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Scendere da Cavallo diario di Andrea Porcheddu
Scendere da Cavallo Report di Andrea Porcheddu A febbraio 2013, un gruppo di compagnie giovani e giovanissime sono state invitate dalla Fondazione Pontedera Teatro, per partecipare – e dare vita assieme – ad un progetto dal titolo spiazzante e significativo: “Scendere da cavallo”. L’immagine, o la metafora, che suscita il titolo si presenta agli occhi di tutti come immediata ma al tempo stesso enigmatica: è stata poi esplicitata da Roberto Bacci, padrone di casa, instancabile testimone e acuto attivatore di discussione e riflessioni nelle giornate di lavoro. Scendere da cavallo come istante per interrompere la corsa, momento di pausa durante la lunga cavalcata che è il teatro per chi lo fa. Ma non solo: rimettere i piedi in terra, per un tempo, senza pressione, tornare a camminare e non perdersi con la testa tra le nuvole. Ovvero tornare all’elemento basico, primario, del teatro: il metodo, la tecnica. Tornare dunque alle domande fondanti, terrene, e provare a rispondere. Le giornate di Pontedera sono state infatti per tutti l’occasione non solo per (auto)presentare il proprio percorso e per incrociare il percorso altrui, ma anche per riflettere pubblicamente su modalità, metodi, mestiere del teatro. Numerose le compagnie invitate, molte delle quali passate dal vicino festival di Lari, Collinarea, piccola e coraggiosa manifestazione da sempre attenta al nuovo teatro, che ha funzionato come cassa di risonanza e momento di “selezione” anche per SdC. Ecco le compagnie presenti a Pontedera: Leviedelfool, Teatro dei Venti, Biancofango, Macelleria Ettore, Scenica Frammenti, Civilleri/Lo Sicco, Teatro delle Bambole, Carrozzeria Orfeo, Carullo/Misasi. Il clima, sin dal primo momento, è piuttosto sereno: anche se si avverte un imbarazzo diffuso, un guardarsi reciproco fatto sì di sorrisi e sigarette fumate assieme, ma anche di un lieve impaccio. La sfida che Roberto Bacci ha posto agli artisti è di non facile risoluzione: come e fino a che punto “svelarsi”? La questione è il mettersi in gioco, il raccontarsi a colleghi per quel che si è e per come si lavora. Si tratta di mettersi a nudo, di porgere allo sguardo altrui i meccanismi – a volte confusi, privati, o improvvisati – della propria creatività. Operazione complessa, dunque, ma l’impegno è preso. Le giornate sono state strutturate con ritmi serrati: brevi pause e due ore di tempo, per ciascun gruppo, da utilizzare per parlare o per fare dimostrazioni pratiche di lavoro. Poi, la sera, spettacolo. Si sono avviate, così, le pratiche di autopresentazione. Momenti diversi, scelte diverse, percorsi e provenienze diverse: sono emerse attitudini e prospettive, metodi e spunti di analisi. Si comincia. Pontedera Teatro. A rompere il ghiaccio è lo stesso Bacci, che raccontandosi, racconta anche della incredibile esperienza di Pontedera Teatro. Un viaggio sul filo del ricordo, a toccare un preciso capitolo della storia di questa straordinaria realtà. Roberto Bacci evoca gli anni tra il 1987 e il 1991, e si focalizza su una domanda fondante: “perché fare un altro spettacolo?”. La ricerca delle motivazioni e delle modalità è al centro del racconto di Bacci, il quale evoca i compagni di viaggio e di lavoro di allora: Stefano, Francois, Laura, Luisa… Il nodo della sua esposizione, accompagnata anche da video ormai storici, è proprio nella “sensibilità a ciò che la realtà di solito nasconde”, nell’arte dello sguardo e della percezione. Leviedelfool Simone Perinelli e Isabella Rotolo, di Leviedelfool, sono i primi a parlare, dopo l’intervento di Roberto Bacci. Lei si siede alla console, e osserva complice, intervenendo di tanto in tanto, mentre lui, solo al centro sala, non nasconde disagio e timidezza. Perinelli inizia un improbabile e divertente racconto sulla “creazione”, con un paradossale confronto con Dio e la Genesi. Poi racconta del percorso della compagnia