ma nella
costruzione di un universo perfettamente geometrico, dove
le azioni e le reazioni vengono ripetute con una astratta precisione. Le geometrie di Basile sono impeccabili, squisite e
comicissime. Ma quelle tradizionali non gli bastarono. Volle
costruire dei nuovi elementi ritornanti, che costituissero la
sigla fissa e indimenticabile delle sue favole. Moltiplicò le albe e i tramonti: una fantasia metaforica, che aveva confini solo con i confini dell'uomo, si limitò e si costrinse in una formula, che venne variata all'infinito.
Così abbiamo albe e tramonti realistici, picareschi, manieristici, poetici, giocosi, preziosi, parodistici, teatrali, delicati,
bellicosi, scurrili. «Al mattino, quando l'Aurora riesce a getta326
re l'orinale del suo vecchio, tutto pieno di rossa renella, dalla finestra d'Oriente.» «Venuta la sera, quando il Sole come
un mariuolo viene portato con la cappa in testa nel carcere
d'Occidente.» «Non appena il Sole col pennello dei raggi
biancheggiò il cielo che era annerito dalle ombre della Notte.» «Ormai le palle dorate del Sole, con le quali egli gioca
per i campi del cielo, pigliavano il pendio dell'occaso.» «Non
era ancora uscita la Notte sulla piazza d'armi del cielo per
passare in rassegna i pipistrelli.» «Quando infine si alzò la tela delle ombre dalla scena del cielo perché l'Aurora uscisse a
fare il prologo della tragedia della Notte.» «Quando gli uccelli trombettieri dell'Alba suonarono tutti a cavallo, perché le
Ore del Giorno si mettano in sella.» «Quando la terra fu ricoperta di lutto per le esequie del Sole, e vennero le torce.»
In alcuni libri di favole, il fiabesco appartiene a un universo rigorosamente autonomo rispetto a quello reale: retto da
leggi diverse; e una lievissima linea di contorno impedisce
agli esseri umani, a meno di essere sorretti da potenti soccorsi sovrannaturali, di passare nel mondo di là. Qui, nel
Racconto dei racconti, ogni barriera, ogni limite, ogni confine sono caduti. Le fate, i maghi, gli Orchi abitano dappertutto, in qualsiasi collina, paese o castelluccio, dove si raccolga
il genere umano: spesso sono figli di uomini; mercanti o stallieri o povere vecchie. Non c'è dono più quotidiano dell'oggetto magico e della fatagione - e basta che una palombella
si levi a volo, perché un'aria di incantesimo avvolga gli spessi
colori, suoni e odori dei mercati. Così, tra le mani di Basile, il
mondo reale e quello fiabesco si fondono meravigliosamente: emanano lo stesso profumo; e la fiaba senza tempo diventa la Napoli del 1628 o del 1630, quando Basile le attraversava con occhi curiosi e desiderosi.
Qualsiasi lettore avverte il passaggio delle fate. Non importa che siano figlie di mercanti, o di osti, o di contadini, o
di re. Basta che le guardiamo fissamente; ed ecco che la fata
diventa, sotto i nostri occhi, una mortella, e la mortella una
fata; e lo stesso accade a un dattero, a una lucertola, a un
serpe, a un frutto di cedro, a una colomba, a un uccello 327
che conosce (noi non la capiremo mai) la lingua segreta insegnata da Salomone. Così i regni degli alberi, degli animali
e delle fate costituiscono un solo regno, come nei miti
sull'umanità primitiva: ciò che è inferiore all'uomo ha qualità, poteri e preveggenza che l'uomo non conosce. Tutto
quello che è fiabesco, sta sui confini tra questi regni. Signore
delle metamorfosi, le fate si trasformano incessantemente,
non perché siano costrette, ma perché questa è la loro vera
vocazione.
Così, mescolate agli uomini, distinte ma indistinguibili dagli uomini, le fate esercitano il loro influsso sulla terra, dove
posano il piede di uccello o di cedro. Sebbene siano volubili
e capricciose e assomiglino all'incostante Fortuna, di solito
questo influsso è benevolo, affettuoso e amoroso. Nemmeno gli Orchi fanno eccezione. Le Fate amano i matrimoni, i
babbei e il Lieto Fine, proprio come i grandi romanzieri. Ma
il loro influsso è più vasto. Non riguarda soltanto l'intreccio
delle favole; riguarda soprattutto la stessa sostanza, la struttura profonda della realtà. Abbiamo appreso che esse sono
signore della Metamorfosi. E se la realtà delle cose viene, in
Basile, costantemente animata e antropomorfizzata: se tutto
genera e si autogenera incessantemente: se i mobili figliano
e il letto fa un lettuccio, il forziere uno scrignetto, la sedia un
seggiolino, e il cantero un canteruccio verniciato: se i gatti
parlano e i topi frequentano le osterie: se i morti crescono
nelle loro casse di cristallo, e i pupazzi di farina diventano vivi, noi sappiamo che sempre, apertamente o di nascosto, sono all'opera le fate, che Basile fa passeggiare nella vastità crepitante e ondosa dell'universo.
Poi ci sono gli uomini. Quando s'innamorano, essi amano
con un desiderio, un ardore, una dolcezza, un incanto, uno
struggimento, che (salvo in Madame d'Aulnoy) sono rari nei
libri di fiabe. Come in Chrétien de Troyes, a volte è una ossessione amorosa, o un delirio narcisista. Il re di Frattombrosa giunge cacciando in un bosco, dove trova una «pietra di
marmo»; e vi scorge un corvo appena ucciso, che macchia il
marmo bianchissimo con il rosso del sangue e il nero delle
328
penne: «O cielo» dice gettando un gran sospiro «non potrei
avere una mogliera così bianca e rossa come quella pietra, e
con i capelli e le ciglia nere come 'sto corvo?». E sprofonda
tanto nel suo pensiero da diventare anche lui una statua di
marmo, con quel pensiero «incastrato dentro il cuore come
una pietra nella pietra». Il principe di Torrelunga si ferisce il
dito mentre taglia una ricotta; e due stille di sangue, cadendo sopra la ricotta, fanno «un miscuglio di così bel colore e
talmente grazioso... che gli venne il capriccio di trovare una
femmina così bianca e rosa quale era appunto quella ricotta
tinta del sangue suo».
Come per una specie di discrezione, la scena d'amore viene rappresentata di rado: la favola evita il compimento erotico. Ma, nella Mortella, c'è un esempio supremo, di una dolcezza e tenerezza, che i giochi verbali rafforzano invece di
celare. «Ora mo' capitò che una sera, coricatosi questo principe nel letto, e spente le candele, appena si fu il mondo
quietato e tutti dormivano il primo sonno, egli sentì scalpicciare per la casa, e una persona avanzare a tastoni verso il letto... Quando sentì avvicinarsi la cosa, e tastandola s'accorse
che era roba liscia e dove credeva di palpeggiare aculei di
istrice trovava una cosina più tenera e morbida della lana
barbaresca, più vellutata e soffice della coda della martora,
più delicata e lieve delle penne del cardillo, le si slanciò addosso, e credendola una fata (come in effetti era), le si abbrancò come un polipo e, giocando alla passera muta, fecero
a pietra in petto.»
Il quadro dei personaggi è vastissimo: ecco le ragazze ardimentose, che percorrono il mondo vestite da uomini, cercando l'amato: le donne passive e virtuose, che si lasciano
torturare e amano i loro torturatori: i giovani candidi in caccia di avventure e di fortuna; i fedeli, i puri di cuore, e quanti
mai altri, affollati e vorticanti nel coloratissimo calderone...
Ma ecco anche i crudeli, che esercitano la propria ferocia sugli uomini, le piante, gli animali e le fate. Talvolta sono gli
stessi che ci erano parsi candidi e buoni: persino la poetica
Cenerentola uccide la matrigna: Basile non investiga il miste329
ro della crudeltà; si accontenta di sigillare il suo libro bruciando ferocemente sul rogo la schiava nera, mentre Zosa è
liberata per sempre dalla Malinconia.
Come Shakespeare, Basile fu un grande poeta del Tempo;
e in una specie di a parte (l'unico che egli compose) dei Sette palombelli, ne rappresentò la figura, la casa, la madre,
l'orologio, i ritmi, le abitudini. La casa del Tempo sta sopra
una montagna; ed è una raccolta di detriti, di rifiuti e di rovine. Le mura sono crepate, le fondamenta fradicie, le porte
tarlate, i mobili ammuffiti: ogni cosa è consumata e distrutta;
qui ci sono colonne rotte, là statue spezzate. Per terra stanno
lime sorde, seghe, falci e falcetti, e dei calderotti di cenere,
dove sta scritto: Corinto, Sagunto, Cartagine, Troia, e i nomi
di mille altre città scomparse, che il Tempo conserva in memoria delle sue imprese. Ma egli non è soltanto un raccoglitore di detriti. È un vecchio dalle ali grandi e rapidissime:
corre così veloce, che noi lo perdiamo subito di vista; e un
Ouroboros, che mangia e rode e divora sé stesso e tutte le
cose, e ritorna a germogliare e a rigenerarsi.
Questa bellissima storia rappresenta il cuore dei Racconti
dei racconti, che è un prodigioso ordigno per imitare il Tempo e farlo circolare tra le pagine, come il sangue stesso del libro. Così nei velocissimi allegro di certe favole, Basile inseguì
le sue grandi ali crestate: mentre nel ritmo di metamorfosi, di
morte e resurrezione, che le fate impongono alla vita, imitò il
Tempo che continuamente divora e rinasce. Ma, forse, la meta di Basile era soprattutto quella di fermarlo. La giovane eroina dei Sette palombelli toglie i contrappesi dell'orologio, che
si arresta, bloccando il vecchio dio indemoniato. Basile seguì
un'altra strada, molto più diffìcile e rara. Fermò il Tempo per
mezzo della accumulazione e stratificazione delle metafore,
che ci costringono a leggere il libro con smisurata attenzione
e lentezza, quasi immobili, mentre attorno a noi tutte le cose
sono trascinate via dalla fretta e dall'ansia.
La prosa di Basile è una torta dalle centinaia di sfoglie: do330
ve si infittiscono le storie, le allusioni, le citazioni, i proverbi,
le metafore, gli usi napoletani, i sensi, i sottosensi e i sovrasensi; e le sfoglie sono così concentrate, che noi dobbiamo
scendere faticosamente nelle profondità. La prima legge è
l'accumulazione verbale. Le parole si aggiungono alle parole:
ognuna cerca di cogliere più da vicino e con più precisione
l'oggetto, e insieme effettua una variazione fonica: le variazioni si succedono e mirano a un diapason; mentre insieme
formano un sistema metaforico compatto e coerente. Sullo
sfondo sta Basile che, come il Tempo, ingoia tutto il dizionario e insieme ad esso il mondo, come se soltanto così potesse liberare il Riso, che salva noi e la vita dalla rovina. Ma egli
non vuole, come credeva Croce, parodiare e ironizzare il barocco. Simile a Shakespeare, accumula immagini classiche,
petrarchesche, realistiche, bizzarre, oscene, inverosimili: tutto ciò serve a far divampare più diabolicamente le legna del
suo fuoco stregonesco:
Doublé, doublé toil and trouble:
Fire, bourn; and, cauldron, bubble;
finché le immagini s'accendono, deflagrano e scoppiano, disegnando cangianti e luminosi razzi nel cielo, mentre noi, rimasti a terra, ammiriamo questa potenza regale di immaginazione.
Il racconto dei racconti è prigioniero del Tempo. Sta lì,
chiuso nei cinque piccoli volumi secenteschi: chiuso nel suo
dialetto incomprensibile, che a me sembra più arduo della
lingua di Pindaro e di Eschilo. Se vogliamo farlo uscire dal
Tempo, dobbiamo tradurlo incessantemente in italiano, come ha fatto per la prima volta Benedetto Croce nel 1924, immaginando per qualche mese di essere Basile, e facendo
passeggiare la Filosofia dello Spirito per le vie di Posillipo e
Chiaia. Della nuova traduzione di. Ruggero Guarini posso dire che è persino più bella di quella di Croce. Guarino ha tenuto presente la vecchia traduzione: ma mentre Croce sveltisce e movimenta la prosa di Basile, egli ne rispetta la
grandiosa e pesante sintassi barocca. Poi vi getta sopra un
331
po' di fiori e di canditi napoletani, in memoria di quella città
di zucchero e di pasta reale, di pasta sfoglia e di centofigliole, che noi abbiamo appena divorato insieme a lui.
LA MALINCONIA DELLE FATE
Alcuni di noi sono posseduti dalla sensazione che una sottile parete, una lieve cortina, un velo d'aria e di garza separi
il nostro mondo da un «regno segreto», foltissimo di abitanti.
Non occorre andare lontano: né, come gli antichi veggenti,
venire trasportati con lo spirito e il corpo nel cielo. Mentre
camminiamo tra le colline, ci soffermiamo presso una sorgente, guardiamo le luci e le ombre del crepuscolo, ondeggiamo sugli orli del sogno, basta figgere l'occhio; ed ecco
che la parete d'aria e di garza si scioglie, e noi penetriamo
nel mondo che costeggia il nostro, o le fitte creature invisibili scendono fra di noi, rivelandoci misteri, annunciandoci il
futuro, raccontandoci fiabe, scoprendo tesori nascosti. Gli
onesti mediatori con l'invisibile sono rari. Forse nessuno, come Robert Kirk, un ministro presbiteriano scozzese, vissuto
nella seconda metà del diciassettesimo secolo, dedicò tanta
attenzione, tanto scrupolo, tanto candore, tanta devota fede
cristiana al Regno segreto; e alle aeree e misteriose tribù di
elfi, fauni, coboldi, fate, i fairies che popolano le sue quinte.
Robert Kirk non era un veggente né un poeta: era un uomo colto e mediocre, e le sue informazioni sul «regno segreto» erano forzatamente incerte, lacunose, incomplete, come
quelle che potrebbe avere ciascuno di noi. Ma di una cosa
era sicuro. Le fate, i fairies hanno un corpo di «nube condensata» o di «aria coagulata», come i demoni neoplatonici:
si cibano delle parti più eteree e alcoliche del corpo degli
animali; eppure questo corpo leggerissimo sembra alle volte
infastidirli, se lo indossano e poi lo svestono, se appaiono e
scompaiono, quasi che l'ininterrotta metamorfosi fosse la loro vera vocazione. Non hanno una fissa dimora: cambiano
abitazione e luogo come cambiano corpo, dominati da una
332
perenne agitazione e inquietudine. Vivono più a lungo di
noi, e quando muoiono, entrano in un nuovo stato, «giacché
ogni cosa gira in un circolo più o meno grande, e si rinnova
e ringiovanisce con le sue rivoluzioni».
Se vogliamo scorgerli, dobbiamo fissare l'occhio su due
luoghi: il basso regno dell'aria, tra noi e le nuvole, che essi
condensano nel proprio corpo; e le fessure, i crepacci, le cavità, le caverne sotterranee, dalle quali si ode alle volte giungere un soffiare di mantici, un battere di martelli, che è la
musica dei fairies-fabbri. Come Ermes, il loro compito cosmico è dunque quello di mediare tra l'alto e il basso: tra la
terra e il cielo più alto, dove abitano gli angeli; tra i crepacci
superficiali e gli abissi più profondi, dove abitano le creature
del male. Poiché sono così doppi, insieme aerei e ctonii, non
possiamo meravigliarci se siano intessuti di luce e di tenebra; e se li intravediamo meglio al crepuscolo, quando il
giorno e la notte si confondono ambiguamente.
Cosa fanno i fairies? Qual è la vita che si svolge, ogni giorno, nel regno segreto? Spesso Robert Kirk allude alle leggi, alle istituzioni, ai costumi, ai governi, completamente diversi
dai nostri, che reggono le fate e i coboldi. Ma egli non sa, oppure non vuole, comunicarci queste conoscenze; e ci lascia
credere che i f a i r i e s conducano solo un'esistenza parassitaria
rispetto alla nostra, come dei doppi, che vivono perché noi viviamo. L'istinto, che sembra dominarli, è quello mimico. Noi
nasciamo, veniamo allattati, parliamo, giochiamo, ci sposiamo, viaggiamo, veniamo sepolti; e, come scimmie giocose,
essi imitano le nostre nascite, i nostri giochi, i nostri matrimoni, i nostri funerali. Sui corpi d'aria coagulata, indossano i nostri stessi vestiti - p l a i d s nell'Alta Scozia, sunachs in Irlanda; e parlano le nostre lingue, inglese o gaelico, sebbene con strani suoni fischiami. Forse l'istinto teatrale - l'istinto di Shakespeare e di Goldoni - ci discende da loro: forse ogni grande
attore terreno è una fata o un coboldo mascherato; e il talento mimico, che rallegra le nostre serate, è perfetto e puro soltanto tra le creature invisibili. Dietro la parete che ci divide, i
fairies stanno perennemente in agguato. Qualche volta ci
333
dardeggiano con le loro frecce: qualche volta, scendono tra di
noi, rapiscono un essere umano - preferibilmente un bambino - e lo sostituiscono con un doppio; così che una rete continua di rapporti, di passaggi, di frequentazioni nascoste stringe il nostro mondo e quello delle fate.
Gli uomini che sono scivolati di là riferiscono che i fairies
abitano in grandi case, illuminate da lampade e fuochi perpetui, che non vengono alimentati da nessun combustibile, come nella Gerusalemme celeste. Lì, nella immobile luce eterna,
nella luce che si nutre soltanto di sé stessa, essi dovrebbero vivere lieti, come le creature angeliche. Ma Kirk ci disinganna.
Quelle fate, quegli elfi, quei coboldi, a cui noi abbiamo attribuito la nostra gioia, sono posseduti dalla malinconia più
profonda. Se saltellano, se caprioleggiano, se danzano, se ridono, se recitano, è solo per nascondere il proprio dolore: ma
è una allegria fittizia, che non nasce dal cuore, simile al «ghigno fisso di una testa di morto». La loro malinconia ha soltanto
una sosta. Come noi, posseggono libri: non romanzi o tragedie o poemi epici o trattati filosofici: soltanto raccolte di favole; e quando se le leggono a vicenda, nelle loro case radiose,
sono presi «da accessi di allegria bizzarra e coribantica, come
se fossero rapiti e dominati da un nuovo spirito che entrasse
in loro in quel momento, più leggero e lieto del loro». Se chiediamo perché siano così addolorati, Kirk ci risponde che essi
ignorano il loro destino dopo la morte: o che stanno a metà creature divise, né angeli né uomini né diavoli. E probabile
che egli si inganni. Questa malinconia orgiastica, dionisiaca,
che possiede le fate come i demoni antichi, è l'essenza stessa
del loro genio: sono tristi perché comprendono più cose degli
uomini, perché hanno più nostalgia e più brama di noi, perché desiderano l'irraggiungibile. Se la malinconia non le abitasse, esse non conoscerebbero le loro qualità supreme: la
scienza innata delle analogie naturali e il dono della veggenza.
Durante la sua oscura esistenza nella parrocchia di Balquhidder, Robert Kirk si convinse che uomini dotati di una
334
«seconda vista» possono affacciarsi nel regno segreto. Alcuni
di loro, che forse posseggono qualche terra nel mondo invisibile, formano una casta ereditaria; e si trasmettono i propri
poteri di padre in figlio. Sebbene sapesse di non possedere
questo dono, Kirk investigò con una curiosità inesausta i caratteri di questa «seconda vista»: interrogò la Bibbia, le testimonianze classiche e neoplatoniche, le leggende scozzesi.
Alla fine si persuase che i veggenti hanno uno sguardo diverso dal nostro: una speciale qualità di irradiazione e di illuminazione nell'occhio, come il raggio del sole, che ci fa vedere
distintamente gli atomi del pulviscolo atmosferico. Quando
questo sguardo viene eccitato da una specie di accesso e di
rapimento, da un trasporto e da una «follia», simile a quella
dei veggenti platonici e dei fairies, allora esso può scorgere
attorno a noi quei piccoli, delicatissimi corpi di aria coagulata danzare, recitare, irridere, piangere, profetizzare.
