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I migranti? Ho visto gente scendere all`inferno

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I migranti? Ho visto gente scendere all`inferno
CORRIERE CANADESE • MARTEDI 19 GENNAIO 2016
3
CANADA
L’INTERVISTA
«I migranti? Ho visto gente scendere all’inferno»
Aurelia
Klimkiewicz
lasciò la Polonia
nel 1980: «Dietro
chi parte ci sono
aspetti psicologici
di cui quasi
nessuno parla»
Gabriele Salvatore
TORONTO - Era il 14 agosto del
1980 e Lech Walesa guidava il
primo grande sciopero di massa
nei cantieri navali di Danzica. In
quell’estate germogliava la resistenza anticomunista in Polonia e
ai lavoratori che occupavano fabbriche, miniere e cantieri navali il
governo avrebbe potuto rispondere con la forza. Lo spettro dei carri armati sovietici sembrava potesse materializzarsi da un momento all’altro. L’ondata di scioperi e i successivi accordi di Danzica rappresentarono il fondamento
del processo di democratizzazione della Polonia, uicialmente avviato con la nascita di Solidarnosc, il sindacato indipendente che
con il tempo arriverà a diventare
la più importante forza di opposizione polacca al regime comunista. In quell’estate del 1980 il Paese, non senza tensioni, stava dando il via allo smantellamento della
leadership rossa. I primi di luglio
del 1980 Aurelia Klimkiewicz - oggi docente della York University
di Toronto dove tra l’altro è titolare di un corso di studi sulle migrazioni - fece il suo arrivo in Italia, a
Roma. Un viaggio al di fuori della
sua Polonia che dopo 35 anni non
è ancora terminato. Nella sua storia di migrante c’è un comune denominatore che lega a doppio ilo
il passato al presente: la fuga di chi
cerca un nuovo inizio.
Perché l’Italia e perché Roma?
«In realtà era una vacanza. Qualche anno prima la mia famiglia aveva ospitato uno studente italiano e così sono stata invitata a Roma da queste persone che hanno
ricambiato il favore. Arrivai i primi giorni di luglio e avevo un visto per rimanere 2 o 3 mesi se non
ricordo male. A quei tempi, dopo
l’elezione di Papa Wojtyla, non era
così diicile per un cittadino polacco ottenere un visto per venire a Roma. Ero molto giovane e mi
sentivo piena di gioia e di speranze. Tutti i media, però, parlavano
degli scioperi in Polonia, si diceva
che potesse scoppiare una guerra
civile. Fu così che ho maturato la
decisione di non tornare più e di
provare a rimanere in Italia».
Come è arrivata a Latina, nel
campo profughi “Rossi Longhi”?
«Veramente io non conoscevo
né Latina, né il campo. Non sapevo nemmeno della loro esistenza.
Per non ritornare in Polonia mi recai in questura, a Roma, e chiesi
come potevo fare. Furono i carabinieri ad accompagnarmi a Latina (a circa 60 chilometri dalla capitale verso Sud, ndr) e a portarmi
all’interno del campo. Mi ritirarono il passaporto e fui dichiarata apolide. Lì conobbi un brigadiere, si
chiamava Mario e aveva il suo uicio all’interno del campo. Io conoscevo abbastanza bene il francese
Aurelia Klimkiewicz oggi vive a Toronto e insegna alla York University, dove è titolare di un corso sulle migrazioni
e mi prese a lavorare con lui, facevo traduzioni e interviste. Sono
rimasta lì per 4 mesi, il brigadiere
Mario mi aiutò tantissimo, è stato
molto gentile. Purtroppo se n’è andato qualche anno fa e non ho potuto rincontrarlo quando sono tornata in Italia».
Che ricordo le ha lasciato l’Italia?
«Un bellissimo ricordo, Roma
in particolare è una città straordinaria. Ogni volta che torno a Roma
è come se tornassi a casa. Poi nel
periodo in cui sono stata lì mi sentivo forte e felice, piena di aspettative. La vita del campo, invece, è
stata molto dura, direi quasi un’esperienza traumatica. Non volevo
nemmeno uscire all’esterno, solo
qualche volta sono andata a prendere un cafè in un bar che si trovava dall’altra parte della strada.
Un’altra volta andai al mare con
alcuni amici, ma non avevo molti
contatti con gli italiani. Poi per noi
donne era ancora più complicato,
c’era molta violenza».
