Colpa professionale medica, concorso di colpa e cooperazione.
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Colpa professionale medica, concorso di colpa e cooperazione.
LA RESPONSABILITÀ PROFESSIONALE DEL MEDICO VARESE, 27 NOVEMBRE 2010 AULA MAGNA – VIA RAVASI – VARESE Colpa professionale medica, concorso di colpa e cooperazione. Uno Stato moderno ha, fra gli altri, il compito di predisporre strumenti che valgano ad orientare le scelte dei singoli attraverso la predisposizione di regole volte ad evitare eventi, pur non voluti dal soggetto agente, che siano dannosi per gli altri consociati o comunque lesivi di beni primari. Nel campo penale, secondo quanto prevede l’articolo 43 del codice,queste regole possono avere fonte giuridica ,quali leggi e regolamenti ordini o discipline (in questo caso, nell’ipotesi di loro inosservanza si parla di colpa specifica) oppure essere frutto della comune esperienza (in questo caso si parla di colpa generica) consacrata nelle definizioni di negligenza, imprudenza ed imperizia. La colpa, nella sua duplice accezione sopra delineata, e’ concetto essenzialmente dinamico, in quanto maggiori sono i rischi che l’attività umana comporta, più aumenta la richiesta di ridurre le conseguenze lesive, rifiutandosi la collettività di accettare il costo economico di attività lecite ma svolte in modo incongruo. Certamente l’attività medico chirurgica, con le sue continue innovazioni ,rappresenta uno dei settori in cui tali profili s i manifestano in modo evidente,e l’effetto che ne consegue è quello di un aumento esponenziale del contenzioso. Tale attività, per la sua delicatezza, pone al legislatore, ed anche all’interprete ,complesse problematiche ponendosi in contrapposizione due fondamentali interessi ugualmente meritevoli di tutela: per un verso quello di garantire un’adeguata protezione a beni giuridici, quali la vita e l’incolumità fisica, e in termini più ampi di salvaguardare il diritto alla salute riconosciuto dall’articolo 32 della Costituzione, con conseguente esigenza di predisporre regole più rigorose volte ad un maggior controllo sociale dell’attività medesima; per altro verso l’interesse a tutelare coloro che esercitano un’attività così delicata e complessa e di primaria importanza quale quella medica, in maniera tale da non mortificare l’iniziativa del professionista stesso. I casi di responsabilità penale del medico oggetto di esame giurisprudenziale sono, perlopiù, fortunatamente, casi di responsabilità per colpa. Tale responsabilità può derivare da un’azione (condotta commissiva) o da una omissione (condotta omissiva). Tale parificazione è contenuta nell’articolo 40 del codice penale, secondo il quale non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo. Il reato omissivo colposo in campo medico e’ detto improprio in quanto, a differenza del reato omissivo proprio in cui l’agente risponde penalmente per non aver tenuto una determinata condotta (l’esempio tipico è quello della omissione di soccorso), nel reato omissivo improprio affinché l’agente sia riconosciuto responsabile occorre che la sua inazione abbia provocato la lesione del bene salute del cittadino. La differenza in pratica tra le due fattispecie è meno semplice di quanto appaia di primo acchito. Non di rado infatti casi che vengono qualificati in termini di causalità omissiva, per non avere il medico impedito l’evento, non riguardano ipotes i totali di omissioni ma condotte di tipo commissivo, in quanto connotate da gravi errori di diagnos i e terapia che sono produttivi di per sé dell’evento lesivo, altre volte si tratta di condotte che sono in parte attive e in parte omissive per la mancata attivazione di condizioni negative o impeditive, ipotesi queste per le quali nella ricostruzione del fatto les ivo e nell’indagine controfattuale sulla evitabilità dell’evento la giurisprudenza spesso confonde la componente omissiva della inosservanza delle regole cautelari-che attiene ai profili di colpa del medico-rispetto all’ambito prioritario della spiegazione e della imputazione causale (l’analisi e’ della nota pronuncia Franzese delle sezioni unite penali del 10 luglio 2002). Saranno in particolare ipotesi di responsabilità commissiva quelle in cui il medico abbia introdotto nel quadro clinico del paziente un fattore di rischio poi effettivamente concretizzatosi, mentre sarà omissiva la condotta del sanitario che non abbia contrastato un rischio già presente