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Non posso venire, ma posso darti delle indicazioni

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Non posso venire, ma posso darti delle indicazioni
- Non posso venire, ma posso darti delle indicazioni per trovare il posto. Del resto tu conosci la
zona in quanto da quelle parti ci vai spesso per la ricerca sui vitigni antichi. Tutto il territorio offre
degli indizi importanti su insediamenti del passato. Sul Precariti, ad esempio, a ridosso degli argini
non lontano dalla casa dei miei nonni di recente sono venuti fuori delle tombe, forse romane, del II
secolo a.C.
Il manufatto di cui ti accennavo è in contrada Castello e lo troverai in quanto è vicino ad un traliccio
dell’alta tensione. Arrivato al traliccio, guarda verso il mare ed in modo perpendicolare percorri
trenta passi. Mantenendo la stessa distanza da esso gira intorno. Prima di completare il cerchio ti
imbatterai nel manufatto. Esso è costituito da un basamento di massi squadrati, non legati tra loro da
malta e questo fa supporre che vi sorgeva qualcosa d’imponente in periodo ellenico. Secondo il mio
punto di vista si sarà trattato di un tempio. Ciò che resta assume le sembianti di un rettangolo,
orientato verso est, che nel caso, significa verso il mare. È intatto il lato minore, rivolto ad oriente e
misura circa 10 metri. Il sito è stato saccheggiato e ciò è evidenziato da un casolare rurale, che sorge
vicino, costituito da blocchi analoghi.
La solita leggenda popolare indica che nei pressi dei resti del “palazzo” è sepolto un tesoro e tocca
ad una ragazza trovarlo. Ella si deve recare completamente nuda, in una notte di plenilunio sul posto
e sdraiarsi supina ed immobile sulla piattaforma di massi. Arriverà dagli abissi, un serpente
immane, giallo, percorso da una striscia rossa sul dorso che comincerà prima a girarle intorno
lentamente, poi a lambire con la lingua, ogni parte del suo corpo. Se la ragazza avrà la forza di non
urlare e non sarà vinta dal terrore, la piattaforma si aprirà ed apparirà un vano sotterraneo illuminato
da torce. Alla vista si mostrerà un mucchio di oro scintillante e di pietre preziose irradianti riflessi di
luce. Da quel momento in poi ella sarà padrona del tesoro, da cui potrà attingere a piccole quantità,
per tutta la vita. Una scalinata sinuosa la condurrà nell’ipogeo e la stessa la riporterà in superficie
sulla piattaforma, che si chiuderà appena ella avrà poggiato i piedi.
- Ti è piaciuta la fiaba? - Sì, ogni posto propone qualcosa di analogo, ma questa ricorda chiaramente temi classici o
comunque tematiche del Mediterraneo antico, per via della presenza del serpente, simbolo della
fertilità e quindi della donna. In questo caso però esso ha un atteggiamento maschile, in quanto
circuisce la ragazza. Altre indicazioni potrei averle per raggiungere il posto? - Devi raggiungere contrada Fiorenza e dal piazzale dove sorge la casa del tuo amico, guardando a
nord, scorgerai il traliccio. Ti saluto “dono di Iside”, ma comprati un cellulare, tanto prima o dopo
devi cedere alle lusinghe del “nuovo che avanza”. Del resto è utile a te e ai tuoi, che si preoccupano
quando non ti vedono arrivare prima del buio. Maria si allontanò velocemente ed Isidoro si avvicinò al banco ed ordinò un cappuccino. Dopo
pochi minuti si ritrovò a costeggiare con la sua vecchia Panda, la riva sinistra dell’Allaro in
direzione delle montagne.
Come al solito, superato il ponte per Caulonia Superiore, ammirò le formazioni collinari
tondeggianti, di conglomerato naturale, che gli ricordavano tanto le meteore della Tessaglia.
Seguendo le indicazioni si fermò in uno spiazzo in contrada Fiorenza da cui scrutò verso nord ed il
traliccio gli apparve di fronte. Continuò ancora e lasciando la provinciale, prese a destra una
sterrata, raggiungendo contrada Palazzo. Le ultime piogge avevano danneggiato la pista e fu
obbligato a procedere con cautela , raggiungendo un pianoro poco distante.
Si fermò e prese con sé un borsone contenente una digitale, un affilatissimo coltello da tasca,
privato della punta, un grosso cacciavite, una tenaglia, una corda; prese ancora un orologio da polso
e un binocolo agli infrarossi. Ambedue portavano le sigle di appartenenza all’Armata Rossa; li
aveva comprati agli inizi degli anni 90 presso una bancarella allestita, davanti alla sua scuola, da
polacchi frammisti a ucraini, per 600.000 lire. L’orologio lo portava sempre con sé come
portafortuna, mentre l’altro oggetto solo raramente e quando pensava di fare delle escursioni in aree
impervie.
I binocoli agli infrarossi erano diventati per lui un’ossessione da quando ne aveva sentito parlare,
pochi giorni dopo la “guerra dei sei giorni”, quando Moshe Dayan li aveva fatti usare, per far
avanzare di notte le sue colonne corazzate nel Sinai. Si era augurato sempre di averne uno, perché
sarebbe stato utilissimo in molti casi. Infatti quando lo ebbe fra le mani lo usò per sperimentarne il
funzionamento la notte stessa, guardando da lontano due persone che fumando parlavano fra di loro.
In seguito, dopo la crisi dei partiti a causa di Tangentopoli, avendo avuto sentore, scrutò da debita
distanza, in una radura fra i boschi, una riunione notturna che credeva fosse di ndranghita. Seduti
attorno ad un piccolo falò, una cinquantina di persone confabulavano. Egli si era recato sul posto
dopo il tramonto e si era appostato in un anfratto roccioso, posto in posizione dominante sopra la
radura. Verso le 20 arrivarono cinque uomini; due con una mitraglietta a tracolla si allontanarono
subito, gli altri tre accesero il fuoco e attorno ad esso predisposero delle pietre, da usare come sedili.
Guardandoli con il binocolo non li riconobbe, neppure uno dei due delle mitragliette, che
posizionato su un’altura , ebbe modo di osservare lungamente; egli era una delle vedette della
ndranghita.
Esattamente alle 21,30 cominciò ad arrivare il resto della compagnia alla spicciolata. Man mano che
arrivavano si riconoscevano e si baciavano in maniera rituale e tutti quanti tributavano un ossequio
maggiore nei riguardi di due personaggi che superavano la settantina.Uno era piccolo e tarchiato ,
ugualmente piccolo ma più magro l’altro; erano personaggi di prestigio del “locale” ospitante. Ad
un certo punto, seguiti da un piccolo codazzo, arrivarono anche due signori, vestiti distintamente,
che dopo aver subito malvolentieri i baci rituali, si sedettero al pari degli altri sulle pietre.
Finiti i convenevoli, calò completamente il silenzio e quasi al centro, a ridosso del falò prese la
parola uno dei due signori distinti. Isidoro lo puntò con il suo binocolo agli infrarossi e avrebbe
preferito imbracciare un fucile di precisione, per piantargli in testa una pallottola, quando capì chi
fosse.
In effetti rappresentava la continuità del partito cattolico in Sud Italia, che specialmente nelle
competizioni politiche chiedeva la collaborazione della criminalità organizzata.
- Signori, esordì, il momento è tragico. Ancora, ed è la seconda volta che accade in meno di
cinquant’anni, l’Italia corre il rischio di cadere nelle mani dei comunisti. Il 18 aprile del 1948 tutte
le forze democratiche, comprese le vostre, risposero in modo corale alla tracotanza rossa, che venne
annientata. Ora si ripropone lo stesso pericolo e siamo qui, in questo luogo di pace, ad avvisarvi dei
pericoli che corriamo. Per voi il rischio è maggiore, in quanto nel programma dei nostri comuni
nemici, c’è particolare attenzione ai vostri patrimoni, accresciuti con tanta fatica e sacrifici, che in
prospettiva saranno confiscati, ripeto con-fis-ca-ti, che significa requisiti, presi, rubati ed assegnati
al patrimonio dello Stato. Corre per noi tutti, ossia si sacrifica in prima persona un personaggio che
in prospettiva non attenterà alle casse dello Stato, perché è ricco del suo. Contrariamente a dei
politici spiantati, all’inizio della loro carriera, che si sono ritrovati ricchi in seguito, egli rischia il
suo patrimonio, accumulato in una vita di estenuante lavoro, per il bene comune di tutti gli italiani.
Sono qui con voi perché il futuro è incerto e denso di pericoli. Ognuno di voi deve centuplicare le
proprie forze, coinvolgendo in questa crociata parenti ed amici, vicini e lontani. L’ora è difficile e si
aspetta da ciascuno di voi la piena collaborazione. Gli astanti ascoltavano senza fiatare e rimasero ammutoliti anche dopo che l’oratore, deputato al
parlamento dagli inizi degli anni 60, cessò di parlare. La luna splendeva alta nel cielo ed illuminava
quasi a giorno la radura, mentre in lontananza, emettevano il loro verso alternativamente degli
assioli. A questo punto ruppe il silenzio il secondo oratore, al suo secondo mandato parlamentare, di
tendenza socialista, che continuò sulla falsariga del primo.
- Amici, vi parla uno che conosce il livore dei comunisti, per averli praticati a lungo. Vi posso
garantire che sono assetati di potere e pieni di odio contro tutti quelli che non si identificano con le
loro idee. Essi considerano illegale e quindi da tassare fortemente, qualsiasi guadagno che non
derivi dalle fabbriche del Nord, dalle loro cooperative, dai lavori statali e da quelli artigianali. Essi
sono talmente miopi che considerano il vostro spirito imprenditoriale ed il vostro associazionismo,
come criminalità, come venale consorteria che succhia il sangue alla società. So per certo che la
vostra intelligenza, vi guiderà ancora una volta a scegliere per il bene della nazione ed in particolare
della nostra terra e della nostra gente. Molti di voi mi conoscono per le lotte che ho portato avanti a
favore della classe operaia in generale e per i lavoratori forestali in particolare. Vi posso solo
assicurare che con il vostro contributo, ancora una volta la sinistra sarà battuta. Il discorso questa volta produsse dei brusii ed un fitto e sommesso scambio di opinioni tra i
convenuti e ad un certo punto, prese la parola un uomo sulla quarantina, dai modi spicci e dalla
corporatura robusta, con i capelli ben curati e ben vestito.
- I nostri rappresentanti al parlamento ci chiedono, come al solito, l’aiuto che serve loro, in un
momento così difficile per la classe politica tutta, a mantenere i loro privilegi, a prescindere dalle
parole di circostanza che indicano un indistinto bene comune. Noi invece tutti chiediamo atti
concreti e promesse chiare, che starà a noi in futuro farle mantenere. Vi ricordo che le nostre ampie
possibilità, anche sul piano economico, derivano da enormi sacrifici di sangue che hanno toccato e
marginalmente ancora toccano le nostre famiglie. A prescindere dalle chiacchiere, cosa avremmo
noi in cambio? Chi garantisce per noi? - Avrete tutto, perché è una garanzia, per voi e per noi, l’uomo che scende in campo; è ambizioso,
venale, che pensa solo in termini di guadagno e di potere e che già è entrato in relazione da anni con
i vostri amici siciliani, da cui all’inizio ha avuto dei problemi e da cui invece ora ha lauti
finanziamenti, con guadagni reciproci. In aggiunta, ha numerose grane con la giustizia e questo lo
predispone naturalmente in atteggiamenti e modi di pensare consimili ai vostri. -
La risposta fu del deputato cattolico, navigatore di lungo corso nel mare del malaffare e degli
interessi particolari ed il suo discorso convinse quasi tutti i presenti. Lo stesso personaggio di prima,
ben vestito ed aitante prese l’iniziativa di sondare i rappresentanti delle famiglie presenti
nell’adunanza, che risposero positivamente, alla richiesta di appoggio politico dei due deputati.
Stettero impassibili e muti i fratelli Belfiore che con il loro silenzio però, provocarono l’intervento
del deputato cattolico.
- Don Peppino, mi sbaglio o voi non avete espresso il vostro assenso oppure la contrarietà a
riguardo? Dato il vostro prestigio e dal momento che noi tutti siamo ospiti del vostro sacro “locale”,
saremmo onorati nel sentirvi parlare. - Ed io vi accontento onorevole ricordandovi, che il vostro 18 aprile del 1948, fu preceduto da una
nostra adunanza, che coinvolse tutte le famiglie della Jonica, della Piana e di Reggio città. In
quell’occasione vostro padre intervenne ad invitarci a scendere in campo, in qualità di candidato al
parlamento del partito cattolico che avrebbe stravinto le elezioni, a favore del suo schieramento.
Erano presenti anche rappresentanti della chiesa, che ovviamente erano contro lo schieramento di
sinistra e che da lì a poco tirarono dalle chiese le statue dei santi, tra cui quella della Madonna di
Polsi, che presero parte attivamente e freneticamente alla campagna elettorale, trasportate senza
posa su carri trainati da buoi, o a spalla, da un paese all’altro.
Aggiungo che vostro padre precedentemente aveva aderito al partito fascista su sollecitazione di
vostro nonno che era stato deputato monarchico, che inoltre era stato molto attivo nel battersi contro
l’occupazione delle terre, prima demaniali, usurpate dai baroni appena arrivarono i piemontesi
portati da Garibaldi. - Dove volete arrivare, don Peppino con queste argomentazioni? Vi prego di concludere perché gli
amici qui presenti non hanno tempo da perdere in chiacchiere. - Di chiacchiere voi siete impastato, mentre io non ne ho mai fatto. –
- Siete irriverente ed ingrato nello stesso tempo. Comunque sia vi prego di concludere. - E cercherò di concludere, non prima di rappresentare le mie idee. - E fatelo vi prego. - Dunque guardatemi in faccia e noterete che ho una cicatrice sotto l’occhio destro. Era il 21
novembre del 1922, avevo 6 anni, quindi mi ricordo chiaramente l’accaduto, quando mia madre
volle risolutamente accompagnare mio padre che assieme a centinaia di persone si recava a
difendere la foresta di Callistro nel comune di Casignana. Essa era costituita da 400 ettari di buona
terra lambita dalla fiumara Bonamico, che era stata di proprietà comunale, dove i cittadini avevano
diritto di pascolo e di seminare il grano.
Dopo l’arrivo dei piemontesi, con cui iniziarono le nostre disgrazie e che erano stati portati nel Sud
da Garibaldi, che fra l’altro aveva rubato l’oro del Banco di Sicilia e dato ai piemontesi quello
rubato al Banco di Napoli, la foresta di Callistro era stata usurpata. Di essa s’impadronirono i
Carafa, fregiati dei titoli di principi di Roccella, marchesi di Castelvetere, duchi di Bruzzano.
Prima dell’avvento del fascismo socialisti veri, come il farmacista Sculli di Ferruzzano, il dott. De
Angelis di Brancaleone e l’Ing. Misefari di Palizzi, crearono dei movimenti di lotta nella Locride
meridionale che portarono all’occupazione delle terre abbandonate, ch’erano appartenute alle
comunità locali. Nacquero ovunque delle cooperative e mio padre aderì a quella denominata
Garibaldi, che quotizzò i 400 ettari della foresta Callistro ed assegnò dei lotti a 170 famiglie senza
terra, i cui componenti erano stati combattenti, in buona parte, nella prima guerra mondiale e a cui
erano state promesse le terre incolte dei feudi costituiti da terreni usurpati.
Mio padre era stato uno degli assegnatari e quando un’ordinanza del prefetto di Reggio, intimò la
restituzione delle terre ormai bonificate ai principi Carafa, i lavoratori si avviarono a difenderle.
Circa 300 persone, tra cui donne e qualche bambino tentarono la difesa, ma una squadriglia di
carabinieri, costituita da 20 elementi li attaccò e sparò loro addosso 101 colpi di pistola e moschetto.
Furono uccisi Micchia Pasquale, Panetta Girolamo, Micò Rosario e furono feriti gravemente
Ceravolo Francesco, Mollace Rocco, Russo Natalino, Ombrello Rosa, Scappatura Giulio, Di Gori
Domenico.
Mio padre fu ferito di striscio ad una tempia e quando mia madre lo vide insanguinato mi lasciò
urlando per soccorrerlo ed io travolto dalla ressa, caddi per terra ed una spina di perastro mi si
conficcò in volto e d’allora porto il segno. Restarono tutti con il fiato sospeso ed i versi alternati degli assioli ancor di più risultavano
evidenziati.
- Spero che abbiate finito, don Peppino, così ognuno di noi potrà tornare a casa. A me in particolare
toccherà una lunga notte di viaggio, perché domattina alle otto a Roma, saremo in riunione tutti i
coordinatori del movimento. - Onorevole, lei è sempre libero d’andarsene, tanto nessuno lo tratterrà. - Ah no, debbo comunicare le risultanze di quest’assemblea. E senza replicare riprese don Peppino.
- Da quel momento crebbi alimentato, oltre che da qualche tozzo di pane duro, dall’odio nei riguardi
dei boriosi proprietari terrieri, talvolta piccoli, poco più che pezzenti, protetti dal regime fascista,
che ci diede come compagna fedele la fame più nera.
Il tempo passò e la seconda guerra mondiale pure, che determinò la fine del regime ed una nuova
speranza di vita. Il dopoguerra fu durissimo e solo l’emigrazione verso l’America e l’Australia
diede requie alla fame, ma contemporaneamente le migliori risorse umane lasciarono la Calabria,
senza far più ritorno. Dopo il 18 aprile le forze più fameliche e corrotte s’impadronirono del partito
cattolico e della ndranghita, che fu stravolta.
I vecchi costumi, che avevano talvolta difeso i deboli, furono abbandonati e l’andragatìa, che
significa associazione di uomini virtuosi ed onesti, venne snaturata e si pensò al guadagno facile ad
ogni costo. Io personalmente, assieme a pochi altri in verità, votai sempre il partito comunista e mi
vanto di aver “spogliato” nel mio “locale”, decine e decine di “uomini” che militavano nel partito
del qui presente onorevole. Questo fino a quando, per la prima ed unica volta, convinto da un prete,
votai il partito cattolico. E la notte mi venne in sogno mio padre, morto da qualche anno, che era
stato anche il segretario della sezione del partito comunista.
Mi apparve qual’era prima che morisse, magro, ma alto, con la barba bianca e lunga, che piangeva
lacrime di sangue, che gli gocciolavano sulla camicia bianca di tela grezza e sui pantaloni neri di
orbace. Le braccia invece ce le aveva penzoloni prive di mani e con i moncherini, singhiozzando,
mi abbracciò. Urlai di dolore nel vederlo e gli chiesi cosa gli fosse capitato.
- Figlio mio da quando hai poggiato le tue mani sulle schede del partito cattolico, le mie, hanno
cominciato a puzzare di merda e nonostante le lavassi, esse continuavano a mandare il solito cattivo
odore. Sentendo ciò presi una scure, poggiai la sinistra su un ceppo e con la destra la tagliai. Il
dolore fu indescrivibile, ma la puzza cessò da quella parte, mentre per la mano destra invitai tua
madre a farlo, che piangendo esaudì la mia preghiera. E la puzza passò. Finito il discorso cominciò
a lanciare un urlo infinito di dolore ed io mi svegliai di soprassalto. D’allora in poi pentito ed
amareggiato, non votai più il partito che mio padre aveva combattuto. L’adunanza ascoltava in religioso silenzio e l’oratore continuava.
- Arrivarono gli anni 70 e “uomini” della “nostra società” cominciarono a funestare la Calabria e
l’Italia intiera con i sequestri di persona. Io assieme a mio fratello Antonio, unitamente al mio
dolcissimo amico, Antonio Macrì di Siderno ci battemmo contro questa infamia, argomentando che
gli uomini delle forze dell’ordine vengono definiti sbirri, perché privano i cittadini della libertà.
Pertanto concludevamo asserendo che tutti coloro che avrebbero privato gli altri della libertà, senza
essere istituzionalmente preposti a farlo, sarebbero diventati, cento e mille volte sbirri. Fummo
messi in minoranza ed Antonio Macrì fece la fine, che tutti conosciamo, mentre io venni infangato
con la diceria di aver guidato i sequestri di persona, su cui lucravano specialmente certe società
finanziarie dell’Alta Italia, che investivano i capitali in operazioni immobiliari, offendo tassi
d’interesse di quattro, cinque punti più alti rispetto all’inflazione corrente.