Violenza che avveniva all’interno del campo o che arrivava
dall’esterno?
«No, no, all’interno. Capitava che alcuni italiani venissero a
chiedere alle ragazze del campo di
prostituirsi, ma gli altri episodi di
violenza erano interni al campo,
tra migranti».
E poi si è trasferita in Canada. Come si è presentata questa
possibilità?
«È stato grazie alla conoscenza
delle lingue, del francese in particolare. Venne al campo un uiciale
del governo canadese che si occupava di immigrazione e visto che
parlavo bene il francese mi suggerì di venire a Montreal, nel Quebec. Io accettai, preparammo tutti
i documenti e arrivai in Canada da
permanent resident. All’inizio trovai un ambiente piuttosto chiuso,
all’epoca ebbi l’impressione che la
società quebecchese stesse attraversando un momento di depressione collettiva in seguito all’esito
negativo del referendum sull’indipendenza, che si era tenuto qualche mese prima del mio arrivo. Poi
sono rimasta 27 anni a Montreal e
devo dire che oggi i quebecchesi
sono molto più accoglienti».
Che diferenze ha notato tra
l’Italia e il Canada?
«Più che tra l’Italia e il Canada
le diferenze sono tra l’Europa e il
Nordamerica. In Europa se fai una scelta sbagliata da giovane poi
è molto più diicile cambiare strada e ripartire da zero. In Nordamerica in generale e qui in Canada in particolare c’è sempre tempo
per recuperare, c’è sempre un’al-
tra chance di vita. Ci si rimette in
gioco di più e con maggiore successo rispetto a quanto sono abituati a fare gli europei».
E per quanto riguarda la valorizzazione degli immigrati
come risorsa economica e sociale?
«Il Canada è un Paese molto ricettivo e anche se inizialmente
chiede all’immigrato grandi sacriici poi diventa anche molto generoso. Una straniero che viene in
Canada e che viene accettato dalla
società canadese, perché ha dimostrato con i fatti di meritarlo, ha gli
stessi identici diritti di un nativo».
Secondo lei perché il fenomeno dell’immigrazione è quasi sempre declinato all’interno della contrapposizione tra
“noi, i cittadini” e “loro, gli immigrati”, con questi ultimi che
rappresentano sempre un problema per i primi?
«Penso che questo sia un problema più che altro europeo. In
Europa ci sono tanti Paesi e ogni
territorio ha le sue radici lontane
nel tempo e fortissime. Tutto è costruito attorno a una forte identità che non va oltre i conini di una
nazione. Forse qui in Canada solo
la cultura quebecchese si avvicina
a quella europea. Ma per i canadesi dei territori anglofoni in gene-
re, c’è molta più apertura. Se uno
straniero condivide e rispetta i valori su cui si fonda la società canadese, quindi responsabilità sociale, cultura del lavoro ed etica tanto per citarne alcuni, viene senza dubbio accettato, indipendentemente dalle sue origini. Lo spirito identitario ruota attorno a dei
valori condivisi: se anche tu vivi
rispettando quei valori sei trattato come un canadese nativo e non
importa da dove vieni».
Lei pensa che in questa immagine dell’immigrato che rappresenta solo un problema o
addirittura un’emergenza giochino un ruolo importante le
contrapposizioni politico-ideologiche?
«Di sicuro non mi piacciono tutte le cosiddette “versioni uiciali” che vengono difuse sull’immigrazione. Quasi sempre l’immagine dell’immigrato che viene fornita all’opinione pubblica è riduttiva
e non si tiene conto dei processi umani che si nascondono dietro ogni persona. Le storie in realtà sono molto più complicate di quanto viene detto e dietro il fenomeno
dell’immigrazione ci sono aspetti
emotivi e psicologici che non possono essere ignorati».
Il tema delle migrazioni rappresenta molto per lei. Tra l’altro la sua è una delle voci nel
progetto “Da est a ovest, fuga
per la libertà, Campo profughi
di Latina” della collega Emanuela Gasbarroni, il documentario sul campo profughi di Latina. Cos’altro vede nel suo futuro?
