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Amor che nella mente mi ragiona

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Amor che nella mente mi ragiona
Dal «ragionar d’amore» all’«Amor che nella mente mi
ragiona»: verso la ‘consolazione’ di Casella
EMILIO PASQUINI
Partiamo, come sempre, da una traduzione fedele del testo dantesco, nel
tentativo quasi disperato (già esperito più di vent’anni fa nel mio commento garzantiano alla Commedia) di non ripetere le parole di Dante:
1a strofa, vv. 1-18:
L’Amore, che nel mio intimo va disquisendo con fervore intorno alla
donna da me amata, mi rivela spesso tali aspetti di lei che per essi la mia
ragione si smarrisce. La sua parola risuona con tanta dolcezza che l’anima,
la quale lo sta aspettando e assaporando, esclama: «Povera me, che non
sono in grado di esprimere quanto sento dire sulla mia donna!». Senza
dubbio, se voglio affrontare ciò che di lei mi si dice, devo prima di tutto
tralasciare quello che il mio intelletto non arriva a comprendere, e perfino
una buona parte di quanto riesco a capire, perché non sarei in condizioni
di esprimere tutto questo a parole. Perciò, se i miei versi saranno inadeguati a sviluppare le lodi di questa donna, se ne attribuisca la responsabi17
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lità alla debolezza del mio intelletto e della mia parola, incapace di rendere
compiutamente quanto Amore mi suggerisce.
2a strofa, vv. 19-36:
Il sole, che ruota intorno a questa nostra terra, non vede alcuna cosa dotata di altrettanta nobiltà quanto nel momento in cui esso splende sul luogo
dove soggiorna la donna di cui Amore m’induce a parlare. Tutte le Intelligenze celesti la contemplano dall’alto e qui in terra tutti gli uomini in
grado di amare la ricercano nei loro pensieri, quando Amore diffonde il
suo messaggio di perfezione. L’essenza di lei piace in tale misura a Dio.
il quale ne è l’origine, che Egli le trasmette la propria virtù oltre i limiti
che competono alla natura umana. L’anima pura di questa donna, che da
Dio riceve tale grazia salvifica, rende manifesto nel proprio corpo un simile dono, poiché nelle sue bellezze si scorgono prodigi tali che gli occhi
delle persone dove si riflette lo splendore di quell’anima mandano al
cuore messaggi carichi di desiderio, i quali si traducono in sospiri.
3a strofa, vv. 37-54:
In questa donna la virtù divina discende non diversamente che negli
angeli, i quali hanno la visione diretta di Dio; e tutte le nobili donne le
quali dubitano di questo fatto si accompagnino a lei e contemplino i suoi
atteggiamenti. Dove risuonano le sue parole, discende dal cielo un messaggio attestante il fatto che il valore profondo da lei posseduto oltrepassa
la misura consentita alla natura umana. Tutti insieme, i soavi comportamenti messi in campo da lei gareggiano nel suscitare l’azione di Amore,
invocandolo con una voce così perentoria che lui non può non ascoltarla.
Di lei possiamo dire: quanto si trova di nobile nelle altre donne è tutto
già in lei, ed è bello solo tutto quanto assomiglia a lei. E si può aggiungere
che il suo aspetto aiuta a percepire quanto vi è di miracoloso in terra; di
conseguenza, ne trae giovamento la nostra fede, per il fatto che Dio nei
suoi eterni disegni la predispose a questo scopo.
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EMILIO PASQUINI
Verso la ‘consolazione’ di Casella
4a strofa, vv. 55-72:
Nel suo aspetto si percepiscono cose che prefigurano le bellezze del
paradiso: alludo agli occhi e al suo riso soave, nei quali, come a giusto approdo, queste cose vengono trasportate da Amore. Simili cose travalicano
i confini dell’intelletto umano, come il raggio solare una vista debole; e
poiché io non riesco a guardarle direttamente, mi devo accontentare di
parlarne in modo sommario. La sua bellezza proietta faville infuocate, le
quali sono dotate di un nobile fermento che produce solo pensieri onesti,
e frantumano con la forza del fulmine i vizi connaturati all’uomo, all’origine del suo abbrutimento. Perciò ogni donna che senta biasimare la propria bellezza, perché non accompagnata da dolce modestia, guardi a costei
come al prototipo dell’umiltà. Questa mia donna è la sola in grado di purificare ogni uomo vizioso; a lei pensò il primo Motore dell’universo.
