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L`esperienza giuridica medievale
DIRITTO, CITTADINANZA E COSTITUZIONE L’insufficienza del potere statale UNITÀ 2 La debolezza dello Stato Lo Stato non è l’unica fonte del diritto Una copia delle Leges Longobardorum, la legislazione giuridica emanata dal sovrano longobardo Liutprando (che fu re dal 712 al 744). Nei regni romanigermanici spesso vi erano norme differenti per i romani e per i germani. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 1 L’esperienza giuridica medievale La maggior parte degli storici fa iniziare il Medioevo con la crisi e il collasso finale dell’impero romano d’Occidente. Dunque, uno dei dati più tipici del mondo medievale è il vuoto di potere, che a lungo non fu più riempito da un’autorità paragonabile a quella dello Stato romano. Ma, in questo caso, non ci riferiamo tanto al fatto che l’unica e universale autorità dell’imperatore fu sostituita da una serie di regni di varia grandezza, guidati da sovrani barbarici e abitati da una popolazione mista, in parte romana e in parte germanica. L’attenzione dello storico del diritto è colpita soprattutto dal fatto che, in tutte le nuove entità politiche nate dalla frammentazione dell’impero romano (e, più tardi, anche all’interno dell’impero carolingio, nel regno di Francia o perfino nei comuni italiani), lo Stato e il suo potere erano debolissimi. Se confrontiamo il Medioevo con l’epoca romana (e, a maggior ragione, con il tempo moderno), ci accorgiamo che l’autorità centrale si disinteressava di tantissime questioni che invece, a nostro giudizio, sarebbero di sua competenza: interi settori della vita sociale che siamo abituati a pensare come rigidamente regolamentati dalle norme statali non lo erano. Più precisamente, possiamo dire che, per tutta l’età medievale, diversi campi dell’esperienza umana furono sostanzialmente autonomi, nel senso più letterale del termine. Infatti, se teniamo conto della radice (greca) della parola, definire un soggetto come autonomo significa affermare che si dà da solo gli ordinamenti (cioè le norme e le regole: le leggi, in linguaggio più giuridico) del proprio agire e del proprio funzionamento. Volendo utilizzare una metafora, potremmo dire che lo Stato moderno (quello che noi conosciamo e sperimentiamo) assomiglia a una rete avvolgente, dalle maglie fittissime, IPERTESTO C APPROFONDIMENTO L’esperienza giuridica medievale La personalità del diritto UNITÀ 2 APPROFONDIMENTO C che regola un numero elevatissimo delle nostre azioni e attività; nel Medioevo, invece, quella medesima rete era piena di strappi, cosicché gran parte di ciò che oggi è contenuto al suo interno allora sfuggiva e non era per nulla coperto; e questo non creava alcun problema, né alle autorità né alle persone. Come ha scritto P. Grossi, «la chiave interpretativa essenziale di tutto l’ordine giuridico medievale è che i detentori del potere costituiscono una fonte fra le molte chiamate all’edificazione di quell’ordine; senza dubbio, non la sola, e nemmeno la prevalente. La produzione del diritto risiede soprattutto in altre mani, l’esperienza scorre in altri canali». L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 2 In secondo luogo, lo storico delle esperienze giuridiche è colpito dal fatto che a lungo, nel Medioevo, funzionò il criterio della personalità del diritto. Nella nostra realtà odierna, il principio di base è quello della territorialità: nello spazio che rientra sotto la sovranità della Repubblica italiana (ma, allo stesso modo, il discorso vale per la Francia, la Germania, gli Stati Uniti ecc.), tutti senza eccezioni sono tenuti a osservarne le norme, compresi il turista o lo straniero che solo temporaneamente risiede nel nostro paese per lavoro. I regni romano-germanici, invece, funzionavano secondo un principio di base affatto opposto: all’interno del medesimo territorio, per i romani valevano certe norme, mentre i germani erano sottomessi a regole differenti. Questo criterio giuridico secondo cui un individuo è subordinato a un tipo particolare e specifico di normativa, valido solo per la comunità in cui il soggetto è inserito (e diverso, quindi, da gruppo a gruppo, anche se tutte queste collettività vivono fianco a fianco sullo stesso territorio) resterà attivo perfino dopo vari secoli, quando romani e germani erano da tempo arrivati a fondersi in un popolo solo. Per tutto il Medioevo, infatti, diversi soggetti furono spesso subordinati a differenti forme di diritto, e solo raramente tali ordinamenti erano stati elaborati dall’autorità politica. I religiosi, ad esempio, furono per moltissimo tempo giudicati secondo un diritto speciale, elaborato dalla Chiesa e valido solo per i sacerdoti, mentre oggi, invece, se un prete commettesse un reato o un’infrazione, verrebbe punito con quelle stesse sanzioni che, valide per tutti i cittadini, lo Stato ha deciso e fissato nei propri codici. La forza del gruppo e della consuetudine Il principio della personalità del diritto permette di cogliere un aspetto essenziale della realtà medievale: anzi, ci aiuta a capire che quel mondo era organizzato secondo modalità totalmente differenti, rispetto a quelle che ci sono familiari. La società moderna poggia sul concetto di individuo, chiamato all’adempimento di determinati doveri, ma anche portatore di diritti, tutelati dallo Stato. Nel