Kirk non si faceva illusioni su questo dono. La «seconda vista» è un dono breve e tremendo. Nei suoi veloci e intensissimi momenti di ispirazione, mentre tiene l'occhio fìsso senza
battere le palpebre, il veggente scorge «più cose fatali e spaventose che piacevoli», giacché senza terrore non possiamo
entrare in rapporto con l'invisibile, come Faust senza terrore
non scende alle Madri. Tutto ciò non ci stupisce. Sebbene
Kirk si sforzasse di cristianizzare i fairies, trasformandoli in
angeli inferiori agli ordini di Cristo, il loro regno resta, per lui,
un luogo ambiguo. Qualche volta essi ci soccorrono e ci proteggono: ma più spesso ci torturano, ci perseguitano, ci tormentano con sogni spaventosi e con atroci incubi erotici.
Questo terrore non gli impedì di concepire una utopia
non saprei se più candida o più sublime: una delle grandi
utopie di un'epoca che esaurì tutti i possibili sogni della
mente umana. Negli ultimi due secoli, il progresso aveva sviluppato la stampa, l'arte della navigazione, le armi da fuoco:
gli uomini avevano appreso a scorgere l'infinitamente lontano coi telescopi e l'infinitamente piccolo coi microscopi. Un
analogo progresso non avrebbe potuto rendere sempre più
sottile la «seconda vista»? Perché non avremmo potuto cono335
scere meglio le tribù aeree e veloci dei fairies? Sarebbe stato
molto più utile e piacevole che conoscere i giapponesi e i cinesi. Kirk sognava di trasformare la difficile e solitaria «seconda vista» dei veggenti ereditari in un'arte accessibile a
tutti, diffusa tra tutti, come una lingua straniera; e così, a poco a poco, sperava di intrattenere un rapporto sistematico
con il popolo degli spiriti. Ne sarebbe nata una nuova scienza: una nuova diplomazia, un nuovo galateo, che forse
avrebbe trasformato la cultura umana. Da questo rapporto
continuo con le fate, avremmo appreso a diventare più attenti, più fini, più fantasiosi, più preveggenti. Avremmo avuto sogni, poesie, amori memorabili. Forse avremmo scoperto una nuova arte di recitare: o un nuovo modo di ridere.
Invece di morire per Cromwell o Napoleone, per Rousseau o
Marx, avremmo scelto come unici maestri della nostra esistenza i veri sovrani del Regno Segreto: Shakespeare, Carroll, Yeats, Dylan Thomas.
Come tutte le utopie secentesche, nemmeno quella di
Kirk riuscì a incarnarsi. Telescopi sempre più perfezionati ci
hanno permesso di scoprire altre galassie: mentre nessun telescopio o microscopio mentale ci ha consentito di scorgere
le danze dei fairies tra i monti della Scozia o di ascoltare le
loro malinconiche e orgiastiche musiche sotterranee. Il nostro occhio ha smesso di irradiare: nessuna follia estatica ci
ha ispirato. Le fate, gli elfi, i fauni, i coboldi appartengono ai
relitti di una cultura sepolta; e solo qualche poeta e qualche
psicologo intravede in loro delle eterne proiezioni spirituali,
degli archetipi della mente umana. Ma, dopo tutto, non ha
importanza se non riusciamo più a scorgere le fate nel mondo esterno. Quello che importa è che ognuno di noi viva insieme a Dioniso o a Ermes, alle fate e ai coboldi la più intensa esperienza psichica. Il nostro io è una caverna di ombre,
dalle quali balza alla luce un popolo foltissimo di figure, che
ci riempiono di terrore e di venerazione. Solo se le avremo
fatte scorrere tutte davanti agli occhi di nuovo raggianti, potremo, come Robert Kirk, abbandonare senza rimpianto il
nostro «regno segreto».
336
IL SALOTTO DELLE FATE
Tra il 1785 e il 1786, alla vigilia della Rivoluzione francese,
il libraio Cuchet pubblicò una delle maggiori raccolte del diciottesimo secolo: quarantun volumi di favole e racconti fantastici scritti tra il 1695 e il 1760, ventiduemila pagine sotto il
titolo di Cabinet des fées. L'aspetto singolare di queste bellissime fiabe, dove fioriscono tutti i prodigi della letteratura
universale, è che sono nate, come diceva mademoiselle de la
Force, in un'epoca «in cui i miracoli erano scomparsi». Insieme a loro, era scomparsa anche la forza simbolica delle favole antiche: la loro profonda realtà; e la naturale potenza
dell'immaginazione. In questo vuoto, non restava che la ragione. E la ragione, crescendo e innalzandosi sopra sé stessa
e giocando leggermente con sé stessa, inventò un lussureggiante mondo fantastico, che si moltiplicava all'infinito senza
trovare resistenze, come al colpo di bacchetta magica di un
anonimo dio collettivo.
Prima di essere scritte, molte tra queste favole furono raccontate a voce: alla corte di Luigi XIV e nei salons di Parigi,
dove una moltitudine di aristocratici e alto-borghesi discorreva di morale, di psicologia e di letteratura, di tutti gli argomenti possibili e impossibili, e si esercitava nell'arte paradossale della pointe. Specie le più belle e le più antiche, come
quelle di madame d'Aulnoy, sanno di lingua parlata: di quella
lingua francese, così mobile, fresca e lieve, che alcuni scrittori di genio avevano appena inventato. Non illudiamoci di essere entrati nel mondo senza tempo della Fiaba. Qui siamo
ancora a corte: qui scorgiamo i palazzi, le stanze, i cortili, i
giardini, le feste, le luci, gli usi, i saluti, gli inchini, gli intrighi,
le galanterie, le piroette della corte di Luigi XIV; e ascoltiamo
quell'elegantissimo cicaleccio mondano, che sembra volerci
dire: «Siamo nati soltanto per conversare». Un'intera società
si rispecchia nella favola, come se tollerasse solo l'interpretazione prodigiosa di sé stessa. Dappertutto ascoltiamo il nome di Parigi, «la più bella città dell'universo»; e persino nel
cespuglio di un'isola deserta, troviamo i confetti e i pasticci337
ni che vengono dalla famosa bottega Le Coq. Qualche volta,
l'impressione è nettissima. Questi racconti sono dipinti e ricamati sui muri, gli arazzi, i sofà e le poltrone di Versailles,
dove in questo momento entrano e stanno sedendosi, al
suono spettacoloso delle trombe, le gentildonne e i gentiluomini di Francia.
Se Parigi è il lusso, qui abbiamo l'eccesso, la sovrabbondanza, la deflagrazione del lusso più spettacolare che la letteratura abbia mai conosciuto. Non ci sono che gioielli: ecco
un cuore di rubino grosso come un uovo di struzzo, con
frecce di diamanti lunghe come dita, - e quanti smeraldi e
topazi e perle, e ghirlande di fiori, che sono gioielli colpiti
dai raggi di sole e splendono in tutti i modi. Il castello della
Gatta bianca ha la porta d'oro, ricoperta di carbonchi, muri
di porcellana trasparente, dove sono rappresentate tutte le
fate dalla creazione del mondo ad oggi - e, come battente,
un piede di capriolo attaccato a una catena di diamanti.
Quanti saloni decorati, macchine teatrali, fuochi d'artificio,
calessi d'oro, cavalli bianchi, carrozze a otto cavalli, guardie
del corpo con gli abiti ricamati - e trenta fate, ognuna in una
conchiglia di perle, più grande di quella di Venere, con cavalli marini che solcano l'acqua e dragoni che volano nell'aria...
La maggiore tra queste narratrici, Marie-Catherine Le Jumel de Barneville, baronessa d'Aulnoy, era un'aspirante assassina, che non riuscì ad ammazzare il marito, e diventò
amica di un'altra assassina, regolarmente decapitata per uxoricidio - segno che il cielo lussuoso e luminoso delle narratrici di fiabe nascondeva le passioni più tremende. Madame
d'Aulnoy è una grande scrittrice, alla quale posso avvicinare
soltanto Giambattista Basile. Aveva ascoltato favole popolari:
letto i classici, specie Ovidio e Luciano, il Tasso, Ariosto,
Straparola, II racconto dei racconti, i romanzi preziosi del
Seicento; e ammirato la pittura ellenistica, come la intravedeva dalle trascrizioni letterarie, e la pittura «pagana» del Rinascimento. Ma lo scrittore che adorava sopra ogni altro era
338
Apuleio, e la novella di Amore e Psiche, che dal quindicesimo al diciottesimo secolo conobbe una popolarità senza pari. Non so se madame d'Aulnoy ne afferrasse sino in fondo i
significati mistici: il tragico incontro amoroso tra l'anima e il
suo Dio. Quello che amava era l'incontro tra persone che appartengono a regni opposti; e le voci invisibili, e le mani invisibili, che portano fiaccole, accendono il fuoco, spogliano il
visitatore, lo pettinano, servono in tavola.
In queste favole, non c'è la minima traccia di Dio: nessuna
invocazione, grido r o preghiera sale verso il cielo. Le fate
hanno occupato completamente il culmine del mondo, sebbene qualche volta debbano cedere il passo a un oscuro destino; e sono le vere eredi dei demoni della tarda civiltà pagana. Come i demoni, talora sono benefiche: talora nane,
bitorzolute e invidiose, e allora rivelano una terrificante potenza perversa, che ci fa temere per noi. Gli eroi sono sempre bellissimi: la bellezza è una condizione che prepara sia
alla fortuna sia alla sventura; e tanto gli uomini quanto le
donne sono squisiti, spiritosi, elegantissimi, preziosi gentiluomini e gentildonne di corte. Appena compaiono sulla
scena - lei prigioniera in un castello lui trasformato in un uccello azzurro, lui principe lei gatta bianca -, comprendiamo
che sono fatti per amarsi. L'amore scintilla all'improvviso: basta vedersi, guardarsi negli occhi; e la passione è folgorante
e assoluta, frivola e romanzesca, estrosa e straziante. Nessuna arte psicologica indaga questo fuoco indistinguibile: i due
amanti sono nel palazzo e nel bosco, e conversano senza fine, - perché Eros è in primo luogo passione della parola,
non dei corpi.
Come nelle grandi fiabe di iniziazione, il tema centrale è la
metamorfosi. Il principe diventa un uccello azzurro: la principessa una gatta bianca o una bertuccia; e la fata trasforma il
marito umano in un gatto urlante sulla grondaia, o in un rospo, o in una zucca, o in una civetta. Ma il tema della metamorfosi ha perso molto della sua forza simbolica. Apuleio offre soltanto lo spunto per degli incantevoli giochi
illusionistici, che appartengono più al regno del teatro che a
339
quello del sacro. Tutti si travestono, si mascherano; e si
guardano e si contemplano fissamente negli specchi, come
se lo specchio fosse l'essenza stessa di questa realtà riflessa e
fluttuante. Oppure gli specchi si incarnano nella realtà, e
l'universo ci sembra popolato da frivolissime larve.
Alla fine ci accorgiamo che tutte queste fate, questi princi
pi e principesse e mostri e draghi e creature celesti e marine
sono convenuti in un teatro di corte, insieme a madame
d'Aulnoy, scenografa, illusionista, maestra dei trucchi e prima attrice. C'è chi parla a voce sommessa: ma più volentieri
gli attori declamano, o intonano trilli e cavatine. La signora
dei prodigi è sempre all'opera. Le mascherate succedono alle mascherate. I deus ex machina scendono dal cielo o salgono dall'abisso. Su queste scene, si ama follemente tutto
ciò che è poetico: ma anche la parodia e l'esagerazione e il
barocco e il capriccio - come la danza dei dodici gatti vestiti
da mori e delle dodici scimmie vestite da cinesi. Siamo sempre ai limiti dell'opera buffa; e, ciò che sorprende, qualche
anno prima dell'apparizione delle Mille e una notte in Europa, si sta già preparando il gusto, tra avventuroso, parodistico e feerico, dei «racconti orientali». Si ama il piccolo: l'infinitesimo; come la noce che si apre, e dentro c'è una nocciola,
e dentro un nocciolo di ciliegio, e dentro una mandorla, e
dentro un chicco di grano, e dentro un chicco di miglio - e
ancora dentro un'immensa pezza di tela, che rappresenta a
colori l'universo vivente.
Che festa, che allegria, che brillio di trovate, che grazia di
giochi e di buffonerie, come se il favoloso avesse il solo compito di eccitare la gioia. E, malgrado la sovrabbondanza del
lusso e la pompa delle decorazioni, che leggerezza. Tutto è
ali di farfalla, piume di uccelli rari, letti di velo, astuzia di folletti, cineserie, e voli nella trasparenza dei cieli.
340
L'ESILIO DELLA SHECHINÀ
Con quale inesausto ardore, con quale giovanile freschezza, nei primi versetti del Genesi e nei Salmi, Dio crea le cose,
organizzando sovranamente le distese deserte e vuote che
esistevano davanti a lui. Senza posa, come un giovane, fantasioso e prodigo signore delle metamorfosi, egli crea la luce e
se ne avvolge come un manto: separa le acque superiori e le
acque inferiori, la terra e il mare: distende i cieli come un
drappo, avanza rapido sulle ali del vento; fa salire i monti e
discendere le valli, suscita le sorgenti dei ruscelli, irrora di
pioggia le montagne. Produce i germogli, le erbe verdi che
fanno seme, gli alberi da frutto, la vite che rallegra il cuore
dell'uomo, il sole, la luna, gli astri del mattino, gli esseri viventi che brulicano nelle acque, i serpenti acquatici, i passeri
e le cicogne sopra i cieli del Libano, i camosci sopra i monti,
le lepri nelle loro tane, i leoncelli che ruggiscono cercando
la preda.
Il dio di Izchak Luria, il grandissimo cabalista ebreo del
sedicesimo secolo, che foggiò la più drammatica mitologia
gnostica di ogni tempo, ha perduto questo fresco slancio. Al
principio non emana nulla fuori di sé, con il movimento inesauribile del creatore biblico o neoplatonico. Se egli è l'Infinito, come potrebbe esistere un solo spazio, una distesa
vuota e deserta, un abisso fuori di lui? O dove potrebbe
emanare qualcosa? Dovunque volgiamo lo sguardo, incontriamo l'Infinito divino. Così il primo gesto, che conosciamo
di lui, è quello di contrarsi, di ritirarsi, di concentrarsi, di limitarsi, di chiudersi nella propria profondità oscura: di esiliarsi in sé stesso, rinunciando a una parte della propria
estensione. In quello spazio abbandonato, lascia un residuo
della luce divina, il Reshimu, simile alle gocce di olio o di
vino rimaste in una bottiglia che abbiamo vuotato; e, mescolata a queste gocce, una parte dell'ombra - qualcuno oserà
dire del male - che nasconde in sé stesso.
Se ci domandiamo perché egli si sia così limitato - un gesto che urta contro tutte le nostre idee di Dio -, possiamo
341
avanzare soltanto delle supposizioni. Con questa violenta
concentrazione in sé stesso, egli ha voluto conoscersi più
profondamente: chi si limita e si individua si conosce (per
quanto queste parole possano applicarsi ai misteri di Dio);
laggiù nelle proprie inattingibili profondità, sottoposto al
proprio giudizio, egli giunge ad una riflessione intorno a sé
stesso quale non aveva mai sfiorato quando era disteso
nell'Infinito. Ma, insieme, egli si è purificato: ora una parte
dell'ombra, delle «scorie» che portava in sé, sta lì fuori di lui,
nello spazio abbandonato.
Questo sovrano gesto di contrazione ha dato origine
all'universo. Se Dio non si fosse concentrato, lasciando un
luogo fuori di sé, l'universo non sarebbe mai nato; e quelle
gocce di luce divina, simili alle gocce di olio o di vino rimaste
nella bottiglia, sono i germi di tutte le forme glorificate dal
salmista - il manto della luce, i drappi del cielo, gli astri del
mattino, le ali del vento, gli uomini creati a immagine e somiglianza, i passeri sopra i cieli del Libano, le lepri nelle loro
tane. Così possiamo comprendere, fin d'ora, il paradosso di
tutta la creazione futura. Quella che ci era sembrata soltanto
una fuga, una contrazione, un severo atto di giustizia di Dio
è anche un sovrabbondante e delicato gesto d'amore verso
l'universo: perché egli ha voluto che fosse formato dalle gocce della sua luce, dalla sua stessa sostanza divina; mentre, se
lo avesse gettato e proiettato fuori di sé, esso avrebbe partecipato molto meno intimamente alla sua sostanza. Ma, d'altra parte, non possiamo dimenticare che la creazione non
nasce dalla pienezza di Dio, ma dalla sua fuga, dal suo esilio,
dalla sua assenza. Così il mondo, nel quale vivono Luria e
l'ebreo moderno, è doppio: totalmente pieno di Dio e vuoto
di lui: disceso direttamente da lui e abbandonato da lui:
amorosamente creato e derelitto; luogo di gioia e d'esilio.
Il cosmo divino è simile a un uomo, che ora inspira ora
espira, contraendo o dilatando il petto: o a una marea, che
ora fluisce ora rifluisce. Dopo essersi contratto in sé stesso,
342
Dio si espande, si allarga, si apre, si manifesta, ispirato dalla
forza dell'amore, e getta nello spazio la luce delle sue dieci
emanazioni, le dieci Sefirot. Questa luce è troppo folgorante e
accecante perché lo spazio possa sopportarla; e viene contenuta e fasciata in dieci «vasi». Non tutti i vasi sono identici. I
primi tre sono puri, incontaminati e perfetti: gli altri sette sono formati da miscele luminose di specie inferiore, dove Dio
estromette le ultime impurità che lo adombrano.
Forse la sorte dell'universo resta in bilico per un istante,
nel quale la forza luminosa e quella dei «vasi» si equilibrano
perfettamente. Se questo istante si fosse prolungato nel
tempo, noi tutti non conosceremmo peccato, caduta, divisione, separazione. Ma questo equilibrio, se pure è mai esistito, dura un momento. La forza della pura luce divina è
troppo sovraeminente, eccedente, trionfale, troppo «tremenda e meravigliosa», come avrebbe detto Nachman di
Breslav, per sopportare qualsiasi adombramento. I «vasi», più
pesanti e impuri, delle sette Sefirot inferiori si frantumano,
sotto l'urto violentissimo della luce; e le scintille divine si
sparpagliano in ogni angolo della futura creazione - negli
uomini, ebrei o gentili, negli animali, nei laghi, nei ruscelli,
nei fiumi, nei mari, nelle piante velenose, nelle pietre, nei cibi. Le scintille sono dovunque: ma esiliate, degradate, avvilite, prigioniere delle potenze demoniache; pendenti nelle
cose come dentro pozzi suggellati, rannicchiate negli esseri
come in caverne murate, o aleggianti nello spazio come farfalle pazze di luce. Tutto viene macchiato, spezzato, frantumato. Tutto è desolazione e disperazione. L'albero della vita
si separa dall'albero della conoscenza, il sopra dal sotto,
l'elemento maschile da quello femminile, la vita dalla morte:
la Torà viene lacerata in seicentomila lettere; mentre un furioso vento di tempesta sconvolge la terra, riducendo il mare all'asciutto e facendo un mare delle zone deserte. In questo mondo devastato, gli uccelli, i ruscelli, le colline, gli
abissi, le distese di sabbia alzano il proprio lamento; e gli uomini vagabondano senza meta, dopo aver spezzato le loro
amicizie.
343
Così l'immaginazione teologica di Luria e del tardo ebraismo rivela ancora una volta il drammatico paradosso che la
sostiene. Da un lato, la «rottura dei vasi» fa parte del provvidenziale processo di emanazione e rivelazione di Dio: come
il seme di grano deve far scoppiare la scorza per germinare e
fiorire, la luce spezza i vasi per diffondersi nell'universo. Ma
chi potrebbe negare che tutto ciò sia anche uno spaventose >
disastro? Se Dio aveva cercato di purificare la propria luce
dalla propria ombra, ora le sue scintille sono mescolate, contaminate, prigioniere del demoniaco. La conseguenza, a cui
alcuni discepoli di Luria giunsero, è evidente. Tutte le lacune, le imperfezioni, le incertezze, le discontinuità che lamentiamo nell'esistenza di questo mondo, non sono un caso. Se
noi guardiamo lassù, in quegli abissi di puro splendore, nel
movimento di emanazione delle Sefirot, vi scopriamo lo
stesso disastro. La perfezione di Dio è un punto, nascosto
nel cuore dell'Infinito, nel centro dove egli si conosce e si riflette - ma gli occhi della nostra fantasia teologica non riescono a scorgerlo.
