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Buona fede contrattuale e obblighi di informazione
Contratti Buona fede contrattuale e obblighi di informazione La correttezza viene oggi intesa non solo come fonte di integrazione del contratto ma anche come limite generale all’autonomia dei privati, come strumento di controllo del contenuto, dell’equilibrio e della congruità causale del contratto di Ezio Guerinoni - Studio Legale Guerinoni (Milano) - Università di Milano La buona fede nella disciplina del contratto La buona fede è richiamata più volte nella disciplina del contratto: le parti devono comportarsi secondo buona fede nella fase delle trattative (art. 1337 c.c.), in pendenza della condizione (art. 1358 c.c.), nell’esercizio dell’eccezione di inadempimento e durante l’esecuzione del contratto (art. 1375 c.c.). La buona fede, ancora, costituisce criterio per l’interpretazione del contratto stesso (art. 1366 c.c.). È questa la buona fede oggettiva - o correttezza - che si pone come «regola di comportamento alla quale devono attenersi le parti del contratto come, più in generale, i soggetti di qualsiasi rapporto obbligatorio (art. 1175 c.c.)» (Bianca), distinta dalla buona fede soggettiva, consistente nella ignoranza non colposa di ledere l’altrui diritto (artt. 1147, 1148, 1189, 1415 e 1445 c.c.). In questo senso, il dovere di buona fede costituisce un «precetto rivolto ai singoli in quanto regola di comportamento e al giudice in quanto modello di decisione» (Bessone). L’indeterminatezza del contenuto fa della buona fede una clausola generale. Funzione delle clausole generali è quella di tracciare direttive che coprano un’area molto vasta di casi, lasciando al giudice un largo margine di «potere operativo» indispensabile perché la decisione che è chiamato a pronunciare «possa riuscire davvero aderente al conflitto di interessi in gioco» (Bessone). Il dovere generale di buona fede contrattuale ha la funzione di colmare le inevitabili lacune legislative: esso «realizza (...) la ‘‘chiusura’’ del sistema legislativo, ossia offre i criteri per colmare le lacune che questo può rivelare nella varietà e molteplicità delle situazioni della vita economica e sociale» (Galgano). In particolare, la buona fede costituisce «lo strumento per integrare-limitare-correggere il contenuto normativo dell’obbligazione, con riferimento alle esigenze poste dallo svolgimento di essa» (Di Majo). La regola della buona fede nell’applicazione della giurisprudenza La regola della buona fede ha inizialmente trovato notevoli difficoltà ad affermarsi presso le nostre corti. Tali difficoltà, secondo parte della dottrina, sarebbero da ricercare soprattutto nell’originaria formula dell’art. 1175 dell’attuale codice che - nel sancire che «il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza, in relazione ai principi della solidarietà corporativa» - legava la buona fede ai principi del regime allora vigente. Al riguardo, si deve tuttavia rilevare che il principio di buona fede si richiama a una tradizione anteriore all’ordinamento corporativo: detto principio, infatti, era già menzionato dall’art. 1124 c.c. del 1865, seppure con esclusivo riferimento al contratto. Ad ogni modo, quale che sia stata la ragione a fondamento della iniziale diffidenza delle corti verso la clausola generale di buona fede, si può affermare che è ormai superato l’iniziale orientamento secondo il quale la violazione della regola in questione era da ammettere solo a fronte della violazione di un diritto già riconosciuto in base ad altre norme, orientamento che finiva cosı̀ per negare alla buona fede ogni autonomo rilievo giuridico. Ed invero, negli ultimi anni si è assistito a una rivalutazione della regola in questione: si è cosı̀ riconosciuto che la buona fede, intesa in senso etico come requisito della condotta, costituisce uno dei cardini della disciplina legale delle obbligazioni e forma PMI n. 5/2007 17 Contratti oggetto di un vero e proprio dovere