Medioevo, al contrario, il soggetto isolato di fatto non esisteva, poiché il singolo era sempre parte integrante di un gruppo (la famiglia, il clan, il villaggio, la parrocchia, la corporazione ecc.). Ben più che dallo Stato, l’individuo si aspettava protezione e tutela dalla collettività in cui era inserito; era quindi in ultima analisi a essa, prim’ancora che al re, al signore o a un’entità ancora più vaga come la patria o la nazione, che l’uomo medievale giurava obbedienza o restava fedele. Si pensi, per esempio, alla coltivazione di un campo. Oggi, un podere è proprietà di un singolo imprenditore agricolo, libero di venderlo, oppure di introdurre sul fondo tutte le migliorie che vuole: l’agricoltore proprietario, per esempio, può decidere in assoluta libertà quali prodotti coltivare o non coltivare. Nel Medioevo, al contrario, il campo era in genere gestito in comune dalla comunità di villaggio: solo dal lavoro comune e collettivo, mettendo insieme terra, attrezzi e animali si poteva sperare di sopravvivere. Il valore della tradizione In un contesto collettivo di questo genere, introdurre novità era molto difficile, per non dire impossibile: anzi, di solito era perfino ritenuto pericoloso e assurdo. Il rispetto della tradizione, infatti, aveva nel Medioevo un potere e una forza eccezionali, al punto da essere universalmente considerato come uno dei pilastri dell’ordine giuridico. La consuetudine era uno dei criteri normativi essenziali, che regolavano sia i rapporti tra le varie famiglie o i singoli soggetti, sia le relazioni tra il signore e la comunità di villaggio. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Principio della personalità del diritto Principio della territorialità del diritto Pluralità di soggetti creatori del diritto (il potere politico è solo uno di questi soggetti, e spesso non il più importante) Primato assoluto dello Stato come soggetto creatore del diritto Forza vincolante dell’ordine creato da Dio e della tradizione, da cui si traggono leggi e consuetudini che vincolano fortemente l’azione dei sovrani Possibilità per il sovrano (vera e prevalente fonte del diritto) di creare leggi sempre nuove, capaci di contrastare la consuetudine e la tradizione Prevalenza della comunità sul singolo Centralità dell’individuo e della sua libertà d’azione, nell’ambito della comunità L’entità dei contributi da versare, per esempio, era fissata da tempo immemorabile, e il nobile che avesse osato esigere più del solito importo si attirava subito l’accusa di aver violato la legge. Si trattava, in verità, di un diritto non scritto; inoltre, era valido non perché fissato dall’autorità del potere politico, bensì dalla tradizione. Eppure, quel diritto era universalmente noto e impegnativo per entrambe le parti: come i contadini non potevano versare meno del pattuito, senza incorrere nelle ire e nelle rappresaglie del signore, così questo avrebbe rischiato di scatenare la rivolta del gruppo di quanti lavoravano per lui, se fosse andato contro la consuetudine. Anche la protesta armata dei contadini è emblematica della particolare situazione giuridica medievale: lo Stato e i suoi tribunali, infatti, non c’entravano, in una controversia di questo genere tra contadini e signore; poiché a essere violata era stata la tradizione, e non una legge emanata dall’autorità politica, quest’ultima era sostanzialmente estranea alla partita, e la questione doveva essere risolta direttamente tra i diretti interessati. Per tutto il Medioevo, il concetto stesso di novità, l’apertura in direzione del mutamento e la disponibilità mentale a introdurre cambiamenti in qualsiasi ambito della realtà (nei costumi, nelle tecniche militari, nella liturgia ecc.) non vennero giudicati valori positivi, ma atti pericolosi, che mettevano in discussione l’ordine stesso del mondo, immutabile perché fissato fin dai tempi della creazione. È su questo sfondo che, nella maggioranza dei casi, dobbiamo interpretare l’espressione legge (lex, in latino): non tanto un provvedimento nuovo, vincolante perché emanato da un’autorità, bensì un’antica usanza, saggia, equilibrata e razionale, che gli uomini (tutti gli uomini, compresi i sovrani) dovevano osservare e rispettare, perché rispondente all’ordine naturale creato da Dio. «In questa visione – scrive ancora Grossi – la legge umana è scoperta razionale di regole ragionevoli; regole preesistenti perché l’ordine preesiste dal principio dei secoli a disposizione di chi abbia l’umiltà di ricercarlo. Ed è altrettanto ovvio che il principe, monarca o preposto a una comunità, sia un personaggio dai poteri limitati, che è chiamato unicamente a conferire la sanzione della sua autorità. Un modesto concorso da parte del detentore del potere, con una modesta funzione che resta esterna al processo di formazione della lex». UNITÀ 2 Caratteri tipici dell’esperienza giuridica moderna 3 Paura della novità L’agire del re e quello della Chiesa Quando descrivono l’istituzione regale nel Medioevo, gli storici più avvertiti vanno molto cauti nell’utilizzare l’espressione «potere assoluto». Il re infatti, anche in tutti quei casi in cui non aveva un’istituzione precisa con cui doveva discutere o negoziare il proprio agire, non era affatto libero di comportarsi come voleva; per quanto non scritta, la consuetudine era ugualmente vincolante e obbligante per il re: il sovrano non era assolutamente sciolto dal rispetto di tali norme tradizionali, che non potevano essere né violate né aggirate, senza incorrere nell’accusa di comportamento illegale. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Il re e il rispetto della consuetudine Riferimento storiografico pag. 9 1 L’esperienza giuridica medievale Caratteri tipici dell’esperienza giuridica medievale APPROFONDIMENTO C ESPERIENZA GIURIDICA MEDIEVALE ED ESPERIENZA GIURIDICA MODERNA A CONFRONTO APPROFONDIMENTO C Il nuovo atteggiamento della Chiesa dell’XI secolo UNITÀ 2 Carlo Magno amministra la giustizia, miniatura tratta da un codice del XV secolo. Per lo stesso motivo, quando un sovrano (si pensi, ad esempio, a Carlo Magno) si trovava a capo di più regni e di più popoli (franchi, longobardi, bavari ecc.), non ci si aspettava affatto che armonizzasse le diverse legislazioni ed emanasse un unico codice di norme valide da un capo all’altro dell’impero, bensì che rispettasse le leggi tradizionali, tipiche di ciascun popolo e di ciascuna regione. Il re non era concepito in primo luogo come fonte del diritto, bensì come interprete del diritto stesso: il compito primario che gli veniva affidato non era di creare le leggi, ma semmai di renderle note tramite un editto, di far sì che tutti le conoscessero e, ovviamente, di farle rispettare e di punire equamente i trasgressori. La Chiesa, che per molti versi, nel Medioevo, ci appare come l’istituzione più influente, decisamente più importante dell’autorità politica, si mosse al tempo stesso su binari simili e diversi. Da un lato, i presupposti del suo agire sono quelli che abbiamo già più volte ricordato come tipici dell’età di mezzo: autonomia dallo Stato nell’elaborazione di propri ordinamenti, superiorità del gruppo rispetto al singolo e forza vincolante della tradizione. L’XI secolo ebbe un ruolo decisivo nel sanzionare l’autonomia della Chiesa di Roma dal potere imperiale; agli occhi dello storico, però, questo momento di svolta appare decisamente atipico, nel panorama giuridico e mentale medievale, in quanto si trattò di una vera rivoluzione. Andando contro al più tipico degli atteggiamenti cari al Medioevo, la Chiesa assunse un atteggiamento nuovo, nel momento in cui proclamò che l’imperatore e tutti i vescovi della cristianità dovevano essere rigorosamente subordinati al papa. Allo stesso modo, fino all’XI secolo anche la Chiesa (come l’impero) aveva ampiamente tollerato che le varie regioni avessero usanze e abitudini differenti; nel Basso Medioevo, L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 4 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Malgrado questo strappo del secolo XI, la mentalità del papato e di quanti ne sostennero l’azione non era veramente diversa da quella che abbiamo tentato di ricostruire. Innanzi tutto vi è l’idea dell’assoluta superiorità della comunità rispetto al singolo; secondo la concezione cattolica, la religione è una faccenda collettiva, non individuale: sarà questa, nel XVI secolo, la radicale divergenza che contrapporrà Lutero, la Riforma e la concezione protestante al modello romano. Secondo la visione cattolica, l’uomo non si salva da solo, ma insieme agli altri fedeli, nella Chiesa, cioè in una società Adalberone vescovo di Laon (1027-1031) espose nel modo più chiaro ed efficace le linee fondamentali del modello sociale secondo cui la società cristiana (a imitazione della natura divina) doveva essere trinitaria, cioè strutturata in tre ordini. Per quanto organizzati in maniera gerarchica, i tre gruppi risultavano, almeno in teoria, complementari, in quanto ognuno di essi era chiamato a svolgere un’attività utile anche agli altri due: la mediazione nei confronti del mondo ultraterreno, la protezione militare e la produzione dei beni necessari al sostentamento. All’atto pratico, questo modello sanzionava l’inevitabilità del duro lavoro manuale per la maggior parte dell’umanità. Con il loro pesante faticare, infatti, i contadini dovevano mantenere i cavalieri (professionisti della guerra) e permettere agli ecclesiastici (coloro che pregano) di restare puri, cioè lontani da ogni attività che potesse contaminare l’esercizio dei riti che, in virtù della loro funzione, erano chiamati a celebrare. [La casa di Dio è retta da] due leggi diverse, entrambe definite dalla sapienza, che è la madre di ogni virtù. L’una è la legge divina: essa non fa differenze tra i suoi ministri; li forma tutti di uguale condizione, per quanto la nascita o il ceto sociale li stabiliscano diversi tra di loro; il figlio di un artigiano non è inferiore al figlio di un re. Ad essi [ai ministri di Dio, cioè ai sacerdoti, n.d.r.], questa legge clemente interdice ogni vile occupazione mondana. Non fendono la terra; non camminano dietro la groppa dei giovenchi; appena si occupano delle viti, degli alberi, dei giardini. Non sono né macellai né locandieri, e neppure porcai, guardiani di capri o pastori; non vagliano il grano, ignorano il calore cocente di una marmitta unta; non fanno dimenare dei porci sul dorso dei buoi; non sono lavandai, e disdegnano di far bollire la biancheria. Ma devono purificare la loro anima e il loro corpo, onorarsi con i loro costumi e vegliare su quegli degli altri. La legge eterna di Dio prescrive loro di essere così senza macchia; essa li dichiara liberi da ogni condizione servile. […] Egli