Passò del tempo e finita la stagione dei sequestri, sorretta talvolta individualmente da uomini
dell’apparato dello Stato, vedi il caso di qualche alto ufficiale dei carabinieri, iniziò quello del
traffico internazionale di droga, ancora più pericoloso e più negativo per la società, in quanto le
sostanze stupefacenti uccidono e costringono coloro che ne fanno uso alle umiliazioni più
degradanti e alla schiavitù prima della morte. Io assieme ad altri uomini di buona volontà
avvisammo che sarebbe stata stravolta anche la nostra terra, ma ancora una volta fummo messi in
minoranza. Ricordammo all’epoca che un fiume di sangue era stato versato per il fenomeno dei
sequestri e qualcosa di analogo sarebbe capitato per la droga.
In aggiunta a tutto ciò, da qualche tempo si sta materializzando un pericolo ancora più grave,
costituito dal traffico dei rifiuti tossici, se non addirittura radioattivi. Nell’area che va da Locri fino
a Melito, dalla costa alla montagna, in tutte le comunità diviene sempre più alta l’incidenza di morte
per cancro, che in alcune aree è la prima causa di decesso. I nostri uomini stanno permettendo tutto
ciò, non pensando al futuro dei figli e delle generazioni che verranno. Ancora vi dico che il mio
reddito deriva dal lavoro e che considero un senso di distinzione, avere le mani callose, come
quando con mio padre andavo a zappare la terra degli altri. Ancora adesso non sono ricco, assieme
ai miei figli e mi premuro di evidenziare la mia onestà e la mia onorabilità, basate su principi sani.
In riferimento a questo personaggio che dice di scendere in campo contro i comunisti, che non
esistono più neanche in Cina, mi sono fatto fare uno studio dal figlio del buon’anima del mio nipote
Giuseppe.
Egli ha studiato in un college inglese e si è laureato in Economia alla Bocconi, sta seguendo un
corso di specializzazione, che chiamano master, non so in quale università straniera. Dalle sue
ricerche risulta che le ricchezze di costui sono misteriose e che derivano principalmente da truffe,
da enormi capitali messi a sua disposizione dagli amici siciliani, da noialtri calabresi, dai
napoletani. È capace di tutto, non ha moralità, non ha scrupoli e tra le collaboratrici si sceglie le
puttane d’alto borgo e come aiutanti di campo, i sacchi di merda più puzzolenti d’Italia.
Avete scelto all’unanimità di appoggiarlo e prego Dio che ce la mandi buona.
Riguardo agli onorevoli presenti non mi meraviglio di quello cattolico, in quanto segue il suo corso
naturale, di lecchino e di servo dei corrotti, quanto a quello socialista, gli ricordo che io assieme a
suo padre e a suo zio prima del 18 aprile del 48, nella riunione tenuta in montagna, c’eravamo
battuti ferocemente contro l’appoggio al partito cattolico e fummo messi in minoranza.
Questa notte, dopo aver assolto la funzione di coordinare l’adunanza, nel “locale” più sacro della
Calabria, saluto tutti i partecipanti e li invito a ritornare in pace ed in serenità alle proprie case.
Buona notte. Don Peppino si allontanò velocemente assieme a suo fratello Antonio e salutò solo con cenni quelli
che avrebbero voluto baciarlo in modo rituale e si rifiutò di stringere la mano ai due onorevoli.
Per precauzione Isidoro volle aspettare fino ai primi barlumi dell’aurora, e dato che faceva molto
freddo, stava accucciato nella buca con il capo coperto da un passamontagna di lana.
Quando le stelle cominciarono a svanire quasi del tutto, solo allora raggiunse la sua macchina
seminascosta a circa due chilometri dal luogo della riunione.
Nei primissimi giorni della primavera di quell’anno si votò e i capi della ndranghita dopo alcuni
giorni, in un’elegante sala di un albergo della costa, brindarono con champagne di qualità superiore.
Isidoro pensava a questo, ma smise di farlo quando camminando tra le erbacce e i cespugli intravide
una parte di un basamento costituito di grandi massi squadrati. Cominciò allora la perlustrazione
metro per metro e si accorse che esso poteva essere appartenuto ad un tempio greco.
Notò che i massi laterali erano tenuti ai bordi da grappe metalliche e progredendo con attenzione,
seguì il circuito esterno ed alla fine concluse che il basamento poteva misurare all’incirca dieci
metri per venti. Il lato corto era orientato verso il mare, che in quel caso rappresentava l’est. Verso
sud-est in direzione di Ursini notò una torre di avvistamento arretrata, costituita da massi più piccoli
asportati dal tempio e contemporaneamente, a poca distanza da essa si avvide che la base dei muri
perimetrali di un manufatto rurale, di notevole grandezza, era costituita dai nobili materiali di risulta
rubati al tempio.
Cominciò a pensare per cercare di capire a quale divinità greca fosse stato dedicato il tempio che
sorgeva in una collina dominante, non molto distante dalla montagna, in un territorio appartenuto
all’antica Kaulon.
A questo punto si ricordò di aver letto da qualche parte, che le colonie italiote nel quarto secolo a.c.,
in un tentativo disperato di sopravvivenza, si erano federate ed avevano costituito un fronte comune
contro i tiranni di Siracusa, Dionisio il Vecchio e Dionisio il Giovane. Il primo infatti aveva portato
avanti un progetto egemonico che prevedeva la sottomissione sia delle colonie greche di Sicilia che
di quelle dell’Italia, che corrispondeva all’attuale Calabria. Tale suo sogno provocò la rovina totale
dei greci e le sue operazioni militari folli, portarono al massacro delle popolazioni delle più
importanti colonie greche d’Occidente. Il suo operato spianò la strada ai cartaginesi in Sicilia e ai
bretti e poi ai romani nell’attuale Calabria.
In quel funesto periodo le colonie italiote, in pace obbligata tra loro, fondarono il tempio di Zeus
Omarion, simbolo di armonia e fratellanza tra le colonie achee d’Italia e molti propendono a
pensare che sorgesse sullo Zomaro, che deriverebbe il nome dal tempio suddetto e che fosse situato
nel territorio di Locri. Si potrebbe ipotizzare invece che le vestigia di contrada Palazzo, si
riferiscono al tempio di Zeus Omarion.
Osservando attentamente seguì il tracciato del lato nord, che era posto a meno di quattro metri da
uno strapiombo alto circa 40 metri quasi in verticale, che metteva a nudo degli appicchi rocciosi
d’arenaria. Esso nella parte superiore era dotato, per lungo tratto da una serie di grossi lecci che
erano nati su fenditure della parete a poco più di tre metri dall’orlo ed erano cresciuti in modo
leggermente divaricato da esso, forniti di numerosi grossi rami. Con precauzione si affacciò sul
vuoto e notò che alla base del precipizio cresceva una folta macchia mediterranea e che vi correva
un sentiero forse tracciato e percorso da capre. Mentre era intento a quest’osservazione si accorse
che da qualche buca sulla parete cominciarono a sfrecciare dei grossi uccelli, forse gheppi; ne contò
cinque e questo lo incuriosì dal momento che essi sono diventati ormai abbastanza rari.
Da ragazzino aveva avuto in dono, da un amico più giovane di lui di un anno, un gheppio implume
e l’aveva allevato nutrendolo di cicale, grilli e lucertole. Le cicale ingoiate vive per qualche secondo
emettevano il loro verso nello stomaco degli uccelli e ciò divertiva molto i monelli, che solevano
privilegiare come alimento per i loro volatili grilli che cacciavano nelle stoppie, catturati o feriti con
l’ausilio di grosse verghe e le lucertole prese con il cappio d’avena.
Volle capire da dove fossero usciti ed allora si mise a camminare sull’orlo del precipizio alla ricerca
di un passaggio che gli permettesse di scendere sotto. Camminò per circa trecento metri, quando si
accorse che esso si abbassava e s’interrompeva in un pianoro che raggiunse; a poco più di due metri
da terra si notava una grossa buca sulla parete, a forma rettangolare, che a giudicare dal buio che
s’intravedeva, era funzionale a qualche profonda grotta. Notava però che l’accesso artificiale era
sovrastato da una fenditura, che rimpiccioliva verso l’alto, fino a scomparire. Si allontanò e da un
piccolo rilievo antistante puntò il binocolo e scrutò verso la grossa buca. Essa non serviva, da quello
che poteva dedurre, una grotta, ma era l’accesso ad un camminamento naturale che si addentrava da
qualche parte.
Trovò il sentiero delle capre e cominciò a percorrerlo. Esso non si discostava mai dalla base dove
era stato più facile camminarvi. Dopo pochi minuti si trovò sotto il dirupo, in direzione del
basamento del tempio e notò in alto, posizionata al centro di due lecci un’apertura a forma ellittica.
Puntò il binocolo e calcolò che essa potesse essere lunga ottanta centimetri circa e larga sessanta. La
base di essa era un po’ sopra quella dei due tronchi, che erano cresciuti, allo stesso livello, da due
spaccature degli appicchi rocciosi. Ancora con il binocolo cercò di scrutare dentro l’apertura, ma fu
necessario allontanarsi dalla base per migliorare l’osservazione. Per fortuna l’area era pianeggiante
ed era ricca di lecci e grosse querce, delimitata verso nord da un’altra parete rocciosa, sotto cui
cresceva un cerro alto più di quindici metri, molto ramificato. Riuscì a salire fino a metà dell’albero
e da tale posizione puntò di nuovo il binocolo. Attraverso l’apertura della parete poté constatare che
sotto il tempio esisteva una grotta, quasi sicuramente artificiale.
Continuò ad osservare la parete e a circa 6 – 7 metri dalla prima, verso est, notò un’altra apertura
dalla stessa foggia, ma più piccola.
Si sentiva felice per la fortuna che aveva avuto di imbattersi in un manufatto così straordinario, che
evidenziava la forte penetrazione culturale ellenica anche nell’entroterra.
Ritornò indietro ed arrivato di nuovo sul manufatto si sporse sul ciglio del precipizio per cercare di
capire il modo di entrare dentro la grotta, che poteva riservare grandi sorprese. Studiò i tronchi dei
lecci posti un po’ sotto il livello dell’apertura, distanti tra di loro circa 2 metri. Essi, essendo
leggermente divaricati rispetto alla parete, avrebbero potuto accogliere una trave che sarebbe
rimasta incastrata e che poteva diventare una base di appoggio per chi avesse voluto calarsi dall’alto
ed entrare nella cavità sottostante. Era necessaria una scure, perché si sarebbe trovato sul posto il
materiale necessario.
Mancando l’attrezzo Isidoro pensò di rientrare a casa, ma si ripropose di ritornare con tutto quello
che poteva servire per l’esplorazione.
La primavera avanzava con gli effetti straordinari dei colori offerti da svariatissime varietà di fiori,
con il verde ancora intensissimo per via delle ricorrenti piogge. Le fiumare, di solito scarse d’acqua
in quel periodo, manifestavano una ricchezza inusuale.
Arrivò alla marina e al solito bar, seduta in compagnia di un’amica, intravide Maria che consumava
un caffè.
Accostò al marciapiede più vicino e si avvicinò alle ragazze che manifestarono l’intento di offrirgli
qualcosa da bere. Egli pretese invece di pagare la loro consumazione ed ordinò un cappuccino
nonostante fossero le quattordici passate.
- Com’è andata? - Iniziò Maria.
- Insomma non male. Infatti ho individuato in contrada Palazzo, il manufatto di cui mi parlavi. - Sono contenta per te. Senti, dato che tu vai alla ricerca di fiabe popolari del territorio, mi son fatto
raccontare una da mio nonno e te l’ho pure trascritta. - Leggila per cortesia. –
E cominciò a leggere:
- Un tempo in un paesino alle falde di una montagna, in una casettina, vivevano marito e moglie.
Il marito faceva lo zappatore e quando capitava andava a faticare lavorando, la terra altrui,
mentre la moglie restava a casa a lamentarsi della sua condizione, con chi passava, perché non
c’erano altre case nelle vicinanze.
Un giorno il marito, tornando dal lavoro, trovò sulla strada un seme di fave inusuale per la
grandezza e se lo mise in tasca.
Quando arrivò a casa, glielo fece vedere alla moglie, che rimase meravigliata ed assieme decisero
di piantarlo. Non avevano però, nemmeno un pezzettino di terra, per cui fecero una buca, di fronte
alla porta della loro casa e lo piantarono.
Era il mese d’ottobre ed il tempo era ancora caldo, per cui in una decina di giorni spuntò una
pianta di fave, dal gambo più robusto del solito.
Marito e moglie erano felici ed andavano ad ammirarlo almeno cinque, sei volte al giorno, prima
che facesse buio.
Ogni giorno allungava a vista d’occhio e s’irrobustiva e dal mattino alla sera, cresceva più d’un
palmo ed il suo fusto, dopo una decina di giorni era più grosso di un manico di zappa e più alto
della loro casa e dopo un mese maestoso come una quercia, dotato di rami, mentre il suo gambo
era notevole per lo spessore.
Ogni giorno diventava più alto e più grosso e marito, moglie e tutti quelli che passavano, restavano
a bocca aperta a guardarlo.
Dopo due mesi crebbe quasi fino al cielo e dopo cinque, andò oltre, perché di esso non si vedeva la
fine.
Il marito, come al solito, quando gli capitava, andava a lavorare, ma tante volte restava a casa.
Un tempo non trovò lavoro per il giorno successivo, per cui, la sera, decise, d’accordo con la
moglie, che l’indoman, all’ alba, si sarebbe inerpicato sulla pianta per cercare di verificare fin
dove arrivasse. Era trascorsa ormai metà del mese di aprile ed era arrivato il bel tempo, mentre i
giorni, erano diventati più lunghi delle notti.
Prima che spuntasse il sole cominciò ad arrampicarsi , passando da un ramo all’altro e la moglie
ed un cane nero, da sotto, l’accompagnavano con lo sguardo. Egli guardava loro dall’alto e li
vedeva diventare sempre più piccoli, assieme alla loro casettina, fino a quando non li vide più e
notava una striscia bianca ch’era la fiumara ed il verde delle montagne; alla fine distinse una parte
scura ed una più chiara, ch’era il mare.
Ogni tanto si riposava e staccava dei bocconi dal pane che s’era portato in una bisaccia,
nutrendosi anche di fichi secchi di cui s’era riempito anche le tasche; per dissetarsi, leccava la
rugiada dalle foglie della pianta.
S’inerpicava e mai calavano le tenebre e finalmente raggiunse la cima della pianta, ch’era allo
stesso livello di una strada tutta d’oro. Scese e cominciò a camminare e ad ammirare le case
pur’esse d’oro, con le tegole fatte di pietre preziose luccicanti, mentre uccelli bianchi, verdi, gialli,
rossi, turchini, neri, volavano da un albero all’altro. Mentre camminava vide affacciato ad una
finestra, un uomo dal volto di tanta bellezza che i suoi occhi non ne reggevano lo splendore.
Guardandolo, gli chiese sorridendo:
“Buon uomo da dove vieni?”
“Vengo da un minuscolo villaggio; ma quanto è bello questo posto! Sembra il paradiso! Lei chi
è?”
“Sono Gesù e siamo nel paradiso”.
“Oh quanto sono felice! Vorrei restare per sempre qui, ma non posso perché mia moglie è rimasta
sola a casa!”
“ E’ giusto che tu ritorni ma resta fin quando vuoi qui dove il tempo è fermo e non fa buio mai”.
“Mi trattengo un po’ di tempo per godermi la pace”.
Gli uccelli emettevano i loro versi e una dolcissima e tenuissima musica si diffondeva dappertutto,
mentre ogni tanto, volando passava un angelo, lasciando una fragranza simile a quella delle rose
dai cento petali. Dopo un certo tempo decise di ripartire e salutò Dio, che gli chiese di esprimere
un desiderio ed egli timidamente rispose:
“Abbiamo una casa piccola e desidereremmo avere una più grande”.
“Va tranquillo, perché esaudirò il tuo desiderio”.
A quel punto cominciò a ridiscendere, passando di ramo in ramo e la luce era costantemente
uguale, ma tempo dopo si accorse che il sole cominciava a calare, per cui si affrettò a scendere. Al
tramonto giunse a terra e non si orientava dove fosse, perché si trovò di fronte ad una casa bella
come quella di una fata.
Bussò alla porta e gli aprì la moglie che gli riferì che un bel mattino, svegliandosi, capì di trovarsi
in una bella casa, fornita di ogni cosa che potesse essere utile. Al racconto di lei, egli replicò con il
suo spiegando il mistero.
“A questo punto”, aggiunse la donna, “avresti potuto chiedere anche un grande appezzamento di
terra attorno alla casa, che tu avresti potuto coltivare e vendendo i prodotti e ricavando dei
guadagni, avresti ottenuto di non andare più a fare il bracciante”.
Egli non replicò perché era molto contento del regalo che gli aveva fatto Gesù e pensava piuttosto
a godere delle opportunità che gli offriva la casa, confortevole e fornita di ogni comodità.
Passò del tempo ma la moglie insisteva quotidianamente per la richiesta di un pezzo di terra ed un
giorno Titta,così si chiamava, non ce la fece più e decise di risalire sulla pianta delle fave e
scalarla.
Lentamente s’inerpicò, ramo dopo ramo e finalmente arrivò in cima alla pianta da cui scese nella
solita strada d’oro, che ripercorse, giungendo sotto la solita casa, dove ritrovò affacciato ad una
finestra Gesù; il suo volto splendeva per la bellezza ed il suo sorriso incantava.
“Benvenuto nel paradiso buon uomo!”
“Gesù mio, non per i meriti che ho in piccola quantità, ma per la tua bontà, ti prego, soddisfa
l’aspirazione di mia moglie, che desidera ardentemente un pezzo di terra, intorno alla casa!”.
“Non ti preoccupare, gioisci qui in paradiso, per tutto il tempo che vuoi prima di far ritorno a
casa!”
Restò un po’ di tempo in quel luogo delizioso e poi cominciò a ridiscendere e a tempo debito, una
ser, all’imbrunire giunse alla base della pianta e si accorse che attorno alla casa si estendeva un
grande appezzamento di terra .
Da quel giorno Titta cominciò a coltivare la sua terra che produceva in abbondanza, ricavando
ingenti guadagni e non ebbe più necessità di andare a fare il bracciante per conto d’altri.
Possedeva infatti frutteti d’ogni tipo, vigneti, uliveti, seminativi, estesi boschi. Ormai aveva coperto
il fondo di una grande cassa di monete d’oro ed era talmente felice che per le strade camminava
sorridendo.
Passò del tempo e un bel giorno la moglie propose:
“Marito caro, non ci manca niente, però mi è venuto il forte desiderio di avere, da posizionare
sopra il nostro podere, un pezzo di cielo con delle stesse assieme ad un po’ d’armonia. Vai a
chiedere ciò al Signore”.
Restò trasecolato Titta per la proposta della moglie a cui replicò:
“Mia cara moglie, non sfidare la fortuna e cerca di essere contenta per quello che abbiamo, che è
tanto!”.
La moglie non volle sentire ragione e tutti i giorni lo tormentava con la stessa proposta.
Non ne poté più Titta e cominciò a risalire il fusto della pianta della fava e dopo tanta fatica
raggiunse la cima della pianta, da cui discese nella strada d’oro.
Camminando sveltamente arrivò sotto la finestra di Gesù, che quando lo vide arrivare smise di
sorridere.
“Titta cosa desideri ancora?”
“Mia moglie vi chiede un pezzo di cielo con delle stelle e un po’ d’armonia, da posizionare sopra il
nostro podere”.
Il Signore si rabbuiò, emise un lungo sospiro e i suoi occhi cominciarono a lacrimare
abbondantemente, mentre contemporaneamente un vento fortissimo, simile ad un uragano cominciò
a sibilare, sbattendo in tutte le direzioni la cima della pianta della fava e sconsolato si
lamentò:”Noooo!Via!Vattene via,ingrato!”
Il suo urlo di dolore ferì l’azzurro del cielo e in un baleno si radunarono nubi nere ,mentre
fragorosi tuoni turbarono la pace celeste ed il paradiso divenne buio,illuminato talvolta dalla luce
abbagliante dei fulmini.