nel quadro clinico del paziente. La differenza, poi ,non è solo teorica, rilevando la corretta definizione della condotta, sia ai fini della formulazione del quesito peritale, s ia ai fini della modalità della contestazione dell’imputazione. Solo in caso di reato omissivo poi occorre accertare in capo all’imputato l’esistenza di una posizione di garanzia. E infatti, qualora il soggetto non abbia agito, occorre verificare se vi era in capo al medesimo un obbligo giuridico di attivazione, non potendo altrimenti imputarglisi l’evento les ivo. Occorre quindi che il soggetto sia dalla legge costituito garante dell’impedimento di quel determinato evento dannoso (vedi al riguardo Cassazione 40.618. 04 secondo la quale l’obbligo deve rintracciarsi in una norma di legge o in un contratto sicché in mancanza di una fonte legale o contrattuale non sussiste alcuna posizione di garanzia ai sensi dell’articolo 40 comma secondo). Non è tuttavia necessario che sussista un rapporto giuridico tra medico e struttura sanitaria, essendo sufficiente l’effettivo esercizio dell’attività svolta, l’esistenza di un rapporto sul piano terapeutico tra paziente e medico che comporti l’assunzione degli obblighi connessi a quella posizione scaturenti dalle funzioni di fatto esercitate (Cassazione 12.781. 00 e 46.586. 04) Nel reato commissivo poi, sarà certamente più facile l’accertamento dell’esistenza del nesso di causalità tra condotta ed evento dovendo accertarsi se, eliminata l’azione ,l’evento si sarebbe o meno verificato. Nel caso di reati omissivi, come innanzi accennato, occorre verificare se la condotta omissiva è condizione necessaria dell’evento, ma in questo caso occorre porre in essere il cosiddetto giudizio controfattuale, che costituisce a partire dalla suddetta sentenza Franzese, la stella polare alla quale sono affidate le sorti dei medic i coinvolti nel processo penale. In particolare il giudice, al fine di accertare se, considerata come avvenuta l’azione che invece fu omessa, l’evento lesivo non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato in epoca s ignificativamente posteriore o con minore intensità lesiva, non può basarsi esclusivamente sulle leggi di carattere statistico ma deve, sulla scorta delle risultanze del processo, giungere alla conclusione, processualmente certa, che la condotta omissiva del medico sia stata condizione necessaria dell’evento lesivo, con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica. Ciò ovviamente non vuol dire che le leggi universali e scientifiche non possono essere utilizzate dal giudice, ma significa che occorre un quid pluris, ben potendo, sulla scorta delle risultanze del caso di specie ritenersi processualmente certo un fatto avente bassa probabilità statistica(per l’accertamento in concreto della sicura non incidenza di altri fattori interagenti in via alternativa), o processualmente escluso il fatto avente rilevante probabilità statistica(.per l’accertata incidenza di una diversa ipotesi di verificazione ). Il giudice, deve dunque prima verificare la fondatezza scientifica della legge statistica e poi deve verificare l’applicabilità del coefficiente di probabilità rilevato, alla fattispecie concreta. Fatte queste necessarie premesse in ordine al nesso di causalità,e rivelatosi ancora soltanto che al fine di accertare l’esistenza di una causa sopravvenuta, da sola idonea ad escludere il rapporto di causalità perché sufficiente a determinare l’evento(articolo 41 comma secondo codice penale) occorre aver acquisito prova della esistenza di un fattore eccezionale che ha una probabilità minima, trascurabile di verificarsi (l’ipotesi di scuola e’ quella dell’agente che ha ferito la persona offesa la cui morte è stata determinata dall’incendio dell’ospedale nel quale il ferito era stato ricoverato) può procedersi più specificamente all’esame dell’oggetto della relazione. Tratterò in particolare le ipotesi nelle quali a più sanitari s ia imputato un evento lesivo della salute del paziente, e dunque del concorso di più condotte colpose indipendenti e dell’ipotesi di cooperazione colposa, limitandomi ad osservare che in campo penale, il concorso di colpa della persona offesa e’ giuridicamente irrilevante ai fini dell’accertamento della responsabilità penale, avendo, al più, rilievo ai fini della determinazione della pena quando influisce sul grado di colpa dell’imputato, a meno che costituisca causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento.