TITOLO American History X REGIA Tony Kaye INTERPRETI Edward
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TITOLO American History X REGIA Tony Kaye INTERPRETI Edward
American History X Tony Kaye Edward Norton, Edward Furlong, Jennifer Lien, Stacey Keach Drammatico GENERE 120 min. - Colore DURATA USA - 1998 PRODUZIONE E’ la storia di Derek Vinyard, un giovane skinhead neofascista appena uscito di prigione, e del fratello minore Danny che vuole seguirne le orme. Nel rapporto tra i 2 fratelli interviene il prof. Swiney, un insegnante di colore che, avendo già avuto Derek al liceo, comprende la situazione di Danny. Il prof. Swiney dà un compito a Danny: scrivere una tesi sul fratello maggiore e sugli eventi che lo hanno portato in carcere. Dai flash-backs affiora un Derek violento e intollerante sia nelle parole che nei fatti. Una sera, dopo un violento scontro con i suoi ex-camerati, Derek spiega a Danny cosa l’ha fatto cambiare e cosa l’aveva spinto a diventare un “discepolo di Cristo”, il gruppo neofascista di cui faceva parte. Il racconto di Derek convince Danny e gli fa capire che sono stati l’odio e la rabbia a mandarlo in prigione. Ma quando la serenità sembra tornare, ecco la tragedia finale: la mattina dopo Danny è ucciso nei cessi della scuola da un ragazzo di colore con cui aveva avuto un diverbio il giorno prima. Il film si conclude con Derek che piange sul fratello morto e fa capire come l’odio sia una palla al piede TITOLO REGIA INTERPRETI "Non siamo nemici ma amici, non dobbiamo essere nemici; anche se la passione può averci fatto vacillare non deve rompere i legami del nostro affetto, le corde mistiche della memoria risuoneranno quando verranno toccate, come se a toccarle fossero i migliori angeli della nostra natura" Il radicalismo politico, sia esso piegato al "mito" della purezza della razza o all'utopica dittatura di marca proletaria, costa un prezzo parecchio alto da pagare. Ne sa qualcosa Derek Vinyard cresciuto a pane e svastica da un babbo che se n'è andato troppo presto. Non bastasse quell'odio viscerale di cui il "vecchio" gli ha riempito la testa, ci si mette anche il trapasso anticipato. Al giovincello, eletto vice-paterfamilias da un destino fin troppo bastardo, l'enorme responsabilità di passare al timone in piena tempesta. Tipica famiglia da "working class" americana quella di Derek, periferia sdrucita quindi pericolosa e violenta. Forse c'è da capirli, forse. Arrivano a fine mese solo per intercessione divina e di chi è la colpa? Certo, soprattutto delle cravatte che ammuffiscono nella stanza dei bottoni, ma a prendersela con loro non c'è soddisfazione. Troppo lontani, hai voglia ad alzare la voce per sperare che cambi qualcosa: arriva fioca, quasi impercettibile. La frustrazione alla lunga logora i nervi e allora bisogna fare qualcosa di più concreto che non siano le solite denunce di circostanza annegate nella pomata del "politically correct". Ci sta che si strilli più forte, ma ad andar giù di spranga si perde tutti. E purtroppo Derek cade nella trappola, nel tranello della violenza "presunto-politica", perché a bastonare negri, ebrei, gay e puttane non c'è nulla di "civicamente" giustificabile. Tant'è vero che Derek diventa ben presto il leader della congrega nazistoide del circondario fino al giorno in cui sfascia la testa ad un povero "colored" reo di aver tentato di fregargli la macchina. Finisce dritto dietro le sbarre a scontare una pena che lo cambierà nella testa e nel cuore: quella del carcere per Derek sarà un'esperienza che lo aiuterà a maturare nel profondo, fino a capire che la vita è troppo breve per passarla ad odiare chi ti sta accanto, neri, gialli o verdi che siano. Purtroppo la redenzione avviene nel chiuso di un carcere e non tra le mura di casa o tra le strade del quartiere. Sarebbe stata "contagiosa", perfino terapeutica, per chi gli fosse stato accanto in quei momenti. E invece no, chi lo riabbraccia dopo esserne venuto fuori trova una persona completamente diversa e sorprendentemente cambiata: se in famiglia il "nuovo" Derek è riaccolto con il sole nel cuore, ai picchiatori "crociuncinati" quella svolta non va giù. Non fa nulla, in fondo con quei tipacci Derek voleva chiudere una volta e per sempre. C'è solo un problema rappresentato da David, il fratello minore, il più lacerato, il più spiazzato da questo cambio di rotta. Ha sempre seguito quel vicebabbo che per lui era qualcosa di molto più grande, una