e mostra qualche sequenza tratta da spettacoli; invita altri a collaborare ad improvvisazioni, rendendo il clima più disteso e fattivo. Dimostra infine sequenze del proprio lavoro, concentrandosi su Caligola di Camus. Teatro dei Venti È poi la volta di Teatro dei Venti, di Modena. Il regista, Stefano Tè, racconta le attività della compagnia che si declinano in teatro di strada, teatro sociale e in carcere, teatro ragazzi. Il lavoro poi viene presentato dando grande risalto al tema del ritmo, applicato all’azione fisica del singolo attore. Così, dopo una breve dimostrazione da parte del gruppo, il regista invita tutti i partecipanti a unirsi agli esercizi basati appunto sul ritmo tenuto con battito di piedi e di mani. Si introducono poi altri elementi (un bastone) per cominciare a tratteggiare “personaggi” (il cieco, la scimmia) che partano proprio dal movimento a tempo. Biancofango Compagnia Biancofango si presenta con Andrea Trapani e Francesca Macrì, fondatori del gruppo, cui si unisce Aida Talliente, attrice. La domanda da cui partono è “Come riposizionare il ruolo dell’attore e del regista?”. Ripercorrendo le fasi di vita del gruppo, illustrano un “metodo” soggetto però a cambiamento e integrazioni, che hanno elaborato partendo dalle proprie esigenze. L’obiettivo è la ricerca di emozioni attraverso il dato fisico, ossia il contrario di quanto normalmente avviene nella vita. In dieci anni di lavoro, Biancofango ha elaborato dunque uno “schema-metodo” di lavoro, articolato in dieci punti, che Macrì illustra. Poi, dopo alcune dimostrazioni di lavoro, il discorso si apre anche a temi che stanno molto a cuore alla regista-autrice, ossia i tempi e i modi della produzione. Macelleria Ettore La compagnia di Trento si presenta pressoché al completo: la regista e autrice Carmen Giordano, l’attrice-autrice Maura Pettorruso, l’organizzatore Daniele Filosi, il tecnico Alice Colla. La presentazione verte sul percorso della compagnia, sui temi fulcro della ricerca, sulle modalità creative e di scrittura. Poi dopo una breve prova di lavoro, con aperture all’improvvisazione, dell’attrice Maura, e una riflessione sull’immagine a teatro, la regista invita gli altri a partecipare. Questo suscita una reazione che va registrata: si avverte infatti un deciso imbarazzo, una distanza tra “platea” e scena. Quasi che, per la prima volta dall’inizio delle giornate di lavoro, l’amalgama si fosse spezzato, quella sintonia diffusa fosse venuta meno. La regista si trova a lavorare con una sola volontaria, chiede di immaginare una “stanza” e cerca di portare avanti l’improvvisazione. Scenica Frammenti A parlare è Loris Seghizzi, che presenta subito alcuni esercizi, come “fantasmi in carne e ossa” incentrati sul ricordo personale, che creano subito un clima emotivamente molto forte. Poi racconta la sua incredibile e personalissima storia di “figlio d’arte”, terza generazione di una compagnia a carattere familiare. Per questo, per Loris è “impossibile scendere da cavallo. Lo stato “teatro” è la vita stessa”. Illustra poi, anche attraverso altri esercizi (uno sulla “verità dell’attore), l’idea di gioco nella dialettica attore-personaggio. Affronta anche il tema delle condizioni produttive (anche 2 anni per realizzare uno spettacolo) e del rapporto con le istituzioni. L’intervento di Loris, soprattutto per ciò che concerne il tema “verità” suscita una notevole discussione. Educazione Fisica Ad intervenire sono Andrea Perini (organizzatore/promotore) Sabino Civilleri e Manuela Lo Sicco. Perini parte dal concetto di Terzo Paesaggio, introdotto dal filosofo giardiniere Gilles Clement, per presentare l’attività, e inventare un “altro mercato” anche per il teatro. Sabino Civilleri racconta il progetto di formazione che ha portato alla creazione dello spettacolo e della “compagnia”: senza mezzi, senza luoghi, dopo 15 anni di lavoro duro con Emma Dante, è nato questo progetto fatto dall’incontro di singole professionalità: una “compagnia” composta da altre compagnie. Si presentano poi alcuni esercizi: la costruzione del personaggio partendo dall’uso del pallone da basket (elemento sostanziale dello spettacolo Educazione fisica). Manuela Lo Sicco dà indicazioni al gruppo formato da tutti i componenti della compagnia, non ci sono esterni. La metafora sportiva, nel caso quella del basket, funziona bene anche per pratica d’attore: il passaggio come una battuta, il gioco di squadra, il ritmo, la velocità, ecc: “vi occupate di recitare, e invece dovete fare” dice Sabino. Si svelano anche le biografie dei singoli personaggi, costruite durante le prove. Poi si lavora sulla boxe, sul “sedersi” all’angolo, per poi passare ad un esercizio collettivo con la corda, sull’equilibrio. Sabino chiude il tempo a sua disposizione auspicando un ascolto tra le compagnie, condizioni migliori per fare il lavoro del teatro. Teatro delle Bambole Il Teatro delle Bambole di Andrea Cramarossa suscita molta curiosità. Cramarossa, infatti, introduce il manifesto culturale che è alla base del lavoro del gruppo, evocando Gisela Rohmert e Herman Nitsch, che è sul suono e sulle vibrazioni, individuando i risuonatori nello spazio e nel tempo stesso. Il lavoro dunque si sviluppa in un gioco di pressioni interne del corpo e sul bilanciamento, fino ad aprirsi ad una attenzione per i cinque sensi che devono essere in coerenza con i risuonatori interni, percepiti attraverso esercizi isometrici. Il discorso di Cramarossa si articola e si inerpica sempre più su varianti teoriche che spiazzano e incuriosiscono non poco chi ascolta. Sono numerose, infatti, le domande da parte di chi ascolta. Thomas Richards Il momento sicuramente più alto e intenso delle giornate di SdC è l’incontro con Thomas Richards. Il quale, con estrema disponibilità, accetta volentieri di lasciarsi andare al ricordo, parlando del proprio passato e della propria esperienza di attore. A Pontedera dal 1986, Richards evoca la figura del padre, regista di Broadway, poi il mito di Cieslak, finalmente l’incontro con Grotowski che – dice Richards: “mi ha tagliato subito le gambe proprio perché “imitavo” Cieslak: gridavo, tremavo. Mentre Grotowski voleva la semplicità: cosa fai, perché lo fai, dove sei”. Richards si sofferma, tra le tante suggestioni che regala ai partecipanti, anche sul tema della differenza tra essere creatori in modo attivo o in modo passivo, e sul concetto di posizionamento e sulle domande che pone alle basi del “mestiere”: cosa vuol dire azione? Quale differenza tra fare e sentire? L’azione, dice, “non ha a che fare con te: parte dal mondo interiore e coinvolge un altro”. Altra distinzione interessante è quella tra metodo e mestiere, diversissimi tra loro. “Occorre tornare a riflettere sul mestiere, e poi applicare il proprio metodo”, afferma l’attore e regista. Ma c’è ancora tempo per parlare di “attore”, di “amatorialità”, di “curiosità”, di “tempo” e “spazio”, di qualità del lavoro e di pubblico, e di etica del lavoro. L’intervento suscita l’emozione e l’entusiasmo di tutti. Carrozzeria Orfeo Articolata e dettagliata la autopresentazione di questa giovane compagnia che si apre con una dimostrazione di lavoro. Il racconto si dipana poi sui metodi di creazione, dal lavoro sul corpo a quello sull’immagine e sul testo. Fondamentale, per il gruppo, è la comunicazione con lo spettatore, il divertimento, la commozione, il riso amaro, il tragicomico: il comico, in particolare “apre un canale di fiducia” con il pubblico. Il gruppo afferma di fare un “teatro pop”, ma poetico e di qualità. Fino a concludere che ogni volta che si fa teatro è un atto politico, dal momento che la domanda principale da porsi è “per chi lo fai”. Dopo la presentazione il gruppo coinvolge tutti in esercizi sul tempo, corpo e ritmo. Carullo / Misasi I due fondatori la compagnia, iniziano un surreale dialogo beckettiano, entrano e escono da personaggi di “Due passi sono”, spettacolo che li ha