(Cass 37992.08). Parallelamente del resto, nell’ambito civilistico, ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile, se il fatto colposo del creditore ha concorso a cagionare il danno, il risarcimento è diminuito secondo la gravità della colpa e, ai sensi del comma secondo il risarcimento viene escluso qualora con l’ordinaria diligenza, il creditore e cioè il paziente avrebbe potuto evitare il prodursi del danno L’articolo 110 del codice penale prevede che quando più persone concorrono nel medesimo reato ciascuno di essi soggiace alla pena per questo stabilito. V i e’ disputa in dottrina, come in giurisprudenza, sulla possibilità di ritenere sussistente il concorso colposo in reato doloso. Si tratta di fattispecie giunte all’esame della Suprema Corte, nelle quali erano coinvolti medici che per comportamenti colposi omissivi erano stati ritenuti responsabili di concorso in fatti di omicidio,doloso, compiuti da un loro paziente. Secondo la Suprema Corte (Cassazione 10.795. 07) occorre prendere le mosse, dalla affermazione della esistenza di più fatti reato anche nei casi in cui l’evento, nel caso di specie omicidio, sia unico. È vero che l’articolo 42 del codice penale comma due prevede la punibilità a titolo di colpa nei soli casi espressamente previsti dalla legge, fra i quali non vi è il concorso colposo nel delitto doloso, e che l’articolo 113 prevede appunto la compartecipazione solo nel caso di delitto colposo, ma ciò a parere della Cassazione non è decisivo in quanto il dolo e’ in fondo una colpa che ha in sé anche l’elemento di previsione e di volontà dell’evento. Sempre secondo la Suprema Corte nell’ipotesi di concorso di cause colpose indipendenti, certamente è possibile configurare una partecipazione colposa indipendente al reato doloso, perché quel che rileva nella specie e’ la valutazione del contributo causale delle azioni o delle omissioni , irrilevante essendo che uno o più dei contributi causali possano avere carattere doloso. Se così è ,sarebbe irragionevole ritenere l’impossibilità di configurare la partecipazione colposa al delitto doloso nel caso di cooperazione. E’ su questi presupposti che è stata affermata la responsabilità per omicidio colposo a carico di un medico psichiatra che, sospendendo in modo imprudente il trattamento farmacologico cui era sottoposto un paziente, ne aveva determinato lo scompenso psichico, causa della crisi nel corso della quale il paziente aveva aggredito ed ucciso uno degli operatori che lo accudivano. Nei reati colposi, peraltro, trova più correttamente applicazione l’articolo 113 secondo il quale nel delitto colposo, quando l’evento è stato cagionato dalla cooperazione di più persone, ciascuna di queste soggiace alle pene stabilite per il delitto stesso. Al riguardo, peraltro, occorre distinguere l’ipotesi del concorso di cause indipendenti da quello della cooperazione propriamente detta. Nel concorso di cause colpose indipendenti più soggetti contribuiscono a cagionare l’evento senza avere la consapevolezza di concorrere alla realizzazione della condotta altrui, mentre nella cooperazione colposa vi e’ un legame ps icologico tra le condotte dei cooperanti. Solo in quest’ultima ipotes i ciascuno ha la consapevolezza di partecipare all’azione o all’omissione di altri che sono, come la sua condotta, causa dell’evento. Al riguardo, tuttavia, la giurisprudenza del Supremo Collegio ha, in qualche modo, attenuato la rigidità dottrinale del requisito, affermando che possa esservi cooperazione senza necessità di un preventivo accordo, essendo sufficiente che vi sia coscienza dell’altrui partecipazione mentre non è richiesta la conoscenza delle persone che cooperano ne’ delle condotte specifiche da ciascuno poste in essere (Cassazione 26.020. 