Dopo la «rottura dei vasi» e il peccato di Adamo, l'ultima
delle Sefirot, la Shechinà, il volto femminile di Dio, percorre
esiliata le contrade dell'universo. Lei che aveva folgorato con
la stessa intensità del sole, ora brilla soltanto di una debole,
pallida e bianca luce riflessa, come la «sacra luna», menomata, rimpicciolita, coperta di ombre e di macchie. Con strazio
sempre rinnovato, le favole del maggiore narratore chassidico del diciottesimo secolo, Nachman di Breslav, la rappresentano in questo esilio. Ora come una principessa, che il
padre o lo sposo hanno cacciato, senza colpa, dal regno: ora
come la figlia del povero: ora come una donna bellissima,
che un pirata vuol rendere schiava: ora come una serva che
fa i lavori più umili nelle locande della terra; ora come una
vedova, vestita di nero, che piange ai piedi del muro di Gerusalemme: umiliata, rapita, calunniata, sottoposta a tutte le
debolezze umane, come le grandi figure femminili del mito
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gnostico. Avvolta in manti che le nascondono il viso, essa
fugge, scompare, si nasconde - e ne restano soltanto le tracce: orme di passi, vesti abbandonate, fuscelli di paglia, che
ne rivelano il transito a chi tra noi ha gli sguardi più penetranti.
Durante uno dei suoi viaggi, un rabbi chassidico arriva,
verso il far della notte, in una piccola città dove non conosce
nessuno. Non trova alloggio, fino a quando un conciatore lo
conduce a casa con sé, nel triste vicolo dei conciatori. Egli
vorrebbe dire le preghiere della sera, ma l'odore della concia
è così acuto che non riesce a pronunciare una sola parola.
Esce e va alla scuola rabbinica, che tutti hanno già lasciato.
Mentre prega a capo chino, comprende a un tratto che la Shechinà è finita in esilio e sta abbandonata nel vicolo dei conciatori. Scoppia a piangere per l'afflizione della Shechinà, versa
tutte le lacrime che la sofferenza e l'angoscia avevano raccolto
nel suo cuore, finché cade a terra svenuto. Mentre giace esanime, con il cuore spossato dalle lacrime, la Shechinà gli appare nella sua gloria: una luce abbagliante in ventiquattro gradazioni di colori. «Sii forte, figlio mio!» gli dice. «Grandi
sofferenze ti attendono, ma tu non temere: perché io sarò
presso di te.» Sebbene la gloria di Dio fosse stata umiliata e ferita, essa splende trionfalmente come sempre. Le piccole
scintille divine si sono diffuse in ogni luogo, come il lievito
che penetra il pane, come la più famigliare e accorata presenza domestica. Ora sono nascoste e brillano segretamente in
luoghi dove, all'inizio dei tempi, non avrebbero forse osato risiedere: nelle povere locande di Lublino e di Witebsk, nelle
botteghe dei macellai, degli scalpellini e dei ciabattini, nei vicoli dove si leva intensissimo l'odore della concia, nel cuore
dei malvagi, negli animali, nelle pietre, nelle piante.
Continuando il proprio viaggio, la Shechinà giunge dove
l'uomo è addormentato al suolo, nel sonno e nell'ebbrezza
della colpa. Scende dal suo carro di pellegrina: lo scuote,
cerca di destarlo; ma nessuna voce, nessuna preghiera, nessun delicato contatto delle mani possono risvegliarlo. Allora
piange tutto il suo pianto: prende il fazzoletto che le nascon345
de l'irradiazione del volto, vi scrive qualcosa con le lacrime,
glielo posa accanto, si alza e riprende il cammino. Quando
l'uomo si sveglia dal sonno, solleva il fazzoletto contro il sole: scorge i segni quasi irriconoscibili che le lacrime hanno
lasciato nella stoffa e legge migliaia di fittissime lettere assiepate come in un rotolo.
Il fazzoletto bagnato di lacrime è la Torà, la legge del popolo ebraico. Essa non è certo quella Torà che Dio aveva rivelato prima della creazione, incisa con «fuoco bianco su fuoco
nero», dove si raccoglievano tutte le combinazioni della lingua. Sul fazzoletto la Shechinà ha scritto con le lacrime l'origine del mondo, il peccato, il diluvio, la ricerca della terra promessa, la storia di Davide e di Salomone, le invocazioni dei
profeti, l'amara sapienza dell'Ecclesiaste, l'estasi amorosa del
Cantico: la Torà che noi conosciamo in questa generazione,
dopo il peccato di Adamo. Ma Nachman di Breslav ci avverte
che tutte queste storie e questi precetti, tutti questi esempi di
gloria e di forza non sono che apparenze: in essi dobbiamo
scorgere le angosce e i dolori del volto femminile di Dio. Se,
come l'uomo della favola, solleveremo il fazzoletto contro la
luce del sole, forse vedremo rivelarsi in queste angosce altri,
più profondi, quasi insostenibili misteri.
Il mondo, dove vive il cabalista e il fedele chassid, è un luogo di esilio e di pienezza, di orrore e di meraviglia. Quando
egli lo percorre, gli accade ciò che racconta Nachman di Breslav. Smarrito durante la notte nella foresta, ode dapprima
una musica spaventosa: gridi di fiere, ruggiti di leoni e di leopardi; e persino i cinguettii degli uccelli - quella voce che, secondo qualcuno, è la lingua sacra dei cieli - sembrano suoni
mostruosi. Ma egli ascolta più cautamente, con tutta l'attenzione dell'orecchio e dell'anima, cercando di percepire, in
questi suoni rissosi, la voce dapprima esile, debole, poi sempre più cristallina, squillante e trionfale della Shechinà prigioniera. Allora si accorge che la musica notturna dell'esilio è
davvero «un suono tremendo e meraviglioso». Non è altro
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che un canto in onore della Shechinà glorificata da Dio: «così
bello che ascoltarlo è un piacere terribilmente forte; e tutti i
piaceri scompaiono davanti alla gioia data da questa melodia». Così perfino nella foresta oscura del mondo, il chassid ritrova le bellezze della creazione che, tanti secoli prima, avevano incantato l'innocenza entusiastica del Salmista: il manto
della luce, il drappo dei cieli, gli astri giubilanti del mattino, le
erbe verdi che crescono, i passeri e le cicogne sopra i cieli del
Libano, le lepri nelle loro tane.
In questo esilio, insieme lontano e vicino al suo re, egli è
come il principe di un bellissimo apologo. Questo principe
si trovava lontano dal padre, ed era posseduto dalla nostalgia, ma non poteva incontrarsi con lui. Un giorno gli arrivò
una lettera del padre, e il cuore gli si riempì di gioia e di desiderio: «Ah, se potessi tornare a vedere mio padre» egli
esclamò: «ah, se potessi toccarlo e se solo lui mi tendesse la
mano! Con che gioia ne bacerei ogni dito! Oh padre mio, oh
mio maestro, oh luce dei miei occhi! oh, se potessi toccare
la tua mano!». Stava ancora anelando di nostalgia per il padre
e struggendosi di averlo vicino, quando un pensiero gli
sfiorò la mente: «Non ho forse in mano la lettera di mio padre? E questa lettera non è stata forse scritta dalla sua mano?
E uno scritto del re non è forse opera della sua mano?». Accarezzò la lettera, se la strinse al cuore e disse: «Lo scritto del
re è la mano del re». Così vive il chassid. lontano dal padre;
eppure vicino a lui come nessuno tra i figli di Dio.
Vivendo in questa situazione duplice - giacché tutto ha valore doppio nell'universo ebraico della diaspora, lo spazio
originario di Dio, la «rottura dei vasi», l'esilio della Shechinà,
la musica della foresta - l'ebreo viene assalito da sentimenti
opposti. Se Dio è stato umiliato, come non essere pieni di desolazione e di angoscia, piangendo le lacrime incontenibili
della Shechinà? Come dice Nachman, dobbiamo gridare a
Dio, e elevare a lui il nostro cuore come se fosse appeso a un
capello e la bufera soffiasse fino al cuore del cielo, togliendoci
ogni scampo e quasi il tempo di gridare. Ma, d'altra parte, se
le scintille divine sono onnipresenti, come non venire posse347
duti dall'esaltazione, dall'ardore, dall'ebbrezza, da profondissime lacrime di gioia? Se non possiamo parlare, dobbiamo abbandonarci a danze estatiche e folli, come quelle dei Dervisci.
Anche se il tuo cuore è infelice, «puoi almeno ostentare un viso allegro. In fondo al cuore potrai essere triste, ma se ti comporterai come fossi felice, alla lunga meriterai la vera gioia».
Fondere insieme questi sentimenti contradittori, essere nello
stesso istante angosciati e felici, far piangere il nostro riso, far
ridere il nostro pianto è, forse, il segno della perfezione assoluta, di quella che noi usiamo chiamare la «santità».
Attraversando la foresta dissonante e armoniosa del mondo, inseguendo le tracce della Shechinà vagabonda, il fedele
chassid cerca di liberare le scintille divine cadute prigioniere
delle forze del male, di ricongiungerle e di restaurare la perduta unità della luce. Il suo compito è immenso. Egli non lo
dimentica mai, nemmeno per un istante, nemmeno quando
sembra vivere senza pensieri sulla superficie della terra. Lo
insegue scrutando con attenzione vertiginosa le lettere della
Torà, pregando, raccontando apologhi e favole nelle quali
adombra, come Nachman di Breslav, una parte della verità
inattingibile, tentando di sciogliere dai gusci del male le anime legate a lui da una specie di affinità elettiva. Tutti i suoi
più umili gesti quotidiani sono gesti di redenzione. Se lavora
con amore scrupoloso la pietra, libera le scintille divine prigioniere della pietra: se seduto al suo desco di ciabattino
maneggia con precisione il cuoio, libera le scintille prigioniere delle pelli: se si ciba secondo il rito, libera le scintille prigioniere delle carni e delle erbe: se compie con santità il bagno rituale, libera le scintille prigioniere delle acque: se
scopa accuratamente la propria casa o la propria locanda, libera le scintille prigioniere delle mura e della saggina; e se,
dal letto della malattia, assorbe le medicine, risana le scintille
nascoste nelle erbe velenose. Nessuna teologia ci ha mai insegnato che noi possiamo salvare le forme decadute di Dio;
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e ci ha appreso una così ardente partecipazione religiosa alle
vicende dell'esistenza quotidiana.
Il decreto di Dio aveva voluto che Israele fosse sparso su
tutte le terre: in Egitto, a Roma, in Spagna, negli innumerevoli, miseri ghetti della Russia e della Polonia; e con strazio il
chassid comprende che egli è stato cacciato dalla patria, disperso e asservito ai gentili per ritrovare le scintille sparse nel
cuore di tutti i gentili. Non deve temere nulla: nemmeno il
male, l'oscurità, la tenebra; ardito e inflessibile deve tuffarsi in
quegli abissi, nei «regni dell'altra parte», per liberare le anime
e le luci che Dio vi ha nascosto. Egli sa di correre un rischio
terribile, perché le forze demoniache possono prendere anche lui prigioniero. Dal viaggio negli abissi, molti non sono
mai risaliti: ma se unisce la pazienza e l'amore, la cautela e l'ardore, la segretezza e l'astuzia, se guida l'anima «con le briglie
lente», può scoprire il punto dove il male è simile al bene e
«circondarlo, piegarlo e trasformarlo nel suo opposto».
Quando tutte le luci saranno finalmente riunite, la Torà
gli rivelerà i misteri e le combinazioni verbali che gli aveva
nascosto. Non sarà più un fazzoletto bagnato di lacrime, imbevuto dei dolori di Dio: tutti gli spazi vuoti, tutti i bianchi
tra lettera e lettera, che ora i suoi occhi non riescono a leggere, riveleranno migliaia di segni, e le lettere visibili e quelle
invisibili si intrecceranno in ogni modo possibile formando
nuove parole. Nelle sue favole, Nachman di Breslav allude
continuamente a questa futura Riunificazione, quando Dio e
le Sefirot, la Shechinà e l'uomo, le lettere del nome di Dio si
ricongiungeranno. Ma questi simboli non risvegliano, in noi
che leggiamo, l'emozione che dovevano risvegliare nel suo
cuore lacerato. Il profondo tema dei suoi racconti è la lacerazione: gli esseri che si struggono e ardono per il desiderio di
ricongiungersi. Il cuore dell'universo aspira a raggiungere
una fonte sull'alta montagna: lontani dall'altro, entrambi colmano il baratro dell'assenza, recitando enigmi e poemi; due
uccelli separati, che formavano una coppia unica al mondo,
fanno il nido in paesi distanti mille miglia l'uno dall'altro, e
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gridano con grandi lamenti quando scende la sera, invocando per nome il proprio compagno.
Non saprei dire perché la Riunificazione sembra, al confronto, un tema più pallido. Forse essa poteva venire rappresentata solo con cauti accenni, con lievi allusioni, come tutto
ciò che appartiene al regno della Speranza? O forse Nachman sapeva inconsciamente, nelle profondità tragiche del
suo esilio, che la Riunificazione non avverrà mai, che il disastro cosmico non verrà mai redento, che Dio non uscirà mai
dall'esilio in cui si è contratto, che le scintille di luce spezzate non potranno mai essere raccolte e riunite dalle tenere e
scrupolose mani dell'uomo?
IL MESSIA CHE TRADÌ
I
Nel cuore del diciassettesimo secolo, Israele attendeva la
redenzione. Nei ghetti polacchi e nelle ricche comunità di
Amsterdam e di Livorno, in Palestina, in Marocco, in Turchia,
nei gruppi desolati sparsi nello Yemen, molti sapevano che,
all'inizio dei tempi, nel cielo era avvenuto un disastro. La luce divina aveva spezzato i dieci «vasi» che la contenevano; e
le scintille si erano sparpagliate in ogni angolo della futura
creazione - esiliate e prigioniere delle potenze demoniache.
Tutto era macchiato, spezzato, frantumato. Ora il compito
quotidiano di ogni ebreo era quello di riscattare le luci divine. Con un lavoro umile e scrupoloso, atto dopo atto, giorno dopo giorno, rito dopo rito, ogni ebreo reintegrava
l'unità frantumata di Dio. Quando tutte le scintille fossero
state liberate dalle tenebre, sarebbe giunto il lungamente atteso, il lungamente sperato Messia; e la storia umana si sarebbe conclusa.
Qualcuno coltivava speranze più violente e ardite. Il Messia sarebbe davvero arrivato così lentamente, come un grano
che si libera dalla scorza? Il suo viso era ancora avvolto dalle
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nebbie della pazienza? O, invece, una drammatica imminenza soffiava sulle distese della storia, come nei versetti
dell 'Apocalisse? E il Messia era prossimo, come la spada
dell'angelo di Dio? Dappertutto si cominciò a diffondere la
notizia che stava per giungere la fine: violenze e sconvolgimenti, guerre, flagelli, carestie, abbandono di Dio e della sua
legge, depravazione, eresia avrebbero preceduto l'èra messianica. I cabalisti di Safed, quelli italiani e tedeschi proclamarono che il 1648 era la data ultima della redenzione: in
quell'anno la Torà avrebbe rivelato i suoi segreti. Poi venne
di nuovo la delusione. Nessun Messia proclamò la sua parola. Nessuno conobbe i misteri della Torà. Decine di migliaia
di ebrei vennero uccisi in Polonia, «e i cani mangiarono le loro carni». Così, tutto fu ancora una volta posticipato - in quel
perpetuo rinvio, in quella eterna procrastinazione, in quella
ansiosa tensione senza distensione, che ha costituito per secoli il segreto dell'esistenza ebraica.
L'ultimo Messia, Sabbatai Zevi, nacque a Smirne nell'agosto
1626, in una famiglia proveniente dal Peloponneso: suo padre
era stato mercante di pollami e di uova e poi agente di commercio. Era nato il 9 Av- un giorno fatidico, il giorno della distruzione del primo e del secondo tempio, il giorno in cui secondo la leggenda rabbinica sarebbe venuto alla luce il
Messia. Aveva letto il Talmud e lo Zohar: aveva studiato da
rabbino, conoscendo la purezza, la devozione e la solitudine
di una giovinezza ascetica, come migliaia di altri giovani che si
consacravano al Dio di Israele. Faceva bagni rituali sulla costa
davanti a Smirne, insieme ai suoi condiscepoli, che lo accompagnavano gioiosamente nei campi per consacrarsi allo studio delle lettere della Torà. Ma non aveva nulla del fondatore
di religioni: non lasciò dietro di sé logia memorabili, come
quelli di Cristo; e i suoi scritti sono modesti. Aveva già un dono che più tardi avrebbe incantato profeti, sultani, folle entusiaste: un'amabilità maestosa e soave, che toccava i cuori. Era
alto, ben fatto, col viso luminoso. Amava il canto, la musica, i
Salmi. Quando cantava delle canzoni d'amore spagnole, co351
me Meliselda, trasformava quelle note ardenti d'amore profa
no nelle parole che l'anima prova per il suo Dio.
La malattia gli diede il dono che altrimenti non avrebbe
mai posseduto. Soffriva, come si dice oggi, di una «psicosi
maniaco-depressiva»: o, come si sarebbe detto una volta, conosceva i morsi acutissimi della Melanconia. Ora l'angosci;!
non gli lasciava riposo, non gli permetteva nemmeno di leggere: abulico, senza iniziativa, dominato dallo spirito di per
secuzione. Camminava tra cose che gli sembravano prive di
ogni significato: mute di ogni valore, morte e silenziose. Ora,
invece, era preda dell'entusiasmo, dell'euforia, di una felicità
elevata fino all'estasi: accessi di esaltazione e di sovreccitazione generavano in lui un entusiasmo dionisiaco: dalla sua
immaginazione sgorgavano fantasie seducenti e colorate; e
lo spirito veniva assalito da visioni e da vaticini. Allora gli altri
lo vedevano trasfigurato: il viso splendeva, e guardandolo
sembrava di guardare il fuoco. Nessuno meglio di un melan
conico poteva diventare il Messia di un popolo, che scorgeva
la propria storia come un ciclo di estremi contrasti - ad immagine di un Dio che si espande e si contrae, che dona e abbandona.
II
Non sappiamo quando il giovane asceta sentì nascere in
sé la vocazione messianica. Forse avvertì dei barlumi, dei
cenni, dei presentimenti. Alla fine - era in uno dei suoi periodi di esaltazione - sentì una voce che gli diceva: «Tu sei il
Salvatore di Israele, il Messia figlio di Davide, il Messia del
Dio di Giacobbe: sei tu che sei chiamato a liberare Israele, a
raccoglierlo dai quattro angoli della terra nel cuore di Gerusalemme, e io giuro sulla mia destra e sul mio braccio che sei
tu il vero liberatore e che non c'è, tranne te, redentore». Fu
avvolto dalla luce dello Spirito: pronunciò il nome ineffabile
di Dio: vide lo splendore della Shechinà, l'irradiazione femminile del Signore; e un profumo - i discepoli pretesero che
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era l'odore del Giardino dell'Eden - bagnò il suo corpo. A
partire da quel momento, cominciò a compiere degli «atti
strani»: infrazioni della Legge. Probabilmente non sapeva
nemmeno quale istinto lo spingeva a violare e a infrangere.
Forse il Messia doveva spezzare tutto ciò che era stato stabilito? La nuova Torà sarebbe nata su un ammasso di rovine? La
sua norma era il paradosso? Così dobbiamo interpretare anche il suo singolarissimo matrimonio. Seppe che a Livorno
viveva una ragazza ebrea, Sarah, la quale affermava che
avrebbe sposato soltanto il Messia. Dicevano di lei che si
prostituisse; e che un angelo le aveva donato un «vestito di
pelle» che Eva aveva confezionato seimila anni prima. Quando Sabbatai conobbe queste leggende, la fece venire per nave da Livorno. Sposò «la fidanzata del Messia»: infranse la
Legge; e si congiunse con una prostituta, come aveva detto il
profeta Osea: «Va', unisciti a una donna prostituta». Senza saperlo, ripeteva il comportamento dei primi gnostici.