lanciati, vincitore del premio Ustica. Poi Cristiana comincia a raccontare del percorso della compagnia, del lavoro sul clown clandestino. Note autobiografiche si mescolano a teorie del teatro: si cita spesso il magistero di Kantor, poi il lavoro di Vasile’v. “L’azione, nel momento in cui la nomini, muore” dice Cristiana, che poi si sofferma a lungo sulla funzione processuale del teatro (viene da studi di giurisprudenza e da una famiglia di avvocati): avere cura per gli uomini. L’intervento poi si apre a altre considerazioni interessanti: le reazioni del pubblico, il personaggio, la forma e la sostanza, il rapporto realtà-creazione, la malattia e l’amore, la struttura ludica, il gioco delle parole, la dinamizzazione dello spettacolo, il litigio e il conflitto come metodo, il limite e la paura, il biosoggetto kantoriano. Conclusioni Qui riassunti brevemente, gli incontri hanno dato spunto a numerose riflessioni. Da un lato un bisogno condiviso di affrontare seriamente il tema del metodo di lavoro, proprio per colmare lacune anche evidenti di chi (non tutti ovviamente) non si è mai soffermato troppo sulla necessità di separare – come suggerisce Richards – mestiere (ossia il fare teatro) dal metodo (ossia il riflettere sul modo del teatro stesso). Sono emerse, diffuse, anche preoccupazioni sulle condizioni produttive del giovane teatro italiano, anche se il clima – decisamente propositivo – ha impedito spontaneamente lamentazioni e pessimismo. Si sono avvertite posizioni diverse: maggiori sintonie in cui si sono incastonate anche prese di distanza o differenze (l’afflato radicalmente politico di Biancofango, l’estetica di Macelleria Ettore) che hanno causato anche momenti di tensione. Anche l’entusiasmo si è scontrato, poi, con l’impossibilità di ripetere simili esperienze: momenti unici, volutamente tali, sorta di “regalo” prezioso, che possono essere forieri di sviluppi, ma sul lungo termine, dopo una necessaria sedimentazione. Si tratta di capire quanto e come SdC porterà a scambi, incontri reali, collaborazioni future. Di fatto, comunque, SdC è stata una “buona pratica” reale, concreta: un momento di apertura e di incontro di indubbia qualità, che riafferma il ruolo fondamentale della Fondazione Pontedera Teatro nell’incrementare e diffondere la cultura teatrale. Per quel che mi riguarda, infine, è stato un privilegio raro poter assistere a questi confronti: ne è emerso uno spaccato generazionale ed artistico piuttosto interessante. Intanto ho avuto modo di conoscere alcune compagnie che non avevo ancora incontrato nel mio percorso di osservatore. Inoltre mi sembra di potere focalizzare alcuni nodi essenziali di riflessione: 1) la ricerca assunta come orizzonte: è evidente che alcuni maestri si siano posti, o siano diventati, punti di riferimento imprescindibili. La tecnica attorale e compositiva guarda a loro, anche senza un contatto diretto con quella “scuola”. 2) Il contesto determina sempre più il testo: isolamento umano, produttivo, economico entrano prepotentemente nelle dinamiche creative. Ecco perché incontri come SdC sono opportuni, non solo per un confronto tecnico, ma anche e forse soprattutto personale, generazionale, artistico 3) La straordinarietà come approccio: il fatto che fossero chiari, sin dall’inizio, la dimensione, l’obiettivo, il tema delle giornate, ha fatto sì che i lavori fossero molto concreti, immediati, propositivi. A parte qualche imbarazzo iniziale, il tempo è stato sfruttato pienamente. 4) La presenza del maestro: Roberto Bacci ha svolto un ruolo notevole. Il suo essere sempre presente, interlocutore primo e investigatore inesorabile, è stato utile per portare le questioni a una loro essenzialità, per scavare meglio dietro reticenze e impianti ideologici troppo fragili. 5) L’incontro con Thomas Richards ha poi portato un contributo eccellente, rimarcando – con estrema semplicità – quale possa essere l’obiettivo, umano oltre che artistico, di una ricerca teatrale.