09). Sempre tale pronuncia ha chiarito che la cooperazione è ipotizzabile in tutte quelle ipotesi nelle quali un soggetto interviene essendo a conoscenza che la trattazione del caso non è riservata soltanto a lui perché altri soggetti ne sono investiti. Se dunque il medico di fiducia prescrive una terapia sbagliata e non è a conoscenza dell’intervento di altro medico che, anche egli, prescrive una terapia errata, le eventuali conseguenze dannose saranno addebitabili a titolo di condotte colpose indipendenti ma non di cooperazione colposa. Se invece il medico di un reparto prescrive un errato trattamento, e il medico che gli succede nel turno anche egli erra nella terapia, si è comunque in presenza di una cooperazione colposa perché ciascuno dei due medic i non può non sapere dell’intervento dell’altro La distinzione peraltro non ha una valenza solo teorica, in quanto incide sulla possibilità di concedere la circostanza attenuante prevista dall’articolo 114 del codice penale,e su quella correlativa di riconoscere le aggravanti previste dall’articolo 113 comma secondo codice penale in caso di cooperazione colposa, e solo nell’ipotes i di cooperazione è possibile realizzare l’effetto estensivo della querela sporta nei confronti di uno solo dei concorrenti ai sensi dell’articolo 123 del codice penale. La trattazione dei temi sin qui svolti introduce inevitabilmente quello, conseguente, della responsabilità della equipe medica. Si tratta dell’ipotesi in cui più medici e sanitari collaborano per il comune obiettivo terapeutico. In tali fattispecie ci si chiede se ciascun componente, oltre a dover rispettare le leges artis proprie del settore di specializzazione, debba anche ritenersi tenuto all’osservanza di un più ampio obbligo cautelare riguardante il dovere di verifica dell’operato altrui e di conseguenza se debba essere ritenuto responsabile qualora la condotta di un altro componente abbia cagionato eventi les ivi. In materia, l’orientamento tradizionale faceva riferimento al principio dell’affidamento, secondo il quale il medico può fare affidamento sul fatto che gli altri componenti agiscano osservando le regole di diligenza proprie della fattispecie. L’evoluzione giurisprudenziale ha peraltro temperato il rigore di tale principio affermando che laddove il medico sia in condizione di apprezzare il venir meno della diligenza altrui e possa dunque porre rimedio all’errore del collega vale il principio dell’affidamento temperato. Ogni medico allora è tenuto ad effettuare un apprezzamento dell’attività svolta dai colleghi dell’equipe ,valutando il rispetto delle regole essenziali o di quelle prescritte dalle leges artis al fine di porvi rimedio. Deve comunque trattarsi di errori percepibili e rilevabili con il patrimonio di conoscenze del professionista medio. Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte poi ,affinché l’attività medico chirurgica sia qualificata come attività svolta in equipe, non occorre far riferimento esclusivamente alle ipotesi di intervento congiunto di più medici ma anche a quelle in cui l’intervento terapeutico sia effettuato in tempi diversi, da parte di più medici, ognuno dei quali con compiti specifici (Cassazione 18.548. 05),con la conseguenza che il sanitario non può es imersi dal conoscere e valutare l’attività precedente svolta dal collega, sia pure specialista in altre discipline e dal controllarne la correttezza Tale tipo di responsabilità pone l’ulteriore problema relativo al rilievo, nell’ambito della equipe, della eventuale posizione di vertice, e dunque dei diversi profili di responsabilità in caso di esistenza di un capo equipe e in caso di intervento terapeutico effettuato da più medici in posizione di parità. Nel caso vi sia un capo equipe, questi assume anche il compito di vigilare e controllare l’operato dei medici posti in pos izione subordinata ed assume un’ampia posizione di garanzia nei confronti del paziente che si estende anche alla fase dell’assistenza post operatoria. In capo al primario,poi ,che può,essere, ma non necessariamente è, il capo equipe, in conseguenza del potere direttivo attribuitogli,sussiste,poi, un obbligo di controllo che può far scaturire a suo carico una culpa in vigilando(per esempio per non aver verificato, in qualità di primario anestesista la c ircostanza che nei giorni precedenti all’intervento erano stati effettuati lavori sull’impianto di erogazione, in conseguenza dei quali alla paziente in fase di risveglio post operatorio era stato somministrato protossido d’azoto anziché ossigeno, con conseguente decesso della paziente (Cassazione 4385. 95) o in eligendo, (per aver ,per esempio, lasciato l’assistenza di pazienti sottoposti ad interventi di alta chirurgia nel proprio reparto esclusivamente al personale paramedico, non in grado di far fronte al trattamento post operatorio relativo). Certo ciò non vuol dire che il primario possa essere chiamato a rispondere di ogni evento dannoso che si verifichi in sua assenza nel reparto lui affidato altrimenti si verserebbe in un’ipotesi di responsabilità oggettiva, dovendosi comunque rintracciare un comportamento omissivo a suo carico che sia causalmente rilevanteo (vedi sul correlativo piano civilistico,una recente sentenza del tribunale di Varese datata 16 febbraio 2010, estensore Buffone) Può essere utile precisare che le tradizionali figure del primario, dell’aiuto, dell’assistente ,già modificate nel 1979 sono state ulteriormente sostituite dal decreto legislativo 502. 