Vagabondò per l'Oriente, ora accolto, ora cacciato e flagellato dalle comunità ebraiche. Arrivò a Gerusalemme, dove
acquistò una casa e vi si rinchiuse, digiunando da un sabbato
all'altro - e spesso passava giorni di solitudine nelle montagne e nelle grotte del deserto di Giudea. Fu a Ebron, dove
vegliava tutta la notte, in una casa illuminata da molte candele, recitando i Salmi con la voce dolcissima della «gioia e
dell'allegria». Quando arrivò in Egitto, venne preso da uno
dei suoi assalti di depressione, e non vedeva davanti a sé che
il volto grigio dell'angoscia. Tutte le speranze e i sogni messianici lo abbandonarono.
In quel tempo viveva a Gaza un giovane rabbino, Nathan,
che aveva condotto una vita di estremo rigore. «Ho osservato» diceva «la Legge nella povertà e l'ho meditata giorno e
notte. Non ho mai seguito i desideri della carne, ma mi sono
sempre imposto con tutte le mie forze delle nuove mortificazioni e penitenze.» Aveva tutte le qualità che mancavano a
Sabbatai Zevi: profonda cultura, grande originalità intellettuale, perseveranza, talento letterario, energia infaticabile. Confessava i penitenti, rivelando loro quale fosse la radice delle
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loro anime e quali atti e riti dovessero compiere per ritrovare
l'armonia. Mentre stava chiuso in una stanza e recitava le preghiere penitenziali del mattino, avvolto nello scialle rituale e
indossando i filatteri, ebbe una visione: colonne di fuoco, i
giorni della creazione, l'apparenza di Dio, il carro celeste. Sugli orli del carro stava incisa l'immagine di Sabbatai Zevi, come l'immagine di Giacobbe era incisa, secondo una leggenda
rabbinica, sul Trono di Gloria. Dalla sua bocca usciva la profezia: «Così parla il Signore: ecco, il tuo salvatore viene: Sabbatai
Zevi è il suo nome. Fa scoppiare la sua voce, getta il grido di
guerra, spiega la sua potenza contro i nemici».
Quando Sabbatai seppe che a Gaza viveva un confessore
di anime, lasciò l'Egitto e giunse sino a lui, per trovare la pace del cuore. Non era più un messia, ma soltanto un uomo
malato. I due si incontrarono, e il giovane rabbino rivelò a
Sabbatai la propria visione. L'altro rise dolcemente. Gli disse:
«Il Messia, non sono io. Un tempo lo credevo. Ho avuto la
mia follia messianica, ma ora l'ho rifiutata». I due rimasero
insieme: andarono a Gerusalemme e a Ebron, sulle tombe
dei patriarchi e dei santi. Nathan ascoltava Sabbatai raccontargli la sua vita: la giovinezza devota, la malattia, le crisi di illuminazione e angoscia, i sogni messianici; e a poco a poco
l'anima di Sabbatai si distendeva accettando la persuasione
dell'amico. Quando tornarono a Gaza, Nathan fece la prima
proclamazione pubblica: Sabbatai Zevi era il Messia, degno
di regnare sopra gli Ebrei. Entrò in trance, come un antico
profeta di Israele; e si abbandonò a una furibonda danza
estatica, fino a cadere quasi in sincope, mentre intorno a lui
scoppiava il canto entusiastico della comunità ebraica. Ormai Sabbatai aveva trovato il suo profeta. Il 31 maggio 1665
attraversò a cavallo le strade di Gaza, come Gesù tanti anni
prima aveva cavalcato per le strade di Gerusalemme, mentre
le folle gridavano: «Benedetto colui che viene nel nome del
Signore!».
Nei giorni appassionati e intensissimi di Gaza e di Gerusalemme, Nathan gli rivelò il suo destino di Messia melanconico e lacerato. Quando, dopo la «rottura dei vasi», alcune par354
ticelle della luce divina erano cadute nella profondità
dell'abisso, vi era caduta anche l'anima del Messia. Non era
più risalita. Laggiù in fondo, la radice della sua anima era avvolta da una «scorza», da un involucro demoniaco, quello di
Gesù: le anime di Sabbatai e di Gesù erano divenute dei
doppi, legate da uno strano rapporto di identità e di comunione. Il Messia non era dunque uno spirito puro: era
un'anima adombrata, oscurata, macchiata dal male; un Redentore che doveva redimersi. Così la vita di Sabbatai veniva
spiegata: gli assalti di angoscia, che lo torturavano come
Giobbe, la propensione e l'attrazione per il proibito, l'impulso a commettere le «azioni strane», che violavano le norme.
Ora, in questi febbrili mesi del 1665, il suo compito era chiaro. Non doveva combattere il male, come fanno gli uomini
della Legge. Ardito e inflessibile, cauto e ardente, segreto e
astuto, doveva penetrare dentro gli immensi imperi del male: qualche volta, doveva commettere il male con animo puro per annullarlo e elevarlo sino alla sfera della santità: rimanere nel cuore delle tenebre, fino a quando avesse liberato
tutte le scintille di luce divina cadute nell'abisso; e salvare e
santificare la sua «scorza», Gesù, nel quale i rabbini avevano
visto soltanto il nemico supremo di Israele. Non poteva trascurare nemmeno una scintilla celeste, nemmeno una pagliuzza di male. Tutto doveva essere salvato e santificato.
Tutto doveva venire redento. Quando avesse compiuto il
suo viaggio negli abissi - nessun viaggio tra i pericoli della
terra e del mare era mai stato così rischioso -, il mondo sarebbe stato riunificato.
Forse Sabbatai Zevi si spaventò davanti a un compito, di
fronte al quale tutti gli uomini avevano fallito. Ma Nathan - il
suo Paolo - lo rassicurò. I tempi erano prossimi. Mentre lui
soggiornava negli abissi del male, il lavoro silenzioso di milioni di Ebrei aveva liberato la maggior parte delle scintille divine: poche restavano prigioniere: le luci delle irradiazioni
celesti stavano per riunificarsi; e la Shechinà - misera, lacera
e vagabonda sulla terra - stava per ascendere «alla corona
del suo sposo». Fra poco, lui, Sabbatai Zevi, col solo potere
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dei canti e degli inni di lode, senza innalzare armi o spargere
sangue, avrebbe tolto il potere al sultano dei turchi. Come
nell'Apocalisse, il futuro avrebbe conosciuto ancora paurose
vicissitudini: la ribellione del sultano, sedotto dai suoi consiglieri: i dolori, i tormenti e le stragi messianiche... Alla fine,
Sabbatai tornerà sulle rive del fiume Sambatyon, sopra un
leone celeste: terrà con le briglie un serpente a sette teste,
uccidendo i nemici col fuoco della sua bocca. Tutti i re, tutte
le nazioni si inchineranno al suolo. Gli esiliati si raccoglieranno. Il Tempio di Gerusalemme scenderà dal cielo, ricostruito. Davanti a quella visione, così sfolgorante e precisa, Sabbatai non poteva avere più dubbi. Era il Messia; e, a
differenza degli altri Messia ebraici, era di stirpe divina. Scoprì che il valore numerico cabalistico del nome divino Shaddai era quello del suo nome: che nel primo versetto della
Genesi erano contenute le lettere del suo nome: che il secondo versetto poteva essere interpretato: «e lo spirito di
Sabbatai Zevi era sulla faccia delle acque». Così, in un raptus
che qualsiasi ebreo avrebbe trovato blasfemo, firmò: «Io sono il Signore, vostro Dio, Sabbatai Zevi».
Non restava che un ultimo passo: abolire tutte le leggi morali, tutti i riti proclamati dalla Torà, nei quali gli Ebrei avevano chiuso per secoli l'essenza della religione. Non si viveva
più sotto l'ombra dell'Albero della Conoscenza - che aveva
diviso il mondo in due sfere opposte, bene e male, sacro e
profano, puro e impuro, permesso e proibito -, ma sotto la
luce dell'Albero della Vita, che non conosce la distinzione tra
il bene e il male. La Torà spirituale delle origini, che in seguito al peccato d'Adamo era stata adombrata dalla Torà materiale, era tornata a rivelarsi nella sua purezza. Così Sabbatai
abolì le prescrizioni che impedivano di cibarsi di grasso: modificò il calendario; abrogò il rituale funebre della mezzanotte per l'esilio della Shechinà. Anche le preghiere vennero
modificate. Un tempo i cabalisti avevano affermato che non
bisognava meditare e pregare il Dio infinito, En-Sof, ma le diverse irradiazioni divine. In questo glorioso ritorno dei tempi, Sabbatai proclamò che gli Ebrei dovevano tornare a pre356
gare la Divinità primordiale; e pronunciò davanti a tutti le
lettere, finalmente riunifìcate, del Nome ineffabile di Dio.
Così Sabbatai cominciò la sua missione. Andò a Gerusalemme, insieme ad alcuni discepoli: attraversò di nuovo le
strade a cavallo avvolto in un mantello verde, che ricordava il
colore del Paradiso. Nel luglio 1665, era a Damasco e ad
Aleppo: folle di uomini, donne e bambini si gettavano ai suoi
piedi, balbettando profezie; la leggenda voleva che, di notte,
mentre Sabbatai procedeva lungo le strade di Oriente, una
legione di esseri - ombre od angeli? - l'accompagnasse,
scomparendo al mattino. Alla fine dell'estate 1665, era a
Smirne. Dapprima condusse la sua ordinata vita di uomo
pio: devozioni nella sinagoga, elemosina ai poveri, bagni rituali nel mare. Poi, fu aggredito da una illuminazione. Apparve nella sinagoga, «regalmente vestito», e intonò così melodiosamente i Salmi del mattino, che tutti si voltarono
affascinati.
Un giorno, si fece precedere da discepoli che portavano
una coppa d'argento piena di dolciumi, e seguire da altri con
vasi di fiori. Aveva in mano un ventaglio placcato d'argento:
il suo «scettro reale», col quale toccava le teste dei discepoli.
Modificando il rituale, salì gli scalini che conducevano all'Arca Santa, sulla quale batté più volte con lo scettro. Ordinò di
pronunciare il nome ineffabile di Dio. Poi prese una Torà fra
le braccia e intonò la canzone Meliselda-, l'amante della figlia
dell'imperatore era lui, il mistico fidanzato della Torà. Un testimone scrisse: «Quel giorno lo splendore del suo viso era
come quello di una torcia infiammata, il colore della sua barba come dell'oro, e dalla sua bocca, che prima pronunciava
le parole più ordinarie, uscivano delle parole che facevano
tremare chi l'ascoltava. Ogni istante, diceva delle cose che
non si erano sentite dal dono della Legge sul Monte Sinai».
Mentre l'entusiasmo irradiava l'animo di Sabbatai, l'entusiasmo degli Ebrei di Smirne diventò una frenesia collettiva. Vedevano colonne di fuoco: scorgevano i cieli spalancarsi davanti al carro di Dio; e Elia camminare nelle strade di
Smirne, avvolto negli stracci del mendicante. Tutta Smirne
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ebraica si abbandonò all'esaltazione: i commerci erano abbandonati: i banchetti, le danze, le processioni, le fiaccolate
notturne si alternavano con le penitenze, le flagellazioni e i
bagni rituali. Sabbatai si proclamò Messia davanti alla folla, e
distribuì i regni della terra fra i suoi fedeli.
La voce si diffuse per il mondo. Portate dai mercanti ebrei,
o dagli innumerevoli editori ebrei, o dai rabbini che tessevano una tela di ragno tra comunità e comunità: portate dalle
migliaia di Ebrei che, come una paziente e meticolosa folla
di formiche, si erano scavati le tane nel cuore dell'indifferente e crudele mondo cristiano - le lettere da Gaza e da Smirne arrivarono ad Amburgo nel novembre 1665. Raggiunsero
i porti di Venezia e di Livorno, accesero l'Italia, e di lì salirono verso la Polonia, l'Olanda, l'Inghilterra: mentre un'altra
ondata di lettere dalla Turchia raggiungeva l'Oriente. Le notizie venivano sviluppate in opuscoli e in libri: le preghiere e
le istruzioni liturgiche di Nathan erano tradotte in ogni lingua. Tutto il mondo ebraico fu profondamente sconvolto:
sia gli Ebrei miserabili dello Yemen, sia le plebi minacciate
della Polonia, sia i grandi aristocratici sefarditi di Amsterdam
e di Livorno, che offrirono le loro fortune al Messia. Le sofferenze di milleseicento anni non erano state vane. Le porte
della gioia erano aperte. Era venuto il tempo nel quale il Cielo compiva le promesse dei profeti.
La leggenda si impadronì degli avvenimenti di Gaza e di
Smirne, e cominciò i suoi ricami. Delle grandi pietre erano
cadute dal cielo sulle chiese cristiane: la moschea turca di
Aleppo era stata inghiottita dalla terra: l'oscurità e la nebbia
avevano avvolto il monte Sion, dove erano apparsi Sabbatai
Zevi accanto a Elia e a Michele. Le dieci tribù di Israele, perdute nel deserto nei tempi antichissimi, erano apparse alle
frontiere dell'Arabia, conquistando la Mecca, e minacciando
Gaza. Nessuno capiva la loro lingua: armati di spade, di archi, di frecce, di lance, avevano alla testa un asceta, che capiva tutte le lingue. Erano diecimila, centomila, trecentomila,
tre milioni: i Turchi erano incapaci di affrontarli: le spade e i
moschetti, impugnati contro le dieci tribù perdute, si rivol358
gevano contro di loro e li abbattevano. Il Gran Turco aveva
posto una corona reale sulla testa di Sabbatai Zevi, l'aveva
fatto cavalcare alla sua destra, e si preparava ad assaltare i
Russi e i Polacchi. A Gerusalemme, il Tempio era stato ricostruito da mani invisibili.
Dappertutto si diffuse la follia del pentimento. Chi digiunava per tre giorni o una settimana: chi all'alba si immergeva
nel bagno rituale, recitando la confessione dei peccati: chi si
alzava di notte rotolandosi nella neve: chi si flagellava: chi interrompeva i commerci, chiudeva le botteghe, restituiva i
guadagni illeciti, vendeva per nulla cose e beni: chi andava a
vivere nei campi, vestito di sacco, coperto di cenere, digiunando e pregando per l'avvento del Messia: chi smetteva di
recitare sulle scene dei teatri, perché non c'era più tempo
per le vanità: chi danzava follemente per le strade: i giovani
ricchi sposavano povere orfane per amore del cielo; gli indotti cercavano di avere con sé un erudito per studiare la
Torà e il Talmud e passavano il tempo nelle sinagoghe...
Molti decisero di andare a Gerusalemme, per attendere la
manifestazione trionfale del Messia. I più ricchi armarono
navi, dove trasportarono le ossa dei loro morti. I poveri
Ebrei di Polonia e di Grecia pensavano che sarebbero stati
condotti in Palestina sopra il manto fantastico delle nubi.
III
L'8 febbraio 1666, mentre stava per giungere a Costantinopoli, il caicco di Sabbatai Zevi fu abbordato da due navi turche e scortato sino al porto. Il Messia venne incatenato. Le
guardie caricarono con bastoni i gruppi di Ebrei che gli erano venuti incontro per adorarlo. L'arresto non aveva alcuna
motivazione religiosa: il gran vizir del sultano temeva la cessazione delle attività commerciali delle comunità ebraiche,
che avevano un ruolo di primo piano nell'economia turca.
Sabbatai fu condotto al Divano, dove affascinò il vizir, come
più tardi il sultano. Sappiamo soltanto che, qualche giorno
359
dopo, il vizir propose una transazione: se gli Ebrei avessero
versato centomila reali, Sabbatai Zevi sarebbe stato liberato.
Il Messia rifiutò: il carcere, prima in una cella nera e sporca,
poi in una cella più vasta, infine nella fortezza di Gallipoli,
era il suo destino; il carcere materiale, che gli infliggevano i
gentili, era il simbolo della sua cattività negli abissi del male,
come gli aveva rivelato Nathan di Gaza. Subito la leggenda si
impadronì anche di questo evento. Il Messia non era stato
fatto prigioniero. Quando i soldati erano venuti ad arrestarlo, era salito al cielo, e l'arcangelo Gabriele aveva assunto le
sue apparenze: lassù lo circondavano legioni di angeli, che
gli rivelavano i misteri di Dio.
Viveva chiuso nella fortezza, vestito di abiti rossi: il rotolo
della Torà tra le sue mani era egualmente avvolto di rosso: il
rosso era il colore del Giudizio e della Vendetta di Dio, i quali avrebbero accresciuto la loro forza all'inizio dell'èra messianica. Tutto, intorno a lui, era regale, come nel palazzo di
Salomone. I muri della stanza erano coperti di tende dorate,
il suolo di tappeti tessuti d'oro e di argento. La tavola era fatta d'argento e d'oro. Mangiava e beveva in piatti e bicchieri
incrostati di pietre preziose. Con la destra, teneva uno scettro d'oro, con la sinistra un ventaglio dall'impugnatura d'argento; e trascorreva le giornate a cantare i Salmi o inni in lode di Dio. I Turchi non impedivano l'afflusso dei pellegrini.
Dalla Moldavia, dalla Polonia, da Gerusalemme, dall'Anatolia,
dalla Spagna, giungevano i «credenti». Bevevano e mangiavano insieme a Sabbatai Zevi; e, tornati a casa, descrivevano «la
gloria che avevano contemplato, l'abbondanza d'oro e d'argento, di stoffe preziose e di ornamenti, i vestiti reali di cui
era decorato Sabbatai Zevi, la moltitudine che si affrettava al
suo servizio, gli onori che gli prodigavano i gentili». Nella fortezza, c'era uno scriba messianico: Samuel Primo. Sabbatai
scriveva ai suoi discepoli: «L'unico nato da Dio, Sabbatai Zevi, l'Unto del Dio di Giacobbe e Salvatore di Israele, pace...
Non temete nulla, perché eserciterete l'impero sulle nazioni,
e non solo su quelle che si trovano sulla superfìcie della terra ma anche sulle creature che sono nelle profondità dei ma360
ri». Prometteva indulgenze a chi avesse pregato sulla tomba
di sua madre; e ingiunse di abolire il digiuno del 9 Av, giorno
della distruzione del Tempio, per festeggiare l'anniversario
della sua nascita.
Il disastro fu improvviso e imprevisto. Nel settembre 1666,
Sabbatai Zevi venne condotto alla corte del sultano. In una
riunione del Consiglio Privato, alla quale partecipò anche un
ebreo convertito, gli venne proposto di apostatare o di esser
torturato a morte. Sabbatai non ebbe esitazioni. Il Messia
tradì. Col nome di Mehemed Effendi, fu elevato alla funzione
onoraria di « guardiano delle porte del palazzo». Aveva dimenticato le sue pretese messianiche e il proprio Dio? Ebbe
paura per la propria vita? Non temette di offendere la folla
dei suoi discepoli? Era angosciato e straziato: stava per perdere la distinzione tra la realtà e la simulazione; tra le sue vesti di turco e l'anima di ebreo. Venne sorretto da un pensiero. Come Mosè aveva vissuto alla corte del faraone, così lui
aveva dovuto apostatare e vivere sotto le apparenze di un
turco per redimere il proprio popolo. Era necessario che il
sole scomparisse nella tenebra, prima di apparire ad Oriente
con uno splendore di nuovo squillante.
La sorpresa, il dolore, la costernazione, la desolazione furono immensi nel popolo ebreo. Lettere informarono le comunità di tutta l'Europa: messi commentarono la notizia,
rabbini discussero e contesero fra loro, ambasciatori furono
mandati a Gallipoli. Tutti si chiesero perché il Messia aveva
tradito. Molti ritornarono alle vecchie abitudini religiose:
ma, in molti altri, la nuova fede resistette allo scandalo e
tentò di spiegare l'assurdo. Qualcuno credeva che soltanto
l'ombra di Sabbatai Zevi fosse rimasta sulla terra, mentre il
corpo e l'anima erano stati innalzati al cielo: qualcuno pensò
che avesse dissimulato, per apprendere dal sultano l'arte del
governo: qualcuno immaginò che avesse tradito per salvare i
Giudei, minacciati da una terribile persecuzione; o credette
che si fosse immolato per salvare le anime di tutti i gentili
dalla perdizione. A Gaza, Nathan fu sconvolto più di ogni altro: ma non perse la propria fede, frugò ansiosamente la
361
Scrittura alla ricerca di una giustificazione e proclamò che «il
Messia doveva effettuare la sua opera strana e lavorare al suo
strano lavoro». Non bastava che recuperasse le scintille celesti perdute negli abissi. Indossando il turbante del musulmano, il bene si era trasformato in male, per logorarlo, estenuarlo e annullarlo dall'interno: come i vermi si introducono
negli alberi, e li rodono e li distruggono, rosicchiandoli dal
di dentro.