Titta di corsa salì sulla cima, mentre cominciò a diluviare. Per sette giorni di fila ridiscese
attraverso il fusto della pianta, mentre dal cielo nero come la pece, l’acqua non smise mai di
scendere. Alla fine del settimo giorno, giunse e quando fu a terra la pianta scomparve e parimenti il
podere non c’era più, assieme alla casa,mentre quella di un tempo era diventata di un terzo più
piccola e sua moglie quando camminava all’interno, sfiorava con la testa il soffitto - .
La fiaba piacque tantissimo agli ascoltatori, compresi quattro, involontari, di un tavolo vicino, che
cessarono di interloquire tra loro e restarono a bocca aperta in religioso silenzio.
Alla fine dell’esposizione, dopo una banale conversazione su argomenti vari, Isidoro salutò ed andò
via. Strada facendo comprò tre travi di castagno di circa tre metri, che sistemò nell’abitacolo
dell’auto. Essi però risultarono troppo lunghi per cui lo sportello posteriore restò aperto e fu
necessario legarlo ai travi stessi per evitare che restasse aperto. Comprò inoltre cinquanta metri di
corda di canapa ben spessa e con questa attrezzatura meditò di ritornare nel sito del tempio e calarsi
lungo la parete per cercare d’introdursi nella grotta.
Per alcuni giorni lavorò sulla corda che divise in due parti uguali: su una, ogni metro circa, preparò
dei nodi, l’altra invece la divise a sua volta a metà , aggiungendo su le due parti ogni 40 cm dei
robusti stecchi di legno, lunghi circa mezzo metro, che intaccava alle estremità e legandoli ai due
pezzi di corda con robusto spago e alla fine ricavò una valida scala a pioli . Ebbe addirittura
l’accortezza, in direzione di ogni polo di predisporre un nodo sulle due parti, per evitare che si
deformasse la scala stessa. Le due estremità superiori furono lasciate libere dagli stecchi per circa
2,5 mt, perché potessero essere legate a qualche cespuglio o piccolo albero, che crescesse sui bordi
del dirupo. Si stava preparando a ritornare sul posto, quando ebbe la visita di un signore sconosciuto
che volle parlare di archeologia.
Durante una partita di caccia nel comune di Gerace, mentre inseguiva le tracce di un tasso, si era
infilato in una buca ai piedi di un dirupo. Essa a malapena permetteva l’accesso ad un uomo che, a
gattoni, tentasse di seguire il cunicolo che si sviluppava dalla buca per una decina di metri.
All’improvviso il camminamento s’interrompeva dentro una grotta molto ampia e stranamente
illuminata. Infatti sul lato rivolto ad Oriente due lunghissime fessure si aprivano, comunicanti
all’esterno con la parte tormentata di una collina, che degradava in un burrone e l’accesso era stato
costruito artificialmente dalla parte più agevole, con grande fatica, mentre sarebbe stato più facile
ricavarlo da una delle due fessure, ma ciò ne avrebbe reso meno facile l’accesso. Pretese che
l’accompagnasse nel posto descritto, perché ricco di vasellame strano.
Isidoro tentò di resistere alle sue proposte, ma poi cedette quando gli fece il nome di un amico
comune. Organizzarono la visita e giorni dopo si ritrovarono nella grotta, che in effetti si dimostrò
ricca di vasi unghiati o dotati di motivi stentilleniani. Chiaramente il sito era stato abitato da uomini
neolitici, il cui passaggio era documentato dalle pareti annerite dal fumo, a ridosso delle fenditure.
Isidoro si mise a frugare per terra con una martellina ed una piccola cazzuola e subito cominciò a
trovare delle scaglie di ossidiana e di selce. All’improvviso, mentre era intento in tale occupazione
sentì rimbombare nell’antro la propria voce e voltandosi si accorse che lo sconosciuto aveva acceso,
ad alto volume un vecchio registratore.
- Bastardo – urlava Isidoro dall’apparecchio – se avessi una carabina, ora ti pianterei in un occhio
una pallottola! Lurido bastardo, sporco maiale, quanto ti odio, quanto ti odio! Se avessi saputo della
possibilità di averti a così breve distanza, avrei fatto di tutto per procurarmi un’arma per porre fine
ai tuoi infami giorni!!! Isidoro allibito guardò lo sconosciuto, che ghignava con un sorriso sardonico.
- Che significa questa messinscena? Quando ho urlato quelle imprecazioni e perché? - Si ricordi del viaggio elettorale del presidente portato avanti per via mare. Allora gli uomini dei
servizi fummo dislocati sulla costa, specie a ridosso dei porti preposti a possibili “sbarchi
propagandistici”. Allora notai che lei munito di un binocolo, si era acquattato dentro una casamatta
della IIª guerra mondiale, dislocata a ridosso del porto abilitato alla “sortita” presunta dell’uomo che
lei all’epoca odiava a morte. - Allora l’odiavo semplicemente, adesso invece sono ossessionato dall’idea di doverlo uccidere e
sogno in continuazione la sua morte. - Come mai? - Questo porco ha sporcato definitivamente l’anima di buona parte degli italiani, che sperano di
rubare quanto lui, di corrompere quanto lui, di diventare potenti quanto lui. Egli si prende gioco
degli italiani, ossessionato dalla sua megalomania e di essi è diventato il balocco. Io sogno invece di
rompere e fare a pezzi il balocco degli italiani. Lo sto studiando da tempo, assieme ad un uomo
della sua scorta, mi pare un siciliano, alto, magro, preoccupato, che guarda a destra e a manca,
temendo l’arrivo di una pallottola, che lo raggiunga al posto del bersaglio prefissato. Secondo me
medita di farla finita con tale infame occupazione, ma ancora vuol resistere per un po’ di tempo,
forse per amore dei soldi. -
- Lo conosco ed ultimamente esprime agli intimi la sua cocente delusione per il politico di cui
organizza la protezione. Egli è mio parente acquisito in quanto aveva sposato una mia cugina,
bellissima, dolcissima e molto buona. Ella è morta anni fa e lo lasciò nella disperazione. Aveva
avuto una bambina, che ora ha quindici anni, che somiglia molto alla madre. Il padre vive per lei e
solo sporadicamente si permette qualche fugace relazione, sempre poco impegnativa.
Anche la ragazza non riesce a vivere senza il padre, che incarna agli occhi suoi la figura di ambedue
i genitori. Ella aveva libero accesso ad una delle dimore dell’uomo per cui il padre organizza la
scorta.
Mesi addietro all’improvviso ebbe il desiderio di vedere il padre, turbata da una visione
angosciante. All’alba aveva sognato un elicottero del presidente in volo su un prato in fiore, dove lei
coglieva narcisi e fiordalisi. Riconobbe il velivolo e cominciò a sbracciarsi per salutare, chiamando
il suo papà, che immaginava fosse a bordo. All’improvviso un boato si udì e l’elicottero fu avvolto
da un globo di fuoco e poi in mille frammenti cominciò a spargersi sul prato.Si mise ad urlare
disperatamente ed accorse al suo capezzale la nonna, presso cui viveva assieme al padre. Tra le
lacrime le raccontò dell’incubo ed espresse il desiderio di essere accompagnata a vederlo, ad
abbracciarlo, a baciarlo, a passargli le mani tra i capelli, come faceva, quando egli esausto si
addormentava sul divano del salotto al rientro dal lavoro.
La nonna cercò di rassicurarla, dicendole che sarebbe stata sufficiente una telefonata. Lei però non
si convinceva e sempre piangendo chiedeva del padre, che risultava irraggiungibile sul cellulare.
Alla fine prenotarono un taxi, che le accompagnò nei pressi della dimora del presidente. Si
avvicinarono alla villa e nei pressi di essa incontrarono un agente preposto alla scorta, amico del
padre che la conosceva da bambina. La nonna restò in auto, mentre loro due entrarono in villa e si
diressero verso il porticato interno, abbellito da piante di ogni tipo; al centro dello spazio più intimo
si articolava una piscina dall’acqua tersissima ed immobile.
Attorno c’erano dei tavolini con delle sedie eleganti e dallo stile sobrio, posti sotto il fresco di
graziosi pergolati di piante rampicanti, che essendo in fiore, emanavano una tenuissima fragranza. Il
posto era deserto ed accompagnati da un altro uomo della sicurezza, si sedettero in un angolino non
lontano dalla piscina. La ragazza tentò ancora di contattare il padre, riuscendoci. Aspettarono il suo
arrivo e tutto ad un tratto apparve il presidente, nudo, disfatto nel volto, stanco, dall’espressione
quasi disperata e con il pene eretto. Velocemente si avvicinò ai bordi della piscina e si tuffò in
acqua. I due non furono visti e in punta di piedi si allontanarono, cercando di guadagnare l’uscita,
dove il padre li avrebbe aspettati, perché da qualche ora libero d’impegni.
Per tale motivo infatti, si era recato in un posto vicino, per comprare un libro per la sua bambina. La
ragazza, sconvolta per la visione precedente, cominciò ad essere scossa da convulsioni, seguiti dopo
un po’ da conati di vomito. Era digiuna, per cui ad un certo punto riuscì solo a rimettere qualche
piccolo boccone di un liquido giallastro, prodotto dalla bile. A pochi passi dall’uscita incontrarono
il padre, che constatò lo stato di frustrazione in cui era caduta la figlia, che piangeva. Raggiunsero la
nonna e poi l’auto del genitore, con cui si recarono a casa. Durante il tragitto l’amico, raccontò al
padre ciò che era accaduto ed egli a sua volta si mise a singhiozzare.
La ragazza per alcuni giorni fu febbricitante per un forte travaso di bile, per cui fu sottoposta a delle
cure disintossicanti. Dopo una decina di giorni fu fuori dallo stato tossico, ma continuò a permanere
in una grave depressione che ben presto la portò all’anoressia.
Della vicenda nessuno ebbe conoscenza e dello stato depressivo conseguente, neppure l’amico del
padre, che cominciò a nutrire un sordo rancore per l’uomo, a favore del quale organizza l’apparato
di sicurezza. Isidoro ascoltò il racconto e alla fine chiese della ragazza, che ancora era ricoverata in una clinica
specializzata, dove aveva iniziato il percorso di liberazione dalla grave depressione.
Chiese ancora del perché il presidente fosse stato visto in quello sconveniente stato ed ebbe una
spiegazione.
- Circa dieci anni fa, iniziò l’uomo dei servizi, fu sottoposto ad un delicato intervento alla prostata,
che come si sa può portare all’impotenza per circa due anni o a quella definitiva.
Quando il presidente fu informato di questi rischi, si adoperò fino allo spasimo per cercare di fugare
questi pericoli. Infatti la gratificazione sessuale per lui è al primo posto, negli interessi seguita
dall’ossessione per il potere. Infatti, in un attimo di smarrimento e di sconforto aveva meditato
addirittura il suicidio. Fortunatamente per lui, con un magistrale intervento in profondità sulla parte,
eseguito da eccellenti medici, la funzione sessuale fu ripristinata.
Era stato in astinenza per un certo periodo e quando ritornò ad una certa efficienza , cominciò a
rafforzare la funzionalità degli organi con viagra e cocaina.
A questo punto però, nacque un problema, per cui dopo ogni incontro sessuale, favorito dai suddetti
espedienti artificiali, il presidente risulta perseguitato talvolta da una forma di priapismo. In altri
termini il suo pene può restare in erezione anche per più di un giorno con conseguenza negative per
la sua funzione politica. Infatti più di una volta ha dovuto disertare riunioni importantissime e due
volte incontri internazionali. Quando capita questo inconveniente gli sopravvengono degli stati di
sopore e di quasi incoscienza, dovuti ad abbassamenti di pressione. In altri termini il presidente è
malato e talvolta pensa di curarsi con scorpacciate di sesso, aumentando così il suo stato di ansia.
L’uso della cocaina poi, gli accentua la megalomania. Infatti è convinto di essere un grande statista
ed è sicuro di passare alla storia. Studia i grandi e cerca un punto di riferimento. Ramses II lo stava
quasi convincendo, ma quando seppe che ebbe come moglie anche una figlia ciò lo disgustò. Scartò
Giulio Cesare per la sua omosessualità, come pure Alessandro Magno, impotente ed omosessuale.
Fu molto attratto da Nerone, di cui apprezzò il buon gusto per le grandi opere architettoniche e per
le capacità amministrative e finanziarie. Analizzò le figure di Attila e di Gengis Khan, ma non fu
convinto a causa della loro crudeltà eccessiva. Annibale lo sedusse per un breve periodo, come pure
Napoleone Bonaparte.
Studiò alcuni aspetti della politica demagogica di Mussolini, di cui ha adottato alcuni aspetti della
legge Acerbo. Attualmente è impegnato a leggere resoconti su Annibale, Augusto, Pietro Il Grande,
Solomone, Orazio Nelson. - Bene, ho capito, ma che centro io con questa messinscena? - Quando registrai le sue imprecazioni contro il presidente, tenni tutto per me, informandomi sul suo
conto. Seppi ch’era una persona pulita, che si batteva per alcuni ideali, ch’era talvolta impegnato nel
sociale. Inoltre nutro una profonda avversione per il personaggio, per l’anti-italianità che
rappresenta. Io invece sono stato educato a forti sentimenti di patriottismo, perché mio padre era
stato volontario nella guerra civile spagnola contro il governo legittimo di quel paese. Aveva preso
parte alla battaglia di Guadalajara, combattuta nel marzo del 1937 dove fu ferito ad una spalla.
Nella 2ª guerra mondiale fu ancora ferito e poi preso prigioniero dagli anglo-americani a ElAlamein, dove furono annientate le forze dell’Asse, guidate da Erwin Rommel.
Rientrò in Italia nel 1946, dopo una lunga detenzione in un campo di concentramento inglese in
Rhodesia e si sposò nel 1951 ed io nacqui nel 1954. Era un militante del M.S.I. ed adorò Giorgio
Almirante, che conosceva personalmente. Mi allevò secondo i suoi principi rigorosi di patriottismo
ed io quasi da subito, non mandai giù alcuni atteggiamenti del presidente. - Va bene, però ancora continuo a non capire. - Spiego allora. Poco tempo addietro ci ritrovammo in una località montana cinque amici, servitori
dello Stato, talvolta d’alto livello e siamo arrivati alla decisione di adoperarci per salvare l’Italia,
trascinata ormai verso un declino inarrestabile, dal modo anomalo di governare dell’attuale leader.
Ciò è possibile con la sua eliminazione fisica. Tra i cinque c’era anche il mio parente, che organizza
l’apparato di sicurezza del personaggio in questione. - Ma io che c’entro. - Lei può essere utile grazie al suo odio, poi è serio, non è giovane, pensa con preoccupazione al
futuro dell’Italia, dei giovani, dei figli. Stiamo tentando di creare delle reti di possibili attentatori,
facendo passare l’idea. Lei non è l’unica persona avvicinata. Al nostro attivo ci sono ormai un
centinaio di contatti. - Ma in concreto cosa state facendo? - Stiamo costituendo tanti piccoli arsenali di fucili di precisione, che potremmo mettere a
disposizione. Al momento abbiamo una base in Sardegna dotata di tre fucili di precisione, una in
Lombardia, una nel Lazio, un’altra in Abruzzo, un’altra in Calabria dotata di un solo fucile di
precisione. Stiamo tentando di predisporre altre due dislocate in Puglia e Campania. Le persone
contattate non sono più giovani. Sono stati studiati i loro comportamenti attuali e quelli del passato,
per ravvisare o meno atteggiamenti coerenti.
Le persone scelte hanno avuto un passato limpido di militanti del P.C.I., che dimostrarono da
giovani un chiaro rispetto, anche formale, delle regole democratiche, rifiutando e combattendo le
pretese sovversive di gruppi extraparlamentari, tra cui le B.R., sicuramente infiltrate all’epoca dai
servizi, da cui erano indirizzate verso obiettivi falsamente rivoluzionari. Uno solo, ripeto su cinque,
proviene dalla destra, ex-militante del M.S.I., legato ad un filo di parentela con donna Assunta e con
me.
Ognuno del nostro gruppo ha il compito di operare all’insaputa degli altri e ha messo a disposizione
una somma cospicua, relativamente alle proprie possibilità: 50.000 euro in contanti, che formano la
dotazione di ogni base, per le spese indispensabili di chi si servirà del fucile.Le armi dotate di visori
agli infrarossi, sono stati messi a disposizione da un alto ufficiale dell’esercito, che fa parte del
gruppo. Nel sacco che le darò, se sarà d’accordo, troverà una busta, dentro cui su un foglio, sono
trascritte le coordinate del posto dove è stato collocato un fucile di altissima precisione, dotato di
mirino telescopico agli infrarossi e di silenziatore. Assieme alla busta ci sarà un sacchetto di pelle
contenente 200 proiettili, un G.P.S. molto sofisticato, capace di margini d’errore limitatissimi e
naturalmente una determinata somma di denaro. Ha capito un po’ il meccanismo? - Più o meno, ma avrei bisogno di qualche chiarimento. Come riceverò le coordinate e quanto
tempo prima? - Dimenticavo, assieme alle altre cose ci sarà un telefono cellulare, della cui scheda l’intestatario
risulterà un uomo, di cui sono stato in possesso di carta d’identità e numero di codice fiscale. Molti
documenti smarriti passano attraverso i nostri uffici. Sul telefonino di volta in volta riceverà il
messaggio con le coordinate del luogo pubblico o privato che sarà visitato dal personaggio in
questione.Il messaggio le giungerà da un cellulare in mio possesso, la cui scheda è intestata ad
un’altra persona. Naturalmente, quando sarò certo ed il luogo sarà ritenuto valido, il messaggio le
sarà inviato due giorni prima. A questo punto lei dovrà cercare il luogo da cui sparare e prima andrà
a recuperare il necessario per farlo.
Naturalmente ci sono dei posti improponibili, quale ad esempio Palazzo Marino, a Milano, che per
essere utilizzato per un agguato, bisognerebbe avere delle amicizie sicure ed importanti al teatro
Alla Scala da parte dell’attentatore Naturalmente le occasioni non mancheranno, considerando che
il giorno in cui io registrai le sue affermazioni, lei, avendo avuto un fucile di precisione, avrebbe
fatto in tempo ad uccidere il presidente, prima che io la fermassi. Naturalmente cerchi di
frequentare un poligono di tiro, che le costerà un po’ di soldi, ma per queste necessità lei attingerà
alla somma che le consegnerò. - Con lo stato d’animo che mi ritrovo, non ho pace né notte né giorno, accetto le sue proposte. Ho
molti dubbi sulla sua sincerità e potrei considerarla un provocatore, ma ho preso già delle
precauzioni. Infatti, mentre lei parlava ho predisposto il mio cellulare alla registrazione della nostra
conversazione. Esso è abbastanza sofisticato e mi è stato passato da una delle mie due figlie, che ha
comprato un altro più adeguato alle sue esigenze. Ecco, le faccio ascoltare la nostra conversazione.
Ascolti e tenga tra le sue mani il cellulare e così deciderà o meno la collaborazione mia al suo
progetto. È chiaro che se lei non fosse sicuro, ora cancellerebbe la registrazione, in caso contrario
invece … Il presunto agente dei servizi, prese in mano il telefonino ed ascoltò la conversazione, trasalendo,
sbiancando o arrossendo di volta in volta.
Alla fine della conversazione riconsegnò l’apparecchio, aggiungendo:
- accetto la sfida, il suo odio mortale sarà una garanzia per me. Ma come userebbe questa
registrazione? - Io, per cautelarmi, farò svariate registrazioni, nascondendole in posti diversi di una mia casa di
campagna. In caso di necessità … - Ho capito, le consegnerebbe alle autorità giudiziarie o almeno a qualche caserma di carabinieri. - Esatto. - Ripeto, accetto la sfida. Sia cauto e si prepari all’evento, assolutamente indispensabile. Spero che
a lei toccherà la buona sorte, di eliminare dalla scena sudicia della politica italiana il presidente. -
Uscirono dalla grotta e cominciarono a percorrere la contrada Prestarona, sempre in discesa, fino a
quando non raggiunsero una strada intercomunale dove si apprestarono a salire in macchina.
Stavano per farlo quando una voce li raggiunse e da essa Isidoro riconobbe un suo conoscente, un
tal Fiorenzo, che in modo festante gli comunicò che si era fatto raccontare, dalla vecchia madre una
fiaba del territorio. Infatti era stato incaricato da Isidoro ed aveva adempiuto all’impegno.