ordina loro d’insegnare a conservare la vera fede, e di immergere quelli che hanno istruito nel fonte del santo battesimo […]. Questi ministri andranno a sedere ai primi posti nei cieli. Devono dunque vegliare, astenersi da molti alimenti, pregare continuamente per le miserie del popolo e per le loro. […] La legge umana distingue altre due classi: nobili e servi, infatti, non sono retti dallo stesso regolamento. Due personaggi occupano il primo posto: uno è il re, l’altro l’imperatore; dal loro governo vediamo assicurata la solidità dello Stato; il resto dei nobili ha il privilegio di non essere soggetto ad alcun potere, purché si astenga dai crimini che reprime la giustizia regale. Essi sono i guerrieri, protettori delle chiese; sono i difensori del popolo, dei grandi come dei piccoli, di tutti, insomma, e garantiscono al tempo stesso la propria sicurezza. L’altra classe è quella dei servi: questa razza infelice non possiede nulla se non al prezzo della propria fatica. Chi potrebbe con i segni dell’abaco fare il conto delle occupazioni che assorbono Quali mestieri i servi, delle loro lunghe marce, dei duri lavori? Denaro, vesti, cibo, i servi forniscono tutto (ritenuti indegni) a tutti; non un uomo libero potrebbe vivere senza i servi. sono vietati ai La casa di Dio, che si crede una, è dunque divisa in tre: gli uni pregano, gli altri comministri di Dio? battono, gli altri infine lavorano. Queste tre parti coesistono e non sopportano di essere diI membri del clero sgiunte; i servizi resi dall’una sono la condizione delle opere delle altre due; e ciascuna a sua sono su un piano di volta s’incarica di soccorrere l’insieme. Perciò questo legame triplice è nondimeno uno; così parità rispetto a la legge ha potuto trionfare, e il mondo godere della pace. coloro che non sono sacerdoti? Motiva la G. DUBY, L’anno Mille. Storia religiosa e psicologia collettiva, Einaudi, tua risposta. Torino 1976, pp. 57-58, trad. it. L. ZELLA F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 2 DOCUMENTI 5 L’esperienza giuridica medievale I tre ordini della società La religione come questione collettiva APPROFONDIMENTO C invece, si mise in moto un processo di graduale livellamento, finalizzato a far sì che in tutte le regioni la Chiesa avesse identiche formule liturgiche e norme di comportamento. APPROFONDIMENTO C UNITÀ 2 L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 6 ordinata (e, quindi, bisognosa sia di regole che di una precisa gerarchia), che gli fornisce gli strumenti essenziali della salvezza, cioè la vera fede e i sacramenti. Fuori da questa comunità, secondo la concezione medievale, non c’è e non ci può essere salvezza. Questo monito non valeva solo per gli infedeli, gli eretici o gli scismatici (come i cristiani d’Oriente, che non riconoscevano l’autorità del papa), ma anche per gli eremiti, per i mistici e per tutti coloro che cercavano un contatto diretto e personale con Dio, saltando la mediazione della Chiesa. La società umana, Nel medesimo tempo, anche quando – almeno ai nostri occhi – il papato e la Chiesa di Roma specchio del creato sono andati contro la tradizione, i difensori del nuovo ordinamento si richiamavano alla consuetudine. Per l’esattezza, facevano appello a una tradizione ancora più antica, quella apostolica, e quindi ancora più vincolante. Rilanciando l’autorità del successore di Pietro, Gregorio VII e gli altri pontefici si presentavano in realtà non come innovatori, bensì come i restauratori dell’ordine, che risaliva alla Chiesa delle origini, a Cristo o addirittura alle intenzioni stesse di Dio. Dire che, nei loro rapporti reciproci, il papa e l’imperatore si trovavano nella stessa situazione del sole e della luna, per l’uomo del Medioevo non significava presentare un’efficace metafora, bensì cogliere l’essenza stessa del mondo, il suo ordine, la sua logica, che doveva funzionare sulla terra proprio perché attivo ed evidente in natura. La società umana doveva essere lo specchio del cosmo creato, oppure dell’essenza stessa di Dio: solo muovendo da questa logica poté nascere la teoria secondo cui l’umanità è divisa in tre ordini (coloro che pregano, coloro che combattono e coloro che lavorano), e quindi si configura come trinitaria, proprio come è articolata al suo interno la divinità. La necessità del diritto La riscoperta del diritto romano A partire dalla fine dell’XI secolo, l’incremento demografico, la rinascita delle città e lo sviluppo dei traffici commerciali obbligarono l’Occidente europeo ad affrontare numerosi problemi giuridici nuovi, cioè a dare normative a una realtà molto più articolata e complessa di quella dell’Alto Medioevo, sostanzialmente statico, perché povero e dedito esclusivamente all’agricoltura. Nei secoli XII e XIII, lo Stato era una realtà ancora assai debole e immatura; pertanto, il compito immane di dare valide risposte normative a una società in cambiamento fu assolto dai giuristi e dalla scienza giuridica. Le idee di fondo erano ancora quelle del passato, con la sua diffidenza verso le novità e il suo culto dell’antichità e della tradizione. Pertanto, ci si trovò a dover gestire simultaneamente due esigenze contrastanti: rispetto e ammirazione per la consuetudine e bisogno di gestire una realtà in rapido mutamento. La risposta fu trovata nella riscoperta del diritto romano antico, nella forma che gli aveva dato