Milleseicento anni prima, i cristiani avevano vissuto la loro
fede come uno scandalo: il Messia, il Redentore, il Figlio di
Dio, ucciso sulla croce come un malfattore. Ora la fede ebraica doveva conoscere uno scandalo molto più tremendo: il
Messia-apostata; e vivere tutta la tensione religiosa di questo
paradosso. Alcuni erano pronti a capirlo: i discendenti dei
marrani della penisola iberica che, a centinaia di migliaia, avevano ricevuto il battesimo durante le persecuzioni del quattordicesimo e del quindicesimo secolo, continuando a credere al Dio d'Israele, e dopo la fuga dalla Spagna erano tornati a
venerare l'Arca Santa. Il Messia aveva fatto come loro: aveva
abiurato: viveva come la regina Ester, che aveva condotto una
esistenza marranica alla corte del re Assuero. Ma che bisognava fare? Tradire tutti? La maggior parte pensava che il Messia
aveva peccato a nome di tutti: lui solo poteva sopportare senza pericolo questo destino. Altri credevano che l'apostasia
doveva essere universale. Non si poteva abbandonare il Messia nella fase più terribile della battaglia contro il potere dei
demoni. Tutti dovevano discendere con lui nell'abisso, prima
che le sue porte fossero chiuse di nuovo.
Nathan di Gaza lasciò la Palestina nel 1667, e visse sino alla
morte come un vagabondo e un fuggiasco. Pretendeva che il
suo «itinerario gli era dettato da una voce celeste che l'accompagnava continuamente»: «al suo comando si metteva in viaggio, al suo comando si fermava». In qualche mese fu a Smirne,
Adrianopoli (dove rivide Sabbatai Zevi), Salonicco, Corfù; e di
lì partì per un viaggio in Italia, il cui fine nascose gelosamente.
«La ragione di tutto questo non può essere rivelata, e meno
ancora affidata alla penna, se non a coloro che sono esperti
362
nella cabala, ma presto ogni cosa sarà manifesta. Felice colui
che attende...» A Venezia contese con i rabbini: andò a Bologna, Firenze, Livorno, dove rimase due mesi; e poi scese a Roma, dove restò solo una notte in un albergo per viaggiatori
poveri, in incognito, con la barba rasata. Un'antica leggenda
rabbinica racconta che il Messia - nato, come Sabbatai Zevi, il
giorno della distruzione del Tempio - viveva nascosto da secoli tra i mendicanti e i lebbrosi che si accalcavano davanti a
Castel Sant'Angelo. Forse Nathan voleva riconoscere in quella
folla lacera il vero Messia - l'altro Messia, quello che egli non
aveva mai incontrato? Voleva sapere se una luce di speranza
potesse rinascere per il popolo ebraico? All'alba, Nathan si diresse verso Castel Sant'Angelo, dove abitava il papa; e per un
giorno intero, senza stancarsi mai, immerso in profonde meditazioni, girò e girò e rigirò attorno al palazzo papale, tracciando nell'aria delle formule magiche di distruzione. Poi
gettò un rotolo di profezie e di maledizioni nel Tevere. I due
gesti magici avevano lo stesso senso. Mentre Sabbatai Zevi era
penetrato nel regno del male e gli aveva ceduto, indossando
le forme del male - lui, Nathan, suo profeta, aveva lottato contro l'abisso, solo, senz'altro soccorso che la cabala magica,
senza camuffarsi, senza arrendersi, senza abbandonare nemmeno uno dei riti e delle convinzioni, che aveva ereditato dai
padri.
Gli ultimi anni di vita di Sabbatai Zevi conobbero un'alternanza ancora più veloce di illuminazioni e di angosce. Quando era felice, scriveva: «Posso raccogliere tutto il frumento e
ricondurlo in un solo granaio, e nemmeno un solo grano sarà
perduto. E se, per caso, un uccello inghiotte un grano, lo riprenderò dalla sua bocca - perché il fine della reintegrazione
è che nemmeno un'anima di Israele sia perduta». Firmava bizzarramente Turco - poiché le lettere ebraiche di questa parola significano cabalisticamente «la montagna di Dio»; e Dio
poteva riposare su di lui come sul monte Sinai. Quando l'angoscia l'assaliva, scriveva: «Fino a quando, o Signore, rifiuterai
e aborrirai, e sarai in corruccio col Tuo unto, fino a quando
terrai per inesistente l'alleanza del Tuo servitore, profanando
363
la sua corona e gettandola a terra, in modo che sia la derisione
del suo prossimo? Io sono oggi un uomo di dolore, famigliare
con la sofferenza, colpito da Dio, e sfinito dall'afflizione, condotto come un agnello dallo sgozzatore...».
Nel settembre 1672, Sabbatai venne arrestato, sotto l'accusa di aver bestemmiato e rinnegato l'Islam; e deportato a
Dulcingo, nella Jugoslavia meridionale. Viveva chiuso nelle
sue immaginazioni, sperando chissà quali riscatti, tagliando
legna nei boschi e scrivendo II Mistero della Fede, dove toglieva ogni forza a En-Sof, il Dio primordiale. Assunse la parte di Mosè redivivo: confezionò un serpente d'argento, e lo
pose sopra un albero, la notte della chiusura della festa di Pasqua. Il 17 settembre 1676, a cinquant'anni, morì. Molti credettero che Dio l'avesse occultato in cielo. Tre anni più tardi, dopo un'esistenza di vagabondaggi sempre più ansiosi,
anche Nathan di Gaza morì, a Skoplje, in Macedonia. Sulla
sua tomba fu scritto: «La tua colpa è espiata, o figlia di Sion».
Ci furono colpe? E davvero tutto venne espiato? La grande
impresa di liberare le scintille divine prigioniere era fallita
ancora una volta. Le scintille sono ancora lì, davanti a noi,
rinchiuse nelle pietre, nelle erbe e nei cuori; e attendono il
gesto esatto delle nostre mani.
LA LUCE DELLA NOTTE (II)
I
Nel giugno e nel luglio del 1791, Mozart rimase solo a Vienna. Il 4 giugno la moglie era andata alle acque di Baden, assieme al figlio Karl, incinta di un altro figlio: il sesto, il secondo vivo, l'unico che, come il padre, tentò di lottare con la «forza del
suono». Da Vienna, Mozart scriveva ogni giorno alla moglie
con quella tenera innocenza amorosa che non finisce di meravigliarci: «Pensi tanto spesso a me quanto io penso a te? Tutti i momenti guardo il tuo ritratto - e piango - metà per
gioia, metà per dolore!». «Non mi manca nulla - tranne la tua
364
presenza.» Le raccomandava di stare ben calda, di badare al
freddo della mattina e della sera, di curare il suo piede malato: attendeva con ansia le sue lettere; e, se non arrivavano, era
di cattivo umore tutto il giorno. Non sognava altro che di salire su una carrozza, percorrere velocemente le miglia che lo
dividevano da lei, e «riposarsi tra le sue braccia».
I suoi slanci d'amore ci ricordano sovente le tenerezze di
Papageno, piuttosto che i sublimi ardori di Tamino: bestes
Herzensweibchen («cara donnina del mio cuore»), così chiamava la moglie, con le stesse parole usate dal suo uccellatore. «Acchiappa - acchiappa! bis-bs-bs-bs - bacini volano
nell'aria verso di te - bs - ecco ne trotterella ancora un altro.» «O stru! stri! - ti bacio e ti stringo 1095060437082 volte
(così potrai esercitarti nella pronuncia) e sono il tuo eternamente fedele marito ed amico...» Poi, con il suo gusto per i
giochi di parole senza senso, aggiungeva: «Sii eternamente la
mia stanzi Marini, come io sarò eternamente il tuo Stru! Knaller paller-schnip-schnap-schnur-Schnepeperl». Faceva
l'Arlecchino, il Pulcinella, il buffone salisburghese. Mescolava
le volgarità, che aveva appreso mangiando per tanti anni tra
valletti e cocchieri, con le capriole della maschera veneziana,
e i giochi immateriali dell'elfo romantico.
Queste piroette gioiose ed infantili non riescono ad illuderci. Dietro di esse, si agitava un'ansia nevrotica, un amore
che consumava e si consumava, una tensione spirituale, che
poteva distruggerlo. Mentre i mesi passano, le lettere sono
scritte sempre più velocemente, come se volessero sopravanzare il battito dei minuti, o raccogliere le cose più capricciose e febbrili che accadevano intorno a lui. I nervi guizzano di continuo sulla carta: i temi vengono mutati ad ogni
rigo, l'umore si innalza e si abbassa, si rallegra e si incupisce;
e la scrittura traccia una linea serpentina, che si frantuma in
mille piccoli tratti. Qualche volta, si confessava alla moglie.
«Se la gente potesse vedere nel mio cuore, dovrei quasi vergognarmi. Tutto è freddo per me - freddo come il ghiaccio.»
«Non ti posso dire quello che provo, è un certo vuoto - che
mi fa male - una certa nostalgia, che non viene mai appaga365
ta, che non cessa mai - continua sempre, anzi cresce di giorno in giorno. Quando io penso... a quali tristi, noiose ore trascorro qui - nemmeno il mio lavoro mi dà gioia... Vado al
piano e canto qualcosa della mia opera, ma debbo smettere
subito - mi fa troppo impressione. Basta!» Questo gelo, questo vuoto, questa nostalgia, questa angoscia - nessuna parola, mai, a nessun costo, avrebbe potuto colmarli.
Spesso la mattina alle cinque, dopo aver dormito pochissimo, lasciava il numero 970 della Rauhensteingasse, come se
qualche demone lo trascinasse fuori casa. Qualcuno, che lo
incontrò a quell'ora insolita, lo prese per un «garzone di sartoria» che si avviava al lavoro. Passeggiava a lungo per le strade, dove il sole - il sole a cui stava dedicando la sua ultima
opera - cominciava a dorare gli alberi e le vecchie case di
Vienna. Durante il giorno, l'inquietudine lo faceva correre attraverso la città, inseguito dai pensieri più contrastanti, torturato da angosce reali ed immaginarie. Faceva visite, dava lezioni, andava a trovare gli amici, cercando danaro in prestito,
con cui avrebbe pagato debiti, che aveva contratto pagando
altri debiti. Ora dormiva nella propria casa: ora in quella di
Leitgeb, di Franz Gerì o di Schikaneder. Mangiava al ristorante, perché aveva paura di restare solo: o da qualche amico,
che preparava in onor suo un piccolo banchetto, dove Mozart
beveva champagne e dei grandi bicchieri di punch. La sera,
quando non lo attraeva il teatro, giocava a biliardo: talvolta a
casa, da solo, «assieme al signor von Mozart collaboratore di
Schikaneder», più spesso in un caffè presso casa, dove trovava
quel calore umano di cui aveva cosi perdutamente bisogno.
Qualche volta, gli amici guardavano con ansia quell'uomo
piccolo e magro, dal viso un po' gonfio, dagli occhi azzurri
sbiaditi, con i bei capelli biondi, fini e ondulati che gli scendevano sulle spalle. Era sempre di buon umore. Ma anche
quando si abbandonava alla più estrema allegria, o si guardava intorno con lo sguardo penetrante ed acuto, sembrava
che pensasse a qualche altra cosa, che lo assorbiva del tutto.
Quale essa fosse - un motivo musicale, un pensiero lontano,
una sensazione che correva nascosta sotto le altre sensazioni
366
-, nessuno poteva dire. Poi, all'improvviso, diventava molto
serio e grave. Andava alla finestra, suonando con le dita sul
davanzale, e dava risposte sempre più vaghe e indifferenti,
finché non udiva più nulla, quasi fosse senza coscienza. Non
restava mai fermo. La mattina, mentre si lavava il viso, andava e veniva per la stanza, battendo un tallone contro l'altro. A
tavola, prendeva un angolo del tovagliolo, lo torceva: se lo
passava e ripassava sotto il naso, e intanto faceva una strana
smorfia con la bocca. Muoveva di continuo le piccole, mobilissime mani: le strisciava sopra i polsini, sopra una gamba o
un braccio: giocava con il cappello, con la catena dell'orologio, con lo schienale di una seggiola, con la tastiera di un
piano; e infilava e sfilava le mani dalle tasche, come se soltanto così potesse mitigare la sua inquietudine.
II
Pochi mesi prima, nel marzo, si era presentato a casa sua
un vecchio amico bavarese, Emanuel Schikaneder, che dirigeva il teatro auf der Wieden, nei sobborghi di Vienna. Ancora ragazzo, Schikaneder aveva cominciato a suonare nelle
feste contadine. Era stato un musicista vagabondo, e poi si
aggregò ad una di quelle compagnie teatrali, che Goethe
aveva rappresentato nel Wilhelm Meister-. attraversando a
piedi o in carrozza le strade fangose e malsicure della Germania e dell'Austria, recitando nei teatri di città, di provincia,
di paese o sulle piccole, preziose scene di corte; conoscendo il favore e lo sfavore del pubblico, la miseria e l'improvvisa ricchezza, la leggerezza e le grandiose ambizioni della vita
teatrale. Ora scriveva drammi, operette e commedie musicali: ora preparava scenari favolosi e barocchi: ora recitava
nell'Amleto, nel Macbeth, nel Romeo e Giulietta, nei Masnadieri, nel Don Carlos, nel Clavigo-, ora preferiva le parti comiche, dove la sua voce, a metà tra lo stridio di una banderuola e quello di un girarrosto, suscitava gli effetti più
esilaranti.
357
Così Mozart raggiungeva, sempre più di frequente, i sobborghi di Vienna. Il teatro auf der Wieden faceva parte di un
grande edificio principesco, simile a quelli che ancora oggi
incontriamo nelle devote valli del Tirolo: comprendeva sei
cortili, duecentoventicinque appartamenti, trentadue scale
percorse da un flusso ininterrotto di aristocratici e di borghesi, di popolani e di attori; una chiesa, una farmacia, una
locanda, un frantoio, un mulino, diverse officine artigiane,
come se la casa dovesse provvedere maternamente a tutte le
necessità dei suoi abitatori. Nel cortile più esteso, c'era un
giardino, una fontana e una piccola casa di legno, dove Mozart e Schikaneder lavorarono insieme al Flauto magico.
Vorremmo sapere cosa si dissero il geniale mestierante e il
piccolo musicista dal viso gonfio, che aveva ancora pochi
mesi di vita. Come prepararono la trama dell'opera, quali
modifiche Mozart pretese, quali soluzioni propose, quali versi scrisse di suo pugno, come interpretò le parole che l'altro
gli offriva...
Tra quelle mura di legno, Mozart e Schikaneder fecero il loro viaggio in Egitto, così come mezzo secolo più tardi Flaubert discese il corso del Nilo. Avevano appreso quasi tutte le
notizie che il loro tempo conosceva intorno all'Egitto ellenistico: mentre l'altro Egitto, quello di Cheope, di Micerino e di
Ramsete II, giaceva ancora sotto le sabbie protettrici del deserto. Libri antichi e moderni stavano aperti davanti ai loro
occhi. Probabilmente sfogliarono la Biblioteca di Diodoro Siculo e il saggio di Plutarco sopra Iside e Osiride: non è escluso
che guardassero le grandi raccolte di Athanasius Kircher, dello Jablonski, di Montfaucon e del Caylus: consultarono il romanzo Sethos dell'abate Terrasson, il saggio di Ignaz von
Born Sopra i misteri degli egiziani; e certo si entusiasmarono leggendo l'ultimo libro delle Metamorfosi di Apuleio.1
1 Il libro più utile sulle fonti egiziano-ellenistiche del Flauto magico - le sole
esaminate in questo saggio - è quello di Siegfried Morenz, Die Zauberflóte,
Bòhlau Verlag, Munster-Kòln, 1952, dal quale ho derivato la maggior parte delle corrispondenze che citerò più avanti. Ne ricorderò intanto tre altre: Tamino
368
Il loro entusiasmo di «egittomani» non era isolato. Negli
stessi mesi del 1791, Nicolas de Bonneville scriveva che Iside
è la parola fondamentale dell'universo: Isis mormora e soffia
la voce del fuoco: is-is grida l'acqua, quando vi immergete un
fuoco ardente; is-is fischia il serpente, simbolo del freddo veleno divorato dal fuoco della natura. La Vergine, che allatta
Gesù appena nato, è una reincarnazione di Iside che allatta
Horus: la morte, la discesa agli inferi e la resurrezione di Cristo ripetono il destino di Osiride. Quella venerabile religione,
fonte di ogni altra fede e di ogni altra saggezza, aveva lasciato
dappertutto la propria impronta. Notre-Dame, a Parigi, era
stata costruita sulle rovine di un santuario di Iside; e le chiese
del Medioevo francese, con i loro zodiaci, i loro bestiari mostruosi, le fatiche dei mesi, le viti cariche d'uva, le navate e gli
archi ad ogiva, erano l'ultima eco, filtrata attraverso lo spessore dei secoli, degli antichissimi templi di Tebe e di Denderah.
Tutto sembrava pronto per una rinascita dei «misteri» egiziani.2 Come due secoli prima la chiesa cattolica era stata sul
punto di convertirsi all'ermetismo alchemico, ora l'Europa
degli illuministi, dei massoni e dei rivoluzionari immaginava
una religione universale, all'ombra dei riti egiziani.
Questa religione - la religione di Apuleio e di Gérard de
Nerval - viveva sotto il segno di una grande divinità materna. Iside era «la genitrice di tutte le cose, la signora degli
elementi»: colei che regola la volta luminosa del cielo e le
salubri brezze del mare, che dà splendore al sole, fa ruotare
la terra, ritornare le stagioni, germogliare i semi e crescere i
germogli; Iside era la «santa ed eterna salvatrice del genere
e Pamina sono nomi di origine egiziana, che Mozart e Schikaneder trassero da
chissà quale fonte: avrebbero dovuto chiamarsi Pa-Min e Ta-Min, cioè «servo» e
«serva del dio Min». Le stesse palme con le foglie d'oro appaiono tra le mani
dei sacerdoti di Apuleio (XI, 10) e dei sacerdoti di Mozart (atto II, scena I); e
perfino le strane e grottesche piramidi in miniatura, che nel Flauto magico i
sacerdoti usano come lanterne o portano sulle spalle (atto II, scena XIX), apparivano già nelle tombe egiziane.
2 Traggo queste notizie dal ricchissimo libro di Jurgen Baltrusaitis, La quète
d'Isis, Olivier Perrin, Paris, 1967, specialmente alle pp. 27-69.
369
umano», che con soave affetto guarda ai bisogni degli infelici e protegge gli uomini dagli assalti della fortuna (Metamorfosi XI, 5, 25)- Nel Flauto magico, Iside dona alla regina
della notte «la sua sopravveste brillante di atro splendore», e
il luccichio dei suoi astri. Nessun altro ricordo resta di lei:
l'amoroso influsso materno non scende dal suo grembo
sulla terra; solo il suo nudo nome risuona, accompagnato
dalle trombe e dai corni, sulle labbra dei sacerdoti.
Così anche l'ambiente egiziano, sebbene tanto preciso e
scrupoloso nei particolari, resta un fondale di cartone, uno
scenario illusorio e fittizio, che può comprendere in sé ogni
paesaggio della terra. Le piramidi, i templi e le palme sorgono accanto ad un castello medioevale: l'Arcadia fronzuta e
rocciosa di Poussin confina con un bosco di cipressi, con un
giardino all'italiana e un orrido montano, ricco d'acque scroscianti; e abiti giapponesi e tavoli turchi si nascondono tra le
vesti dei sacerdoti di Iside. Tutto deve sapere di teatro, di
macchine prodigiose, di astuzie sceniche: tutto deve assomigliare ad un variopinto pasticcio, messo insieme per fare cassetta. Molti tra gli spettatori, che riempirono per mesi il teatro auf der Wieden, credettero di contemplare soltanto una
favola per incantare i bambini, una farsa per divertire la plebe di Vienna. Qualcuno tra loro comprese quali profondi misteri Mozart aveva saputo celare con uno scherzo, con un capriccio, con una lieve allusione.