specie di mentore depositario della verità assoluta. Se prima c'era da dare addosso al negro, ora c'è da redimersi da quello schifo che per troppo tempo ne ha condito l'esistenza: lo dice Derek quindi bisogna ascoltarlo. Tutto apparentemente perfetto, peccato che nel circo della svastica, David ci sia dentro fino alla punta dei capelli e che da lì non è possibile uscirne con un semplice "arrivederci". E' diventato un piccolo omiciattolo intriso di odio, di violenza, e sebbene sia determinato a cambiare, non farà in tempo a rivedere la luce della riappacificazione con sé stesso e col mondo. Finirà crivellato da due "colored" piuttosto incavolati con lo sbarbatello dal cranio rasato. Giù applausi convinti per quest'opera prima di tal Tony Kaye: c'è da dire che il film di tanto in tanto scivola nel didascalico, ma anche e soprattutto che la pellicola scava senza retorica e demagogia nell'universo personale di uno dei tanti borderliner che punteggiano la periferia americana. Forse è quella crudezza esplicita che non gli ha permesso di aggiudicarsi qualche riconoscimento importante: eppure ne meritava, perlomeno quel geniaccio di Norton che - nomination by Academy in tasca - stacca l'ennesimo tagliando di qualità. “Lincoln ha liberato gli schiavi quanto!?..130 anni fa...e quanto cazzo gli ci vuole per integrarsi..” Critica: Con la testa rasata, lo sguardo fiero, la svastica tatuata sul petto, Derek è un'imperfezione, gonfia di odio e di rabbia, della provincia americana. Bianca, ottusa, fanatica della bandiera, fedele agli ideali sanguinari di una civiltà superiore da imporre agli "altri", la piccola America è malata di nostalgia per una frontiera che si è spostata, però, dentro i confini delle città, dei sobborghi, dei quartieri. Si illude, bigotta e ignorante, che esista e resista una supremazia ed un'egemonia razziale. Il nemico vive nella strada accanto, lavora nel supermarket della zona, abita in case non molto diverse da quelle in cui abitano gli eletti. Uccidere, devastare, minacciare, predicare e fare proseliti sono alcune delle regole elementari del mercato dell'odio messo in scena dal compulsivo, dolente e nervoso "American History X". Il regista Tony Kaye, al suo esordio nel lungometraggio di finzione, per strutturare il suo racconto, scritto dal ventottenne David McKenna, evita le convenzioni del reportage sociologico e gli imperativi televisivi dell'inchiesta e del documentario. La lunga esperienza nella pubblicità influenza il suo stile visivo, la densità, carica di significati diretti e indiretti, delle inquadrature, l'intensità dei corpi e dei gesti. Come in uno spot riuscito, tutto acquista un valore e un senso che scavalca quello che viene mostrato. Questa grana delle immagini viene rimescolata in uno sviluppo narrativo ad incastro e non lineare, che passa spesso dal bianco e nero al colore. La vicenda del protagonista, che si avvale di una grandissima interpretazione di Edward corroborata dalla prova di alcuni degli altri attori, Edward Furlong e Fairuza Balk, il suo accecamento ideologico, la redenzione dopo i tre anni di carcere, il tentativo di salvare il fratello minore e la sconfitta sono scanditi, con qualche ingenuità, alcune lentezze e un montaggio poco severo, con le cadenze di un'epopea familiare e di un'antica tragedia greca. La violenza non é catartica. É un corollario imprescindibile delle vite perdute. Enrico Magrelli, ‘Film TV’, 24 agosto 1999 Anche se non avesse «sconvolto l'America», come recita lo strillo pubblicitario, American History X sarebbe un film da non perdere. Attenzione: è tutt'altro che piacevole, lo attraversa anzi un cupo senso di violenza che a volte spinge quasi a chiudere gli occhi, ma merita una visita. Quasi a voler dar ragione allo scrittore Barry Gifford, per il quale la questione razziale continua a essere il Grande Problema Americano, il cineasta pubblicitario Tony Kaye si inoltra, alternando bianco & nero e colori, nel folle mondo dei naziskin losangelini. Un mondo a parte, fanatico e organizzato, che si batte per un ipotetico white power da contrapporre al black power delle gang nere, in una sorta di diuturna battaglia volta alla riconquista dei singoli quartieri. Nei panni di Derek Vinyard, testa rasata, svastica tatuata sul petto e fisico da guerriero, lo stupefacente Edward Norton (nomination all'Oscar meritata) condensa la follia razzista che può annidarsi in una classica famiglia americana. Quando il padre