Congedo (5a strofa), vv. 73-90:
Canzone mia, sembra che tu esprima concetti opposti a quelli di una
ballata, nata dalla penna del tuo stesso autore, poiché questa tua sorella
prospetta come feroce e orgogliosa la stessa donna che tu presenti con
connotati di tanta umiltà. Tu sai che il cielo è sempre limpido e luminoso
e che per sua natura non si offusca mai; ma i nostri occhi per svariati motivi designano le stelle in termini di oscurità. Allo stesso modo, quando la
ballata definisce superba la donna in questione, la misura secondo parametri non di verità, ma di apparenza. Infatti la mia anima era ed è ancora
piena di timore, cosicché mi sembra contrassegnato da orgoglio tutto ciò
che io vedo trasparire nel volto di lei. Dunque, se è necessario, scusati di
questa apparente contraddizione; e appena puoi, presentati al suo cospetto.
Le potrai dire: «Madonna, se vi fa piacere, io celebrerò dappertutto le vostre lodi».
Quasi scontato lo stretto rapporto – per l’unicità del referente amoroso –
con la canzone (prima del Convivio) Voi che ‘ntendendo, alla luce di quanto
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dichiara Dante stesso a Convivio III, I, 1-4: la donna è dunque la medesima,
ma ben diverse sono le connessioni di tipo intratestuale e diversa la struttura compositiva, dialogica nel primo caso, monologica nel secondo.1 Ciò
sia detto anche per quanto riguarda la rispettiva cronologia, dal momento
che Voi che ‘ntendendo ha come terminus ante quem il sonetto Parole mie
che per lo mondo siete e come approdo finale la citazione a Paradiso VIII,
37 per bocca di Carlo Martello, mentre Amor che nella mente si riferisce
alla ballata Voi che savete come già scritta e si ripercuote nel poema nella
commovente ripresa che della canzone viene sviluppando Casella nel canto
I del Purgatorio, riproponendone una esecuzione musicale.2
S’aggiunga che Voi che ‘ntendendo resta del tutto estranea all’ambito
della palinodia, mentre Amor che nella mente s’impianta proprio come
palinodia rispetto alla ballata Voi che savete, scritta anch’essa per la gentile, dove però la donna veniva definita «fera e disdegnosa». Qui si misura
l’entità dell’acrobazia compiuta dalla glossa di Convivio III, XV, 19, dove
si attua la conversione della donna gentile in madonna Filosofia, e la superba sdegnosità di lei viene decodificata come difficoltà della Filosofia
a farsi comprendere. Insomma, Dante non intendeva le sue ‘persuasioni’
e non poteva vedere le sue ‘dimostrazioni’.