giuridico che viene violato non solo nel caso in cui una delle parti abbia agito con il proposito doloso di recare pregiudizio all’altra ma anche quando il comportamento da essa tenuto non sia stato improntato alla diligente correttezza ed al senso di solidarietà sociale che integrano il contenuto della buona fede (Cass. n. 960/86). Si è affermato, ancora, che nella fase di esecuzione del contratto, la buona fede si atteggia come un impegno di cooperazione o un obbligo di solidarietà che impone a ciascun contraente di tenere quei comportamenti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali o dal dovere extracontrattuale del neminem laedere, siano idonei a preservare gli interessi della controparte senza rappresentare un apprezzabile sacrificio (Cass. n. 3775/ 94). La dottrina ha evidenziato che, come fonte di integrazione del contratto, la buona fede esprime il principio di solidarietà contrattuale che si specifica nei due fondamentali aspetti della lealtà e della salvaguardia: si intende cosı̀ che la buona fede impone alla parte, da un lato, di comportarsi lealmente e, dall’altro, di attivarsi per salvaguardare l’utilità dell’altra nei limiti di un apprezzabile sacrificio (Bianca). La regola della buona fede non impone alla parte un comportamento a contenuto prestabilito ma richiede piuttosto comportamenti diversi in relazione alle concrete circostanze. L’indeterminatezza del contenuto della buona fede ha posto all’interprete la necessità di speci- 18 PMI n. 5/2007 ficare i comportamenti che le parti sono tenute a osservare per rispettarne il precetto. In quest’opera si è cimentata soprattutto la dottrina che ha individuato una serie di comportamenti tipici al fine di fornire al giudice una serie di regulae iuris applicabili ai casi concreti. Si è cosı̀ rilevato che la buona fede impone - fra l’altro - alla parte, sia nella fase delle trattative che in quella in executivis di informare la controparte delle circostanze rilevanti relative al contratto stesso. L’obbligo di informazione e il problema dei suoi limiti La rilevanza dell’obbligo informativo - obbligo trattato peraltro con quasi esclusivo riferimento alla fase precontrattuale - è andata sviluppandosi di pari passo con quella della buona fede. Inizialmente, vigente il codice del 1865, si riteneva che la pretesa ad essere informati acquisisse rilevanza giuridica esclusivamente qualora la legge, gli usi del commercio e del traffico o la particolare natura dell’affare da concludere imponessero un vero e proprio specifico «obbligo di parlare». Cosı̀, «non era l’obbligo di informazione, in sé e per sé, ad essere oggetto di autonoma considerazione e ad assumere giuridica rilevanza, quanto - invece - il ‘‘difetto di informazione’’ nelle ipotesi in cui espressamente sanzionato» (Grisi). Successivamente, seppure, da un lato, nessuno giunse a specificare gli obblighi incombenti sui soggetti impegnati nella fase delle trattative, dall’altro, gli autori più sensibili - sulla scia delle dot- trine che si andavano sviluppando in Germania in tema di autonoma configurazione di una culpa in contrahendo - riconoscevano la responsabilità del soggetto che avesse offerto ad un altro informazioni inesatte. Anche con l’entrata in vigore del codice attuale la dottrina maggioritaria - nonostante l’introduzione delle disposizioni degli artt. 1337 e 1338 - rimase dell’opinione di non riconoscere l’esistenza di obblighi di informazione nel corso delle trattative. Solo negli ultimi anni - a seguito della generale rivalutazione del ruolo della buona fede - si è giunti a riconoscere la sussistenza di obblighi informativi come espressione del generale dovere di correttezza (si veda, ad esempio, Cass. n. 5297/98). Se, peraltro, tale risultato - tenendo conto dell’opinione maggioritaria - può ormai dirsi assodato, la questione di maggior rilievo attiene, ora, all’individuazione dei confini di detti obblighi. Con riguardo a tale questione, si forniscono di seguito alcune