Si sedettero su delle pietre, sotto un ulivo e il narratore cominciò:
- Da anni Gesù con i suoi apostoli girava per il mondo per diffondere il suo messaggio di pace e
d’amore. Un giorno mentre camminavano intravidero da lontano un paesello, situato alle pendici
di una montagna. Tutti andavano con le bisacce vuote e avevano un forte languore allo stomaco
perché non mangiavano dal giorno precedente:
“Maestro, fermiamoci perché siamo sfiniti dalla stanchezza, dal momento che stiamo camminando
da stamattina e come voi potete constatare, sarà mezzogiorno!”
“Abbiate ancora un po’ di pazienza, perché ci riposeremo nelle vicinanze di quel paese che si
chiama Natile”.
“Piuttosto provvedete a qualcosa da mettere sotto i denti, poiché da ieri non assaggiamo neppure
acqua e dato che ormai siamo alla fine di novembre, nei campi non si trova ormai più niente da
mangiare, perché se fossimo in estate potremmo saziarci di uva e di pere!”
Disse stizzito San Pietro a Gesù che sospirando rispose:
“Ognuno di voi prenda una pietra perché fra mezz’ora ci fermeremo!”
Tutti gli altri apostoli recuperarono una pietra grande il doppio di un mattone pieno, che si misero
su una spalla e continuarono il cammino. San Pietro invece, bofonchiando qualcosa, raccattò una
minuscola pietra, meno grande di un fico e se la mise in tasca.
Arrivarono in un pianoro ben esposto al sole, dove c’erano tante piccole rocce, adatte a riposare e
Gesù invitò:
“Sedetevi!” Poi aggiunse: “Che ogni pietra divenga pane!”
E ognuno ebbe pane fresco e caldo, che pesava tre, quattro chili, per cui cominciò a mangiare,
dopo aver ringraziato Gesù.
Pietro tirò dalla tasca il suo pane ch’era più piccolo di un fico e per la rabbia non voleva neppure
mangiarlo, ma piuttosto tirarlo sulla testa di un cane scheletrico, che con la lingua di fuori ed
emettendo bava, fissava proprio lui che non aveva pane.
Poi decise di mangiarlo e mettendolo in bocca non lo sentì a momenti e dopo averlo appena
masticato lo inghiottì, osservando gli altri che mangiavano e poi bevevano da una sorgente che
zampillava da una roccia.
Dopo che finirono di mangiare, ripresero il cammino e andavano con lena poiché avevano ripreso
le forze, dopo aver mangiato metà pane e conservato il resto nella bisaccia. Pietro invece
camminava barcollando per l’estrema debolezza.
Ad un certo punto Gesù disse:
“Ognuno prenda una pietra!”
E tutti si rifornirono di una uguale alla prima, tranne San Pietro che si caricò di un masso che
pesava mezzo quintale e che lo fece incurvare, per cui per ogni passo emetteva un lamento.
S’inerpicarono in un’erta sull’orlo di un dirupo e finalmente arrivarono in un pianoro, al cui
centro c’era una roccia incavata e a quel punto Gesù disse:
“Ognuno si sieda sulla pietra trasportata!”
E tutti lo fecero riposandosi.
San Pietro restò secco e scaraventò la pietra vicino alla roccia incavata. Gli altri presero il pane
che avevano messo da parte prima e ripresero a mangiare. Egli sotto una quercia raccolse una
manciata di ghiande, che erano dolci, s’infilò nella cavità della roccia e cominciò a mangiarle
come un ghiro, lamentandosi sottovoce.
Da quel giorno, quella roccia, che è vicina a quella di Pietra Cappa, fu chiamata la roccia di San
Pietro. Il presunto agente fu molto attento al racconto, evidenziandone l’apprezzamento e ridendo di gusto.
Alla fine Fiorenzo andò via e loro due presero la via del ritorno e durante il tragitto furono tutte e
due muti ed impacciati. Solamente un po’ prima di essere lasciato ai bordi di un marciapiedi, non
lontano da casa sua, Isidoro chiese all’altro a bruciapelo:
- perché non l’uccidete voi e commissionate agli altri la sua eliminazione? - Perché abbiamo giurato sulla testa dei nostri figli, tenendo in mano una copia della Bibbia, che
mai e poi mai avremmo mosso un dito contro di lui. Io e mio cugino siamo molto superstiziosi, per
cui impegnarci fisicamente e direttamente ci sembrerebbe un sacrilegio, con conseguenze sui nostri
affetti più cari. Ispirando invece il delitto, ci sentiremmo con la coscienza a posto. - Allora solo in cinque siete a conoscenza del progetto? - Per gli altri non so rispondere, ma per quanto mi riguarda ho messo al corrente del piano Donna
Assunta, zia di mia moglie, che con ansia aspetta la fine di questo ridicolo incubo - Ah, ho capito, ma non tutto mi sembra chiaro. - Comunque prima di scendere prenda il sacco con l’occorrente contenuto, tra cui il G.P.S., i
proiettili, il cellulare, una determinata somma di denaro minore di quella disponibile per ogni base,
il manuale d’istruzione per il fucile. Non parlarono più e al momento di lasciarsi si salutarono con un cenno della mano.
Isidoro per alcuni giorni fu continuamente distratto ed assorto in pensieri vari, incapace di agire ed
operare per i suoi piccoli progetti.
Ormai, da circa 5 mesi ometteva persino di leggere i quotidiani e solo sporadicamente ascoltava
qualche notiziario dalla tv. In passato era stato militante di base del P.C.I., rigoroso e talvolta
dogmatico, aveva odiato la D.C. e i suoi uomini, che secondo il suo punto di vista avevano svenduto
il Sud alle lobbies affaristico-mafiose. Il suo impegno contro la Democrazia Cristiana, era stato lo
scopo principale della sua vita. Ora invece era venuto a mancare pure quello, in quanto dei luridi e
corrotti omuncoli si erano arrogato il ruolo di oppositori ad un regime basato sulla falsità, sul
ridicolo, sull’apparenze, sul meretricio a tutti i livelli.
Ormai l’Italia era perduta definitivamente e tale convinzione s’era rafforzata in lui, dacché si era
recato quattro volte in Lombardia, in sei mesi. Si era reso conto che persino il cuore economico
della nazione era malato. Aveva notato infatti che la gente era triste, specie i giovani senza futuro e
senza prospettive. Si era fermato in un paesino dell’hinterland milanese ed aveva constatato che
tutte le finestre delle case sul piano terra erano dotate di robuste inferriate e che cani da guardia
occhieggiavano feroci latrando, attraverso recinzioni che cautelavano la vita di presunti ricchi.
Aveva fatto un allucinante viaggio in treno, l’ultima volta, in compagnia di due laidi figuri, che
operavano per conto della ndranghita, nella terra che era stata la dolce patria di Alessandro
Manzoni.
Era rimasto sconvolto per i loro atteggiamenti vomitevoli e per le vanterie proterve, su presunti
collegamenti loro con il potere politico dominante, specie della destra tradizionale, attraverso cui
controllavano le assunzioni delle aziende tranviarie di tutta la Lombardia. Ricadeva sotto il loro
controllo Malpensa, grazie ad una schiera di fedelissimi “picciotti di sgarro”, che erano stati imposti
addirittura al partito che presumeva d’interpretare gli interessi del Nord. Naturalmente il
movimento-terra di buona parte della regione era appannaggio dei calabresi che sarebbero sul punto
di fare il salto di qualità, infiltrando le grandi imprese del settore edilizio.
Il costruttore per eccellenza di Milano, d’origine non lombarda, soggiaceva ai loro dickat, con
regalie, rappresentati da appartamenti;addirittura avrebbero voce in capitolo nel grande affare dei
lavori dell’Expo 2015.
Isidoro aveva sperato di fare un viaggio in tranquillità, prendendo una cuccetta in prima classe,
scelta di solito da una clientela selezionata. Le vanterie durarono per buona parte della notte e i due
parlarono a ruota libera, quando si accorsero che il loro unico compagno di viaggio, prima di dar
loro la buonanotte, si era messo agli orecchi dei tappi, che naturalmente si tolse per seguire la
conversazione.
Si lamentarono anche delle promesse disattese del capo del governo, in relazione al 41 bis ed
aggiungevano inoltre che addirittura i tanti villaggi turistici in costruzione per clienti inglesi ed
irlandesi erano caduti sotto il mirino della magistratura. La stranezza, notavano, è che in Lombardia,
in Veneto, in Emilia Romagna, gli “amici” investono i loro capitali senza incontrare l’ostilità della
magistratura, lucrando nell’edilizia, nei centri commerciali e addirittura con investimenti in borsa.
In Calabria, invece, tranne il capitolo dei centri commerciali, attualmente ogni investimento è
automaticamente fermato.
Aggiungevano che in Portogallo, Spagna, in Costa Azzurra, forti sono gli interventi finanziari dei
calabresi, mentre addirittura in Russia, i capitali della ndranghita sono presenti in attività industriali.
Investimenti in aziende agricole sono portati avanti in Romania e di recente persino in Ucraina.
Addirittura a Manhattan sono presenti con imprese di costruzione. In Belgio i calabresi si
distinguono nelle speculazioni immobiliari, mentre in Germania, ovviamente nel comparto della
ristorazione.
Quando arrivarono nei pressi di Caserta si preoccuparono di tenere gli occhi aperti, in quanto, in
quella tratta, sono attive delle bande di rapinatori che sui treni, di notte, usano dei vaporizzatori
contenenti sostanze narcotizzanti.
Esaltarono l’audacia dei casalesi che stanno crescendo nell’Emilia, badando però a non entrare in
conflitto con i calabresi di Cutro che controllano l’edilizia in tutta la provincia di Reggio Emilia.
Il loro discorso poi si spostò sui furti negli appartamenti del milanese. Da circa un anno a Milano e
dintorni sono attivi degli abilissimi ladri che aprono con facilità persino le porte blindate. Dapprima
si pensava fossero i rom a rubare, ma dal momento che vengono trafugati oggetti in argento, a
questo punto la ndranghita fece le sue indagini e scartando le ipotesi dei nomadi, che considerano
l’argento procacciatore di disgrazie, appurò che a violare gli appartamenti ritenuti ben difesi, è
un’organizzatissima banda di ungheresi.
Isidoro ad un certo punto adattò convenientemente i tappi e dormì fino al ponte sul Po, quando il
rumore assordante lo svegliò, nonostante i tappi, che tolse. Velocemente scese dalla cuccetta, salutò,
andò in bagno, ritornò, posizionò la valigia vicino alla porta e poi telefonò ad un amico, che già era
alla Centrale ad aspettarlo. I due compagni di viaggio lo guardarono con curiosità, ma non gli fecero
domande. All’arrivo ad attenderli c’era un elegantissimo ragazzo sulla trentina, dotato di un
portatile, che li salutò con cordialità, ma omettendo di baciarli ritualmente.
All’inizio del binario 10 c’era anche il suo amico, Filippo, che l’aiutò a trasportare la valigia.
In poco tempo furono a Porta Garibaldi con il passante e qui si salutarono. All’indomani avrebbero
concordato una gita in provincia di Torino, dove in una baita in montagna, avrebbero trascorsa una
giornata con pernottamento.
Isidoro raggiunse Monza e poi con un taxi un appartamento a Lissone, in vista dell’Ospedale
Nuovo. Gli era stato dato in uso da un amico e compagno di studi, che da poco, s’era trasferito in
Calabria con la moglie. Non avevano figli e per qualche anno in attesa di venderlo l’avrebbero
conservato, lasciando la scelta alla moglie, ugualmente calabrese, il ritorno o meno in Lombardia.
Dopo due giorni Isidoro si ritrovò, con il suo amico con cui era partito da Milano alla stazione di
Torino Porta Nuova, dove furono accolti da un uomo sulla cinquantina, amico di Filippo che in
automobile li condusse verso il Canavese, dove, attraversato l’Orco, si diressero verso Santa
Elisabetta.
Prima di mezzogiorno si ritrovarono in una baita, a ridosso di un castagneto, da poco resa abitabile
con l’essenziale. Fino a poco meno di 30 anni fa era appartenuta ad una famiglia di margari che non
avendo avuto figli, quando smisero la loro attività, la cedettero.
Era stato reso agibile il piano terra, che un tempo accoglieva le mucche. Il primo piano, ancora era
in via di restauro; naturalmente s’era provveduto a riparare il tetto, coperto con le caratteristiche
tegole in pietra.
Isidoro volle allontanarsi ed ammirare il panorama, rimanendo estasiato. La vista spaziava verso la
pianura, piena di agglomerati urbani più o meno grandi, mentre si dilatava in fondo, quello che
immaginava fosse Torino. Camminando e guardando verso quote più elevate, notava che i castagni
lasciavano il posto alle betulle dal tronco argenteo.
Frattanto, un giovane romano, Andrea, era indaffarato a cucinare in un caminetto ricavato in un
angolo della baita e ad un certo punto pretese che qualcuno lavasse dei piatti riposti in una vecchia
cassapanca. Isidoro li prese, pochi per volta e cominciò a lavarli presso un rubinetto posto sotto un
vetusto castagno, che cresceva sul pianoro antistante la casa. L’acqua, tramite un tubo di polietilene,
era stata portata da una freschissima sorgente che sgorgava da una parete, a 500 metri circa di
distanza. Per motivi ecologici il tubo era stato interrato e per il momento l’impianto non avrebbe
coinvolto la baita. In prospettiva ciò sarebbe avvenuto, anche se per almeno due, tre mesi all’anno
essa sarebbe stata bloccata dal freddo e ghiacciando non avrebbe raggiunto la casa.
Attorno alle 13, si sentì un rumore d’auto, che arrivò e da essa scesero due cari amici di Filippo ed
Isidoro: Paolo e Domenico.
Attorno alle 14 tutti mangiarono con avidità la puttanesca cucinata con bravura sorprendente dal
romano e saporitissimi spiedini di carne, farciti di pangrattato amalgamato a pecorino e pezzettini
di aglio. Dopo un’abbondante libagione a base di un piacevole e popolare Barbera, ognuno si scelse
l’ombra di un castagno sotto cui dormire, poggiando per terra delle stuoie. Paolo, Domenico ed
Isidoro si sdraiarono sotto un maestoso castagno, che con la sua ombra, leniva il caldo di luglio,
notevole, nonostante l’altitudine. Dormirono profondamente per alcune ore, aiutati dal vino che li
aveva un po’ storditi, fino a quando il rombo di una motocicletta non li svegliò. Imprecò Domenico
in direzione dei due centauri che scesero davanti alla baita, chiamando Filippo, che dopo un po’
assonnato, comparve con una stuoia in mano e salutò i due, uno con un abbraccio, l’altro con una
stretta di mano.
Parlottarono un po’ e quando tutti gli altri si avvicinarono avvennero le presentazioni.
Calarono velocemente le ombre della sera e la comitiva si preparò con religiosità alla cena, fredda
questa volta, a base di salumi e formaggi, allietata da abbondante Barbera. Un enorme tavolo di
castagno, in stile contadino conteneva comodamente gli otto commensali, che si attardarono a
mangiare fino alle 23, quando tutti si alzarono e si ritrovarono un po’ allegri sul pianoro davanti
casa.
La serata era calma e attraverso un varco del bosco s’intravedevano in lontananza, verso la pianura,
le luci della città. La temperatura era scesa di molto, per cui alcuni si diedero da fare ad accendere
un falò, attorno cui tutti si accoccolarono.
Ad un certo punto prese la parola uno dei due centauri, che dimostrava di avere quasi sessant’anni.
- Compagni o almeno ex, esordì considerando che, negli ultimi lustri, è andato di moda cambiare
casacca, siamo qui, su invito di un amico comune che ha voluto organizzare una specie di dibattito
sulla situazione di degrado morale, che sta asfissiando l’Italia.
Alla fine di Tangentopoli si era creduto che il fango che insozzava la vita pubblica italiana, sarebbe
venuto meno e che un migliorato grado di onestà sarebbe diventato un elemento prevalente in Italia.
Accadde un fatto imprevedibile invece, dal momento che gli onesti, inorriditi per lo spettacolo
indecente della corruzione politica, si ritirarono in blocco, lasciando la scena ai peggiori, guidati
dalla sozzura fatta persona. E non mi dilungo a parlare su fatti noti, preferendo parlare delle
aspettative mancate di un militante di sinistra, sempre alla ricerca del puro, dell’onesto, del giusto, a
cui io aspiravo.
Ero stato iscritto al P.C.I., ma poi passai a Lotta Continua, soggiogato dalla personalità di Adriano
Sofri, che seguivo come un’ombra; addirittura volli insegnare nella scuola dov’egli insegnava
lettere: l’istituto tecnico di S. Miniato verso la fine degli anni 70. Ero praticamente stregato da lui e
mi meravigliavo come in un uomo di piccola statura albergasse una quantità illimitata di carisma.
Incantava tutti, uomini e donne, giovani e vecchi e usava il suo charme anche per scopi
sentimentali, che talvolta lo danneggiavano. A tal proposito si raccontava come era stato espulso
dalla Normale, perché aveva fatto innamorare perdutamente la graziosa figlia di un tal prof. Peretti.
In tutti i modi si arrivò al periodo della tanto esaltata lotta armata ed io ne restai fuori per due
motivi: fui disgustato dal fatto che si sparasse sulle forze dell’ordine, costituiti da proletari, denotati
tali già da Pasolini, e poi perché avevo capito che tutta la galassia del terrorismo era stata ispirata,
sorretta e foraggiata dai sevizi segreti.
Aderii dopo a Rifondazione Comunista e fui ben contento fin quando la guidò Garavini, di cui ero
amico e di cui non condividevo semplicemente una sua caratteristica personale: era eccessivamente
parsimonioso. Cominciò la delusione quando invece il partito fu sotto la guida della Bertuccia in
cachemire, che in pubblico sbandierava progetti radicali, in privato invece accompagnandosi
sovente al piduista uomo-immagine del regime attuale, ex collaboratore di prim’ordine del politico
di “statura europea”, andava sbavando le mani ingioiellate delle dame della borghesia nera romana,
promettendo loro che avrebbe guidato gli asini delle armate rivoluzionarie, ad abbeverarsi nelle
fontane di piazza S. Pietro.
Dopo la prima esperienza di governo dei nostri, smisi di recarmi alle urne, dedicandomi alla lettura
e agli impegni nel sociale. Smise di parlare il primo centauro, mentre nella notte illune echeggiavano i versi striduli di alcune
volpi.
A questo punto Filippo si assunse il compito di coordinare gli interventi ed invitò il secondo
centauro, che aveva abbracciato, con affetto al suo arrivo. Ad Isidoro sembrò un volto familiare,
però non riuscì a collocarlo nel tempo e nello spazio. Altissimo e robusto aveva una voce baritonale.
- Mi chiamo Teodoro, cominciò, e ho militato sin da fanciullo nel P.C.I., educato in questa funzione
da mio padre. Egli era originario di Alba e da giovanissimo, era della classe 1905, prese parte alle
lotte operaie, che raggiunsero le fasi culminanti nel 1919-1920 accompagnando il padre nelle lotte.
Qualche anno dopo perse il genitore ucciso dagli squadristi fascisti ed allora il suo odio verso di essi
si accrebbe. Fece parte della rete clandestina del partito comunista e nel 1933 si rifugiò in Francia.
Partecipò alla difesa del legittimo governo della repubblica spagnola e dopo la sconfitta di esso
ritornò in Francia, da cui rientrò in Italia dopo l’8 settembre e fu attivo come partigiano nell’area di
Boves. Come molti altri compagni non fu d’accordo con la decisione di Togliatti nel 44 di
amnistiare i fascisti, che poco tempo dopo confluirono, talvolta in posizione dominante nella
Democrazia Cristiana, che si proclamava erede del partito fondato dal siciliano Don Luigi Sturzo.
Mio padre divenne operaio alla FIAT ed essendo attivista del P.C.I. sindacalizzato, negli ultimi anni
della sua attività lavorativa, fu destinato ad un reparto punitivo.