pompiere viene ucciso da un balordo nero, Derek si trasforma in un feroce giustiziere mitizzato dai suoi compagni d'armi e, quel che è peggio, dal fratello minore Danny, avviatosi sulla stessa china. In un contesto duro, disturbante, e però mai manicheo, assistiamo così alla sofferta redenzione del giovanotto, finito in carcere dopo aver massacrato sotto casa due ladruncoli di colore (scena terrificante) e uscitone cambiato, ma prigioniero di un destino fatale pronto a compiersi nel finale. Kaye impagina con la dovuta solennità una moderna tragedia americana che potrebbe succedere dovunque. E se qua e là il regista si lascia andare a qualche videorealismo di troppo, il film - teso e angosciante - si impone per il suo stile asciutto, complice la bella prova degli attori (tra i quali il redivivo Elliott Gould). Michele Anselmi, ‘L’Unità, 27 agosto 1999 “L'odio è una palla al piede: la vita è troppo breve per passarla sempre arrabbiati, non ne vale la pena” Il meno che si può dire di American History X è che è un film interessante e per molti aspetti coraggioso. Il peggio che è semplicistico fino a essere irritante. Il meglio che è un film confezionato con estrema sofisticazione e attorno a un attore, Edward Norton, per cui non ci sono altri aggettivi che strepitoso - e che quindi, da candidato all'Oscar, è stato un degnissimo rivale di Benigni, con una gamma espressiva che promette di farne la star dei prossimi anni. È questo insieme di qualità e di difetti che lascia irritati e scontenti all'uscita del film. Perché Tony Kaye (di cui si sa che ha avuto un veemente scontro con la produzione e che ha minacciato di ritirare la firma del film) è non solo un regista di impressionante vigore e abilità, che sa coordinare magistralmente le scene di massa e di azione così come le dinamiche familiari, ma è anche un fantastico direttore della fotografia, che usa il colore e il bianco e nero con sapiente eleganza. Quello che manca al film, purtroppo, è la sceneggiatura. Nel senso che quella scritta da David McKenna va giù semplicisticamente e grossolanamente, inventa spiegazioni psicologiche dozzinali, crea ribaltamenti che suonano falsi e immotivati, usa luoghi comuni di sociologia d'accatto. Veramente un peccato, perché il tentativo di raccontare e spiegare la ultradestra americana, i nazistelli violenti, la rabbia dei bianchi poveri è meritorio e interessante. (...) American History X (il titolo si riferisce al corso di storia "personalizzato" imposto da un professore illuminato e aperto al fratellino di Derek, che gli ha appena portato un compito, figurarsi, su Mein Kampf, protestando che ci ha messo una settimana a studiarlo...) nonostante le buone intenzioni - che nel finale si imbrogliano in una coda di disegno ambiguo - vale più per la fattura che per il soggetto, più per le atmosfere che per la storia. Vale soprattutto per il suo interprete: non è ancora una star ma lo sarà . Irene Bignardi, ‘La Repubblica’, 29 agosto 1999 La grande quercia Belushi in Blues Brothers dichiarava di odiare i nazisti dell'Illinois. Evidentemente non aveva ancora incontrato quelli di Los Angeles. Ce li fa conoscere Tony Kaye con il suo film d'esordio American History X (di cui è anche direttore della fotografia e operatore), sulla base della sceneggiatura di David McKenna. Una storia famigliare, intensa, drammatica e disperata. Chiave della vicenda è Derek. Lontano mille miglia dallo stereotipo dello skinhead violento e imbecille. Derek è violentissimo ma non a uno stupido, sono solo certe circostanze a trascinarlo in un vortice mostruoso. E la molla di tutto a la morte del padre pompiere, assassinato da uno spacciatore nero mentre cercava di spegnere un incendio. In Derek esplode così una rabbia folle, irrazionale, nutrita dai luoghi comuni più odiosi che spinge il ragazzo a trasformarsi in leader di un gruppetto di fanatici neonazisti, che predicano la supremazia dei bianchi, oppressi da chi non rispetta le regole e per questo ben disposti a dare lezioni ruvide. Sino al fattaccio. Una notte due neri cercano di rubare l'auto di Derek, lui reagisce sparando, e non solo... in un delirio di violenza spaventosa, sotto gli occhi atterriti e affascinati del fratello minore massacra i due uomini. All'arrivo della polizia i ladri sono cadaveri. Per Derek è la galera, tre anni, per il fratello Danny la nascita di un mito. Poi, mentre Derek in carcere scopre che la supremazia dei bianchi è spazzatura, Danny