direttive. Quanto alla fase precontrattuale, si è, innanzitutto, rilevato che non sembra che il nostro ordinamento riconosca un generale obbligo per le parti di rivelarsi reciprocamente tutte le circostanze conosciute da ciascuna di essa e che abbiano, in qualche modo, a che fare con il contratto che intendono concludere. Ed invero, la circolazione dei beni e della ricchezza è governata da regole di competizione e di concorrenza «alle quali specularmente corrisponde la ‘‘libertà di procurarsi e mantenere posizioni Contratti di vantaggio’’, anche sul piano informativo, in tutti i casi in cui ciò non si traduca in violazione di precise disposizioni normative o di principi generali dell’ordinamento giuridico» (Grisi). L’oggetto dell’obbligo informativo è strettamente connesso con l’oggetto del contratto (o, meglio, dell’obbligazione contrattuale, ossia la prestazione). E cosı̀, per Cass. 11 ottobre 1994 n. 8295 (in Foro it., 1995, I, 1903), dalla disciplina dell’art. 1337 c.c. o da determinati obblighi di informazione (artt. 1338 e 1892 c.c.) non può desumersi, in coerenza alla regola della correttezza commerciale secondo buona fede, che ogni contraente debba rendere edotta la controparte delle proprie situazioni economiche, ancorché critiche, salvo che ciò non sia espressamente stabilito dal contratto o non derivi dalla legge come nel caso dei rapporti bancari. In questo senso, solo le circostanze relative a tale oggetto non devono essere taciute; ciò consente di escludere dall’ambito del duty of disclosure i propri piani speculativi. L’obbligo in questione, peraltro, spetta a ciascuna delle parti sulle circostanze che attengono alla propria prestazione e non può estendersi fino ad illuminare la controparte sui pregi o sugli svantaggi della prestazione a suo carico. E cosı̀, se, per esempio, un esperto compratore di cose d’arte si accorge del maggior valore dell’oggetto che gli viene offerto a prezzo inferiore e tace tale circostanza, non si può ritenere che egli violi un dovere d’informazione: l’altro contraente, infatti, non può pretendere di essere informato sulle qualità e sul valore della cosa da lui stesso offerta in vendita. Spetta a ciascuno la tutela dei propri interessi e del rischio relativo. Non si può addossare ad altri il cattivo uso della libertà negoziale, salvo il ricorso alle norme sull’errore o il dolo qualora ne sussistano i presupposti. Diverso è il caso dell’antiquariovenditore che offre in vendita una copia di un’opera al prezzo corrispondente all’autentico: qui la sua reticenza relativa alla circostanza che non si tratta dell’opera autentica costituisce violazione di un obbligo informativo. Peraltro, non tutte le circostanze relative alla prestazione dovuta costituiscono oggetto di un obbligo informativo ma solo quelle essenziali. L’essenzialità della circostanza può essere tanto oggettiva quanto soggettiva (Grisi). Circostanze oggettivamente essenziali sono quelle relative alla prestazione considerata in sé e per sé. Tali circostanze, peraltro, possono variare a seconda del tipo contrattuale. Sono circostanze soggettivamente essenziali, invece, quelle che costituiscono la ragione esclusiva o - quanto meno - principale della determinazione della parte: queste rilevano ai fini della sussistenza di un obbligo informativo solo qualora siano state rivelate alla controparte ovvero questa ne sia comunque venuta a conoscenza. Ai fini di una corretta individuazione dei confini dell’obbligo de quo, si deve peraltro tenere conto anche dei seguenti elementi. a) Non costituiscano oggetto di un duty of disclosure quelle circostanze - seppure rilevanti che la parte stessa potrebbe acquisire con l’ordinaria diligenza. Il fatto che la buona fede imponga alle parti un obbligo prenegoziale di informazione sui fatti che rivestono essenziale importanza «non può certo servire da alibi per giustificare il comportamento di chi si astenga dal compiere atti diretti alla ricerca delle notizie utili alla scopo