Fui educato alla legalità e al rispetto dei principi costituzionali, oggi negletti e calpestati e grazie al
mio “pedigree” di tutto rispetto, sin da ragazzo fui trattato con riguardo nella sezione torinese del
partito dove ho militato, la n° 26 di Borgo San Paolo, il quartiere dell’aristocrazia operaia. Ritenuto
affidabile al massimo e data la mia complessione fisica, fui scelto a far parte del servizio d’ordine
durante le manifestazioni più impegnative organizzate dal P.C.I. La soddisfazione più grande la
ebbi quando feci parte del ristretto gruppo preposto alla sicurezza di Enrico Berlinguer, nel periodo
più tragico del terrorismo in Italia. Per alcuni anni accompagnai Pecchioli nella sua crociata
antimafia prevalentemente nell’Italia meridionale. -
Si ricordò a questo punto Isidoro di aver incontrato Teodoro nella Locride, quando il senatore del
P.C.I. tenne un convegno contro la ndranghita. Era l’autunno del 1976 e in quell’occasione fece
molto impressione l’intervento di un ragazzo di Cittanova, Francesco Vinci, quando affermò che gli
affiliati utilizzavano le ricetrasmittenti dello Stato in dotazione ai capocantieri dell’azienda
forestale, per avvisare i latitanti dell’arrivo delle forze dell’ordine. La sera, durante una riunione di
alcune cellule della zona, propose di organizzare in tutta la provincia di Reggio dei commandos
armati e di tentare la decapitazione della ndranghita, con il massacro di quanti più capi fosse
possibile in determinate date da concordare. Affermò che era l’unica soluzione possibile, in quanto
essa altro non era che un’istituzione creata, cullata, sorretta, finanziata, dallo Stato. Dopo qualche
mese cadde in un agguato di mafia.
- E questo, continuò Teodoro, mi gratificò molto e mi aprì gli occhi, in quanto capii che al sud si
vive sotto la terribile tirannide della criminalità organizzata, che uccide il futuro di quei territori.
Dalla mia posizione pertanto potei osservare i cambiamenti lenti dapprima, poi sempre più veloci
della struttura e dell’essenza del P.C.I., che cominciò a divenire altro anche nel nome. Passò l’idea,
che per rinnovare, bisognasse fare terra bruciata ed eliminare tutto ciò che aveva caratterizzato il
partito. Le strutture organizzative di base poco alla volta furono soppresse e nominalmente
restarono solo poche sezioni che cominciarono ad assolvere la funzione di veicolo giustificativo di
pacchetti di tessere che nascono dal nulla e vanno nella direzione di chi gestisce gli apparati. E tutto
ciò in nome del pluralismo e della comunanza d’intenti con l’anima bella dell’ex Democrazia
Cristiana, che si sente l’erede del Partito Popolare di Don Sturzo.
In questo lavoro di alleggerimento del partito, si sono distinti i due protagonisti della vacuità, che
hanno sperperato un patrimonio incredibile di sacrifici, valori, lotte ed impegno nella società. Dal
momento che io ho conosciuto da vicino ambedue, ometto di parlarne ancora, per rispetto al filo di
amicizia che ci ha legato. Le speranze pertanto sono ridotte al lumicino, specie per i giovani, che si
avviano ad affrontare il loro futuro, privo di prospettive. Filippo invitò a questo punto ad esprimere il suo punto di vista e a raccontarsi, Domenico, che
cominciò.
Nacqui nel dopoguerra in una famiglia abbastanza numerosa, in un contesto sociale tipico della
Sicilia interna, dove pochi benestanti esibivano la propria ricchezza in modo quasi arrogante e
spocchioso. Per sopravvivere non bastava esercitare un solo mestiere, ma almeno due. Non sfuggì a
questa regola mio padre, che aveva appreso l’arte di fornaciaio da calce e lo portava avanti con fine
perizia, ma ciò non gli consentiva di tirare avanti la famiglia. L’attività edilizia era limitata, alle
riparazioni e alla costruzione di modeste case o casolari. Per forza di cose nel tempo libero faceva il
contadino, per produrre grano, olio e vino, per il fabbisogno familiare. Mia madre badava al maiale,
ad una capra da latte, alle galline, ai conigli, ai porcellini d’India, sempre per uso familiare. Prima
della seconda guerra mondiale clandestinamente mio padre passò la frontiera e dalla Liguria andò a
Montecarlo, dove lavorò come imbianchino. Ritornò alla fine della guerra ed allora gli nacquero i
due figli maschi.
-Ebbi la fortuna di vivere, nella sua ultima fase, l’ormai morente civiltà contadina, che nella nostra
area si era mantenuta intatta ed uguale per millenni. I miei genitori, con tanti sacrifici mi
mantennero agli studi e conseguii il diploma di ragioniere, che non mi servì. Infatti emigrai subito
dopo e nel 1967 lavorai in una fabbrica ad Engelthal nella Baviera, dove incontrai degli attivisti del
P.C.I. e mi impressionò la loro disponibilità ed il loro impegno sociale. Ad esempio nella sezione
operativa della zona essi aiutavano gli operai al disbrigo di tutte le pratiche possibili, cercavano per
i nuovi arrivati alloggio, li soccorrevano con interventi alimentari nei primi giorni di permanenza, li
guidavano alla ricerca di lavoro, qualora fossero arrivati senza già un’indicazione o un contratto. La
cosa che più mi stupì fu l’aiuto culturale che essi davano. In sezione prestavano dei libri da leggere
ed organizzavano dei corsi informali per gli analfabeti, che ancora erano numerosi.
Durante le elezioni politiche del 1968, furono organizzati dei treni straordinari per gli emigrati che
venivano a votare in Italia ed erano assistiti ed allietati durante il viaggio, con canti ed improvvisati
interventi di sensibilizzazione, carrozza per carrozza. Alla stazione di Bologna fummo rifocillati
con panini ed acqua. La tensione morale nel partito cominciò ad allentarsi prima di Tangentopoli e
verso la metà degli anni 90, la “diversità” del partito ch’era stato il P.C.I., era inesistente;
l’omologazione agli altri partiti era ormai in fase avanzatissima e divenne totale, dopo che la
Bertuccia in cachemire fece in modo che gli avversari brindassero in parlamento a champagne.
In modo rocambolesca e misteriosa, la guida del governo passò nelle mani del Barbiere di Gallipoli,
che fece il riconoscimento di fatto del potere dell’Uomo-Fogna, basato sull’elusione continua della
legge e di fatto legittimò la subalternità dello schieramento di cui fu a capo nei riguardi del partito
bonapartista e padronale. Considerando il soggetto, la cui caratteristica fondamentale è la furbizia,
sarà corrispondente al vero ciò che si vocifera in giro nell’ambiente della sinistra; la sua apparente e
sbandierata ingenuità, di quel periodo fu frutto di un consistente conto, costituito in suo favore
dall’Uomo-Fogna, in un paradiso fiscale.
Ormai in Italia abbiamo perso pure la speranza, in quanto non esistono più personalità capaci di
fermare il degrado che la sta inabissando.Non esistono più ideali se non quello dei guadagni facili,
ottenuti con qualsiasi mezzo e rappresentano l’unico obiettivo a cui tendono i più e specialmente la
feccia d’Italia, che si è trasformata in classe dirigente. Gli interventi deprimevano sempre più i presenti, sconsolati per quello che sentivano, ma ormai
bisognava completare il giro ancora lungo, per cui Filippo invitò Paolo ad intervenire.
-Nacqui in Basilicata, in una famiglia contadina e con infiniti sacrifici i miei genitori mi mantennero
agli studi. Da giovane fui militante del PSIUP, mentre mio padre, volontario fascista nella guerra
civile spagnola, votava M.S.I. Nonostante le sue idee, rispettò sempre le mie con incredibile
riguardo, anche quando passai al P.C.I. che egli non amava ed in seguito a Rifondazione Comunista.
Subito dopo la laurea emigrai qui in Piemonte, ricoprendo il ruolo prima d’insegnante e poi quello
di dirigente scolastico. Con infinito amore cercai sempre di comprendere le esigenze dei ragazzi,
considerandoli come la vera essenza della nazione, guardando dentro di essi per conoscere le loro
aspirazioni e le loro aspettative. In quarant’anni di lavoro gratificante, ho letto in essi le idealità a
cui tendevano e ricercavano. In loro ho ravvisato costantemente l’amore e la ricerca dell’onestà,
della lealtà, della solidarietà, della giustizia, della legalità, dell’amicizia pura e disinteressata.
Man mano che gli anni passavano, nei ragazzi sempre diversi, ho riscontrato le stesse aspirazioni,
ma notavo di anno in anno, che le speranze per verificarne l’attuabilità di esse, divenivano sempre
più deboli. Infatti in essi cresceva lo sconforto constatando come in Italia stessero prevalendo gli
ideali basati sulla futilità, sulla vacuità e sul successo, finalizzato al guadagno, derivante anche e
prevalentemente dalla corruzione, veicolata dai politici.
Verso questa categoria di persone, ho notato che essi nutrono disprezzo e repulsione, in quanto in
essa alberga incompetenza e disonestà. Con infinita tristezza andrò in pensione dal 1° settembre e
definitivamente mi staccherò dal mondo dei giovani, che ho amato e a cui ho dedicato buona parte
della mia vita. In quarant’anni d’insegnamento, mi sono assentato solo 56 giorni, per gravi motivi di
salute. Ricordando il suo addio alla scuola, numerose lacrime solcarono il volto di Paolo e Filippo, per
tirare su il morale a tutti propose di bere un po’ di vino, che fu versato in bicchieri di cristallo, che
luccicarono al riverbero del fuoco, man mano che Andrea li riempiva.
Subito dopo la libagione toccò ad Andrea dibattere sul tema e così cominciò.
- Nacqui a Roma dove vivo con mia madre nel marzo 81, sette mesi dopo la morte di mio padre,
avvenuta nella strage di Bologna del 2 agosto 1980. Allora ella era incinta di due mesi e cominciò a
nutrirmi oltre che con il suo sangue, anche con il suo dolore, che non si spense mai più nonostante il
tempo che è trascorso. Da lei ho imparato che egli era molto buono, pio, fervente credente ed
impegnato nel sociale. Puntualmente ogni anno, durante il mese di ferie, faceva il bancario,
accompagnava come barelliere i malati, nel treno bianco, a Lourdes ed amava deporre nella vasca
d’acqua miracolosa, quelli che l’avessero richiesto. Per lui era una missione, che lo gratificava
particolarmente e lo ricaricava per tutto il resto dell’anno. Il suo impegno non si esauriva in questo,
ma dedicava ogni domenica, che significava per lui giorno del Signore, agli altri.
Prestissimo, andava a messa e poi, d’accordo con il parroco della sua parrocchia, del Sacro Cuore di
Cristo Re, che gli organizzava gli orari, andava a donare ai malati il suo conforto e la sua assistenza;
infatti era bravissimo a fare le iniezioni endovene.
In apparente contrasto con il suo modo di essere, però non votava Democrazia Cristiana, ma il
Partito Socialista. Egli si definiva seguace di don Sturzo, che, ricordava, al ritorno dal suo esilio,
dopo la caduta del fascismo, non fu d’accordo con la decisione di De Gasperi di rompere con i
socialisti e i comunisti, che tanto sangue avevano versato a favore della democrazia in Italia. Agli
occhi di mio padre, che era figlio di un socialista perseguitato durante il ventennio, il “Grande
Trentino”, dando un certo credito ad un numero consistente di uomini dell’apparato del passato
regime, aveva determinato in partenza l’inquinamento della Democrazia Cristiana, colpevole di
ipocrita fariseismo.
Mia madre non ha voluto rifarsi una vita e si dedicò totalmente a me, asfissiandomi talvolta con le
sue premure ed il suo affetto, non trascurando l’impegno per avere giustizia, nel Comitato dei
parenti delle vittime. In tale versante mi coinvolse emotivamente e da quando ebbi meno di 18 anni
la seguii in tale sua attività, dando così il mio tributo d’affetto ad un padre, che non mi vide nascere.
Proprio per il disimpegno totale della sinistra, quando guidò il governo, in direzione della scoperta
della verità sulla strage di Bologna, togliendo il segreto di stato, io non mi recai mai alle urne, pur
sentendo una forte attrazione per i gruppi politici che si oppongono al partito bonapartista.
Sono laureato in ingegneria elettronica e lavoro in un centro di ricerche, ch’era appartenuto alla
Selenia, che non esiste più, ma nonostante ciò, non mi sento molto gratificato per via delle grandi
ingiustizie che ravviso nel mondo lavorativo, a cui appartengo. Infatti vi sono evidenti disparità
espresse nelle retribuzioni, con gli appartenenti al management che guadagnano in modo scandaloso
e gli altri che sono retribuiti in modo inadeguato, come soggetti assunti con contratti a termine e
sottoposti a procedure neofeudali.
Esco con una ragazza a cui sono molto legato, ma non oso formarmi una famiglia, terrorizzato
dall’incognita di un futuro senza prospettive per la nostra nazione. In riferimento alla classe politica,
che ci guida, in blocco la considero costituita da infami, ladri e parassiti, che bisognerebbe
eliminare fisicamente, in una sorta di operazione catartica da studiare e da sperimentare;
naturalmente considero l’Uomo-Fogna, come qualcuno di voi l’ha definito, il principale
responsabile, non l’unico, del degrado del nostro paese, abilissimo nel tentativo di trasformare gli
italiani a sua immagine e somiglianza. Ah dimenticavo; mi rilassa moltissimo cucinare. Vi ringrazio
per l’attenzione. Il discorso del ragazzo fece molta impressione e tutti quanti lo guardarono con una certa curiosità.
Ogni tanto qualcuno si allontanava un po’ per esigenze fisiologiche e si ebbe uno stacco quando lo
fece Filippo. I suoi passi si intuivano talvolta per i rami secchi che crepitavano sotto i piedi ed il suo
procedere incerto ma rumoroso nel buio totale, fece cessare nei dintorni dei rumori di fondo,
costituiti forse dallo sgranocchiare di ghiri o forse di scoiattoli, di bacche o degli ossi eduli di essi;
nell’area erano presenti i sorbi degli uccellatori e non mancavano le piante di mirtilli.
Qualcuno era tentato dal sonno per cui si cominciò a raccontare delle barzellette, che continuarono a
tenere banco per un pezzo ancora.
Filippo ad un certo punto però, interruppe il piacevole intermezzo e si ritornò al “lavoro”, con
l’intervento del suo amico.
- Sono stato allievo del nostro moderatore ed intrapresi, dopo la laurea in giurisprudenza, la carriera
nell’apparato dello Stato. Ho cinquantatrè anni e lavoro in gangli vitali, di cui ometto di parlare.
Sono nato a Torino da una coppia di emigrati, al tempo del boom economico, da Napoli mia madre,
mio padre dalla Sicilia di cui ho voluto approfondire le vicende storiche dal 1943 ai giorni nostri.
Vi posso solo dire che dal mio osservatorio particolare, la situazione dell’Italia appare gravissima
ed è tale che essa rischia di sprofondare.
La causa della rovina deriva dalla corruzione, dall’eccessiva burocrazia e dall’inefficienza della
giustizia, che in continuazione viene intralciata nel suo percorso, da nuovi leggi e provvedimenti. Si
calcola che i nostri codici constino di circa 47.000 articoli, che quasi sempre sono utilizzati in modo
pretestuoso per bloccare i processi. Alla base però della disfunzione della giustizia in Italia ci sono i
tre gradi di giudizio, costituiti da Assise, Appello, Cassazione. Solo dopo la rituale verifica della
Cassazione, un soggetto può essere dichiarato innocente o colpevole. Naturalmente questa ritualità
estenuante era stata decisa dai costituenti, a garanzia della giusta applicazione della legge, però
quasi subito si rivelò un marchingegno farraginoso, utile solo ai facoltosi; pertanto in Italia si ebbe
una giustizia diseguale, garantista con i ricchi, che possono reggere a lunghi processi in attesa di
prescrizione, implacabile per i poveri, che si arrendono dopo poco tempo.
Non è così altrove; infatti in Francia ci sono due tempi processuali in attesa del verdetto finale.
Dopo la prima fase corrispondente a quella della nostra Corte di Assise, se un individuo è ritenuto
innocente, generalmente non affronta la seconda fase. Viceversa nel caso contrario scatta la
presunzione di colpevolezza ed il reo, presunto colpevole va da subito in carcere. Allora i suoi legali
hanno fretta a celebrare la seconda fase del processo, corrispondente a quella della nostra Corte di
Appello e così rapidamente si giunge alla conclusione, con la decisione finale d’innocenza o di
colpevolezza.
L’altro elemento determinante la rovina dell’Italia è costituito dalla corruzione istituzionalizzata e
programmata a tavolino in maniera scientifica. Tale tendenza era in atto precedentemente; già al
tempo del quarto Gabinetto De Gasperi, con cui si arrivò alla decisione di estromettere dal governo
i socialisti e i comunisti, dando ascolto alla Confindustria, al Vaticano e agli U.S.A. Fu ministro
degli interni Mario Scelba, che tenne questo incarico fino al 1953, in vari governi. Egli epurò le
forze dell’ordine, estromettendo coloro che avevano combattuto da partigiani contro i nazifascisti e
portò avanti una repressione antisindacale ed operaia; più di cento infatti furono gli operai e i
contadini uccisi, specie dalla polizia, durante manifestazioni sindacali legalmente proclamate.
Scelba istituzionalizzò la collaborazione tra Democrazia Cristiana e mafia, di cui si servì con
l’avallo naturalmente di De Gasperi, di cui era molto amico, nella lotta contro il movimento
contadino siciliano, che era cresciuto in modo impetuoso e che procedeva speditamente
all’occupazione delle terre abbandonate, galvanizzato dalla vittoria elettorale del Blocco del Popolo,
alle elezioni per l’assemblea regionale.
L’alleanza fu sperimentata il 1 maggio del 1947, quando nella Piana degli Albanesi, a Portella della
Ginestra, su ispirazione governativa, la banda di Salvatore Giuliano sparò sul raduno gioioso di
circa 2000 partecipanti alla festa del 1 maggio, tra cui molte donne e bambini; 11 furono i morti e
molte decine i feriti.
Naturalmente De Gasperi diede il via libera per continuare a Scelba, che indicò di volta in volta i
sindacalisti da eliminare, tra cui, il 2 marzo del 1948 Epifanio Leonardo Li Puma, nelle Madonie,
Calogero Cangelosi il 2 aprile dello stesso anno, il 10 maggio a Corleone l’ex partigiano e
sindacalista, Placido Rizzotto. Il tandem De Gasperi – Scelba, al servizio degli americani e del
Vaticano, fece terra bruciata in Sicilia attorno alla CGIL, che fu decapitata con il massacro di decine
e decine di sindacalisti. Con tale operazione voluta dal “Grande Trentino”, la Sicilia fu
definitivamente consegnata alla mafia e all’arretratezza. Tutto il meridione, trattato analogamente,
seguì la stessa sorte.
La svolta di De Gasperi, a sfavore delle classi subalterne ed oneste del Sud determinò la definitiva
occupazione del potere da parte dei profittatori e dei corrotti almeno nell’Italia meridionale e ciò
determinò un modello divaricato della nazione, con un Nord sviluppato e generalmente onesto ed
un Sud degradato e governato dalla criminalità. Personalmente vissi sin da bambino questo
dualismo, in quanto figlio di una napoletana emigrata a Torino quando d’estate ritornavo con i miei
nel quartiere di Montecalvario, a Napoli.
Mio padre faceva il carabiniere e mia madre la maestra elementare ed abitavamo in corso Francia,
in un appartamento non distante da piazza Statuto. L’ambiente cittadino e i miei genitori mi
spronarono a diventare boy-scout, a frequentare dei corsi extrascolastici di musica, a partecipare ad
iniziative ecologiche e a quelle dell’oratorio. Fui un figlio modello, affettuoso, diligente a scuola,
legatissimo a mia sorella, di due anni più grande, frequentai il liceo D’Azeglio e poi l’università
laureandomi in giurisprudenza.
Divenni dopo la laurea servitore dello Stato ed ora rivesto un incarico notevole in Lombardia dove
vivo, agiatamente. D’estate però, per un mese cambiavo pelle ed arrivato a Montecalvario,
diventavo un perfetto monello al pari degli altri, fino a quando non cominciai a frequentare il
ginnasio. Con i ragazzini del quartiere mi divertivo un mondo a suonare i campanelli, a prendere a
sassate i gatti, a legare i barattoli alla coda dei cani randagi, a rompere qualche vetro.