92 e dal decreto legislativo 229. 99 nel quale s i parla di dirigenza sanitaria che si colloca in un unico ruolo, distinto per profili professionali, ed in un unico livello. Si tratta di un nuovo assetto organizzativo che certo non ha fatto venir meno però la figura apicale del dirigente, o direttore, al quale si ritiene sia comunque attribuito, anche dall’attuale normativa, il potere di avocazione, rientrando tale potere in quello più ampio, espressamente attribuitogli dalla normativa, di direzione ed organizzazione della struttura. Il Supremo Collegio ha avuto modo di chiarire che la posizione di vertice del primario non manda esente da responsabilità il medico subordinato che è comunque responsabile per le attività professionali a lui direttamente affidate. Pertanto qualora l’assistente, l’aiuto ed anche il medico specializzando non condividano le scelte terapeutiche del primario devono comunque esprimere il loro dissenso se ritengono che queste scelte comportino rischio per il paziente, dovendo in caso contrario essere ritenuti responsabili dell’esito negativo del trattamento terapeutico, non avendo fatto quanto in loro potere per impedire l’evento ex articolo 40 comma secondo codice penale. Nel caso in cui tra i vari medici che collaborano all’intervento terapeutico vi s ia posizione di parità, vale il sopra richiamato principio dell’affidamento temperato con la conseguenza che per gli errori diagnostici e terapeutici che siano riconoscibili con la capacità ordinaria, tutti i medici sono ugualmente responsabili. Infatti la divisione del lavoro nell’attività medico chirurgica in equipe, costituisce per un verso un fattore di sicurezza, in quanto ciascuno dei sanitari deve svolgere il lavoro in relazione al quale possiede una specifica competenza, ma è anche un fattore di rischio, in quanto fa sorgere rischi derivanti da difetti di coordinamento o di informazione o dovuti alla mancanza di una visione di ins ieme. Quando quindi si verifichino circostanze tali da rendere evidente la negligenza altrui oppure si discuta di un errore commesso nella fase preparatoria, ognuno dei soggetti che dividono il lavoro deve farsi carico del relativo rischio. E ormai ius receptum, che l’obbligo di solidarietà costituzionalmente imposto dagli articoli 2.32 della Costituzione, nei confronti dei pazienti, rende tutti gli operatori di una struttura sanitaria, medici e paramedici, titolari di una posizione di garanzia che li obbliga a tutelare la salute dei pazienti contro qualsiasi pericolo per l’intero tempo del turno di lavoro, obbligo di protezione che comporta il dovere di tenere sotto controllo, anche, il decorso post operatorio e di vigilare sul corretto svolgimento delle prestazioni professionali da parte del personale cui il paziente viene affidato. Affinché peraltro nell’ipotesi di lavoro in una equipe, la responsabilità penale non si tramuti in una aberrante responsabilità penale di gruppo il giudice deve procedere a una rigorosa disamina delle singole condotte e del ruolo svolto da ciascun medico dell’equipe, non potendosi dunque affermare la responsabilità di ciascun componente sulla base dell’accertamento di un errore diagnostico genericamente attribuito alla equipe nel suo complesso(Cassazione 19.755. 09). Questo necessariamente breve excursus, credo evidenzi come gli approdi giurisprudenziali in tema di responsabilità medica dell’equipe, oltre che supportati da fondate considerazioni giuridiche, manifestino la volontà dei giudici di legittimità di ricercare un punto di equilibrio tra esigenze di tutela del paziente e quelle di tutela del medico , che ha diritto ad un accertamento giudiziario che sia il più possibile fondato sulle concrete e difficili circostanze di fatto in cui si ritrova adoperare e non frutto della pedissequa applicazione di leggi scientifiche e di principi generali, valide forse nel mondo ideale, ma del tutto incongrue, in quel sistema complesso , complicato, e certamente perfettibile, che è la sanità italiana. Varese 27 novembre 2010 Miro Santangelo