di esattamente prefigurare i termini dell’affare da porre in essere» (Grisi). b) Non è da escludere, inoltre, che dal punto di vista soggettivo vi possano essere degli squilibri fra le posizioni dei soggetti in relazione all’accesso ai dati rilevanti, squilibrio che comporta per il soggetto privilegiato un mutamento della portata dell’obbligo di informazione nei confronti di quello svantaggiato. c) Infine, si deve anche considerare che l’acquisizione di informazioni può comportare dei costi (Grisi): cosı̀, accanto all’obbligo di comunicare le circostanze significative, vi è l’esigenza di premiare il soggetto che ha acquistato tali informazioni. Fin qui sul duty of disclosure relativo alla fase precedente alla conclusione del contratto. Quanto alla fase in executivis, l’obbligo informativo - definito, forse più correttamente, di avviso (Bianca) - si sostanzia nel dovere di ciascuna parte di comunicare all’altra le circostanze di cui sia venuta a conoscenza, qualora queste siano rilevanti per l’esecuzione del contratto. In particolare, devono essere comunicate quelle circostanze la cui conoscenza può consentire alla controparte di evitare un PMI n. 5/2007 19 Contratti danno o un inutile aggravio di costi, ovvero di eseguire una prestazione inesatta (Bianca). I rimedi per la violazione dell’obbligo informativo Un ulteriore problema - che merita quanto meno un cenno - è quello relativo alle conseguenze che derivano dalla violazione del dovere informativo che si fonda sulla generale regola della buona fede. La questione deve essere trattata distinguendo l’ipotesi di violazione che si colloca nella fase antecedente alla conclusione del contratto da quella relativa all’inadempimento in executivis. Quanto alla prima ipotesi, due sono i rimedi cui può ricorrere la parte lesa dalla violazione dell’obbligo in questione: questi, innanzitutto, qualora abbia subito un danno, potrà esperire un’azione volta ad ottenerne il risarcimento. Al riguardo, si deve osservare che, stante la ritenuta natura aquiliana della responsa- 20 PMI n. 5/2007 bilità ex art. 1337, il diritto al risarcimento sarà sottoposto alla disciplina di questo tipo di responsabilità. Il ricorso al rimedio risarcitorio, peraltro, sarà da ammettere anche per il caso in cui il contratto si sia comunque concluso (Grisi). In secondo luogo, non è da escludere che il contraente possa percorrere la via dell’annullamento del contratto per dolo, qualora, ovviamente, ne sussistano i presupposti. In particolare, la violazione dell’obbligo informativo sarà causa di annullamento del contratto solo quando l’inerzia della parte si inserisce in un complesso comportamento adeguatamente preordinato, con malizia o astuzia, a realizzare l’inganno perseguito, mentre non costituisce causa invalidante del contratto il semplice silenzio che non contrasta la percezione della realtà alla quale sia pervenuto l’altro contraente. Quanto all’ipotesi di violazione del dovere informativo nella fase di esecuzione del contratto, il ri- medio principale rimarrà quello risarcitorio. In questo caso, tuttavia, il diritto al risarcimento sarà retto dalle regole proprie della responsabilità per inadempimento (artt. 1218 ss. Codice civile): ed infatti, ammessa l’efficacia integrativa della regola della buona fede e riconosciuto pertanto che la stessa concorre a formare il contenuto legale del contratto ex art. 1374 c.c., l’inadempimento del dovere informativo derivante dalla regola della correttezza si sostanzia nella violazione a un precetto del contratto (seppure di fonte legale). Neppure potrebbe escludersi a priori il ricorso alla risoluzione del contratto: tuttavia, posto che questa richiede che l’obbligazione inadempiuta rientri fra quelle sinallagmatiche (art. 1453, primo comma, c.c.) e che l’inadempimento della stessa non sia di scarsa importanza (art. 1455), tale rimedio sarà da ammettere solo per il caso in cui l’inadempimento agli obblighi informativi rivesta i menzionati caratteri.