Verso la fine di luglio, Il flauto magico era quasi finito.
Malgrado la solitudine e la nevrastenia, durante la composizione dell'opera Mozart non aveva mai smesso di coltivare
quello spirito buffonesco, che lo aiutava a scaricare gli spiriti
vitali troppo tesi. Quand'era al piano, si abbandonava volentieri al suo straordinario talento parodistico. Trattava un tema ora in modo grave ora burlesco: ora correva a precipizio
sulla tastiera, ora strisciava supplichevole e miserevole tra la
370
folla mendicante dei suoni. Se poi lo champagne eccitava ancor più il suo ardore, Mozart cominciava ad eseguire una
scena d'opera all'italiana. Tra le perle di vetro dei suoni, ecco affacciarsi la voce di una prima donna: «Dove, ahi dove
son io» gridava disperata. «Oh Dio! questa pena! O prence!
O sorte ria... io tremo... io manco... io moro!» Poi, all'improvviso, gli accordi più contrastanti scoppiavano sul piano,
come la bomba di un lontano obice sopra una casa; e i vecchi amici e i visitatori di un giorno ridevano fino alle lacrime.
Qualsiasi cosa facesse, Mozart non smetteva di pensare al
Flauto magico. Quando discorreva con dei conoscenti, giocava a biliardo cogli amici, o nei viaggi in carrozza fino a
Baden, elaborava dentro di sé la sua musica; e cominciava a
fischiettare, a borbottare, a canticchiare e a cantare ad altissima voce, senza sopportare d'essere disturbato. Tirava
fuori dalla tasca dell'abito un taccuino, e vi annotava le sue
idee melodiche, come un poeta abbozza i versi sui biglietti
del tram. Scene intere si formavano a poco a poco nella sua
mente, fino a trovare una forma quasi definitiva. Così, appena sedeva al tavolo di lavoro, scriveva con una rapidità e una
leggerezza che qualcuno avrebbe potuto giudicare frettolosa. Gli altri entravano nella sua stanza parlando di argomenti
qualsiasi - pettegolezzi teatrali, storie di corte, di danaro e
di donne -; e lui rispondeva, scherzando o pungendo, senza
interrompere di scrivere. Infine si metteva al piano, alla luce
dei candelieri, nel silenzio materno della notte, o sotto i
raggi del giorno. Lo sguardo, così spesso distratto e perduto, diventava calmo e raccolto: le belle e piccole mani si
muovevano dolcemente e naturalmente sulla tastiera: ogni
movimento dei muscoli sembrava esprimere un sentimento; e l'occhio degli ospiti amava guardarlo, come l'orecchio
amava ascoltare la perfezione dei suoni.
Di quest'opera, così diversa dall'uomo che la compose,
cercherò di raccontare la trama. La racconterò come se fosse
un libro, scritto a quattro mani da un impresario massone,
che non dimenticava di essere stato un attore vagabondo, e
da un musicista sofferente di nefrite. Così le mie parole sa-
371
ranno sorde, oscure, vuote, perché non cercheranno di rendere nemmeno l'eco più lontana della musica di Mozart.
Non tenteranno di inseguire quel misterioso sussurro tra la
vita e la morte, quel respiro mite, quella forza trasparente,
quel liquido, mobile slancio che trascina ogni accordo verso
l'acqua ed il fuoco, verso l'aria e la terra - forse oltre l'acqua
e la terra, oltre la sfera dell'aria e la sfera del fuoco.
IV
La storia del Flauto magico ha una preistoria, che disegna
una specie di cosmogonia. Prima della nascita di Tamino e Pamina, una coppia sovrana dominava il mondo: un re solare di
cui ignoriamo il nome e la potente regina della notte. Dal loro
incontro nacque Pamina. Tra il principio virile e quello femminile, fra la luce e la tenebra, esisteva allora un mutuo accordo: poiché il re tagliò il flauto magico dal tronco di una quercia millenaria in un'ora stregata, tra lo scatenarsi dei tuoni e
dei fulmini, nel rombo della tempesta notturna; lo tagliò con
l'aiuto della regina alla quale quel momento apparteneva, come sovrana degli incanti della notte. Qualcuno potrebbe credere che in quel tempo regnasse l'armonia tra i principii opposti, e solo il bene nutrisse la terra. In realtà l'unione tra i
due sovrani era un compromesso piuttosto che un abbraccio
amoroso: con tale disprezzo il re teneva lontana la moglie
«dalle cose che sono incomprensibili allo spirito femminile».
Né la forza del re era interamente benefica. Egli portava sul
petto un «settemplice cerchio solare», il segno del suo potere,
che «consumava tutte le cose». Come si era incarnato in lui, il
sole era una forza che arde e dissecca: che dà la vita e la toglie,
che cancella la vegetazione, assorbe la potenza materna
dell'umidità, rende arido e inabitabile il suolo.3
Non so dove Mozart e Schikaneder abbiano trovato il simbolo del «settemplice
cerchio solare»: l'ipotesi del Morenz, che rinvia ad un passo di Diodoro Siculo
(I, 49), non è persuasiva. Altri rinvìi in Alfons Rosenberg, Die Zauberflòte, Pre3
372
Con la morte del sovrano solare, i due regni della luce e
della notte si dividono, diventano nemici e l'equilibrio del
mondo cambia profondamente. La regina è stata sconfìtta.
Ora vive chiusa nel suo palazzo pieno di uccelli, circondata
dalla fìtta vegetazione di un bosco. Un tempio ricorda ancora
il suo culto: tre dame le prestano i loro servizi; ma ha perduto
«il cerchio solare» del marito, e la figlia, unico ricordo della luce, le è stata strappata ed è prigioniera nel castello di Sarastro.
Il «cerchio solare», simbolo della forza, riposa sul petto del
suo rivale, venerato da un popolo di sacerdoti e di schiavi.
Quando appare sulle scene del Flauto magico, Sarastro
torna dalla caccia e scende da un carro trionfale, tirato da sei
leoni, mentre un coro di trombe, di timpani e di voci entusiaste ripete il suo nome: «Es lebe Sarastro! Sarastro soli leben!».
Egli è un re-sacerdote solare, come quelli che regnavano nelle
antiche teocrazie d'Oriente. Possiede delle qualità sovrumane: una specie di sesto senso gli fa conoscere i più riposti sentimenti e pensieri degli uomini, gli amori e i delitti che il nostro animo trama segretamente; e le divinità gli rivelano le
loro intenzioni. I canti più gravi, le musiche più solenni, i riti
più maestosi, l'atmosfera più oscuramente misteriosa e veneranda formano uno sfondo e un'eco alla sua figura.
Ma un faraone d'Egitto o un re di Babilonia non avrebbero
mai condiviso le sentenze che Sarastro canta con la sua
profonda voce da basso, raccomandandoci le virtù della ragione e della tolleranza, dell'amicizia, del perdono e della
pazienza. Senza cedere il venerabile alone che l'avvolge, il
re-sacerdote orientale è diventato un maestro della massoneria, che vive a Vienna, negli stessi anni di Mozart. Come
accadeva nelle cerimonie massoniche, egli allontana le donne dalle mura del suo castello e dei suoi templi: perché sono
dei nidi di superstizione e di ipocrisia, delle macchinatrici di
orribili astuzie, delle vane e inesauribili chiacchierone, che
stel Verlag, Munchen, 1972, p. 76. Mi sembra probabile che il cerchio dovesse
comunque esprimere l'aspetto negativo o ambiguo della forza solare, che gli
Egizi simboleggiavano nella figura di Tifone (Plutarco, de Iside et Osiride 33).
373
non sanno agire senza la guida di un uomo. L'impulso nostalgico dell'amore non può vivere nel suo territorio esclusivamente virile, tra le processioni dei sacerdoti, i cortei degli
schiavi e le imprese di caccia.
Represso e schiacciato, allontanato come un pericolo e un
incubo, l'amore finisce per prorompere anche tra le mura
del castello e dei templi, sebbene nella forma del più grottesco furore erotico. Per una specie di ironico contrappasso, il
capo degli schiavi di Sarastro, Monostatos, un negro veloce e
violento, vorrebbe possedere tutte le donne. Questa furia
getta una prima ombra sui limiti del mondo di Sarastro. Presto ci accorgeremo che non è la sola. Come tutti i cultori della ragione, Sarastro crede che gli uomini si possano guidare
alla felicità con la forza; e rapisce e fa incatenare Pamina, in
modo da strapparla all'influenza materna. Vi è un particolare
più inquietante. Quando Mozart e Schikaneder raccontano
come Sarastro abbia rapito Pamina, hanno in mente un modello classico: il rapimento di Persefone, figlia di Demetra,
da parte di Ade, dio degli inferi e della morte. In che modo
dobbiamo intendere questo lieve cenno, nascosto tra le pieghe del Flauto magico? L'animo di Sarastro celava in sé degli
aspetti così ambigui, da poterlo trasformare in una figura tenebrosa? Non è facile interpretare questa allusione.4 Ma la lu4 II ratto di Pamina da parte di Sarastro veniva spiegato, un tempo, con il capovolgimento del libretto, che la massoneria avrebbe imposto a Mozart: per cui
Sarastro, originariamente malvagio, diventò un sovrano benefico, e la regina
della notte decadde da madre infelice a incarnazione delle forze del male.
Questo capovolgimento non è sorretto da nessuna testimonianza, ed è certamente leggendario. Ma anche se qualche testimonianza esistesse, qualsiasi lettore deve interpretare II flauto magico come un testo unitario: perché non si
può immaginare che degli uomini di teatro come Mozart e Schikaneder non
sapessero trasformare, o adattare, la vecchia alla nuova concezione.
Il ratto di Persefone e il ratto di Pamina non coincidono però nei particolari. Nella versione dell'Inno a Demetra (429 sgg.) e in quella di Ovidio (Metamorfosi,, V 388 sgg.), che più probabilmente Mozart e Schikaneder ebbero sotto gli occhi (ma il mito era così conosciuto, che potevano ritrovarlo in un
quadro o in qualsiasi manuale), la terra si apre e Ade rapisce Persefone sul suo
carro. Per rapire Pamina, Sarastro si trasforma, «giacché egli ha la forza di mutarsi in qualsiasi figura» (atto I, scena V), come Proteo che diventa acqua, fuo-
374
ce di Sarastro discende certamente da un sole impallidito: è
una luce nobile e limitata, solenne e rigida, maestosa e monotona. Anche lui aveva bisogno del velo morbidissimo che
la notte getta sopra tutte le cose.
Mentre Sarastro è un re-sacerdote, la regina della notte ha
una dignità più alta: è una dea. Appena si mostra tra due
monti che si spalancano sulla scena o emerge all'improvviso
dall'abisso, il rombo furioso dei tuoni ci annuncia che una
forza tremenda, ma molto più antica e sacra di Sarastro, è
apparsa ai nostri occhi. Ci ricorda due dee, che la tarda antichità identificava in una dea sola. La sua «nerissima sopravveste brillante di atro splendore», che nessuno sguardo umano
può attraversare, è quella di Iside; e le stelle che avevano luccicato sulla veste della divinità egiziana, ora decorano il suo
trono, come trasparenti stelle da teatro. Essa è soprattutto
simile a Demetra, la mater dolorosa, che percorre la terra
coperta da un velo oscuro cercando, nelle regioni dove il sole tramonta e in quelle dove si leva, le tracce della figlia
scomparsa.5 Quando la regina rammenta gli angosciosi tremori, le preghiere e i vani tentativi di fuga di Pamina, il suo
cuore è straziato; e un'ombra non le abbandona più il volto
e la bellissima voce.
Nell'atto secondo, la sua figura si incupisce. La dolorosa
Demetra diventa un'Erinni, che prega gli dèi della vendetta,
che invoca le fiamme della morte e della disperazione, che
co, albero e animale. Questo Sarastro-Proteo è davvero singolare, e non sembra conciliarsi con ciò che sappiamo di lui. L'unica ipotesi che oso avanzare è
questa. Nella Biblioteca di Diodoro Siculo (I, 62), Mozart e Schikaneder potevano leggere che il Proteo della leggenda greca era stato, in realtà, un faraone
egiziano, che aveva derivato la sua capacità di metamorfosi dalla stretta «simbiosi» conservata con i sacerdoti-astrologhi. Forse essi attribuirono a Sarastro
la capacità di trasformarsi, per completare il quadro della sua regalità sacerdotale. Che nello stesso brano si parli del «leone» come simbolo regale, potrebbe
rafforzare questa ipotesi.
5 Per il rapporto con Iside, cfr. Metamorfosi XI, 3-4 e Plutarco de Iside et Osiride 9. Sempre da Apuleio (XI, 2), Mozart e Schikaneder potevano apprendere
che Iside e Demetra erano identificate.
375
rinnega la figlia, lacerando ogni legame della natura, se non
ucciderà Sarastro per strappargli il «cerchio solare» della forza. Tuttavia, non dobbiamo confonderla con le altre divinità
notturne del suo tempo: con la sovrana delle catastrofi cosmiche, in cui Goethe la trasformò nella continuazione del
Flauto magico; o la «madre notte» del Faust, che nei tempi
antichissimi generò la luce, e ora continua ad estrarre dal
suo grembo portentoso le spaventose figure che attraversano la terra. La regina della notte è fragile, delicata, indifesa.
Forse è soltanto una farfalla notturna: una di quelle grandi e
bellissime farfalle dall'espressione quasi umana, infinitamente tristi e luttuose, con macchie oscure simili ad occhi sulle
ali, che Giandomenico Tiepolo disegnava con una grazia
quasi mozartiana.
Lo spazio sul quale estende le sue ali è vasto, ricco e diverso. Non contiene gli incubi, che rendono bagnate di sudore le
nostre fronti: né il popolo bizzarro e crespato dei fantasmi e
delle ombre: la voce agghiacciante deO'«uomo di sasso», che
trascina con sé Don Giovanni; «l'immensa, interminabile, insondabile tenebra», dove la nostra vita si perde. Nel Flauto
magico, lo spazio amabile della notte comprende le cose
ignorate nel regno di Sarastro: il fuoco dolcissimo dell'amore,
le ricchezze che i dolori lasciano nella nostra anima, gli uccelli
dalle penne multicolori, gli uomini-uccelli che vivono nella
semplicità dei boschi, la forza pacificatrice della musica. Se
vogliamo conoscere la voce di questo mondo notturno, dobbiamo soltanto porgere l'orecchio. Tra le trombe, i violini, i
timpani, i corni e i contrabbassi, che Mozart fa echeggiare sul
teatro, ascoltiamo tre volte il suono del flauto magico, che il
re moribondo lasciò in eredità alla moglie. Non è uno strumento illustre, come la lira di Orfeo. 6 Ma appena Tamino lo
Nell'atto I, scena VIII, il flauto scavato nella quercia è invece un «flauto
d'oro». Non so se si tratti di un errore casuale, come quelli che accadono in
tanti romanzi: o se, nella scena degli elementi, Mozart e Schikaneder volessero
opporre alle trombe, certo d'oro, del regno solare di Sarastro, la diversa materia del flauto notturno. I flauti risuonavano anche nella processione isiaca descritta da Apuleio, ed erano sacri ad Osiride {Metamorfosi XI, 9).
6
376
suona, le belve corrono ad ascoltarlo o arrestano il loro slancio: i sentimenti tristi diventano lieti, gli uomini aridi si innamorano; e la furia degli elementi si placa. Soltanto la musica
nata dal cuore della notte prepara l'armonia del mondo, che
tanti uomini hanno invano sognato di contemplare.
L'ala della notte protegge anche Papageno, che ci appare
per la prima volta, con la gabbia piena d'uccelli sulla schiena
e il suo rustico flauto, come un semplice uccellatore. Egli vive in quest'angolo remoto della terra, dorme nella sua capanna di paglia; e non sa nulla. Ignora come è venuto alla luce, chi sono suo padre e sua madre: non immagina che
esistano altri monti, altri boschi, altri uomini oltre ai pochissimi che conosce; e qualsiasi desiderio di saggezza è lontano
dalla sua mente. Vuole soltanto «mangiare, bere e dormire».
Attraversa i boschi, sale fino al castello di Sarastro, vede negri e sacerdoti, incontra meraviglie e pericoli senza mutare
mai la propria natura. È bugiardo, pauroso, chiacchierone,
allegro e infantile: pieno di candida cupidigia e di ingenua
astuzia: insieme rozzo e grazioso, come i buffoni della tradizione popolare austriaca, nati tanto tempo prima di lui e vissuti ancora un secolo dopo la sua apparizione.7
Poi Mozart e Schikaneder ci fanno capire che Papageno è
un uomo-uccello, figlio di una domestica della regina e di
chissà quale creatura celeste; e che forse le sue penne sono
sgargianti e multicolori come quelle degli uccelli chiusi nelle
sue gabbie. Tutta la visione che egli ha delle cose è uccellesca; e i suoi sentimenti sono insieme quelli di un uccellatore
e di un uccello perdutosi, chissà come, nella nostra terra. Se
pensa di corteggiare le donne, immagina di catturarle con la
rete e di tenerle chiuse a dozzine nella sua capanna, come i
fagiani, le pernici e i pavoni che consegna alle domestiche
della regina. L'amore che egli sogna è il luogo puerile del
«dolce»: dare teneri baci alla creatura amata, stringerla al petto, cullarla tra le braccia come si culla un bambino, esprimeUn uccellatore col vischio, confuso tra una folla dì maschere, appare nelle Metamorfosi di Apuleio (XI, 8), prima che cominci la processione degli iniziati.
7
377
re tutti i soavi sentimenti infantili nati - diceva Mozart - nella
«cameretta del cuore»; e nutrire la sua Papagena di zuccherini, di marzapani e di fichi dolci, come se la foresta dove vive
fosse una immensa pasticceria di Vienna.
V
Quando il sipario del Flauto magico sta per alzarsi, il respiro della musica insinua negli spettatori l'attesa di qualcosa di unico. Sulla scena rocciosa e boscosa, arriva soltanto un
principe in fuga, inseguito da un drago. Egli giunge qui - in
questo paese senza nome, che confonde l'Egitto, l'Austria e
l'Italia - dal remotissimo Oriente. Non sappiamo come sia
giunto: se il padre l'abbia inviato nei dominii della regina per
esplorare anche il luogo della notte; o se gli dèi, che sovraintendono alle sue vicende, gli abbiano fatto smarrire la strada,
perché possa incontrare il proprio destino. Sebbene Tamino
venga da così lontano, lo conosciamo benissimo. Egli è
l'eroe del tempo di Schiller: l'eroe giovane e ingenuo, nobile
e puro, che non conosce ancora sé stesso e il mondo; pieno
di slanci, di fervori, di ispirazioni alte e indeterminate.
Appena le tre dame gli mostrano il ritratto di Pamina, non
vede più nulla, non ode nessuna delle parole che gli risuonano intorno: l'amore l'afferra; così come Pamina si innamora
di lui senza vederlo, quando sa che un principe si è innamorato di lei. E l'amore delle favole e dei drammi di Shakespeare. Questa parola percorre tutto il libro e viene ripetuta da
ogni personaggio, persino da chi la ignora, come Sarastro e
Monostatos. Die Liebe è il sogno di ogni creatura, l'impulso
che rende beata la vita e addolcisce ogni tormento: superiore alla sapienza dei sacerdoti, può riunire il mondo lacerato
e diviso. Mentre obbedisce alle leggi della natura, ci permette di giungere fino alla soglia dove abita la divinità. Ma esso
risuona in ogni cuore con accordi diversi. In quello di Tamino, è un fuoco estatico, che scioglie il petto e innalza verso il
cielo. Nel cuore di Pamina, ricorda la passione disperata e te-
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nebrosa della madre. Nessuno parla col suo accento delle
«ore di beatitudine», che ha appena intraviste; e conosce, come lei, i dolori dell'amore troppo grande, che crede di essere respinto e vilipeso.