rimane sempre più invischiato nel sottobosco di svastiche e letture apologetiche del Mein Kampf di Hitler. Costruito con continui flashback il racconto parte dal ritorno di Derek e dagli sviluppi della nuova situazione che si a determinata. Quel che distingue nettamente American History X è la capacità di rappresentare un universo inquietante senza schematismi. Buona parte della forza del film sta in Edward Norton (visto in Schegge di paura, Tutti dicono I Love You, Larry Flynt, Rounders), che per la sua interpretazione era stato anche candidato all'Oscar. Il suo Derek è un personaggio complesso, che lui stesso ha contribuito a creare lavorando sul copione, arrivando a trasformare un ragazzotto odioso con svastica tatuata in un personaggio che induce a riflettere più seriamente. E accanto a Norton, un altro Edward, Furlong, che offre un'interpretazione magistrale nei panni del fratello più piccolo, deciso a ricalcare le eroiche orme famigliari. Sullo sfondo sta la famiglia, la madre, interpretata da Beverly D'Angelo debole e succube, incapace di reagire adeguatamente di fronte alle distorsioni dei figli, mentre la sorella dei due sembra essere l'unico baluardo di non accettazione dell'obbrobrio. E sopra tutti aleggia il padre, uomo di poche parole, spesso sbagliate, uscito di scena malamente per avviare una tragedia che in qualche modo lui stesso aveva innescato. Sì, ci sono anche i cattivi maestri, Stacey Keach che lavora nell'ombra, ma il dato più inquietante deriva proprio da quell'assunzione quotidiana e banale di pregiudizi, di frasi fatte, di litanie contro neri, messicani, coreani e quant'altri, divenute cosa reiterate da non provocare più alcuna reazione, se non quella di scavare nel profondo di ragazzi adolescenti, convinti di avere ogni soluzione a portata di mano. Mani quindi che si alzano per colpire tutti quelli che sono ritenuti ostacoli sulla strada della supremazia dei bianchi cui spetta il compito di rimettere le cose a posto. Scorciatoie di inciviltà che negli Usa sembrano diffondersi alimentate anche dall’incapacità di un'analisi più seria per controbatterle. American History X, pur con qualche sbandamento narrativo nel sottofinale, porta invece il suo contributo per capire e combattere una faccenda maledettamente complicata. E forse la rappresentazione di questo nazista avrebbe potuto piacere anche a John Belushi. Antonello Catacchio, ‘Il Manifesto’, 29 agosto 1999 Troppo brutale prima del ravvedimento, troppo bravo ragazzo dopo: così ci vien da pensare di Derek Vinyard (Edward Norton), skinhead in quel di Venice, a Los Angeles. E lo pensiamo con un fastidio che, subito, non riusciamo a spiegarci. In American History X (Usa, 1998), scritto da David McKenna e girato dall'esordiente Tony Kaye - che sta anche personalmente dietro la macchina da presa -, non mancano momenti isolati di buon cinema, e neppure notazioni di qualche interesse sul merito. Ossia sui meccanismi che producono e guidano i movimenti giovanili razzisti e neonazisti d'oltre oceano. L'odio che Derek coltiva per sé e che, soprattutto, insegna al fratello minore Danny (Edward Furlong) non è quello alla Ku Klux Klan, tradizionale negli Usa. Non rispecchia l'America profonda, provinciale e contadina. Al contrario - lo stesso Derek lo rivendica, e con orgoglio -, esprime per così dire l'avanguardia del razzismo bianco metropolitano. Il suo riferimento speculare, non solo implicito, è il radicalismo degli afroamericani raccontato da Spike Lee in Fa' la cosa giusta (1989), Jungle Fever (1991), Clockers (1995), He Got Game (1998). A McKenna e Kaye, per altro, manca proprio quello di cui vive il cinema di Lee: senso delle sfumature, "sofferenza" delle contraddizioni, consapevolezza dell'irriducibilità dell'odio a una dimensione puramente morale, individuale, lineare. Al contrario il loro film, pur colmo di buone intenzioni e anche di buone ragioni, è in gran parte prevedibile e superficiale. L'idea narrativa che dà forma a American History X ha comunque una sua originalità: rievocare all'interno d'una vicenda che occupa non più d'una giornata la memoria e il senso di tre lunghi anni. Il film cui la sceneggiatura affida tale compito è la soggettività di Danny. Del tutto succube del fratello, il ragazzo si trova a farne oggetto d'una ricerca da elaborare e consegnare nel corso di 24 ore al proprio insegnante di storia (Avery Brooks). In tal modo la sceneggiatura cerca, e in parte ottiene, di