Ciò che accomuna le due canzoni è, in ogni caso, l’identificazione della
donna che compare in entrambe con la gentile menzionata nell’ultima
parte della Vita nova. La testimonianza di Dante nel Convivio (II, II, 1) impedisce di dare credito alle sottili disquisizioni dei critici (da Carducci a
D’Ancona a Barbi)3 volte a considerare distinte l’esperienza della donna
gentile, persona reale nella Vita nova, da quella della donna gentile-Filosofia nel Convivio.4 In altre parole, sembra più legittimo negare l’allegoria
originaria – con Renucci, Pézard, Montanari, De Robertis –5 e considerare
le due prime canzoni del Convivio, con la relativa glossa in prosa, come
perigliosa trasformazione della gentile originaria, donna reale, nell’icona
astratta della Filosofia. Lo si dica e lo si ribadisca a dispetto di certi tratti,
nella nostra canzone, che già il Pietrobono, pur negatore di una allegoria
originaria, riconosceva come decisamente allegorici. Penso soprattutto al
v. 72 di Amor che nella mente, «costei pensò chi mosse l’universo», in
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quanto esatto calco di Prov. 8, 27-30, citato in Convivio III, XV, 16, e soprattutto di Sap. 9, 9: «et tecum sapientia tua, quae novit opera tua, quae
et adfuit tunc, cum orbem terrarum faceres» («con te era la tua sapienza,
che conosce le tue opere, ed era presente quando creavi il mondo»).6 Sempre sulla scorta di Pernicone, si potrebbe chiamare in causa l’intera ultima
stanza con funzione di congedo, dove l’apparente contrasto con l’immagine negativa della stessa donna prospettata dalla ballata si spiegherebbe
soltanto grazie a un’esegesi allegorica, col sintagma «fera e disdegnosa»
riferito all’approccio ostico, da parte dell’autore, alla Filosofia.7
Si diceva prima della natura monologica di Amor che nella mente; ma
ora è più urgente riflettere su un dato di clamorosa evidenza, che va ben
oltre le parziali analogie (ad esempio, quelle reiterate dichiarazioni di impotenza espressiva) coi proemi di Donne ch’avete e di Voi che ‘ntendendo,
accomunati invece dal loro rivolgersi a un pubblico (pubblico che invece
manca alla nostra canzone). Voglio dire che, proprio perché imperniata sul
tema della lode, Amor che nella mente non può non guardare a Donne
ch’avete, come al suo fatale archetipo e modello.8
Occorre anzi precisare che la nostra canzone entra in gara con quella
che apre la stagione della ‘loda’ e il rinnovamento profondo dello Stilnovo
entro il prosimetro giovanile. Si confrontino9 i vv. 41-42 di Donne
ch’avete:
Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato
che non po’ mal finir chi l’ha parlato..
con i vv. 51-54 di Amor che nella mente:
E puossi dir che ‘l suo aspetto giova
a consentir ciò che par meraviglia;
onde la nostra fede è aiutata:
però fu tal da etterno ordinata.
Ebbene, se non andiamo errati, la natura miracolosa di Beatrice
(espressa in Donne ch’avete, vv. 43-56) viene potenziata nella nostra can21
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zone attraverso il richiamo esplicito – ovviamente amplificato nella glossa
in prosa – a Proverbi 8, dove di se stessa la Sapienza dice: «Ab aeterno
ordinata sum / et ex antiquis, antequam terra fieret». Si comprende bene
come per chi, come Pernicone, non veda questa sorta di competizione,
l’ipotesi dell’allegoria originaria trovi «un solido fondamento negli elementi interni del testo della canzone»10 e un’ulteriore conferma nella stranezza che, per cantare a distanza di pochi anni dalla morte di Beatrice
l’amore insorto per una donna reale, Dante non sappia trovare di meglio
che «riprendere struttura esterna e motivi interni della canzone della lode
per Beatrice», appunto Donne ch’avete. Una volta abbracciata la mia prospettiva, da questa serie di analogie deriva anche la possibilità di ipotizzare una convergenza fra l’icona-Beatrice e l’icona-donna gentile, in certo
qual modo fuse in una sorta di Ewigweibliche che meglio poteva consentire il passaggio all’icona metafisica della Filosofia. Simile congettura
potrebbe trovare conferma nella ripresa purgatoriale di Casella, se è vero
che da Dante il canto dell’amico musicista viene sollecitato in funzione
consolatoria. Così Amor che nella mente verrebbe riciclata, grazie alla
mediazione del Convivio, come una rinnovata consolatio Philosophiae.
Alle conclusioni, equilibrate ma compromissorie, del Pernicone
(donna gentile reale consolatrice, Filosofia immaginata «come donna pietosa e consolatrice», Amor, da che convien frutto della convergenza fra la
laus beatriciana e i sonetti per la gentile) si può forse aggiungere qualcosa.
Intanto è lecito affermare che l’approdo finale a Casella è quasi uno sviluppo (o compimento di ‘umbriferi prefazi’) del tema della dolcezza della
parola di Amore ai vv. 5 ss. di Amor che nella mente;11 che la tematica dell’ineffabilità sviluppata ai vv. 9 ss. si configura come un anello intermedio
– a partire da Donne ch’avete – di un graduale sviluppo verso certi passi
supremi del Paradiso (da I 7-9 a XXXIII 55-57).12 Una klimax che appare
meno evidente, ma in ogni caso da non sottovalutare, negli altri luoghi
dove si percepiscono analogie fra Amor che nella mente e Donne
ch’avete, ove si prescinda dalla scontata superfetazione allegorica.