l’imperatore Giustiniano, il quale, nel VI secolo, aveva promosso la raccolta e la completa risistemazione delle leggi in un codice noto come Corpus iuris civilis (o Codice giustinianeo). Dante, all’inizio del Trecento, celebrò la gigantesca operazione compiuta dai giuristi bizantini: così facendo avevano consegnato ai posteri uno strumento giuridico di ecceL’imperatore Giustiniano e il suo seguito (particolare), mosaico del 540 ca. (Ravenna, Basilica di San Vitale). F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C zionale potenza, una vera miniera di norme autorevoli che, debitamente adattate al nuovo contesto, potevano offrire un validissimo punto di partenza giuridico. Tra i primi commentatori medievali del Corpus iuris civilis, dev’essere ricordato il bolognese Irnerio, che visse nella seconda metà dell’XI secolo. Grazie al suo lavoro, nel giro di breve tempo Bologna divenne il centro giuridico più prestigioso dell’intera Europa cristiana. La nascita di un nuovo diritto Riferimento storiografico 2 pag. 10 UNITÀ 2 Nel Basso Medioevo la situazione dei giuristi non era semplice. Da un lato, essi riconoscevano la grandezza dei loro predecessori romani e bizantini; dall’altro, si proponevano di trovare nel Corpus giustinianeo una serie di norme autorevoli, di spunti e di criteri, che permettessero di ordinare la società in cui loro stessi vivevano. Rispetto per il glorioso passato e sforzo di offrire efficaci soluzioni al presente, per così dire, si intrecciavano e si fondevano, nel raffinato lavoro dei giuristi dei secoli XII-XIV. In tutti i casi nuovi, non esplicitamente presenti nei testi romani, i giuristi medievali adottarono il criterio dell’analogia. In tali circostanze, si impose il principio secondo cui l’esperto in scienza giuridica non doveva attenersi alle parole del Codice giustinianeo, ma all’intenzione ultima della legge. Quello che contava davvero non era la lettera morta del testo antico, ma lo spirito che aveva mosso il legislatore a emanare quella particolare legge; in apparenza, il giurista medievale continuava a presentarsi solo come un umile interprete del testo, come uno studioso a esso subordinato: nella pratica, però, l’esperto di fatto si liberava dal Codice romano, assumeva un vero ruolo creativo e si trasformava di fatto in legislatore, prescindendo dall’azione del principe che, in genere (e non sempre), solo in un secondo tempo sanzionava con un suo provvedimento quanto già decretato dai giuristi. L’esperienza giuridica medievale 7 Raffaello Sanzio, Gregorio IX approva le decretali, particolare dell’affresco Le Virtù e la Legge, 1511 ca. (Città del Vaticano, Palazzi Vaticani, Stanza della Segnatura). F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C UNITÀ 2 L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 8 Nei secoli XII e XIII, sia in Italia che in altre regioni d’Europa, nella pratica giudiziaria ordinaria, cioè quando erano chiamati a emettere una sentenza, i giudici non partivano da un codice ordinato di leggi emanate dal sovrano, ma tenevano conto del parere di questi scienziati del diritto, veri legislatori, assai più che interpreti e semplici studiosi di legge. Seguendo le indicazioni e il metodo adottato dai giuristi bolognesi, anche la Chiesa si sforzò nel Basso Medioevo di elaborare e strutturare un proprio sistema normativo, che ricevette il nome di diritto canonico. Alla fine dell’XI secolo, Ivo vescovo di Chartres compì una prima vasta collezione di decreti emanati dalla Chiesa nel primo millennio della sua storia. Nello stesso tempo, si sforzò di conciliare le principali discordanze tra i testi (o canoni) che riportavano le decisioni più importanti prese dai papi o dai concili, sia a livello locale, sia per tutta la cristianità. Questa pionieristica opera di Ivo trovò il pieno sostegno del papato, nel momento in cui la Chiesa si accorse che l’impero stava traendo grandi benefici, in termini di efficienza e di prestigio, dal fatto di presentarsi come l’erede del grande diritto romano. In questo clima, intorno al 1140, iniziò a operare Graziano, che costruì una grandiosa raccolta intitolata Concordia discordantium canonum (Armonizzazione delle regole canoniche discordanti); della sua vita si conosce pochissimo: forse era un monaco originario dell’Italia centrale; per certo, però, sappiamo che operò per diversi anni a Bologna, dove recepì il metodo di Irnerio e dei suoi discepoli. La Chiesa non aveva un codice tradizionale, antico e ben strutturato, paragonabile al Corpus giustinianeo; il lavoro di raccolta di Graziano (che ben presto fu chiamato Decretum) si sforzò di fornirglielo, in modo da offrire agli interpreti ecclesiastici un patrimonio di riferimento, da cui attingere principi e criteri per legiferare nella nuova realtà del loro tempo. Il dato più sorprendente è che la raccolta di Graziano non era stata ordinata dall’autorità, ma la Chiesa, riconoscendone l’importanza, l’assunse come testo giuridico. Nei secoli seguenti l’attività normativa si espresse attraverso le decretali, lettere emanate dal sommo pontefice, che grazie a esse rendeva nota le proprie decisioni o le proprie sentenze. Ben più rapidamente dello Stato, infatti, la Chiesa romana concentrò nel papa tutta l’attività legislativa, trasformandolo di fatto nell’unica e autorevole fonte del diritto. Nel 1234, papa Gregorio IX ordinò