Le avventure del Flauto magico sono le vicende delle ore
che passano e si inseguono: della luce che diventa tenebra e
della tenebra che ritorna luce. All'inizio, mentre Papageno
esce cantando e zufolando dal bosco, è mattina; e Sarastro
scende dal suo carro nel caldo mezzogiorno. Poi il giorno inclina lentamente verso il crepuscolo: tuona e lampeggia e
l'universo viene nascosto da una oscurità spaventosa, nella
quale comincia il viaggio di Tamino. Qualche ora passa. Dal
chiuso delle piramidi, il coro dei sacerdoti comincia a invocare lo splendore della luce; e tre bambini scendono dal cielo annunciando che presto il Sole tornerà a percorrere la sua
«strada dorata». Le insidie della notte non sono ancora vinte.
Solo quando Tamino e Pamina avranno attraversato l'acqua
ed il fuoco, il sole pieno, il sole senza ombra né macchie illuminerà la terra, trasformandola in uno spettacolo radioso.
Lo stesso viaggio avviene nell'animo di ogni uomo, che
potrebbe ripetere il grido di Tamino: «O eterna notte, quando scomparirai? Quando la luce troverà finalmente il mio occhio?». Ma la vittoria che il sole celebra ogni mattina senza
sforzo diventa per noi uno sforzo doloroso: un'iniziazione
faticosa e segreta. Le prime prove sopportate da Tamino l'obbligo del silenzio, il capo nascosto da un sacco - sono
quelle che avvenivano durante le cerimonie dei «misteri»
greci: il grave silentium mysticum che Lucio e Psiche debbono osservare nelle Metamorfosi-, Lucio avvolto da un rozzo
panno di lino, Psiche coperta da una veste funebre, e la «giovane sposa» velata che, nella Villa dei Misteri di Pompei, attende di essere iniziata alle cerimonie segrete. 8 Eppure queste dure prove ci sembrano, nel Flauto magico, lievi e quasi
I luoghi paralleli nelle Metamorfosi sono i seguenti: silenzio, IV 33, V 11, XI
11, 15, 22, 24: capo velato, IV 33 e XI 23. Cfr. Reinhold Merkelbach, Roman
und Mysterium in der Antike, C.H. Beck, Munchen-Berlin, 1962.
8
379
futili. Nella prima parte del viaggio, Tamino ha come compagno Papageno, che non sa tener chiusa la bocca, che ha paura del buio, che finge di avere la febbre, che sogna il suo
marzapane e la sua Papagena, e gusta avidamente i cibi e i vini inviati dalla ricca cucina di Sarastro. Così, per grazia di Papageno, quanto è anche qui grave, doloroso e profondo ci
sembra soltanto una deliziosa farsa plebea.
La grande prova deve ancora accadere: questa volta nessun Papageno potrà alleviarla con i suoi giochi. Verso la fine
della notte, nell'ora più terribile, quando, diceva Baudelaire,
«l'anima imita le battaglie della lampada e del giorno, l'aria è
piena dei fremiti delle cose che si inseguono, e nel fondo degli ospizi gli agonizzanti gettano in singhiozzi ineguali il loro
ultimo rantolo», Tamino giunge davanti a due montagne. Da
una scende una fragorosa cascata, diffondendo una nebbia
nerastra all'orizzonte: mentre dall'altra sgorga una sorgente
di fuoco, che arrossa con un sospetto d'alba la parte opposta
del cielo. Egli dovrà attraversare «il fuoco, l'acqua, l'aria e la
terra», come nelle Metamorfosi di Apuleio Lucio viene condotto «attraverso tutti gli elementi». Ci domandiamo se Tamino, così giovane ed inesperto, potrà superare da solo,
senza aiuti umani o sovrannaturali, la terribile prova. In questo momento, maturata dal dolore, Pamina gli giunge accanto. Lo prende per mano e gli dice: «In tutti i luoghi io sarò
accanto a te. Io ti conduco. L'amore mi guida». La donna, figlia della notte e delle sue passioni, che Sarastro e i suoi sacerdoti consideravano un essere inferiore, libera l'inesperto
principe d'Oriente dai pericoli della notte e della morte.
Non importa che nel Flauto magico Iside resti chiusa nei
suoi templi o perduta nei suoi cieli stellati. Tutta la forza
amorosa e materna della donna si è raccolta in questa ragazza bionda dagli occhi neri, che diventa senza saperlo «l'eterna salvatrice del genere umano».
Mentre gli elementi selvaggi infuriano, Pamina invita Tamino a suonare il flauto. La voce della musica notturna
echeggia sul teatro; e l'esile suono doma l'ardore del fuoco,
lo scroscio delle cascate, l'urlo dei venti. Dopo un istante
380
d'attesa, Tamino e Pamina escono illesi dalle fiamme, come
Cariclea, in un altro romanzo misterico d'ambiente egiziano,
sale sopra un rogo e le fiamme cedono davanti al suo passo.
Con questo gesto, Tamino e Pamina hanno sfidato il terrore
e il pericolo della morte, accostandosi «ai confini della morte» (Metamorfosi, XI 23): come dice san Paolo, entrando
nell'acqua sono stati sepolti con Cristo nella sua morte, e
con lui sono risuscitati e ora camminano con lui in una vita
nuova (Epistola ai Romani, 6, 2-5). L'ultima prova è compiuta. Gli elementi hanno purificato Pamina e Tamino, i quali
sono insieme degli iniziati di Iside e dei veri cristiani, secondo quell'abbraccio tra le religioni che accendeva le fantasie
negli ultimi anni del Settecento. 9
Intanto, sulla scena del Flauto magico, accade l'evento
che da migliaia di anni la terra attendeva. L'antica scissione è
conclusa. Il principe venuto dai paesi del sole abbraccia la figlia della regina delle tenebre: la luce e la notte, il principio
maschile e quello femminile si incontrano nell'amore. L'harmonia mundi vive finalmente tra noi. Tutto il teatro è un sole, Sarastro sta in alto e la gioia delle trombe celebra il
trionfo della luce celeste. Ma che significa questo trionfo? La
notte è stata veramente «annientata»? Malgrado le apparenze, il regno virile e massonico di Sarastro è giunto alla fine,
con le sue catene, i suoi schiavi e la forza distruttiva del «cerchio solare». Mentre Tamino e Pamina compivano il loro
viaggio, la luce del sole si nutriva alle ricchissime sorgenti
della notte: assorbiva i suoi tesori - la musica, la passione
amorosa, il dolore, la natura, i giochi degli uomini-uccelli -;
e li purificava e illuminava, mentre purificava sé stessa. Così
la regina della notte ha perduto la sua antica ricchezza. Non
le resta che furia e vendetta; e, tra tuoni e fulmini, la triste
In questa scena Mozart ha ripreso i temi di tre brani musicali: il corale Ach
Gott, vom Himmel sieh darein, che risale ai tempi di Lutero: l'altro corale
Christ unser Herr zum Jordan kam, il Kyrie della Missa sancti Henrici di
Heinrich Biber. Come ha ricordato Paolo Isotta, egli ha dunque alluso con la
sua musica alle tre persone della Trinità. La iniziazione isiaca è, al tempo stesso, un'iniziazione cristiana.
9
381
farfalla notturna cade nell'abisso, dal quale non potrà più risalire.
Sopra le scene si apre una nuova età: nasce una nuova
creazione: qualcosa che nessuno aveva mai conosciuto,
nemmeno quando il padre e la madre di Pamina regnavano
sulla terra. Se l'uomo e la donna si amano, se la virtù e la giustizia cospargono il sentiero della nostra esistenza, se la dolce calma scende nel nostro cuore, «allora la terra è un regno
celeste e i mortali sono pari agli dèi». Come nei «misteri» ellenistici, Pamina, Tamino, Sarastro, i suoi sacerdoti, e noi tutti che leggendo e ascoltando abbiamo condiviso il loro destino, siamo diventati simili a Iside e Osiride.
Inquieto, errabondo, sfiorato dall'ala della morte, mentre
muoveva le mani sulla tastiera, impugnava la bacchetta del
direttore d'orchestra, o negli ultimi giorni di vita seguiva col
pensiero la lontana rappresentazione che avveniva senza di
lui, - Mozart credette veramente a questo sogno impossibile? L'harmonia mundi? Gli uomini pari agli dèi? Il flauto
magico è una favola per bambini, é una parabola destinata
alle creature angeliche, che attraversano l'oscurità e la luce
tenendo nella mano un ramo di palma. Alle favole e alle parabole non si pongono domande, né da loro si hanno risposte: o si ricevono tutte le domande e tutte le risposte.
L'INFINITO SECONDO LEOPARDI
Quando Leopardi immaginò L'infinito, stava seduto per
terra, chiuso attorno al proprio corpo, a ridosso della siepe:
questo ostacolo non alto gli impediva lo sguardo su «tanta
parte dell'ultimo orizzonte», sul paese dolcissimo che lo circondava da ogni parte come un mare. Mentre pensava l'infinito, aveva bisogno di avere attorno a sé un limite, una siepe, un muro: doveva stare in un carcere immaginario, dietro
il quale soltanto, come il prigioniero più desideroso, poteva
perdersi negli spazi interminati. Qualcuno potrebbe chiedersi, allora, perché mai lasciò la casa, attraversò la campa-
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gna, salì sopra la vetta del colle. Non gli bastava la sua stanza?
Come Pascal e Rousseau sapevano, come anche lui sapeva
benissimo, come Dostoevskij tornò a conoscere nei suoi anni di prigionia, la stanza più chiusa e oscura, più lontana dal
reale, la più segregata Bastiglia, la più ossessionante clausura, non sono forse il luogo perfetto per fìngere universi col
pensiero? Ma, in quella primavera o in quell'autunno, Leopardi viveva in una condizione più complicata: doveva avere
l'infinito lì, a portata di mano, per cancellarlo e costruirsene
un altro con la mente.
Accovacciato contro la siepe, segregato dal lontano mare
e dai monti azzurri, aveva un solo spazio dove i suoi occhi
potessero perdersi: la sommità del cielo. Dove «mirava»,
dunque? Lassù in alto? Come sappiamo, egli adorava gli spettacoli che l'indefinito prepara alla nostra fantasia: un filare o
un viale d'alberi di cui non arriviamo a scoprire la fine: una
torre, che paia innalzarsi sola sopra l'orizzonte invisibile: una
fuga di camere: una strada lunghissima e dirittissima: la luce
del sole o della luna veduta dove essi non si scorgano e non
si scopra la sorgente della luce: il penetrare della luce in luoghi dove divenga incerta, come attraverso un canneto, una
selva, i balconi socchiusi; tutti i punti nei quali la luce si
confonda con le ombre... Nulla avrebbe dunque dovuto incantarlo più dei giochi mutevoli, che la luce del sole faceva
con le forme continuamente rinnovate e cangianti delle nuvole, che dall'Appennino scendevano verso il mare, o dal
mare risalivano verso l'Appennino: luce che diventava ombra, ombra che diventava luce. Ma, in quel momento, egli
non voleva badare agli spettacoli dell'indefinito: con una volontà ascetica, si proibì qualsiasi fantasticheria. I suoi occhi
non guardavano né verso l'alto, né verso le foglie della siepe,
così prossime al suo capo. Come comprese Ungaretti, egli
guardava con occhi vuoti e ciechi, con occhi distratti e che
non vedevano, con occhi che stavano per voltarsi verso il di
dentro, ad accogliere la pura visione interiore.
Così concentrato in sé stesso, abolita qualsiasi realtà esterna, la sua mente cominciò a creare («mi fingo»). Come un
383
palombaro, si immerse nelle proprie profondità: in quella
che, se fosse stato un mistico, avrebbe chiamato «la fine
pointe de l'àme». In quei mesi forse ancora inconsciamente,
ma presto con la più estrema chiarezza, sapeva che la sua
impresa era quasi impossibile. La mente umana non può afferrare l'infinito. Come avrebbe scritto nello Zibaldone, né
la nostra facoltà conoscitiva né quella amorosa né quella immaginativa sono capaci «dell'infinito, o di concepire infinitamente, ma solo dell'indefinito e di concepire indefinitamente»: così che di questo sogno noi riusciamo a possedere
soltanto le apparenze, mai la sostanza. Se mai, lo abbracciamo quando siamo ancora «fanciulli, primitivi, ignoranti, barbari»: non quando, come Leopardi a ventun anni, abbiamo
letto tutti i libri, e da tempo abbiamo cominciato a sondare
tutti i pensieri che il reale e il possibile risvegliano in noi.
Non comprenderemo mai L'infinito se dimentichiamo questo fatto. Quel tentativo, che Leopardi fece guardando con
occhi vuoti e ciechi, era il disperato azzardo, la prova suprema di pensare qualcosa che, a rigore, è impensabile.
Il suo tentativo era ancora più arduo, giacché egli si sforzò
di cogliere una goccia di infinito puro, senza che nulla di
estraneo lo contaminasse. Attraversando col pensiero gli
«spazi interminati» avrebbe potuto rappresentarsi i mondi
innumerabili che li colmano, raffigurarsi il loro numero e la
loro mole meravigliosa, numerare le stelle una per una, immaginare le galassie - «quegli... senz'alcun fin remoti / Nodi
quasi di stelle / Ch'a noi paion qual nebbia» -, ascoltare, come un antico, la musica cristallina, ora lenta ora veloce, delle
sfere. Avrebbe potuto scorgere, dovunque, la vertigine del
movimento. Come fa ogni uomo, avrebbe potuto collegare il
pensiero dell'infinito a quello dell'eterno, che di esso sembra l'analogia più naturale. Non fece nulla di questo. Con
una sovrumana tensione, abolì dalla sua mente il pensiero
delle stelle, il flusso del movimento, ogni idea dell'eterno e
del tempo. Per cogliere una goccia pura di infinito - la cosa
più remota, più estrema, più rarefatta ed essenziale che l'uomo possa foggiare - doveva immaginarlo vuoto, immobile,
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sovranamente silenzioso. C'era qualcosa di tremendo, in
questo. Era come se uno di noi tentasse di immaginare Dio
al di fuori di ogni parola, di ogni tempo, di ogni eternità, di
ogni numero: simile a un punto fermo e invisibile nel cielo.
Tutto lascia credere che, presso la siepe o tornato a casa,
davanti alla boccetta d'inchiostro, mentre stava per riempire
la carta con la sua calligrafìa limpidissima, - Leopardi avesse
nella mente il più famoso pensiero di Pascal: «Le silence éternel de ces espaces infìnis m'effraye». Giunto a quel vertice,
anche a Leopardi si «spaurò» il cuore. Pascal ebbe terrore
perché proprio nei cieli, dove gli antichi gli avevano insegnato a cogliere la mano o il segno di Dio, trovò l'assenza paurosa di Lui; e gli sembrò di sentirsi solo nella creazione, «come
un uomo che qualcuno avesse portato addormentato in
un'isola deserta e spaventosa». I timori di Leopardi erano
più complessi: era abituato all'assenza di Dio: ma non riusciva a sostenere l'impossibile pensiero dell'infinito; e riflettere
senza essere avvolto dal passato, dal presente, dal futuro,
dall'eterno - dal tempo che fra poco l'avrebbe accolto e cullato così amorevolmente - doveva sgomentarlo. Se ci è lecito congetturare intorno a una poesia, dove tutto è aperto alla congettura, egli chiuse nella mente quella goccia d'infinito
per un istante; e poi avrebbe abbandonato quel culmine, lasciandosi alle spalle spazi interminati e sovrumani silenzi,
anche se il fruscio del vento non l'avesse risvegliato. Così assistiamo a un paradosso. Leopardi pensava che solo l'infinito
possa adempiere il desiderio di piacere dell'uomo: «il piacere infinito che non si può trovare nella realtà»; e, quando riuscì a concepirlo, se ne ritrasse, rabbrividendo.
Quella contemplazione di un istante destò altri echi, prima inconsci poi consci, nella sua memoria. C'era un rapporto segreto tra i «sovrumani silenzi e la profondissima quiete»
dell'infinito e la quiete immobilmente silenziosa del nulla.
Qualche anno dopo, quando nel Cantico del gallo silvestre
immaginò la fine del mondo, usò le stesse parole dell'Infinito e della Vita solitaria: «Tempo verrà che esso universo, e la
natura medesima, sarà spenta... Del mondo intero, e delle
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infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e quiete altissima, empieranno lo spazio immenso». Fece un ultimo passo. Pensò
che la materia - «la mole intera dell'universo, l ' a s s e m b l a g e
di tutti i globi» - fosse eterna ma finita. L'infinito era
«un'idea, un sogno, non una realtà: almeno niuna prova abbiamo noi dell'esistenza di esso, neppur per analogia». Davanti a questo carcere eterno della materia, pensò che solamente quello che non esiste, la negazione dell'essere, il
niente potesse essere senza limite, e che l'infinito venisse «in
sostanza a essere lo stesso che il nulla». Possiamo immaginare con quali occhi terrorizzati egli rileggesse allora il mite
idillio, che aveva composto alla fine della sua adolescenza.
In questo momento, a metà del verso 8, la poesia viene interrotta da una violenta cesura, che la mano delicatissima di
Leopardi nascose, sovrapponendovi uno di quegli «e» che ci
fanno errare come ombre ipnotizzate nel mare dolce e pauroso dell'indefinito. Il vento, che fino adesso aveva taciuto,
stormì: non sappiamo se tra gli alberi a noi sconosciuti che
sorgevano presso la siepe, o tra le fronde degli arbusti che
formavano la siepe, accanto alla quale Leopardi sedeva. Con
il vento, risorse il limite, il «qui», il «questo», che Leopardi
aveva abolito col pensiero. La voce del vento cancellò la concentrazione assoluta della mente nei propri abissi: allontanò
l'infinito che essa aveva creato (ora l'infinito è diventato
«quello»); e fece rinascere la realtà esterna, che avevamo dimenticata. Se la realtà rinasceva, certo rinacque anche il tempo - il terribile consumatore, il grande consolatore e confortatore, al quale Leopardi aveva voltato le spalle.
Se desideriamo comprendere cosa avvenne in quel momento, dovremo ricordare il periodo che Rousseau trascorse, tra il settembre e l'ottobre 1765, nell'isola del lago di
Bienne. Avrebbe voluto fare di quella piccola isola «una prigione perpetua»; e che qualcuno ve lo avesse confinato per
tutta la vita, impedendogli qualsiasi comunicazione con la
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terraferma e col mondo - così come, forse, Leopardi non
avrebbe più voluto lasciare il suo carcere immaginario presso la siepe. Quando discendeva la sera, Rousseau andava a
sedersi sulle rive del lago, in un luogo nascosto. L'agitazione
delle onde, il flusso e il riflusso delle acque, il suo rumore
continuo, ma che a tratti si gonfiava, fissavano i suoi sensi,
cancellavano ogni movimento, ogni agitazione, ogni pensiero dalla sua anima; e facevano nascere in lui una rèverie confusa e deliziosa, nella quale la notte lo sorprendeva. Era una
condizione estatica: una specie di ipnosi: nel vuoto assoluto
della coscienza trascorreva il movimento passivo e ininterrotto delle immagini, dei colori e dei suoni, la metamorfosi
indistinta della vita interiore; e se, a tratti, qualche debole e
vago pensiero l'attraversava, subito questi pensieri leggeri si
cancellavano «nell'uniformità del movimento continuo» che
lo
cullava.
Mezzo secolo dopo, qualcosa di simile accadde presso la
siepe. Leopardi amava i suoni vaghi: i canti uditi da lontano
o che andassero a poco a poco allontanandosi: i canti che risuonassero nelle volte di una stanza, che egli aveva da poco
abbandonato; il fragore del tuono, o lo stormire del vento
tra gli alberi di una foresta. Essi erano per lui la voce dell'indefinito - che aveva allontanato all'inizio della poesia e che
ora tornava ad assalirlo con la sua dolcezza. Come il rumore
uniforme e monotono delle onde del lago aveva cullato e annegato l'animo di Rousseau nell'oceano delle fantasticherie,
Il rumore egualmente uniforme e monotono del vento tra le
fronde permise al pensiero di Leopardi di abbandonarsi al
fluttuare delle sue rèveries temporali.