In questa prospettiva, si confrontino i vv. 23 ss. di Amor che nella
mente:
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EMILIO PASQUINI
Verso la ‘consolazione’ di Casella
Ogni Intelletto di là su la mira,
e quella gente che qui s’innamora
ne’ lor pensieri la truovano ancora
quando Amor fa sentir de la sua pace.
Suo esser tanto a Quei che lel dà piace,
che infonde sempre in lei la sua vertute,
oltre ‘l dimando di nostra natura
con Donne ch’avete, vv. 15-21:
e vv. 37-40:
Angelo clama in divino intelletto
e dice: «Sire, nel mondo si vede
maraviglia ne l’atto che procede
d’un anima che ‘nfin qua su risplende».
Lo cielo, che non have altro difetto
che d’aver lei, al suo segnor la chiede,
e ciascun santo ne grida merzede…
E quando trova alcun che degno sia
di veder lei, quei prova sua vertute,
ché li avvien, ciò che li dona, in salute
e sì l’umilia, ch’ogni offesa oblia.
Ancor l’ha Dio per maggior grazia dato
che non po’ mal finir chi l’ha parlato.
Si rifletta al valore pregnante di ‘salute’ (qui al v. 31) rispetto ai precedenti di Donne ch’avete, 43 ss.;13 e si colga la punta estrema dell’angelicazione, qui ai vv. 37 ss.14 rispetto alla Vita nova e a Donne ch’avete vv.
31-32:
Dico, qual vuol gentil donna parere
vada con lei…
S’aggiungano i riscontri quasi letterali fra Amor che nella mente 43-44:
come l’alto valor ch’ella possiede
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è oltre quel che si conviene a nui
E Donne ch’avete, vv. 5-6:
Io dico che pensando il suo valore,
Amor sì dolce mi si fa sentire
Ma anche fra Amor che nella mente, v. 44:
è oltre quel che si conviene a nui
e Tanto gentile, vv. 7-8:
e par che sia una cosa venuta
di cielo in terra a miracol mostrare…
Ovvero fra Amor che nella mente, v. 50;
e bello è tanto quanto lei simiglia
e Donne ch’avete, v. 50:
per essemplo di lei bieltà si prova.
Ma è soprattutto lo snodo dei vv. 55 ss. della nostra canzone a denunciarne l’origine non allegorica, con quel puntare sul «riso» della donna,
difficilmente trasferibile a madonna Filosofia. Lo si dica con totale convinzione, specie alla luce di un tratto del commento in prosa che dice
qualcosa di più dei versi (come spesso accade nei prosimetri danteschi),15
dove si parla del manifestarsi dell’anima attraverso i suoi due balconi, a
cui essa si affaccia, che sono gli occhi e la bocca, e si giunge per gradi
(anche attraverso lo splendore dei mosaici)16 a quella straordinaria indimenticabile definizione del riso umano (III, VIII, 6-11):
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Dimostrasi ne la bocca, quasi come colore sotto vetro. E che è ridere se non una corruscazione de la dilettazione de l’anima, cioè
uno lume apparente di fuori secondo sta dentro?
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Dunque «un lampo che corrisponde alla gioia dello spirito, una luce
che splende all’esterno a riproduzione di una luce interna». In altre parole,
una definizione che può anche leggersi quale presagio o umbrifero prefazio del modo in cui si rivela alla lettura del Lancillotto la passione fra
Paolo e Francesca, «Quando leggemmo il disïato riso / esser baciato da
cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi baciò
tutto tremante…».
Di antica matrice, invece, l’immagine del raggio solare che l’occhio
umano non può tollerare,17 ma con propaggini che giungono fino al XXX
del Paradiso (vv. 25-27); mentre sembra annunciare la montanina con la
relativa epistola a Moroello18 quel ‘fulmine’ (v. 66: trono) che spezza ogni
tendenza al male, anche se spinge le sue radici fino a Donne ch’avete, vv.