«Vorrei raccontare ai nostri igli
le nostre vicende, per questo penso che il progetto legato al campo
di Latina sia una bellissima occasione. Le storie dei migranti non
sono sempre fatte di successi, io
ho visto gente come me scendere
all’inferno… Aver avuto una chance dal punto di vista professionale ed economico non signiica aver
raggiunto la felicità interiore. Non
basta dare un salario ad un immigrato per farlo felice, ci sono tanti altri aspetti umani di cui nessuno parla. Vorrei raccontare quanto è diicile vivere lontano da casa perché nessuno ne parla come
dovrebbe».
IL PROGETTO
“Da est a ovest”, un film sulla ricerca della libertà
TORONTO - “Da est a ovest, fuga
per la libertà, Campo profughi di
Latina” è un progetto di Emanuela Gasbarroni, giornalista e documentarista italiana che negli ultimi
13 anni ha curato lo studio, la scrittura e la regia di più di 10 documentari ambientati nella regione
Mediterranea, in Medio Oriente e
Nord Africa e in Indonesia. Varie
le tematiche afrontate, tra le quali lo sviluppo, l’ambiente e i diritti
umani. Originaria di Latina, a metà
degli anni ’60 la sua famiglia conobbe alcuni rifugiati politici fuggiti dall’Europa orientale e ospitati per alcuni mesi nel campo profughi “Rossi Longhi”. Emanuela era una bambina e con alcuni di loro il legame si è mantenuto negli
anni. Il ricordo indelebile di quelle
relazioni l’ha spinta a intraprendere una serie di ricerche negli archivi con l’obiettivo di rintracciare alcuni di quei rifugiati. Cosa è diventata la loro vita e che cosa ricordano di quel periodo di transizione da est a ovest sono le domande che hanno dato vita all’idea di
un documentario, in cui le persone
rintracciate da Emanuela ripercor-
La giornalista
Emanuela
Gasbarroni,
autrice e regista
del documentario
“Da est a ovest,
fuga per la libertà,
Campo profughi
di Latina”
rono, a distanza di anni, un toccante viaggio nel loro passato, tornando in quel campo di Latina dove erano arrivate durante la loro fuga
verso la libertà.
Aurelia Klimkiewicz è una di loro. Emanuela l’ha intercettata consultando, con pazienza e tenacia,
la copiosa documentazione recuperata dagli archivi, tra foto, carte, numeri e lettere. Il campo profughi “Rossi Longhi” di Latina rappresenta un pezzo di storia per lo
più sconosciuto, ma dall’invasione dell’Ungheria (1956) alla caduta del muro di Berlino (1989) ha ospitato circa 80mila profughi, quasi tutti in fuga dall’Europa orientale. Dopo alcuni mesi nel campo, la
maggior parte è riuscita a raggiungere paesi come il Canada (è il caso di Aurelia), l’Australia e gli Stati Uniti.
“Da est a ovest, fuga per la libertà” è un ilm «sulla ricerca della libertà - spiega l’autrice e regista - sulla migrazione, l’esilio, l’accoglienza e la paura... e sullo sfondo la grande storia: l’invasione
dell’Ungheria, la guerra fredda, l’elezione di Papa Woytila, la caduta del muro. Ed è una storia attuale. I migranti di ieri sono i migranti
di oggi e quei paesi che un tempo
ergevano muri per non far uscire
le persone oggi li ergono per non
farli entrare». «Il progetto - prosegue Emanuela - è stato selezionato,
tra centinaia di ilm, agli Ids-Italian
documentary screenings, il più importante mercato di documentari che abbiamo in Italia e la “Robert F. Kennedy Human Rights Europe” ha dato il patrocinio. L’Alto
Commissariato per i rifugiati delle
Nazioni Unite che operava al campo ha già una lettera di interesse
ed è pronto a concedere il patrocinio una volta che il ilm sarà ultimato. Finora c’è stato un importante investimento di risorse personali per le ricerche, lo studio e le
riprese, già efettuate al 70% tra l’Italia e Belgrado». Per completare
il progetto Emanuela ha lanciato una campagna di crowdfunding e «i
fondi raccolti - osserva ancora l’autrice - sarebbero di sicuro un contributo fondamentale per narrare
questa complessa storia di un passato recente, che appartiene a tutto
il Paese, ma che pochissime persone conoscono». Per ofrire il proprio contributo è suiciente visitare l’indirizzo www.produzionidalbasso.com/project/fuga-per-la-liberta-campo-profughi-di-latina dove sono illustrate tutte le modalità
e i riconoscimenti previsti.
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