che le principali decretali fossero ordinate e catalogate; ne emerse una vasta opera giuridica, organizzata in cinque libri, proprio come il Codice giustinianeo. Periodicamente, nei secoli seguenti, i papi ordinarono di effettuare raccolte e collezioni simili (nel 1298, ad esempio, Bonifacio VIII promulgò il cosiddetto Libro sesto delle decretali). Su queste solide basi, nel 1917, sarebbe stato infine elaborato il moderno Codice di diritto canonico. Miniatura raffigurante una lezione di diritto all’università di Bologna, XV secolo (Bologna, Museo Civico Archeologico). F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 La mentalità giuridica medievale era molto diversa dalla nostra. Nella realtà moderna, infatti, la legge viene pensata, elaborata ed emanata da uno o più soggetti dotati di potere legislativo. Nel Medioevo, invece, la legge viene scoperta nell’ordine delle cose creato da Dio; la legge quindi, a rigore, esiste prima che il re o un altro soggetto la promulghi. Il sovrano non elabora la legge, si limita a proclamarla, a renderla pubblica. Nessuno – né l’imperatore né altro sovrano né una qualche assemblea di corpi [di gruppi sociali, n.d.r.] o un qualche parlamento – elabora nuove leggi. Poiché Dio era considerato la fonte del diritto ne derivava che il diritto non può essere ingiusto o cattivo; esso è buono, è per sua essenza il bene. Diritto e giustizia sono sinonimi. Male può essere solo l’offesa al diritto, la sua violazione o la sua omissione. Come il male nel mondo era considerato mancanza di bene, così anche l’ingiustizia era originata dalla mancata applicazione del diritto. Il diritto è giusto, poiché è saggio e corrisponde alla natura dell’uomo. Tommaso d’Aquino definiva il diritto come una «disposizione della ragione per il bene comune, proclamata da chi si preoccupa della comunità». Essenziale era perciò il rispetto di tutti i suoi attributi: il diritto deve essere razionale, servire al bene di tutti e far riferimento alla competenza del potere che lo proclama nel modo dovuto. Elemento altrettanto imprescindibile del diritto era considerato la sua antichità. Il diritto non può essere qualcosa di nuovo; esso esiste da sempre così come esiste l’eterna giustizia. Ciò non significa che il diritto sia interamente codificato nei codici e non abbia bisogno dell’opera ulteriore degli uomini. Nella sua pienezza, come idea, il diritto è scolpito nella coscienza morale, e da esso attingono queste o quelle norme giuridiche, anche se per qualche ragione ancora ignote agli uomini. Il diritto non si rielabora, lo si cerca e lo si trova. Ma l’antichità del diritto non consiste tanto nel momento della sua origine, quanto è indice della sua irrefutabilità [indiscutibilità, n.d.r.], della sua bontà. Diritto antico significava diritto buono, giusto. I grandi legislatori del Medioevo non erano creatori di leggi, essi non facevano che ritrovarvi il vecchio diritto, lo ripristinavano nello splendore della sua giustizia; perciò il diritto precedentemente vigente non veniva abrogato ma integrato, e potevano perdere vigore solo le alterazioni del diritto causate dagli uomini. […] Il diritto del paese si poteva integrare e migliorare, in altre parole si potevano trovare quelle norme che in precedenza non erano incluse nelle leggi, ma si conservavano nella coscienza morale del popolo come fonte ideale della giustizia. Altra fonte del diritto, accanto alla sua origine divina, veniva dunque considerata la coscienza giuridica del popolo. Il diritto si conserva innanzi tutto nella memoria degli uomini più saggi e competenti; gli esperti del diritto (lagmenn, coloro che esprimono il diritto nei paesi scandinavi, i rachingurgi in Francia, i whitan e i liberi et legales homines in Inghilterra) non creavano nuove norme giuridiche. Essi conoscevano i «tempi antichi», l’antica consuetudine. Così, per lo meno, intendevano la loro missione creatrice del diritto. Tutti erano soggetti al costume e alla legge, e in primo luogo il sovrano. La sua funzione più importante consiste nella tutela e nella salvaguardia del diritto. L’idea che chi governa debba preoccuparsi della tutela del diritto vigente, essere clemente e giusto, caratterizza numerosi specula reali [“specchi”, ossia trattati per insegnare al sovrano l’arte del governo: dinnanzi alla figura di un sovrano ideale il giovane principe di “specchiava”, assumendola come modello, n.d.r.] medievali, che contengono istruzioni ai monarchi e fanno leva sulle loro qualità individuali. Ciò è del resto naturale in un’epoca in cui il potere reale s’identificava con la personalità del sovrano. Salendo al trono, il re presta giuramento alla legge. Il Medioevo non conosce alcun diritto pubblico particolare. Chi governa deve rispettare il costume e governare in conformità. Se viola la legge, i sudditi non debbono assoggettarsi all’ingiustizia. «L’uomo deve opporsi al proprio re e al suo giudice non appena costui compia il male, e deve ostacolarlo con tutti i mezzi, anche se è suo familiare o signore. Con ciò egli non trasgredisce il suo giuramento di fedeltà»: così suona il SachF.