Come tutti i quartieri di Napoli, Montecalvario offriva uno spaccato vario dal punto di vista sociale,
con la prevalenza assoluta di ceti popolari. I modelli di vita non erano paragonabili a quelli torinesi
e mi restarono indelebili nella memoria alcuni episodi. Un giorno vidi un signore che lanciò una
busta di spazzatura dal quarto piano, verso un cassonetto sommerso d’immondizia.
In un’altra occasione assistetti ad un furto ai danni di un turista francese che transitava in auto con
carrello a seguito, pieno di valigie. Si fermò al semaforo ed in un baleno un nugolo di ragazzi
svuotò il carrello. Un altro giorno ancora uscivo da un bar con un cono in mano e vidi un turista
americano, alto, robusto, anziano con due grosse valigie, in attesa forse di un taxi, vicino ad un
tavolino del bar. All’improvviso spuntò un monello, che salì su una sedia e sputò in faccia al turista,
che furibondo cercò di acchiapparlo abbandonando le valigie; arrivarono a quel punto dei giovinotti
che le portarono via.
L’ultimo episodio a cui assistetti fu tragico in quanto fui testimone di un omicidio, commesso tra la
folla. Avevo terminato le scuole medie e da quell’anno non volli ritornare più a Napoli. Fui
simpatizzante della Democrazia Cristiana ed ammirai tantissimo la figura di Aldo Moro che mi
affascinava per la sua pacatezza e per la sua imperturbabilità. Avevo 22 anni ed ero già servitore
dello stato a Roma, quando fu sequestrato, vilipeso ed ucciso per volontà degli uomini del suo
partito ed in seguito al tradimento di un uomo a lui vicinissmo. Costui, quando fu ucciso, per il
rimorso, la sera si coricò con i capelli neri e al mattino si ritrovò canuto.
L’eliminazione di un pilastro portante della democrazia in Italia, andò di pari passo all’affermazione
della parte più becera e corrotta del partito cattolico che in maniera appena velata appoggiava la
criminalità organizzata. Il terrorismo rosso e nero, teleguidati dai servizi, avevano lo scopo di
indebolire il sindacalismo e far perdere alla classe operaia le conquiste acquisite con lo statuto dei
lavoratori, diventato operativo a partire dal maggio 1970, grazie all’impegno congiunto di due
grandi socialisti, Gino Giugni d’origine calabrese e Giacomo Brodolini, che non ebbe la fortuna di
vedere il frutto del suo lavoro perché morì nel 1969.
L’altro campione di democrazia, Enrico Berlinguer, che con Aldo Moro, aveva tentato di far
ripartire la collaborazione, cessata per volontà di De Gasperi nel dopoguerra, tra le forze più sane
della sinistra e quella del centro, si trovò isolato. Aumentarono gli intrighi, gli attentati terroristici,
le stragi dei servizi e della P2, di cui non si aveva ancora notizie. Ad un certo punto però, venne
fuori la verità sulla loggia segreta Propaganda 2 appunto e dopo qualche resistenza, si arrivò alla
pubblicazione dell’elenco, con il governo Forlani.
Fece molta impressione leggere sull’elenco nomi di ministri, generali, industriali, ecc. In seguito si
seppe che la P2 era implicata nel fenomeno dei sequestri di persona e dunque in molte stragi. Venne
dato l’incarico a Dalla Chiesa di lottare il terrorismo dilagante e lo fece con successo. Il generale fu
mandato a Palermo a lottare la mafia e quando capì che essa era manovrata ed ingrassata dalla
politica fu ucciso, nel luglio del 1982.
Arrivò l’opportunità del politico socialista a “statura europea” che si distinse per grinta, specie
nell’eliminare dalla scena politica italiana gli uomini che tenevano alta la moralità del P.S.I.:
Riccardo Lombardi e Sandro Pertini. L’uomo di “statura europea” fu attivo nel far diventare enorme
il debito pubblico in Italia, considerò i beni culturali, “giacimenti culturali”, proponendone anche la
vendita come fossero minerali, si affannò a creare la ricchezza dell’Uomo-Fogna che sottovalutò ed
estenuò in lunghissime anticamere a Roma; lo serviva per ultimo definendolo irato, straccione.
Ebbe campo libero dopo la morte nell’84 di Enrico Berlinguer, che ebbe come eredi, prima uomini
stanchi, senza idee, poi borghesi piccoli, piccoli, che per amore delle novità, cominciarono
risolutamente a dissipare il patrimonio del P.C.I.
Nel deserto totale si mossero solo Craxi ed Andreotti, in una gara per insozzare e rovinare l’Italia. Il
“divo Giulio”, erede di De Gasperi, specie nel servirsi della mafia, privilegiò di essa quella elegante
e borghese, dei Bontade, dei Greco di Monteverde Giardini, che fu demolita dai ribelli di Corleone,
protetti dai servizi.
Riina fece terra bruciata, attaccò lo Stato, tentò la costituzione di una più grande holding mafiosa,
coordinando riunioni in Aspromonte. Il suo canto del cigno, d’accordo con i servizi e con i piani più
alti della politica, si ebbe con le stragi di Capaci e di via D’Amelio. L’Italia era servita e pronta ad
un altro “salto di qualità” che venne dopo Tangentopoli e di cui non parlo per non sporcarmi la
bocca. Vi dico soltanto, che la sera vado a letto e stento a prendere sonno per l’Italia e per il futuro
dei giovani. La stanchezza stava prevalendo sulla voglia di ascoltare, ma bisognava finire il giro ed allora
Andrea andò a preparare il caffè in una Bialetti da dieci per otto persone. Frattanto Isidoro aggiunse
dei grossi ceppi di castagno sul fuoco, in quanto la temperatura si era abbassata ulteriormente,
mentre nello scrigno celeste tempestato di luci lontane, qualche stella cominciava a svanire, segno
che l’aurora si avvicinava.
Sorbendo lentamente un forte caffè, Isidoro cominciò a parlare.
- Vissi il clima della Calabria del dopoguerra in una comunità rurale, dove la civiltà contadina si
stava preparando a soccombere, grazie all’emigrazione transoceanica senza ritorno e alla metà degli
anni 50 il capitolo dell’esodo totale era già concluso.
Mi ricordo i momenti felici dell’infanzia, vissuti all’aperto sui campi, in giochi infiniti.
Nell’autunno del ‘54, tutti i miei amici ed un fratello diciannovenne, mi furono rubati dai
transatlantici Roma e Sorrento. Le famiglie partivano in massa e le case furono chiuse per sempre.
Restavano i vecchi genitori e le vetuste nonne, peso inutile da portare dietro, tenevano avvinti al
petto, i teneri nipotini. I volti rigati di lacrime dei piccini e delle nonne risultavano uniti, in un
disperato tentativo di possesso reciproco. Intervenivano allora mani forti ed impietose, che
strappavano i piccoli. Le vecchie inutili, urlando, graffiandosi il volto, strappandosi i capelli, si
rotolavano nella polvere alla vista dei cari, perduti per sempre, saliti sul cassone di un camion che
inesorabilmente si allontanava. A questo punto i vecchi compagni di vita, quando erano
sopravvissuti, si avvicinavano alle proprie donne, con il petto squassato dal pianto e le tiravano su e
le riportavano alle case vuote ed ormai inutili.
Ricordo il nonno cieco di tre miei amici partiti per l’Australia. Egli era il nostro vate, che ci
allietava con le fiabe e quando i suoi nipotini partirono, alla fine dell’ottobre del 54, fu portato a
Iesolo nella casa del figlio poliziotto. Ai primi di agosto del 55 si lasciò morire per il dolore,
rifiutando il cibo; aveva 66 anni.
Vissi quasi in solitudine dopo la perdita dei miei amici, in una famiglia contadina ed aiutato da mio
fratello emigrato, arrivai a laurearmi. Fui insegnante di Lettere nelle medie superiori,
prevalentemente del Sud, che anno dopo anno sprofondava nel degrado, anche grazie alla
criminalità organizzata, privilegiata dal partito di maggioranza relativa. A diciotto anni diventai
attivista del P.C.I. e già ebbi il piacere di votarlo nelle elezioni politiche del 68.
A quell’epoca era ormai chiaro che la ‘ndranghita aveva l’appoggio della politica e ciò emerse più
chiaramente il 26 ottobre 1969, quando le forze dell’ordine, inviate dal questore di Reggio Calabria
Emilio Santillo e guidati dal commissario Alberto Sabatino sorpresero a Montalto in località Serro
Juncari, un summit mafioso. Furono arrestati 72 individui, ma molti di più sfuggirono all’arresto,
coprendosi la fuga sparando.
La riunione era presieduta da Giuseppe Zappia di S. Martino di Taurianova, mentre tutti i capi
storici erano presenti: Giuseppe Nirta di S. Luca, Antonio Macrì di Siderno, Domenico Tripodo di
Sambatello.
Si parlava degli affari connessi alla costruzione della Salerno–Reggio Calabria, del traffico delle
sigarette, dei rapporti con Junio Valerio Borgese, della necessità di tenere a bada i giovani che
anelavano al nuovo. Si disse che erano presenti ma incappucciati, un ministro ed un vescovo.
Probabilmente ciò corrispondeva a verità in quanto nel maxi processo intentato ai 72, per
associazione a delinquere, miracolosamente tutti furono assolti, in quanto dalla sentenza risultò la
verità degli avvocati difensori che affermavano che i convenuti a Serro Juncari, s’erano riuniti per
un’innocente scampagnata. La gente per bene rimase allibita e scandalizzata, i disonesti esultarono.
Frattanto le novità stavano arrivando con la nascita delle regioni a statuto ordinario e con la
decisione di trasferire il capoluogo a Catanzaro,per cui nell’estate del 1970 scoppiò la rivolta a
Reggio, guidata dai fascisti di Ciccio Franco e dalle nuove leve della ndranghita ispirate a Reggio
dai fratelli De Stefano, che si arricchirono velocemente con i traffici d’armi, i sub-appalti e con la
droga.
Gli agitatori di Reggio, supportati dai servizi pianificarono degli attentati. Il 22 luglio 1970 a Gioia
Tauro una bomba fece deragliare un treno e ci furono sei morti e decine di feriti, il 4 febbraio 1971
venne lanciata una bomba contro un corteo antifascista a Catanzaro, che provocò un morto, nella
notte del 21 ottobre 1972 sulla linea ferroviaria furono piazzate 8 bombe, che impedissero ai
partecipanti di una manifestazione democratica di raggiungere Reggio.
In questo contesto infuocato, si aprì la pagina dei sequestri di persona che distrusse in pochi anni la
borghesia imprenditoriale calabrese che, spogliata ed umiliata fu ridotta in povertà o trasferì i propri
capitali nel centro-nord Italia. Alla fine degli anni 80 fu presente sul territorio, quasi solamente la
borghesia mafiosa, spocchiosa ed arrogante costituita da ex-caprai. Proprio a Reggio intanto partì lo
spunto per la prima guerra di ndranghita, che falcidiò i capi storici: Macrì, Zappia, Tripodo.
Con l’uccisione di Tripodo a Poggioreale nel 1976, si brindò all’alleanza di Cutolo con i De
Stefano, che uscirono vincitori, ma i morti furono circa 350. La seconda guerra di ndranghita negli
anni 80, portò almeno al contenimento dei De Stefano e i morti furono 650; tra le vittime più illustri
si contò anche il presidente delle ferrovie, Ludovico Ligato.
A tale sfacelo della Calabria, corrispose la corruzione ed il malgoverno nel resto dell’Italia; il
denaro pubblico fu rubato e dissipato e l’Italia accumulò un enorme debito pubblico.
Fu il periodo del terrorismo infiltrato, della necessità dei piani alti del potere politico di tacitare chi
sapeva sui rapporti mafia-politica. Le vittime più illustri furono: Moro, Dalla Chiesa, Falcone,
Borsellino, mentre la loro controparte fu costituita dal “divo Giulio” e dallo “statista a statura
europea”.
Imperversarono in questo periodo i servizi deviati e la P2, ispirati secondo alcuni da palazzo
Giustiniani e dalla massoneria di rito scozzese antico, che apparentemente fanno professione di
antiautoritarismo. La commistione fra mafia e massoneria produsse inoltre il fenomeno delle stragi
di Stato, la nascita dei fenomeni finanziari misteriosi che gravitarono attorno ai siciliani Cuccia e
Sindona e al calabrese d’origine, Roberto Calvi.
Sul piano pratico la connessione tra mafia, politica e logge più o meno coperte della massoneria,
produsse il fenomeno dell’abusivismo edilizio e dei grandi palazzinari. In tale comparto si
distinsero a Milano il siciliano Salvatore Ligresti e a Roma i fratelli Caltagirone d’origine
palermitana.
Frattanto in Calabria, le cosche della Locride meridionale, trasformarono le loro montagne in
prigioni per i sequestrati e ciò determinò spesso faide interminabili, teleguidate dai servizi che
talvolta furono registi occulti dei rapimenti; emblematico fu il sequestro Soffiantini. Essi del resto
s’erano serviti dell’aristocrazia della ndranghita durante il sequestro Moro. Un suo fedelissimo
politico calabrese, all’ultimo momento, avuto sentore del sequestro-avvertimento, fece posizionare
alle spalle del commando di via Fani un “tiratore scelto” delle cosche aspromontane, capace di
centrare 5 volte su 10, cento lire a dieci metri di distanza. Avrebbe dovuto sparare sui componenti
del gruppo di fuoco delle “Brigate Rosse”, nel caso avessero ucciso Aldo Moro, che doveva a breve
essere liberato, secondo i patti siglati tra Moretti e i servizi; secondo l’ex-brigatista Franceschini il
capo delle B.R., durante il sequestro Moro, non solo fu guidato dai servizi segreti italiani, ma
addirittura fu al servizio della C.I.A.
Dei seri dubbi su Moretti che vantava amicizie femminili nell’aristocrazia milanese, lo manifestò
anche Anna Laura Braghetti, una dei carcerieri di Moro, che non solo ebbe modo di apprezzare lo
statista, ma addirittura auspicava la sua liberazione, assieme agli altri, compreso Prospero Gallinari;
Moretti, che si assentava dalla prigione di via Montalcini per recarsi nel covo di via Gradoli,
misteriosamente vicina ad importanti uffici dello stato, per lunghi periodi e quasi liberamente,
decise da solo la sorte del politico democristiano, passando i comunicati “all’ingegnere Altobelli”,
alias Germano Maccari, che stranamente fu arrestato anni dopo e misteriosamente morì d’infarto in
carcere.
Alla fine dell’estate dell’80 chiesi l’assegnazione provvisoria al provveditorato di Torino, per
l’anno scolastico 80-81 e fui assegnato in una sede del Canavese. Prima di partire, venne a trovarmi
un capo-cellula del P.C.I., di cui ero molto amico e data la mia attendibilità e la mia assoluta fedeltà
al partito, mi confidò le sue preoccupazioni; suo fratello, assieme ad un suo amico, stavano
attraversando un periodo di crisi e rischiavano di dare ascolto a delle “sirene” insidiose.
L’Italia era in pericolo e bisognava vigilare, per evitare derive avventurose, giustificate dalle
velleità terroristiche. Ogni tanto andavo a trovarli e con discorsi vari spiegavo loro come il P.C.I.,
difendendo la legalità ed assumendo atteggiamenti fermi contro il terrorismo, di fatto diventava un
baluardo a favore della democrazia. Parlavo loro della funzione e dell’importanza del questionario
sul terrorismo, che loro bollavano d’infamia. Quando andavo a trovarli, il fine settimana, dormivo
da Filippo, qui presente, nella Barriera di Milano. Egli mi pregava di lasciarli al loro destino perché
di sicuro erano pedinati, in quanto Torino era diventata la città più blindata d’Italia.
In effetti un giorno, mentre giravo senza meta notai che ero seguito sempre da una stessa macchina.
Allora per due ore feci le strade di Torino sempre seguito da una Ritmo beige. Alla fine posteggiai e
a piedi raggiunsi i due ragazzi e li ammonii di nuovo, rivelando che erano sotto controllo. A casa
con loro c’erano due giovani parigini, d’origine armena, che da quanto capii facevano parte
dell’Asala.
A piedi raggiunsi il Lungodora e mi sedetti per riposare su una panchina. All’improvviso arrivarono
due macchine, che si fermarono ai bordi della strada. Da una di esse uscì piangente una bella
ragazza bionda che tentò di scappare, cercando aiuto. Un ragazzo alto e robusto la raggiunse e
cominciò a picchiarla selvaggiamente. Io mi avvicinai di corsa all’uomo e cercai di immobilizzarlo.
Egli, come una furia, si voltò e mi sferrò un pugno in un occhio, stendendomi sul marciapiedi.
Continuò poi a picchiare la ragazza e poi, di forza la caricò piangente sulla macchina e partì
sgommando.
Ebbi un occhio “truccato” per una decina di giorni e dopo una quindicina ebbi la visita dei due
ragazzi, che tentavo di condurli sulla buona strada, in compagnia di una coppia splendida; lei bella e
bionda, mi sembrava di averla vista altrove, il ragazzo, che indossava un completo nero di pelle,
non l’avevo mai visto ed era alto, snello, bruno, dagli occhi verdi. Costui si definì rivoluzionario e
mi chiese di che tendenza fossi. Gli replicai pacatamente che la rivoluzione si fa lavorando
onestamente, difendendo con le armi del diritto e delle leggi le conquiste della democrazia,
aggiungendo che ero un militante del P.C.I.; restò deluso, mentre la ragazza mi pregò d’indicarle la
toilette. Prima di entrare mi parlò sottovoce, dicendomi che era la ragazza che avevo tentato di
difendere sul Lungodora e che il ragazzo con cui si accompagnava era un poliziotto; mi raccomandò
pertanto di stare lontano da quei due poveri idioti.
Ritornai a sedermi e invitai a cena i quattro. Cucinai velocemente e durante la cena i due miei
conoscenti parlarono della necessità di estendere la lotta armata e dando delle pacche sulle spalle al
loro presunto amico, gli prospettavano azioni ardite, che l’interlocutore avallava con convinzione.
Non li frequentai più e due mesi dopo lessi su un giornale del loro arresto, con l’accusa di banda
armata.
Prima di andare a Torino, in assegnazione provvisoria, avevo tentato di costituire una cooperativa
agricola, che coltivasse i terreni abbandonati degli emigrati, coinvolgendo dei giovani disoccupati.
Con piccole somme dei soci, senza mai richiedere finanziamenti pubblici, pagando regolarmente i
canoni d’affitto per i terreni, avviando al lavoro regolarmente le raccoglitrici, cominciammo con
qualche prospettiva di successo, ma successivamente ci trovammo in difficoltà per motivi
ambientali.
Nella fase di liquidazione di essa fummo aiutati dal presidente della cooperativa “Rinascita” di
Rosarno, in seguito infiltrata dalla ndranghita, Fausto Bubba, imparentato con il ministro
all’agricoltura nel II° governo Badoglio, Fausto Gullo, comunista, che si era battuto, con i suoi
decreti, per l’assegnazione delle terre incolte, ai contadini.
Egli era stato il primo nel 1944 a proporre l’istituzione dell’Assemblea Costituente e quando al
dicastero dell’agricoltura fu sostituito da Segni, il 12 luglio del 46, divenne ministro della Giustizia.
Le sue disposizioni concernenti l’assegnazione delle terre incolte, furono combattute con successo
da De Gasperi, che scatenò, specie in Sicilia la criminalità organizzata contro le leghe contadine,
guidate da sindacalisti meravigliosi e sorrette dall’impegno politico del possente segretario politico
del P.C.I. siciliano, Girolamo Li Causi.
Placido Rizzotto aveva pagato con la vita il suo impegno contro la mafia,ma anche Girolamo Li
Causi si era battuto contro di essa ed era stato fatto segno ad un attentato a Villalba, il 16 settembre
del 1944, organizzato dal capomafia Calogero Vizzini che in seguito fece uccidere per conto della
D. C. di De Gasperi, i banditi non affiliati e consegnò alle forze dell’ordine numerosissimi latitanti.
In Calabria fu più difficile asservire al potere democristiano la ndranghita; infatti solo alle elezioni
politiche del 48 si piegò al diktat di Scelba e da allora seguì scodinzolando le direttive della D. C.;
prima c’erano stati tentativi di ribellioni organizzate, il più eclatante dei quali fu quello di Caulonia.