29-42:
Madonna è disïata in sommo cielo:
or voi’ di sua virtù farvi savere…
Proprio la canzone-ipotesto di Amor che nella mente, alla quale rinviano, come a fatale modello i vv. 68 ss. della nostra:
Però qual donna sente sua bieltate
biasmar per non parer queta e umile,
miri costei…
i quali inequivocabilmente richiamano Donne ch’avete, vv. 31-32:
qual vuol gentil donna parere
vada con lei…
Di fatto, tutto spinge verso un’origine letterale e non allegorica della
nostra canzone, anche se qui si pongono le basi per il recupero memoriale
di Casella. Si pensi ai vv. 77 ss. del congedo:
tu sai che ‘l ciel sempr’è lucente e chiaro
e quanto in sé, non si turba già mai;
ma li nostri occhi per ragioni assai
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chiaman la stella talor tenebrosa…
dove è difficile resistere alla tentazione autobiografica sollecitata dalla
prosa di commento (III, IX, 15), con quella commovente rievocazione di
quando il giovane Dante fece esperienza dei disturbi della vista
l’anno medesimo che nacque questa canzone, che per affaticare la
vista molto, a studio di leggere, in tanto debilitai li spiriti visivi
che le stelle mi pareano tutte d’alcuno albore ombrate.
Ebbene, sarebbe arduo fondare su questo passo una datazione alta di
Amor che nella mente; ma certo si capta qui una genesi della canzone indipendente dal progetto del Convivio e piuttosto legata a un tempo della
giovinezza in cui le esperienze poetiche di Dante potevano coniugarsi con
le esperienze musicali di Casella. Si rifletta19 alla valenza tecnica dei termini con cui Dante rivolge la sua preghiera all’amico musicista, quando
appunto gli chiede se egli abbia ancora «memoria» e «uso» della sua arte.
Rileggiamo i versi memorabili (Purgatorio II, 106 ss.):
E io: «Se nuova legge non ti toglie
memoria o uso a l’amoroso canto
che mi solea quetar tutte mie doglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l’anima mia, che, con la sua persona
venendo qui, è affannata tanto!».
‘Amor che ne la mente mi ragiona’
cominciò elli allor sì dolcemente
che la dolcezza ancor dentro mi suona.
Tutti ricordano come la fascinazione di quella musica renda Dante Virgilio e tutte le anime appena giunte sulla spiaggia del Purgatorio dimentiche del luogo e dello scopo della loro presenza in quel regno, dei loro
doveri insomma. Qui importa piuttosto riflettere sui valori esatti delle parole adoperate dall’autore della Commedia, se è vero che la «memoria»
«si riferisce alla capacità di ritenzione mnemonica che permette la disponibilità di un motivo musicale» e l’uso non è altro che la «acquisita con26
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suetudine di operare il passaggio dal ricordo di un motivo musicale alla
sua realizzazione sonora».20 Ma lasciamo ora la parola al referto del collega musicologo:
In ordine inverso, uso e memoria costituiscono i momenti essenziali dell’esperienza musicale anche da parte dell’ascoltatore.
Dante, che già aveva ascoltato le esecuzioni di Casella vivo, ne
conserva il ricordo («che mi solea quetar tutte mie voglie»); ascolta
ora l’esecuzione di Casella all’ingresso del Purgatorio […] e ne
conserverà successivamente il ricordo («che la dolcezza ancor dentro mi suona»).
Straordinario, aggiungiamo, il gioco incrociato fra la voce dell’autore
e quella del personaggio, mentre la voce di Casella sembra concentrarsi
solo in quell’incipit. Di quella semplice melodia, affidata alla memoria
dell’esecutore e dell’ascoltatore, che gioisce del privilegio consentito ad
entrambi nell’oltremondo, nulla è rimasto, per l’assenza di una scrittura
istituzionale soppiantata da un’endemica oralità.21 Ci resta invece il mirabile ‘libretto’ di quella melodia, appunto la nostra canzone, delegata
così a rappresentare il fascino dell’arte musicale nell’oltretomba dantesco.