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 Il vescovo e il re, miniatura tratta da un codice del XIII secolo. Nel Medioevo si era diffusa l’idea che il sovrano non elabora la legge, ma si limita a proclamarla. UNITÀ 2 Il re, la legge e la consuetudine 9 L’esperienza giuridica medievale 1 APPROFONDIMENTO C Riferimenti storiografici APPROFONDIMENTO C Spiega la seguente affermazione: «Il diritto non si rielabora, lo si cerca e lo si trova». Prova a illustrare le principali differenze tra la concezione medievale del diritto e quella moderna. Che cosa era la concezione teocratica? senspiegel [redatto tra il 1220 e il 1230 circa, lo Specchio sassone è la più importante raccolta normativa del Medioevo tedesco, n.d.r.]. Isidoro di Siviglia riecheggia le parole di Orazio per sostenere che il re è colui che agisce secondo giustizia, altrimenti egli non è re. La trasgressione fraudolenta del diritto da parte del sovrano lo priva delle basi legittime del potere e scioglie i sudditi dal giuramento che gli hanno prestato. Anche i sudditi hanno l’obbligo di difendere il diritto, anche contro il sovrano che lo trasgredisce. L’obbligo di salvaguardare il diritto scaturisce non da un contratto, ma dall’idea della forza universale del diritto al quale tutti sono soggetti. Di conseguenza, il diritto lega tutti, esso è propriamente il legame universale degli uomini. Tale principio contraddice radicalmente la concezione teocratica secondo cui il re è al di sopra della legge ed è soggetto solo a Dio. […] Il nuovo ispirava sfiducia, l’innovazione veniva recepita come sacrilegio e immoralità. «Non rimuovere le pietre che ha posto tuo padre… – insegnava il monaco del V secolo Vincenzo Lerinense – poiché se si debbono sfuggire le innovazioni, bisogna conservare l’antico; se il nuovo è impuro, il vecchio precetto è sacro». La staticità è il tratto fondamentale della coscienza medievale. L’idea dello sviluppo le è estranea. Il mondo non muta né è soggetto a sviluppo. Fin dall’origine perfetta creazione di Dio, esso esiste in condizioni immutate. Rappresenta una gerarchia stratificata, non un processo dinamico. Di conseguenza anche il diritto – componente dell’ordine del mondo – è immaginato immobile. Non conosce il tempo della nascita, ma solo quello della fissazione; non conosce neppure il tempo dell’abrogazione. È fuori del tempo. A. Ja. Gurevic, Le categorie della cultura medievale, Einaudi, Torino 1983, pp. 174-179, trad. it. C. Castelli 2 UNITÀ 2 Il ruolo della scienza giuridica nel Basso Medioevo Nel Basso Medioevo (secoli XI-XII), in Italia, in Francia e in altre regioni d’Europa, la situazione sociale si fece più articolata e complessa. Lo Stato, però, continuò a essere soltanto una delle fonti del diritto, che invece in larga misura veniva elaborato da intellettuali, giuristi e altri esperti, interpretando e adattando alle nuove realtà sia il diritto romano che altre legislazioni trasmesse dalla tradizione. L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 10 Nei secoli XI-XII, la struttura semplice della vecchia società protomedievale [altomedievale, n.d.r.] si fa complessa: al movimento immobile delle campagne si è aggiunto quello concitato, sempre più concitato, delle città e dei traffici fra città; alla statica dei rapporti agrari si Il giurista italiano Cino da Pistoia (1270-1336) tiene un corso di diritto, miniatura tratta da un codice del XIV secolo. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 UNITÀ 2 APPROFONDIMENTO C aggiunge la dinamica dei commerci; compaiono soggetti professionali nuovi, mentre la prassi mercantile e quella marittima coniano strumenti economici nuovi. È, insomma, una civiltà che trova inadeguate le grezze regole consuetudinarie rispettate ed efficienti fino a ieri, o che, almeno, ne chiede di nuove che si affianchino alle vecchie. Sono troppi i vuoti da colmare, i casi non previsti che attendono idonee qualificazioni giuridiche. È una società in attesa quella che vive ed opera alacremente fra l’XI e il XII secolo; in attesa di essere giuridicamente ordinata. È chiaro che lo strumento consuetudinario non basta più; il particolarismo degli usi, prezioso ed efficace in un paesaggio giuridico statico, diventa ora limitante, soffocante. Nella nuova società complessa la consuetudine può mantenere un insostituibile ruolo di stimolo, e lo dimostrano i novissimi diritti del commercio e della navigazione che si originano nella prassi delle varie piazze mercantili e portuali. Una società complessa ha però bisogno di generali schemi ordinanti, ha bisogno di un’intelaiatura generale che sorregga e contenga lo straripare dei fatti economici. In una società complessa una fonte efficace è la legge concepita come volontà generale, astratta, rigida. È la scelta della complessa società moderna, il cui diritto è quasi esclusivamente legislativo; ed è una scelta facile, perché è la più congeniale all’ingombrante soggetto politico Stato che domina questa società, che pretende di monopolizzare la produzione del giuridico e che trova nel monismo legislativo [lo Stato ha il monopolio assoluto del diritto, è l’unico soggetto abilitato a legiferare, n.d.r.] la soluzione a tutti i propri problemi di organizzazione giuridica. Ma nel bel mezzo del Medioevo? Quando lo Stato è un futuribile [una struttura che si sarebbe rafforzata solo nel tempo futuro, ma che nel Medioevo era ancora decisamente de- L’esperienza giuridica medievale 11 Copertina miniata di un manoscritto di diritto ecclesiastico, fine del XIV secolo. F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012 APPROFONDIMENTO C UNITÀ 2 L’AUTUNNO DEL MEDIOEVO 