Qui infatti il comunista Pasquale Cavallaro, proclamò la repubblica con prospettive di egalitarismo
assoluto, che durò dal 6 al 9 marzo 1945, con la promessa di appoggio da parte di vecchi
capibastone che erano vicini alle esigenze dei contadini. Allora i proprietari terrieri furono
sottoposti a pene di “contrappasso” ed essi, che avevano gravato i contadini con pesi indicibili, fatti
di umiliazioni e sfruttamento, furono costretti, a suon di nerbate, a trasportare sacchi di sabbia dalle
fiumare al centro del paese. La “repubblica” finì di esistere il 9 marzo del 45, quando la cittadina fu
circondata da mille carabinieri e 200 poliziotti. Aveva espresso il suo appoggio Stalin da Radio
Praga, mentre aveva mandato messaggi di solidarietà Terracini; il movimento era stato sconfessato
dalla federazione del P.C.I. di Reggio Calabria.
Era stata creata la milizia popolare ed eletto un commissario del popolo. In quei giorni il tempo
turbinò vorticosamente e si lasciò dietro amarezza, delusione ed un prete ucciso, la controparte di
Cavallaro: don Gennaro Amato, abbattuto con un colpo di fucile alle spalle. Per alcuni fu vittima
dei comunisti, secondo altri fu ucciso dal marito di una donna con cui don Gennaro aveva una
relazione.
Del resto gli interessi in questione erano minori di quelli siciliani in quanto, in seguito alle lotte
contadine, che precedettero l’avvento del fascismo, specie nella provincia di Reggio, i baroni
avevano liquidato i propri latifondi, mentre nel dopoguerra, grazie ai decreti del ministro comunista
Gullo, parti dei latifondi furono assegnati ai contadini senza terra. La situazione più difficile per il
governo, si registrò in provincia di Crotone, dove in prevalenza i latifondisti avevano mantenuto i
propri privilegi. Qui la lotta divenne dura e le organizzazioni contadine si batterono, pagando anche
con tributo di sangue.
Infatti il 30 ottobre 1949 una moltitudine di lavoratori, uomini e donne si trovarono ad occupare le
terre di contrada Fragalà nel Comune di Melissa, che erano state assegnate al demanio comunale
con decreto dell’amministrazione francese già dal 1811, ma che in seguito furono usurpate dai
marchesi Berlingieri. Un centinaio di poliziotti furono fatti affluire da Bari e fu intimato loro di
sparare sulla folla; furono uccisi Giovanni Zito di 20 anni, Francesco Nigro di 29 ed Angelina
Mauro di 24.
La situazione in Puglia fu meno difficile, in quanto i contadini pugliesi furono guidati dal grande
Giuseppe Di Vittorio, ma anche lì non mancarono episodi tristi connessi alle lotte per l’occupazione
della terra dei latifondi, dove vittime sacrificali in un caso esecrabile furono due donne innocenti.
Ad Andria infatti il 5 marzo 1946 la ditta Spagnoletti-Zeuli si rifiutò di eseguire un’ordinanza del
Moa (Ufficio della Massima Occupazione in Agricoltura) che l’invitava ad assumere quattro reduci
di guerra. I contadini, riuniti nella locale Camera del Lavoro, decisero per rappresaglia di
sequestrare e tenere in custodia nella stessa sede alcuni proprietari terrieri, tra cui Spagnoletti. Il
tentativo dell’intervento delle forze dell’ordine, che furono private delle armi, fece divampare la
protesta.
Intervenne il locale segretario della Camera del Lavoro, che per chetare le acque, promise l’arrivo
del segretario generale della CGIL Giuseppe Di Vittorio, amatissimo dai braccianti di tutta Italia e
specialmente dai suoi conterranei pugliesi. Il segretario arrivò il 7 marzo e si stava apprestando a
fare un discorso pacificatore, quando echeggiò un colpo di fucile all’indirizzo della Camera del
Lavoro e subito si diffuse la notizia che avevano tentato di uccidere Di Vittorio.
Alcuni pensarono di aver individuato il palazzo da cui era partito il colpo indicato erroneamente con
quello posto di fronte alla Camera del Lavoro, che era il palazzo Porro; esso era abitato da quattro
indifese ed innocenti donne e per giunta anziane. La casa venne invasa e saccheggiata e due delle
occupanti, Carolina di 54 anni e Luisa di 76, furono trascinate in via Bovio e crudelmente
assassinate.
Lo sgomento fu grande in tutto il paese ed il giorno 8 i carri armati riportarono la pace ad Andria;
150 furono gli inquisiti. La Puglia comunque divenne terra democristiana, dove rifulse l’intelligenza
di Aldo Moro.
Anche nella pacifica Lucania i contadini senza terra, spinti dalla fame del dopoguerra, portarono
avanti le loro lotte ed in questo si distinsero i braccianti di Montescaglioso, guidati dal combattivo
sindaco Ciro Candido, che non si era piegato ai voleri di De Gasperi e del suo beneamato ministro
degli interni Scelba.
Già nel 45, i contadini del posto, forti dei decreti Gullo avevano occupato il latifondo La Cava, ma
furono costretti a desistere. Le occupazioni erano cominciate il 7 dicembre del 1949 fino al giorno
13, quando dalla Puglia, mandati da Scelba, arrivarono centinaia di celerini con l’ordine di sparare e
di trovare ad ogni costo il sindaco Ciro Candido, che non fu scovato. Nella notte tra il 13 e il 14 i
celerini incrociarono dei manifestanti inermi e pacifici e fecero fuoco su di essi; Giuseppe Novello
fu ferito a morte.
In Campania, terra di criminalità organizzata, la camorra si barcamenò all’inizio fra i monarchici e i
democristiani, che furono da essa in seguito pienamente gratificati, dopo la scomparsa politica di
Achille Lauro, che consegnava una scarpa prima del voto e la seconda ad elezioni avvenute. In
seguito, con l’aiuto dei siciliani, i clan dei marsigliesi asservirono i capi della vecchia guapperia.
Ai primi degli anni 70, in loro aiuto accorsero gratuitamente e disinteressatamente i calabresi della
ndranghita che in poche settimane eliminò i marsigliesi e i siciliani. Il più avvantaggiato risultò
Raffaele Cutolo, che ricambiò i fratelli De Stefano di Reggio, con l’eliminazione a Poggioreale di
don Mico Tripodo.
Nell’autunno dell’86, durante il II governo di Bettino Craxi, ci fu la necessità di smaltire rifiuti
altamente tossici o addirittura scorie radioattive e i servizi si rivolsero alla mafia siciliana, alla
camorra, alla ndranghita. I clan di S. Luca, per bocca di Giuseppe Nirta, vietarono lo smaltimento in
Calabria ravvisando il pericolo. In seguito, prima della morte di Giuseppe Nirta, arrivarono con il
coordinamento dei servizi, camion carichi di fusti pieni di rifiuti tossici o radioattivi, interrati in
buche scavate da pale meccaniche in tutto l’Aspromonte centrorientale.
In definitiva con tale operazione folle i bacini idrici del Careri, del Bonamico, della Verde, del
Bruzzano, del Palizzi, dell’Amendolea sono stati irrimediabilmente inquinati; da essi deriva
l’approvvigionamento di acqua potabile e di uso domestico per 50.000 abitanti. In tale area si muore
ormai prevalentemente di malattie tumorali. Ad Africo Nuovo, solo nella via Provinciale, negli
ultimi 20 anni sono morte 25 persone di cancro, su una popolazione di circa tremila abitanti.
I servizi aiutati da uomini senza onore del territorio, hanno dato il benservito alle comunità
dell’Aspromonte. Infatti nel caso si scoprisse che i veleni sepolti in queste zone sono costituiti da
scorie radioattive, tutta l’area che va da Bovalino a Condofuri, sarà completamente compromessa
per millenni.
Il caso più sconcertante è costituito dal fatto che l’operazione dello smaltimento dei rifiuti tossici o
addirittura radioattivi fu guidato dai servizi segreti, in stretto rapporto con gli alti gradi delle forze
dell’ordine e con un’equipe dell’Enea operante a Rotondella in Basilicata, autorizzati addirittura dal
Ministro della Difesa democristiano del secondo governo guidato da Bettino Craxi. I traffici
naturalmente continuarono e a nulla valsero le segnalazioni del giudice Neri, operante presso la
Procura di Reggio Calabria.
Ai politici italiani, specie alla funesta coppia Andreotti-Craxi, importava poco inquinare per
lunghissimi periodi le regioni d’Italia o altre aree affamate del globo. Eppure molti italiani
rimpiangono questi “statisti”: il primo è ritenuto l’esempio più luminoso di politico che l’Italia
abbia avuto nel dopoguerra, forse superiore al suo “maestro” Alcide De Gasperi. Egli rappresentò il
modello ideale per il Vaticano. Infatti ogni mattina presto va a ricevere la comunione, per ottenere
la remissione dei suoi tanti peccati, perché solo i peccatori, non i cittadini onesti ed esemplari, sono
visti bene dalla Santa Romana Chiesa.
L’altro personaggio fu in linea con la tradizione socialista italiana, a parole con le classi lavoratrici,
di fatto sempre con gli arrampicatori sociali e disonesti. Il loro laboratorio ideale è stato sempre uno
solo: Milano.
A Milano infatti il socialista Mussolini, elaborò un nuovo sistema politico e nacque il fascismo, che
avvelenò tutta l’Europa e poi tutto il mondo, a Milano dallo “statista a statura europea” fu partorito
il craxismo, basato sull’arrivismo, sulla disonestà istituzionalizzata, sugli sprechi, sul furto, sulle
tangenti, sul rifiuto dei principi ideali veri del socialismo.
Dalla scuola politica e dall’impegno profuso a piene mani dal socialismo craxiano, a Milano nacque
il fenomeno dell’ “Uomo-Fogna”, che basa il suo pensiero politico sulla menzogna, sulla
prevaricazione, sul pressapochismo, sul bonapartismo da operetta, sulla corruzione, sul culto
dell’immagine, sull’illegalità.
Il canto del cigno del “divo Giulio”, supportato dallo “statista a statura europea”, si ebbe con le
stragi di Capaci e di via D’Amelio.
Frattanto nel 1989 era caduto il muro di Berlino e la supposta barriera tra gli opposti schieramenti
politici era ovvio che non aveva ragione di esistere più in Italia. A questo punto Francesco Cossiga,
propose ai politici italiani, da Presidente della Repubblica, di fare pubblica ammenda e di
confessare, in massa, le rispettive colpe. Fu giudicato folle, ma forse, se fosse stato ascoltato, non ci
sarebbero state le tragedie successive e ci sarebbe stato un cambiamento vero della politica italiana.
Egli in altri termini, voleva, dato che non esisteva più il pericolo comunista in Italia, la confessione
pubblica della classe politica inerente i retroscena dei grandi misteri d’Italia, che avevano
avvelenato la vita politica e sociale del nostro paese; le stragi di Stato, le connessioni mafia-politica,
la verità sul terrorismo, sul caso Moro.
Restai sbalordito una sera in quel periodo, ascoltando delle sue dichiarazioni in televisione; accennò
chiaramente alla responsabilità dei politici italiani più potenti, in relazione al sequestro Moro.
Il suo appello disperato non fu ascoltato neppure dai dirigenti del P.C.I., che avrebbero avuto
senz’altro dei vantaggi. Fu osteggiato, oltre che da Bettino Craxi, che aveva interessi a farlo, anche
da Achille Occhetto, che blaterando, non gli offrì l’opportunità di svelare i misteri d’Italia. Il 28
aprile 1992 formalizzò le sue dimissioni. Isidoro terminò il suo lungo intervento, mentre verso oriente un chiarore rossastro salutava un
nuovo giorno. Tutti erano sfiniti, il fuoco languiva ed Andrea si premurò di preparare il solito caffè,
nella Bialetti da 10. Dopo un po’ cominciò Filippo, promettendo di essere breve.
- Nacqui in un paesino a ridosso di Reggio Emilia, nell’immediato dopoguerra. Mio padre era stato
partigiano nella 144ª Brigata Garibaldi e alla fine della seconda guerra si trasferì in città, dove fu
assunto nelle Officine Meccaniche Reggiane, da cui fu espulso nel 51 perché comunista. Trovò un
altro lavoro altrove, mentre contemporaneamente aiutava il fratello di mia madre, non sposato, a
condurre il suo podere, fornito di stalla e di una piccola cascina, dall’estensione di 12 biolche,
divise in aree destinate a prato-pascolo, a cereali, a frutteto, a vigneto.
Mio padre con il suo prestigio che discendeva dalla sua partecipazione alla guerra partigiana, era
molto stimato nella sua sezione del P.C.I. che contribuiva ad animarla ed iniziative di vario genere.
Io, invece, frequentavo, quasi clandestinamente l’oratorio ed ero diventato molto affezionato al
prete che lo reggeva. Tutte le sere, dopo cena, mio padre andava in un circolo del partito, dove
amava giocare a scopone, bere qualche bicchiere di lambrusco e parlare di politica ed io talvolta,
avevo quattordici anni, andavo all’oratorio, dove ero stimato per la mia bravura nel giocare a calcio
balilla. Egli naturalmente lo sapeva e talvolta rientrando in casa alla stessa ora, incontrandomi,
sospirava, sentendosi tradito. In casa allora si rabbuiava e si consolava, prendendo in braccio un
grosso gatto rossiccio, che l’aspettava sulla porta.
Mia madre, allora sorridendogli un po’ mestamente, gli passava una mano tra i capelli e gli diceva:
“Emilio, non te la prendere, vedrai che quando sarà più grande, comprenderà e seguirà il tuo
esempio e i tuoi passi”.
Non ci fu bisogno di molto tempo, purtroppo. Infatti nella primavera di quell’anno fu data la fiducia
al governo di Fernando Tambroni, con il voto determinante dei fascisti. Facevano parte di esso due
affiliati alla “Gladio”, che brigò sempre, a partire da De Gasperi, a far male all’Italia: Antonio Segni
e Paolo Emilio Taviani.
In tutto il paese ci fu tanto sbigottimento, che aumentò quando la direzione del M.S.I. decise di
tenere il congresso nazionale a Genova, a partire dal 30 giugno 1960. A presiederlo sarebbero stati
il repubblichino Emanuele Basile, ex prefetto, responsabile della deportazione in Germania di
centinaia di anti-fascisti ed operai genovesi, durante la IIª guerra mondiale. Alla notizia, Genova,
città medaglia d’oro per la Resistenza insorse. Guidarono la protesta i capi partigiani liguri, con le
loro bandiere, affiancati dai camalli, i lavoratori del porto e da decine di migliaia di cittadini, in
prevalenza giovani, “i ragazzi dalle magliette a righe”, l’indumento che in quei giorni simboleggiò
la protesta.
La polizia tentò di sciogliere la manifestazione ed immediata fu la reazione dei manifestanti, che
cominciarono a rovesciare le jeep ed impadronirsi di molti mitra. Le forze dell’ordine si rinchiusero
nelle caserme e in piazza De Ferrari furono bruciati le armi della polizia, su un rogo che ebbe il
significato di ammonimento per le forze antidemocratiche, che si erano palesate in modo così
numeroso.
Il governo ordinò la linea dura contro altre manifestazioni. E le forze dell’ordine in una organizzata
a Licata, il 5 luglio, spararono ed uccisero Vincenzo Napoli di 25 anni e ferirono altri 24
manifestanti. Il 6 luglio in una manifestazione a Roma a Porta S. Paolo, la polizia ferì alcuni
deputati, socialisti e comunisti.
Il 7 fu tragico in molte città italiane dove ci furono manifestazioni. A Catania, in piazza Stesicoro la
polizia prima ferì gravemente a manganellate Salvatore Novembre, poi lo finì a raffiche di mitra e
depose il corpo in segno di ammonimento in piazza; a Palermo ci furono 4 morti.
Quel giorno mio padre, prese parte attivamente, anche alla fase preparatoria della manifestazione,
gremita di gente, operai, contadini, intellettuali, tanti “ragazzi dalle magliette a righe”. La polizia
attaccò violentemente, sparando e isolando un gruppo consistente di manifestanti che si barricò in
un edificio abbandonato, da cui partì qualche lancio di pietre. La polizia incentivò il fuoco,
sparando all’impazzata e morirono due giovani operai ed altri tre adulti, tra cui mio padre. Egli era
stato ferito da colpi di pistola, ma poi in seguito, quando era a terra, a bruciapelo, gli fu esplosa una
raffica di mitra.
Io, assieme a dei coetanei, ero rimasto ai margini della manifestazione, terrorizzato dalla reazione
violenta delle forze dell’ordine e piangevo perché, sentendo gli spari, temevo per mio padre. Ad un
certo punto vidi un gruppo di operai portare un ferito agonizzante su uno spiazzo vicino ad una
strada, in attesa dell’ambulanza ed allora cominciai a correre in quella direzione. Quando arrivai
vicino constatai che il ferito era mio padre. Mi feci un varco tra i presenti e urlando per il dolore,
poggiai il mio petto sul suo, coperto di sangue, e avvicinai il mio volto al suo, ugualmente pieno di
sangue. Ebbe la forza, tra i rantoli di sussurrarmi: “ricordati di questo giorno e battiti sempre per i
deboli e per gli oppressi”. Spirò poco dopo su un’ambulanza che lo portava in ospedale.
Su quei fatti il Vaticano non spese una parola di protesta. Da quel giorno non frequentai più
l’oratorio, né una chiesa, mentre mia madre non sorrise più. Conservo ancora, tra le cose più care,
come monito per i miei figli, la “maglietta a righe”, impregnata del sangue rappreso di mio padre. –
Ascoltando queste vicende, dagli occhi di Paolo scesero giù delle lacrime, che stentavano ad
avanzare, sul suo volto affinato dalla malattia, a causa della barba ormai grigiastra.
- Mi impegnai, continuò Filippo, con rigore negli studi e a 21 anni ero già laureato. Durante un
viaggio in America incontrai una ragazza di origini italiane, che mi apparve come un miraggio per
la sua bellezza. Ben presto la sposai e la portai in Italia. Sua madre era d’origine calabrese, suo
padre, napoletana. Nei primi anni dopo il matrimonio volli esaudire i suoi desideri tendenti a
scoprire le proprie radici. Cominciammo pertanto a visitare tanti posti del Sud Italia, sempre ospiti
di parenti ed allora scoprì un fatto inaudito, attraverso l’urbanistica e i monumenti del periodo
precedente l’unità politica della nostra penisola e mi accorsi di una realtà ben diversa da quella
descritta dai libri di storia.
I centri storici, quelli non ancora deturpati, risultarono armonici, forniti di edifici ricchi, di buon
gusto e dotati di tante opere d’arte. Mi misi a studiare la storia del Mezzogiorno e scoprii fatti
sconvolgenti, specie dopo la visita alla Reggia di Caserta, di cui non esisteva il corrispondente negli
altri stati-regione d’Italia. La confrontai con quella dei Savoia e ne trassi le conseguenze: la reggia
dei Savoia non reggeva il confronto con quella del Regno di Napoli. Continuai ad indagare e scoprii
che la capitale del Regno di Napoli era dinamica in ogni campo, compreso quello della ricerca
scientifica. Era dotata di un’industria siderurgica e meccanica, che stavano utilizzando i metodi più
innovativi del settore.
In una gita turistica con mia moglie nell’area di Stilo e mangiando in un ristorante, chiamato “La
Vecchia Miniera” a Bivongi, seppi che nel passato in tutta la vallata dello Stilaro e nelle aree vicine
c’erano stati degli impianti siderurgici. Volli informarmi a proposito e restai sconvolto, quando
venni a conoscenza che addirittura durante la dominazione spagnola nell’area c’erano delle fonderie
che producevano palle di cannone e che prima della metà del XVIII secolo erano operative a Stilo
ben otto ferriere che lavoravano i minerali locali, mentre nel 1746 nel territorio della stessa cittadina
furono costruite sei nuove ferriere che alimentarono la produzione della “Reale Fonderia di Cannoni
della Città di Stilo”, la seconda fabbrica d’armi del Regno di Napoli, mentre addirittura negli anni
1754-1755, su progetto del grande artista ed architetto Luigi Vanvitelli furono prodotti i tubi che
servirono l’acquedotto carolino della Reggia di Caserta.