Con un’aggiunta che ancor meglio incardina questa stupefacente ripresa
al nostro discorso su Amor che nella mente: è proprio la dolcezza della
cantio e della melodia che l’accompagnava a diventare elemento essenziale della serenità che emanava dalla ‘loda’ della donna amata, appunto
Beatrice, e dello sviluppo che il tema di quell’amore consegue, dopo la
morte della gentilissima, attraverso l’esperienza della Gentile (Vita nova
XXX, 2):
Allora vidi una gentile donna giovane e bella molto, la quale da
una finestra mi riguardava sì pietosamente, quanto a la vista, che
tutta la pietà parea in lei accolta…
Una esperienza che porta alla trasformazione della donna in entità
astratta attraverso il ricordo della consolazione venuta a lui disperato dalla
lettura del De consolatione di Boezio e del De amicitia di Cicerone, entrambi vissuti sotto la costellazione della Filosofia:
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E imaginava lei fatta come una donna gentile, e non la poteva imaginare in atto alcuno, se non misericordioso […]. E da questo imaginare cominciai ad andare là dov’ella si dimostrava … ogni altro
pensiero.
Ed ecco, da questa fusione di consolazione e dolcezza in qualche modo
spiegato il mistero della nostra canzone, della sua connessione cioè con
l’archetipo della ‘loda’, appunto Donne ch’avete intelletto d’amore, e del
suo incentrarsi sull’icona del riso, luce interiore che si traduce in splendore esterno.
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NOTE
1. Cfr. il mio contributo Pasquini 2011: 23.
2. Cfr. Gallo 1986: 245.
3. Per Barbi, ciò si dica fin dall’inizio del suo commento alla canzone entro
le Opere di Dante (Alighieri 1969), sulla scorta del commento letterale in prosa
a III, II, 19; si tace ovviamente della scontata interpretazione allegorica nel capitolo XI, con la totale identificazione fra donna gentile e Filosofia.
4. Cfr. Pernicone 1970: 218.
5. Di quest’ultimo si veda l’edizione commentata delle Rime dantesche (Alighieri 2005: 35-51). Ne seguiamo ovviamente il testo, che è quello dell’edizione
nazionale, curata dallo stesso filologo (Firenze, Le Lettere, 2002), migliorativo
rispetto alle precedenti edizioni, ivi compresa la nazionale del Convivio, a cura
di Franca Ageno (Alighieri 1995).
6. Cfr. Pernicone 1970:218.
7. E qui Pernicone non manca di sottolineare il parallelismo con l’opposizione
fra il sonetto O dolci rime (di concerto con la canzone Le dolci rime) e il sonetto
Parole mie.
8. Varie conferme in questo senso sono venute a Castelvecchio di Rocca Barbena dalle relazioni di Rosario Scrimieri, Juan Varela-Portas e Raffaele Pinto.
9. Sempre sulla scorta di Pernicone 1970.
10. Pernicone 1970: 219.
11. Cfr. già Barbi, commento cit. (alla nota 3): Alighieri 1969: 397.
12. Barbi in Alighieri 1969: 398. Ma su questo punto illuminano le relazioni
dei colleghi spagnoli, specie Scrimieri e López Cortezo.
13. Ma anche rispetto a Tanto gentile, vv. 7-8.
14. Anche alla luce della glossa letterale in prosa a III, VII, 6.
15. Si pensi soprattutto al nesso fra la canzone Amor, da che convien pur ch’io
mi doglia e l’Epistola IV, su cui cfr. Pasquini 2007.
16. Cfr. Laura Pasquini 2008: 15-40.
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17. Cfr. Vita nova XLI, 6; ma anche Pasquini 2009.
18. Dove assumerà tutt’altra funzione: cfr. Pasquini 2007: 18 ss.
19. Con Gallo 1986: 246 ss.
20. Gallo 1986: 245.
21. Gallo 1986: 246, dove si citano anche le Etymologiae di Isidoro di Siviglia
(III, 15): «Nisi enim ab homine memoria teneantur soni, pereunt, quia scribi non
possunt».
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