12 Spiega l’affermazione: «Il particolarismo degli usi, prezioso ed efficace in un paesaggio giuridico statico, diventa ora limitante, soffocante». Qual è la principale differenza, da un punto di vista giuridico, fra il mondo moderno e quello medievale? bole e incapace di assumersi compiti organizzativi impegnativi, n.d.r.] e il principe, assimilando inconsciamente una psicologia collettiva, è parchissimo nel produrre diritto? È ovvio che è impensabile un rimedio di regole sovrane autoritarie, astratte, generali, rigide. Sono impensabili leggi nel senso moderno del termine […]. Non restava che la scienza: l’unica che potesse elaborare quella architettura generale di schemi ordinanti, quel sistema richiesto dalla nuova società complessa. E la scienza fu chiamata dalla coscienza collettiva a rimboccarsi le maniche e ad avviare l’immane lavoro. E la scienza rispose e corrispose. […] In una civiltà come quella medievale, il diritto non è mai creato, ma può invece essere cercato, letto, detto, interpretato, trovato, adattato da una intelligenza capace di leggere, interpretare, adattare; si intuisce che lo spazio per la scienza è enorme, ed enorme è il suo ruolo. […] Se il principe rinunciò a farsi interprete, o lo fece raramente, frammentariamente, la scienza colmò il vuoto e fu, per eccellenza, la interpretatio [l’interpretazione della norma, n.d.r.] non si trattò di una espropriazione di poteri, si trattò piuttosto di una doverosa supplenza. Fu una supplenza costosa, gravida di problemi, fonte di ambiguità e anche di antinomie [contraddizioni insolubili, n.d.r.]. Sin da ora si impone però una constatazione: accanto al principato di chi deteneva il potere politico, la scienza giuridica acquistò per tutto il secondo Medioevo un suo principatus [una sua sovranità, paragonabile a quella di un principe, n.d.r.]; certamente senza territorio e senza milizie, universale, per orbem terrarum [valida in tutta le terre abitate da uomini, n.d.r.], fatto di prestigio e di potere, di presenza attiva nella società e di coscienza del proprio ruolo propulsivo. […] Nel mondo moderno il problema della produzione del diritto è stato risolto in maniera semplice e coerente: il diritto è ricompreso fra gli oggetti rilevanti per lo Stato; è questi ad accollarsene la produzione monopolizzando il sistema delle fonti, cioè gerarchizzandole e riducendole sostanzialmente ad una, la legge, intesa come espressione della volontà suprema dello Stato. L’itinerario della civiltà giuridica moderna dal Cinquecento in poi ci dà testimonianza di un crescente totalitarismo giuridico, che non solo non sarà smentito dalla imperante borghesia, ma anzi vieppiù [sempre più, n.d.r.] assolutizzato grazie allo strumento onnivalente del Codice [i Codici di uno Stato moderno si occupano di tutti i settori della vita, e quindi hanno validità in tutti i campi, n.d.r.]. Lo storico del diritto spoglio di prevenzioni ideologiche non può non rilevare un sacrificio enorme e costosissimo: la visione ancillare del diritto, ridotto a instrumentum regni [strumento di dominio, mezzo di cui i governanti di turno si servono per conservare e rafforzare il potere, n.d.r.]; il condizionamento del diritto al potere e agli interessi della classe che lo detiene. […] Tutt’altro discorso si deve fare per il diritto medievale, si deve fare soprattutto per il diritto chiamato a ordinare la società complessa del secondo Medioevo. […] La scienza è sostanzialmente sola nel compito immane – cui è chiamata – di dare una veste idonea alla nuova società. E qui si inserisce come istanza sentita il problema della validità, l’esigenza di trovare un momento di validità per il proprio discorso [l’autorevolezza che giustifichi l’obbedienza alla norma, n.d.r.]. Problema tutt’altro che semplice e di soluzione non facile, proprio perché la situazione è all’opposto di quella che si inventerà il mondo moderno: qui [nel Medioevo, n.d.r.] titolare del potere politico e soggetto produttore sono disgiunti, né l’uno può avere appoggio e sostegno dall’altro; qui il produttore del diritto è solo nel vuoto che il potere lascia intatto ancora per molto tempo. È da questo angolo di osservazione che va valutata la riscoperta del diritto romano giustinianeo. […] Si trattava di un complesso normativo ammantato di sacralità e venerabilità: sacralità, perché ne è promotore e promulgatore un principe cattolicissimo, Giustiniano I, il quale ha volutamente impregnato la compilazione del suo ruolo di difensore della fede e vi ha lasciato tracce vistose della adesione piena alla dommatica cristiana; venerabilità, perché si tratta di un complesso normativo risalente ad un’antichità avvertita come remota e favolosa e perciò ammantato di quella indiscutibile rispettabilità che il sedimentarsi dei secoli conferisce agli occhi dell’osservatore medievale. Il Corpus iuris si presentava, insomma, come auctoritas: era un deposito sapienziale e normativo corroborato non solo dal decorso del tempo (che nel Medioevo è sempre dotato di un’enorme forza incisiva), ma dalla accettazione collettiva; in quanto ricevuto da una lunga catena di generazioni è svincolato dal particolare, è voce di una grande communio, e perciò è garanzia sicura e fondazione solida. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Laterza, Roma-Bari 2003, pp. 152-157 F.M. Feltri, La torre e il pedone © SEI, 2012