La coscienza di Leopardi era assai più attiva di quella di
Rousseau. Quando il vento stormì tra le piante, egli non si
abbandonò con la fragilità di una foglia al loro fruscio, come
avrebbe fatto Rousseau sulle rive del lago. Ancora una volta
tentò un esperimento intellettuale, paragonando dei termini
opposti: l'infinito, che aveva appena creato con la mente, e il
limite del «qui»; i sovrumani silenzi e il rumore improvviso
del vento. Ma egli era assai più cauto che all'inizio: non crea-
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va più col pensiero una realtà puramente mentale; si accontentò di paragonare due cose tra loro. E, subito dopo, suscitato dall'incessante e insinuante stormire del vento, accadde
il capovolgimento. «Mi sovvien l'eterno...» In quell'istante la
sua mente diventò passiva; e sorsero davanti a lei delle realtà
che già esistevano, che egli non aveva creato - l'eterno, il
passato, il presente -: delle realtà che stavano sepolte nelle
profondità della sua memoria come un bene antichissimo e
che ora, lì, al chiuso, nel piccolo spazio delimitato dalla siepe, formavano davanti agli sguardi del pensiero una vasta distesa straniera. Ondate di rèveries vagavano e fluttuavano
davanti alla sua coscienza, la riempivano, la colmavano, fino
ad incantarla e ad ipnotizzarla.
Seduto sulle rive del lago di Bienne, o disteso su una barca con gli occhi rivolti verso il cielo, Rousseau non ci comunicò il contenuto delle sue rèveries, «confuse ma deliziose».
Preferiva che restassero vaghe: il loro fascino non stava nella
loro sostanza, ma nella musica continua e indeterminata che
le avvolgeva; se ce le avesse raccontate, temeva di ripiombare nel tempo, che voleva ad ogni costo lasciare. Leopardi,
questo sublime matematico della mente, si sforzò invece di
definire con precisione e concentrazione estreme il contenuto del flusso di sensazioni al quale era sottoposto. Fece luce. Con una tensione geometrica così rara nella letteratura,
si accontentò di dire: «e mi sowien l'eterno, / E le morte stagioni, e la presente / E viva, e il suon di lei». Il contenuto della sua rèverie era, dunque, proprio il mare del tempo: quel
tempo che Rousseau voleva abolire; e che lo salvava dal terrore del puro infinito. Tutte le sue dimensioni - meno quella
del futuro - stavano lì, nel suo pensiero, protette dal carcere
della siepe.
Se desideriamo capire cosa si nasconda dietro queste parole così nude, dobbiamo avanzare, ancora una volta, qualche congettura, cercando di risalire dalla carta bianca e dalla
mano che vergò le parole fino alla mente che le nascose in
sé stessa. Un primo fatto ci meraviglia. Leopardi non arrivò
all'eterno per la via più naturale a una mente europea, che
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scorge nell'infinito un'immagine e un anticipo spaziale
dell'eterno: per giungervi, ebbe bisogno che la voce del vento, il limite, il «qui», il «questo» entrassero in contrasto
coll'infìnito. Quanto al passato, alle «morte stagioni», egli era
assalito dalla stessa angoscia che lo aggrediva nella Sera del
dì di festa, quando «fieramente» gli si stringeva «il core, / A
pensar come tutto al mondo passa, / E quasi orma non lascia»? Credo che le sue sensazioni fossero più complicate.
Concependo uno spazio di molti secoli, la sua anima provava «una sensazione indefinita, l'idea di uno spazio indeterminato», dove si perdeva: sebbene sapesse che vi esistevano
confini (il passato non era l'eterno), non li «discerneva e non
sapeva quali fossero». Pensare che una cosa fosse terminata
per sempre, che non sarebbe tornata mai più gli dava un
senso di dolore e di malinconia: eppure in questa malinconia e in questo dolore vi era uno strano «sentimento piacevole», a causa appunto di quegli echi vaghi e indeterminati
che ogni cosa terminata per sempre destava dentro di lui.
Come ultimo, sorse il senso del presente, che era già implicito nel fruscio del vento. Anche esso era morto, vano e privo
di consistenza, come pensano i commentatori? Non mi sembra. Il presente, che la rèverie gli riportava, era vivace e
squillante, come ci dice il testo con tanta chiarezza.
Ora nella sua mente si intrecciavano le sensazioni più diverse: l'infinito e il reale, il silenzio e la voce del vento, l'eterno e il tempo, il passato e il presente. Mentre stava rannicchiato presso la siepe, l'eterno evocava la sua potenza
illimitata, il passato suscitava tutti i pensieri indefiniti e la
piacevole malinconia che l'avvolge, il presente offriva lo
splendore squillante ed effimero della sua vita; e mentre il
pensiero mobilissimo continuava a paragonare silenzio e voce, ecco che l'eterno ondeggiava e scivolava sul tempo, il
passato sul presente, finché tutte le dimensioni della rèverie
confluivano in una dimensione unica, in un solo «mare». A
questo punto, ogni controllo della mente era perduto: il
flusso delle sensazioni la invadeva e la possedeva senza incontrare più ostacoli. Ma che era dunque questo «mare»? Era
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l'«infìnito», al quale Leopardi intitola la poesia? Una piccola
spia finisce di convincerci del contrario: Leopardi provvide a
cancellare questa parola nel penultimo verso del suo manoscritto. Il fruscio del vento aveva interrotto la concentrazione di Leopardi intorno ad esso, e ora l'infinito puro, al quale
noi tutti dobbiamo rinunciare, era soltanto un ricordo, sommerso nel vagabondaggio molteplice delle rèveries. Il «mare», l '«immensità», nel quale egli si perse, era l'«indefinito», al
quale soltanto l'uomo può giungere: oppure un infinito impuro, mescolato al tempo, al «qui», al presente.
Così il cerchio si chiude. La poesia, che aveva cominciato
tanto orgogliosamente con la creazione di un infinito mentale, si conclude col naufragio dell'io pensante nel mare vago e
ipnotico delle associazioni. Se ci mettiamo dal punto di vista
dell'io pensante, tutto finisce con un disastro: l'io annega nel
flusso delle associazioni. Ma questo disastro è il supremo
trionfo, la suprema vittoria. È la dolcezza: l'estasi; una gioia
che colma la mente sino all'orlo, davanti alla ricchissima
molteplicità delle sensazioni e alla felice morte dell'io. Il
pensiero, che aveva voluto attingere l'infinito, ha conosciuto
un brevissimo trionfo; e subito l'amarezza della paura. Per
Rousseau come per il giovane ancora per poco rannicchiato
insieme a noi accanto alla siepe, la vera beatitudine sta
nell'abbandono passivo alle immagini, che qualcosa lieve come una ragnatela - appena uno stormire di vento tra le foglie - risveglia dal nulla e manda a invadere dolcemente la
nostra anima quieta.
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LA FINE DEL MONDO
Quando la malattia sta per prorompere lo schizofrenico
avverte una sensazione inquietante di spaesamento. «C'è
qualcosa, dimmi dunque cosa c'è» dice a suo marito una
schizofrenica. Quando il marito le chiede cosa le stia accadendo, lei insiste: «Ma non so. Tuttavia c'è qualcosa». Cosa è
dunque questo «qualcosa», che il malato non riesce a esprimere? Cosa è questa tensione sinistra che impregna tutta
l'atmosfera? Il riflesso del sole sulla strada, alcune righe
stampate nel giornale, delle sedie messe in fila in un salone non sono più la solita luce celeste, le solite notizie che ogni
mattina ci interessano o ci sconvolgono, i soliti oggetti che
riempiono il teatro troppo vuoto della realtà, ma alludono
oscuramente a un significato che le oltrepassa. Nessuno può
dire quale sia questo significato: nessuno può comprendere
quali parole si siano nascoste dietro l'apparenza del mondo.
Stanno lì, e parlano senza farsi intendere, con ignote voci
d'ombra. Ad un tratto, le cose cominciano a correre velocemente, in modo precipitoso ed eccitato: finché il movimento si capovolge in un'immobilità tesa e in un silenzio terribile. Il malato ha l'impressione che stia per prodursi una
catastrofe spaventosa, verso la quale forse tendevano i significati nascosti. Egli aspetta, trattenendo il respiro, soffocato
d'angoscia, e nulla accade. L'immobilità si fa ancora più im-
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mobile, il silenzio più silenzioso; e la sua paura aumenta, fino a diventare atroce.
Finalmente la catastrofe, la catastrofe tanto desiderata e
temuta, la catastrofe verso la quale l'organismo del malato
tende come alla sola salvezza, avviene. Il malato percorre inquietamente le strade: nessuna stella brilla, nessuna campana suona. Erra a lungo per le vie. Le case sono immerse nelle tenebre. Dopo aver suonato ad una casa, appare una luce
alle finestre; e le stelle tornano a splendere l'una dopo l'altra, insieme alla luna. Ma è solo un brevissimo istante di sollievo, perché subito dopo il vento comincia ad urlare d'angoscia, attraverso le pianure desolate, annunciando la
prossima fine del mondo. La luna scompare di nuovo, le
stelle oscillano scintillando e poi precipitano sulla terra, la
volta celeste si fende in due: misteriosi messaggi informano
che Venere è inondata, che le costellazioni sono abbandonate, che Cassiopea è compressa in un unico sole e una voce
grida: «Ormai soltanto le Pleiadi si possono salvare!». Il disastro si estende come un contagio. Il sole impallidisce, si
oscura lentamente, e non dà più calore. Gli uomini cominciano a scavare fosse sottoterra e giungono nel regno dei
morti; e si abituano a vivere nelle caverne del sottosuolo. I
vulcani eruttano lava. L'acqua si ritira improvvisamente dagli
oceani: oppure sale, e ricopre la terra e gli abissi con il suo
manto liquido e ghiacciato.
Come dobbiamo interpretare queste immagini? Jung pensa che le forze archetipiche sepolte nell'inconscio stiano invadendo l'io dello schizofrenico. Qualche psicanalista crede
che questa sensazione sia il risultato di una intensa repressione degli istinti. Forse una cosa sola è sicura. Mentre le immagini apocalittiche assalgono lo schizofrenico, egli attraversa l'esile barriera che divide la terra dove viviamo dalla terra
dove trionfano - pure, scatenate e selvagge - le forze della
malattia. È un passaggio tremendo, nel quale molte cose
vanno distrutte per sempre, e molte cose vengono a galla
dal fondo sconvolto dell'animo, come se la follia volesse celebrare proprio ora, quando è appena agli inizi, il suo potere
394
visionario e creativo. Lo psicanalista decifra queste immagini
e le traduce nel loro valore psicologico, per comprendere e
guarire il malato. Noi, che assistiamo atterriti e affascinati allo spettacolo della follia, non possiamo che ammirare l'enorme forza metaforica, con cui lo schizofrenico esprime la sua
ferita.
Cosa avviene «di là», nel paese che si apre dietro la porta?
Cosa avviene nel regno sterminato e incomprensibile della
schizofrenia? In apparenza non avviene nulla. Dopo avere
conosciuto la fine del mondo, qualche malato si comporta
come un brillante e salottiero conversatore, che chiacchiera
con spirito, racconta degli aneddoti divertenti, cita dei brani
di buoni scrittori; e intanto afferra tutte le immagini e tutti i
suoni e li custodisce gelosamente nella memoria. Egli è dunque entrato nell'apocalisse, soltanto per dirci dei bons mots?
Ma l'apparenza non deve ingannarci. Mentre parla spiritosamente con noi, il malato è nascosto da una spessa, invisibile
e impenetrabile parete di vetro. Egli è dominato da un terrore: che gli sguardi degli altri possano attraversare la superficie trasparente della sua anima; che gli altri esseri umani
possano risucchiarlo, inghiottirlo, soffocarlo nel loro intollerabile abbraccio amoroso. Per qualche oscura ragione, si
sente sicuro soltanto quando non è capito né amato. Così,
per respingere gli altri, egli bandisce ogni emotività e sensibilità dal suo cuore, diventa freddo come la pietra od il ferro,
e intanto il suo sguardo cerca di trasformare gli altri in un sinistro corteo di sassi. Vaga così, col cuore vuoto, col cuore
spento, col cuore di pietra: qualche volta aspetta disperatamente che un'ondata d'amore torni a scaldare il mondo, che
egli stesso ha gelato; più spesso i suoi gesti sempre più artefatti, le sue parole, ora barocche ora ellittiche, e i suoi inquietanti bons mots non hanno nulla d'umano.
Col cuore di pietra, lo schizofrenico guarda gli spettacoli
della realtà. Li vede attraverso un velo: i suoni gli giungono
come attraverso un muro; e gli sembra che una spessa mem-
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brana gli abbia ricoperto la pelle. Le cose gli appaiono lontanissime, rimpiccolite, scolorite, sbiadite, senza il robusto rilievo dei contorni - pochi alberi stenti, pochi edifìci abbandonati, poche lampade a gas. Lo schizofrenico guarda, e la
terra gli pare nuova e sconosciuta. Ogni cosa che vede, ogni
persona che incontra, ogni pensiero che attraversa la sua
mente gli sembrano irreali. Come un bambino, con fretta,
con furia, con insistenza, tocca più volte ogni oggetto; e ripete fra sé il loro nome. Poi, incapace di varcare la barriera
invisibile, si schiaccia sulla mano una sigaretta accesa, si preme le dita contro gli occhi, si strappa delle ciocche di capelli,
come se soltanto il dolore potesse restituirgli il senso della
realtà. Tutto è vano. Tutto il mondo è soltanto un vuoto e assurdo spettacolo di teatro. Le piante e i fiori, che un tempo
lo consolavano con la loro dolcezza, sembrano degli scenari
decorativi di cartone: gli uomini, dei manichini grotteschi.
Poi lo spazio e il tempo scompaiono davanti ai suoi occhi.
L'universo è spezzato, diviso, strappato in milioni di parti:
tutte le parti di un oggetto sono circondate da una spessa linea nera; le immagini si susseguono caoticamente, senza alcun rapporto con quelle vicine, come un immenso mosaico,
che una mano misteriosa abbia sinistramente gettato per
aria.
Terrorizzato dalla lacerazione dell'universo, lo schizofrenico torna a guardare sé stesso. Da principio, gli sembra di
essere un'altra persona. Quando si sente parlare, è un altro
che parla: quando gestisce, mangia, cammina, è un altro che
gestisce, mangia e cammina; un altro incontrato chissà dove,
lungo le penose strade dell'esistenza. Gli pare di essere soltanto il remoto e indifferente spettatore della propria vita.
Poi, ad un tratto, riesce a ritrovare sé stesso. Egli esiste. O,
per meglio dire, invece dell'uomo animato che un tempo
portava il suo nome, una marionetta agisce con la massima
esattezza e precisione, come se avesse imparato una parte a
memoria. Quando si guarda più attentamente, scopre che la
marionetta prodigiosa non è forse altro che un morto, un
morto vivente, abbandonato da Dio sulla terra. Così i vecchi
396
pensieri lo riafferrano, più atroci di prima. Egli non è un «altro» né una marionetta, non è un vivo né un morto. Egli non
esiste e non è mai esistito: è soltanto un vuoto abissale, dal
quale escono dei gesti indifferenti; oppure un oggetto abbandonato sulla scena teatrale dell'universo. «Chi mi assicura» egli grida «che questa coperta sulle mie gambe è una coperta, e che io sono io? Nulla mi prova che io non sono la
coperta!» Nemmeno il vuoto resta stabile. Presto anche quello spazio si frantuma in una moltitudine di io o di non-io parziali, come l'universo era stato spezzato in milioni di parti; e
ognuno di questi io lotta violentemente contro gli altri io e
percuote, schernisce, assassina i suoi rivali.
Infine la moltitudine di «io» e di «altri», di «marionette» e
di «morti», di «vuoti» e di «frantumi» si nasconde in una
profonda caverna, per difendersi dagli assalti che la realtà e
lui stesso gli rivolgono. Ma anche là dentro non vi è scampo:
perché la folla che lo aggrediva nella realtà si insinua nella
caverna, trasformandosi in una folla di fantasmi, e lo stringe,
lo schiaccia, lo soffoca. Lo schizofrenico conosce un solo spiraglio di salvezza, che per qualche tempo gli dà un sollievo
apparente. Chiuso nella caverna, sta perfettamente immobile, con lo sguardo fisso e le braccia tese. Così i desideri distruttivi si placano, la realtà turbinante si arresta, la guerra
tra i frammenti di io ha una sosta: così, forse, perfino il mondo esterno può venire salvato. Egli sale su una seggiola e ferma le lancette della pendola. Quando gli chiedono il perché,
risponde: «Voglio fermare la marcia del mondo verso la catastrofe. Voglio immobilizzare il corso del tempo, fissare l'eternità!». L'immobilità assoluta è una meta alla quale si può arrivare soltanto con l'esercizio. Lo schizofrenico impara a
fissare una macchia di vernice sul muro, o un filo della coperta, più scuro degli altri: o una macchia di ruggine sul tovagliolo. Se i medici e gli infermieri lo perseguitano con la
loro gentilezza, se messaggeri gli portano notizie di casa, egli
si afferra cogli occhi alla macchia, la penetra, l'attraversa,
sprofonda nell'ultimo dei suoi atomi, si annulla in lei - fino a
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quando quel punto minuscolo diventa l'unico mondo che
conosce.
Passano i mesi, le stagioni, gli anni. Quando lo schizofrenico era entrato nell'ospedale, viveva gli ultimi giorni della fine
del mondo. Se potesse ricordare quegli istanti, gli parrebbe
di abitare in un tempo felice. L'universo, che allora era ancora vivo ed ardente, è completamente pietrificato. Ora egli
abita nel paese del freddo e del ghiaccio, che lui stesso ha
contribuito a creare. «Io sono imprigionato in una scorza di
ghiaccio, sono perduto nelle pianure ghiacciate della Borussia. Come ritrovare la mia strada? Le persone sono irriconoscibili con le loro corazze di ghiaccio. Io sono irrigidito nel
ghiaccio. Del fuoco, per favore, del fuoco!» Dal cielo scende
una luce implacabile, che accieca e non dà spazio all'ombra:
ma questa luce non scalda, perché proviene da un enorme
apparecchio elettrico, che qualcuno ha sostituito al sole.
Giunta in questo paese, una malata immagina di essere divenuta la «regina del Tibet». Non ha alcuna corte, alcun palazzo, alcun tesoro, alcun vestito regale. Chi è regina del Tibet,
vive sola, in un paese lontano, separato da tutti gli altri, dove
l'entrata è proibita. Non regna sugli uomini: ma soltanto sulla «solitudine deserta e ghiacciata dall'implacabile luce elettrica». Questo gelido Tibet non è che un'immagine del grembo materno. Dopo avere conosciuto tutte le catastrofi
dell'universo e dell'io, la malata è regredita alla condizione
di feto; e vive rinchiusa nel ventre, con un vago sorriso di
beatitudine irrigidito sulle labbra.
Tra i ghiacci e sotto la luce spietata, tra le montagne chiuse e desolate del Tibet, il mondo è finito. «Io non ho più nome, i genitori non sono più genitori, tutti sono morti, la terra non produce più nulla, non c'è più nessuno sulla terra, né
bianchi né negri, non vi è Africa né America, non vi sono più
stelle, alberi, primavere, inverni, stagioni. Gli alberi sono
morti. Non vi sono più giorni. E neanche anni e secoli. Non
c'è più nulla.» Mentre fìssa affascinato la macchia, lo schizo-
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frenico tace: o le poche parole che escono dalle sue labbra
sono delle formule ermetiche e astratte, dei segni cifrati, che
nessuno comprende. Ora siamo arrivati veramente «di là»,
oltre la vita, oltre il dominio stesso della schizofrenia, nel
vuoto, nel nulla, dove nessun grido spezza il mortale silenzio
dell'invincibile notte.
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Nota
Questo libro deve idee e sensazioni a molti libri e saggi che
non vengono ricordati. Vorrei ricordare almeno: (per Saturno e la melanconia), Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e
Fritz Saxl, Saturno e la melanconia; (per II Messia che tradì),
Gershom Sholem, Sabbalaì Sevi. TheMysticalMessiah.
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