dar conto allo stesso tempo delle motivazioni di Derek - di quelle che lo portano alla sua scelta neonazista e anche di quelle che lo convincono a ripudiarla -, e del senso che esse acquistano per Danny. Data questa premessa sarebbe lecito aspettarsi un film migliore di quello che, alla fine, riescono a darci McKenna e Kaye (che, per altro, sembra ne abbia in qualche modo disconosciuta la regia, in seguito a modifiche imposte in sede di montaggio anche da Norton). Ci si aspetterebbe intanto una narrazione più semplice, meno gravata dalla preoccupazione di dare al neonazismo di Derek una dimensione direttamente, esplicitamente "sociologica". E poi, soprattutto, non ci si aspetterebbe una certa d'atmosfera, vaga ma insistente, che troppo spesso ci disturba e ci guasta il piacere d'essere spettatori. Un paradosso infatti, percorre il film, certo contro le intenzioni degli autori. Ogni volta che Derek procede nel suo itinerario ideologico - sia avvicinandosi alle idee e al movimento hitleriano di Cameron Alexander (Stacy Keach), sia allontanandosene -, a noi viene il sospetto fastidioso che un McKenna e un Kaye essi stessi neonazisti avrebbero potuto darne una lettura e una valutazione appunto neonaziste. Per di più, avrebbero potuto farlo senza modificare altro che idee e parole, lasciando inalterate nella sostanza le linee portanti della storia oltre che, purtroppo, le immagini che le danno vita sullo schermo. È questo che ci delude e ci infastidisce, in American History X: non è il cinema il "luogo" in cui il razzismo e l'odio vengono davvero rivissuti, scavati, smontati, confutati. Quel luogo é invece extra-cinematografico: abita la dimensione delle convinzioni personali degli autori, e come tale solo si riflette nel loro cinema. E' lecito sospettare che, se quelle loro convinzioni fossero diverse, continuerebbero tuttavia a "riflettersi". Vogliamo chiamarlo programmatico, questo modo di procedere, di raccontare, di argomentare, di commuovere? O forse, e più direttamente, didascalico? La circostanza che la prospettiva politico-educativa, e il programma siano anche i nostri, non è sufficiente il farci superare quel tale fastidio e a farci ritrovare il piacere perduto degli occhi (e anche della testa). Al contrario, ci suggerisce una severità di giudizio persino maggiore. Programmaticità e didascalismo cinematografici, infatti, ci paiono "strumenti" culturali più adeguati a un qualunque Cameron Alexander che a chi voglia differenziarsene davvero. E così siamo di nuovo alla brutalità eccessiva e alla eccessiva bonarietà di Derek. Ora ce lo spieghiamo, quel nostro senso di fastidio. Derek non è un personaggio. Non ne ha la complessità, le contraddizioni, le sfumature. E poco più d'un pretesto, purtroppo. Roberto Escobar, ‘Sole 24 Ore’, 5 settembre 1999 Purtroppo il racconto di come nasce nell'ignoranza, si sviluppa nel più vieto machismo, vive nei disastri familiari middle class, e infine si pente, per necessità didattica, un giovane neo nazista americano, uno skin head che, pensando di vendicare il padre, porta al massacro il fratello, tutto ciò è ancora attuale. Lo dimostrano la prossima uscita di uno Hitler a fumetti e il mostruoso attacco di un maniaco nazi a un asilo ebraico in America. Quindi ben venga, in tutto il suo turgido aspetto didascalico e spettacolare, questo «American history X» di Tony Kaye, regista pubblicitario che non ha lasciato indifferente il pubblico. Erede di tutte le gioventù bruciate, con l'aggravante del fanatismo, del razzismo contro le gang dei neri, il film si cala nel mondo dei naziskin di Los Angeles ma non rinuncia all'introspezione di famiglia. Nulla passa inosservato nel film, teso e allucinato come la psiche del suo protagonista, il cui pentimento appare un po' posticcio, per la buona causa democratica. Testa rasata, svastica in primo piano, occhi sgusciati dalla violenza, muscoli ariani, questo prototipo della follia contemporanea si può annidare anche in un nucleo piccolo borghese, è il nazista della porta accanto, come in «L'allievo» e «Arlington road», è uno che può uscire di casa e massacrare due balordi. Ma la carta vincente del dramma psico-politico, abbastanza lineare, è nella strepitosa interpretazione di Edward Norton, affascinante e torvo mostro a due facce (subirà la pena del contrappasso in «Fight club»), intorno a cui ruotano ex divi come Stacy Keach ed Elliott Gould. Maurizio Porro, ‘Corriere della Sera’, 18 settembre 1999