L’attività del settore nell’area si ampliò quando nel 1771, sotto Ferdinando IV di Borbone nacque il
primo complesso siderurgico d’Italia con le “Nuove Regie Ferriere” della Mongiana, rispetto alle
vecchie esistenti a Stilo, dislocate in varie parti del territorio. A Mongiana stessa l’area di
produzione si basava su 12.000 metri quadri, dove erano operativi tre altiforni, sei raffinerie, due
forni Wilkinson; ogni forno produceva 35 quintali di ghisa al giorno, che era giudicata pari a quella
inglese.
All’interno del complesso, su 4.000 metri quadri erano operativi gli “Stabilimenti calabresi per la
manifattura delle armi”, che producevano canne per fucili e pistole. I carrelli che servivano gli
altiforni erano spinti da una macchina a vapore che recuperava i gas sprigionati dagli altiforni stessi.
Tra il 1806 ed il 1814, durante la dominazione francese, venne restaurato il complesso siderurgico
delle “ferriere vecchie” di Stilo, con la nascita di nuove ferriere, tra cui la Robinson e fu costruita
una fonderia per cannoni ed una fabbrica di fucili, mentre fu migliorata la tecnologia a Mongiana
stessa, dove erano occupati direttamente e nell’indotto 4000 operai.
Dunque in Calabria, ritenuta ora, una delle aree più arretrate dell’Europa, in una zona a cavallo tra
l’attuale provincia di Vibo e quella di Reggio Calabria esisteva un polo siderurgico molto avanzato,
il primo in Italia, servito dal piccolo distretto minerario di Stilo-Bivongi-Pazzano. Ancora nel 1825
da Mongiana partì il materiale per la costruzione del primo ponte intieramente in ferro d’Italia:
quello sul Garigliano. Inoltre ancora dalle ferriere della Mongiana provenivano le rotaie della prima
ferrovia d’Italia: la Napoli-Portici completata nel 1839.
Nel 1840 verso sud la ferrovia raggiunse Torre del Greco, nel 1842 Castellamare di Stabia, nel 1844
Salerno, mentre in direzione nord nel 1843 raggiunse Caserta e nel 1844 Capua; anche in questo
caso contribuì Mongiana.
Naturalmente inizialmente il materiale ferroviario più sofisticato era d’importazione (inglese e
francese), ma nel 1953 fu inaugurato il Reale Opificio Borbonico di Petrarsa, che fu il più avanzato
sistema industriale di tutta l’Italia, che nel 1860, all’atto dell’unificazione contava 1200 dipendenti.
Esso lavorava il ferro delle miniere calabresi sopra menzionate e per la sua concezione moderna fu
visitato dallo Zar di Russia Nicola I che trasse ispirazione per la costruzione del complesso
industriale di Kronstadt.
Dopo l’unificazione gradualmente le strutture di Petrarsa furono smontate e trasferite a Terni; la
stessa cosa avvenne per il distretto siderurgico calabrese che fu eliminato. A Mongiana però la
gente, comprese le donne, ebbe la dignità di sollevarsi contro i vandali venuti dal nord ed il
tricolore, il simbolo della fame e delle disgrazie portate al sud, fu da tutta la popolazione calpestato
e poi tutto il territorio rispose con la ribellione contro gli occupanti, selezionando decine e decine di
“briganti” che si batterono furiosamente contro i piemontesi. A Serra San Bruno particolarmente
spietata fu la reazione delle truppe d’occupazione, con impiccagioni dimostrative.
Nel Regno di Napoli esistevano 40 cantieri navali e la flotta commerciale, costituita da 9.800
bastimenti, era la seconda di tutta l’Europa, mentre la flotta militare era la terza del continente.
Fiorente era la bachicoltura e di conseguenza l’industria della seta, la cerealicoltura, l’olivicoltura,
la viticoltura, il cui prodotto in buona parte andava in Francia.
Era fortissima la pressione dei baroni, che dopo essersi impossessati di parte dei beni della chiesa,
tentavano di impossessarsi dei campi comuni, ma la volontà del re, li contrastava con successo. La
fronda ai Borboni non derivava dalla borghesia nascente, ma dall’aristocrazia, che sognava di
estendere la propria influenza, anche alle montagne, ricchissime di essenze forestali, appartenenti
alla Corona, che s’identificava con lo stato.
In altri termini le ricchezze del Regno di Napoli venivano viste non come potenzialità per lo
sviluppo, ma come obiettivi di rapina e guardava a queste ricchezze il Regno di Sardegna,
indebitato per le guerre fatte contro gli austriaci. Confrontato in lire il debito pubblico napoletano
nel 1859 con quello piemontese era di molto inferiore, per cui comprendiamo il motivo
dell’operazione della conquista del Sud, dove il benessere era almeno uguale a quello del Nord, con
uno sviluppo in fase espansiva dell’industria siderurgica, con ben 100 stabilimenti attivi e distribuiti
su tutto il territorio.
Fra l’altro c’erano dei prodotti d’eccellenza esportati in tutto il mondo, con il marchio, diremmo
oggi “made in Naples”, tra cui i raffinatissimi prodotti serici e le celebri porcellane di Capodimonte.
Nel 1859 il PIL (prodotto interno lordo) nel Regno di Napoli in lire (la moneta circolante era il
ducato e la presentazione in lire piemontesi serve per il confronto) era di 2.620.860.700 contro
quello piemontese che era di 1.610.322.220. Il debito pubblico del Regno di Napoli era scarso con
un rapporto del 16,57 %, del D.P./PIL,mentre nello stesso periodo il debito pubblico piemontese era
elevatissimo con un rapporto del 73,86% del D.P./PIL. Il reddito pro-capite era leggermente
superiore quello del regno di Napoli , con l’aggravante però per il Regno di Sardegna, di un enorme
debito pubblico che minava in prospettiva il benessere della popolazione.
Notevoli erano le risorse finanziarie gestite dagli istituti di credito dello stato borbonico. Infatti il
Banco di Napoli gestiva 33 milioni di ducati corrispondenti a 165 milioni di lire piemontesi e due
milioni di sterline, pari a 60 milioni di ducati, corrispondenti a 300 milioni di lire piemontesi, di
proprietà del re, che s’identificava con lo stato, mentre il Banco di Sicilia era dotato di 30 milioni di
ducati, equivalenti a 150 milioni di lire piemontesi. Nel complesso i due istituti bancari gestivano il
corrispondente di 600 milioni di lire piemontesi, cifra notevolissima.
A questo punto e dati i suddetti presupposti, con cui i piemontesi guardavano il Regno di Napoli
come preda, scattò l’operazione militare programmata da vari protagonisti in un momento di
debolezza del regno di Napoli che si trovò senza difese e senza alleati.
Infatti l’anno prima l’Austria era stata sconfitta dai francesi, alleati dei piemontesi e non poté
intervenire, mentre lo stato borbonico era governato da circa un anno dall’inesperto giovane
sovrano Francesco II, vicino ad essere spodestato per la seconda volta dal ramo cadetto dei Savoia
–Carignano.
Infatti egli era figlio di Maria Cristina di Savoia, che morì partorendolo, figlia di Vittorio Emanuele
I di Savoia, re di Sardegna, che per non concedere la costituzione il 13 marzo del 1821 abdicò a
favore del fratello Carlo Felice, spianando la strada ai Savoia-Carignano.
Egli aveva sposato Maria Sofia di Baviera divenendo cognato dunque di Elisabetta Amalia Eugenia,
imperatrice d’Austria, meglio conosciuta con il nome di Sissi e dell’imperatore Francesco
Giuseppe.
La politica filo-russa dei Borboni aveva irritato inoltre gli inglesi, che cercavano in tutti i modi di
destabilizzare il regno.
Ebbero l’occasione con Garibaldi, di cui coordinarono le operazioni a bordo della Hannibal, la nave
ancorata a Palermo, dopo l’arrivo dei Mille, che per il 60% erano “padani” e borghesi: 434
lombardi, 194 veneti, qualche decina piemontesi e poi 156 liguri, 78 toscani, 71 siciliani, 35
stranieri ecc; come si vede l’impresa fu portata avanti da soggetti non del Sud, in prevalenza.
Durante lo sbarco di Garibaldi a Marsala, nel porto c’erano due cannoniere inglesi, l’Argus e
l’Intrepid, che dissuasero le navi da guerra borboniche, dotate di moderni cannoni, di sparare sul
Piemonte e sul Lombardo, prima che sbarcassero i volontari; lo fecero solo a sbarco avvenuto.
È un mistero del perché lo fecero, ma in parte, in quanto essi guardavano con sospetto alle
potenzialità del Regno di Napoli e non volevano avere un intralcio alla loro egemonia totale nel
Mediterraneo, come pure è misterioso l’ossequio che fa alla figura di Garibaldi la massoneria di rito
scozzese.
C’è da aggiungere inoltre che gli inglesi volevano punire i Borboni per la loro mancata
partecipazione alla guerra di Crimea a favore della Turchia, che tramite la massoneria britannica,
sponsorizzò la spedizione garibaldina con l’invio di una cassa di piastre (la moneta turca) d’oro,
incoraggiando decine e decine di “volontari”ad aggregarsi al battaglione internazionale che
supportò Garibaldi specie nella cruciale battaglia di Milazzo.
Inoltre gli inglesi rifornirono di una flottiglia e costantemente d’armi “l’eroe dei due mondi”,man
mano che avanzava.I piroscafi inglesi dotati di equipaggi mercenari internazionali erano il
Panther,il Cambria,il City of Aberdeen,l’Indipendence,il London,il Badger,il Ferret,il Weasel,il
Queen of England ed il Fairy Queen.
Gli americani diedero a Garibaldi,dotandoli di mercenari ,il Washington,l’Oregon ed il
Franklin,mentre la compagnia francese Frassinet,pagata dai piemontesi,consegnò l’Algerie e la
Provence.
Attivissimi pertanto furono gli inglesi che erano stati gratificati dai Borboni abbondantemente
durante le guerre napoleoniche, con la concessione all’Inghilterra dell’arcipelago di Malta e con
l’assegnazione a Nelson della ducea di Bronte, costituita da circa 6.570 ettari.
Pertanto la spedizione dei Mille fu iniziata all’insegna della prevaricazione del diritto internazionale
nei confronti di uno stato legittimo, da parte del Piemonte e dell’Inghilterra, aiutata dalla
massoneria e dalla mafia al servizio dei baroni, che avevano avuto la garanzia da Garibaldi che i
loro latifondi non sarebbero stati toccati, anzi accresciuti con i terreni appartenenti alle comunità
locali e con quelli demaniali.
Nella battaglia di Calatafimi del 14 giugno 1860 si ebbe la prova del complotto ordito
sull’Hannibal, in seguito al quale il generale borbonico Francesco Landi ebbe da Garibaldi un
accredito di 14.000 ducati, come prezzo del suo tradimento, da convertire in monete sonanti dopo la
conclusione positiva dell’impresa garibaldina.
All’inizio della battaglia Landi era in posizione dominante in località Pianto Romano con un
numero prevalente di soldati e teneva sotto scacco con 400 tiratori scelti, dotati di carabine
modernissime e due potenti cannoni le truppe nemiche male armate ed in posizione
sfavorevolissima che possedevano poche decine di moderni fucili. Si profilava la vittoria borbonica,
quando Landi ordinò la ritirata, tra lo stupore dei suoi soldati. Il numero dei morti complessivo fu
meno di 50.
L’anno successivo si ritrovò con la promozione nell’esercito piemontese a generale di corpo
d’armata da generale di brigata quale era stato, mentre i suoi cinque figli, già in servizio
nell’esercito napoletano, si ritrovarono ufficiali nell’esercito sabaudo. Non fu a lieto fine la storia di
Landi in quanto quando si presentò in una banca a riscuotere l’importo pattuito con Garibaldi scoprì
che il documento che presentava era un falso; addoloratissimo per tale contrattempo, morì poco
tempo dopo colpito da un ictus cerebrale.
La battaglia di Milazzo, combattuta tra il 17 ed il 24 luglio del 1860 evidenziò ancora meglio il
mistero delle “vittorie” di Garibaldi, che si era preparato all’evento accuratamente. Qui si ritrovò
davanti il colonnello Ferdinando Beneventano Del Bosco, non disponibile a tradire con i suoi 3400
soldati, mentre egli disponeva di 6000 uomini,tra cui i mercenari del battaglione internazionale
organizzato dai britannici, dotati di carabine a canne rigate, rifornite dagli inglesi e piemontesi.
Gli scontri furono furibondi e i garibaldini lasciarono sul terreno 650 soldati contro i 51 di Del
Bosco. La situazione era di stallo nonostante la superiorità dell’esercito garibaldino, ma si sbloccò
grazie al dio denaro.
Infatti l’ammiraglio Persano “convinse” il capitano Amilcare Anguissola a consegnare ai
piemontesi la modernissima unità di combattimento “La Veloce” dotata di formidabili cannoni; con
essa, rinominata Tukory,dal nome di un “volontario”ungherese, si cominciò a bombardare le
posizioni del colonnello Del Bosco che fu costretto a rinchiudersi nel forte di Milazzo. Dopo
qualche giorno, sempre con la mediazione degli inglesi, da Napoli arrivò l’ordine di resa per Del
Bosco e per tutti i soldati borbonici, che s’impegnarono ad evacuare la Sicilia, per mantenere però il
resto del Regno, secondo i patti.
Qualcosa di analogo era successo a Palermo dove le truppe borboniche stavano eliminando nella
città i garibaldini quando intervennero gli inglesi che avevano imposto una tregua tra le parti in lotta
con la complicità del generale Letizia, contattato e corrotto.
In seguito il generale Fileno Briganti, comandante della piazza di Reggio avrebbe potuto impedire
con facilità lo sbarco garibaldino in Calabria, ma si affrettò ad arrendersi; il 25 agosto 1860 mentre
a cavallo stava transitando per Mileto fu riconosciuto da alcuni soldati borbonici, che additandolo
come traditore lo buttarono giù dal cavallo e lo uccisero a fucilate.
Garibaldi aveva promesso la terra dei feudatari ai contadini e quando i cittadini di Bronte, violarono
il feudo dei Nelson (inglesi), Nino Bixio su mandato di Garibaldi fece fucilare alcune persone dopo
un processo sommario. Ai siciliani Garibaldi aveva promesso tanto, ma poi rubò 5 milioni di ducati
oro dal Banco di Sicilia , mentre fece la stessa cosa con l’oro del Banco di Napoli e della Zecca
borbonica,da cui nel complesso riuscì a rubare almeno quanto consegnò ai piemontesi: l’equivalente
di 90 milioni di ducati oro.
I garibaldini quando si ritrovarono a Napoli continuarono la spoliazione iniziata “dall’eroe dei due
mondi” e la città venne letteralmente saccheggiata, aiutati in questo dai camorristi di Salvatore De
Crescenzo, alla sorella del quale, Marianna, Garibaldi accordò un vitalizio.
L’operazione di coinvolgimento della camorra fu portato avanti dall’ex ministro borbonico Liborio
Romano,che si mise a disposizione dell’”eroe dei due mondi”.
Naturalmente non furono toccate le terre dei baroni, garantiti, che anzi dilatarono i propri latifondi
comprando dai piemontesi le terre demaniali appartenenti alle varie comunità locali, su cui i
cittadini gratuitamente o quasi, avevano diritto di semina, di legnatico, di pascolo.
Migliaia di ettari di terre comuni furono messe all’asta e i meridionali pagarono ai piemontesi
l’acquisto delle proprie terre. Prima i piemontesi avevano ridotto di un terzo il valore dei ducati, che
i cittadini del Regno di Napoli, furono costretti a riconvertire in lire piemontesi.
L’enorme accumulazione di capitali, fatte le dovute proporzioni, corrispondente a svariati miliardi
di euro attuali, fu reinvestito prevalentemente in Lombardia, Piemonte e Liguria, dove vennero
potenziati o costruiti ex novo dei porti.
Il Regno di Napoli era dotato di numerosissimi porti ed approdi attrezzati, razionalmente distribuiti
sulle coste; il governo post-unitario li trascurò e li fece deperire.
I Borboni avevano affrontato il problema delle comunicazioni viarie, costruendo delle nuove o
rifacendo le antiche vie consolari romane. Ripristinarono la via Annia-Popilia, che da Capua
portava sullo Stretto di Messina; per la sua costruzione i Romani, avevano impiegato solo 4 anni:
dal 132 al 128 a.C. È un bel confronto se paragoniamo i tempi di rifacimento della Salerno-Reggio
Calabria, più o meno analoga nella lunghezza, dove i lavori “fervono” da circa un decennio.
Il governo post-unitario cominciò a costruire la ferrovia lungo le coste della penisola, tramite cui
fece affluire le truppe di repressione nel Sud, quando, per la spoliazione subita il popolo
meridionale si ribellò e fu tacciato allora di brigantaggio. Furono applicate le disposizioni di guerra
e circa 20.000 furono gli uccisi. Per domare la ribellione vennero dislocati nel Sud fino a
centoventimila soldati e fu usata la famigerata legge Pica,che prevedeva la fucilazione per i
sospettati e la carcerazione per le mogli e per i bambini dei “briganti”.
Allora per i “lavori sporchi”i piemontesi si servirono dei battaglioni di feroci mercenari ungheresi
che stupravano ,massacravano donne,vecchi e i bambini dei villaggi ribelli,che poi incendiavano,in
assenza degli uomini lontani sulle montagne a battersi contro le forze di occupazione.
In poco tempo furono costruite delle ferrovie e i treni andarono su e giù, pieni di soldati nella
direzione Sud, al contrario carichi di bottino e di legname rubato alle foreste, per fare andare avanti
le industrie nascenti del Nord. In pochi anni tutti i boschi costieri furono distrutti. Descrive
chiaramente la situazione pre-unitaria delle foreste meridionali, il viaggiatore inglese Edward Lear,
che attraversò parte della Calabria a piedi nel 1847. Sulle montagne di Pietrapennata, località in
provincia di Reggio crescevano foreste millenarie di leccio, ora sono prive di alberi e degradate
dalle frane.
In pochi anni la fame più nera s’impadronì della gente del Sud, che da popolo si trasformò in plebe.
Nell’ultimo scorcio del secolo XIX non restò altro che lasciare la propria terra ed emigrare verso le
Americhe. L’unico intervento positivo fu quello riferito alla scuola, che divenne pubblica e
nominalmente obbligatoria fino ad una certa età.
Ogni estate, a partire dal 1971, l’anno successivo al mio matrimonio, andammo in vacanza tutti gli
anni, per un intiero mese dai parenti di mia moglie in Calabria o in Campania, ospiti attesissimi e
contesi. Notavo il degrado che avanzava anno dopo anno in quelle contrade. Del resto anche l’Italia
tutta sta attraversando un periodo tristissimo, con una corruzione dilagante sponsorizzata da una
classe politica becera e stracciona. A tutto ciò si aggiunge l’arretramento, nella qualità della vita, di
tutti i popoli europei e dell’America del Nord.
Grazie alla globalizzazione, alla delocalizzazione e ai giochi bancari, si è pervenuti al neofeudalismo, ripiombando in una sorta di nuovo Medioevo. Tempo fa restai trasecolato ascoltando,
in una conferenza, tenuta in una scuola, Alex Zanotelli, che descriveva la sua esperienza tra i poveri
del Kenya. Egli spiegava ai ragazzi come ormai il 70 % della ricchezza di tutto il mondo, è nelle
mani di pochi ricchissimi; circa 400 in tutto. Il restante 30 % se lo dividono più di 6 miliardi di
uomini, che vivono sulla Terra. Inoltre aggiungeva che ormai le multinazionali stanno mettendo le
mani sulle acque dolci del globo, dopo essersi impadronite delle altre risorse. Credevo che le sue
fossero esagerazioni, ma dopo un po’ di tempo mi recai in Calabria, assieme a mia moglie e ai miei
due figli, che vollero salutare i parenti, prima della partenza definitiva per gli Stati Uniti, dove i
miei ragazzi già lavorano. Qui invece erano praticamente disoccupati nonostante che fossero
ambedue laureati in ingegneria informatica; lavoravano mal pagati, con contratti a termine.
Allora seppi da un ingegnere della S.O.R.I.C.A.L., società che si occupa della gestione degli
acquedotti calabresi, che sei anni fa una società francese, la Veolia, che gestisce anche
l’inceneritore di Gioia Tauro si è comprata il 47 % dell’acqua degli acquedotti calabresi.
In altri termini ormai siamo in pieno neofeudalismo, dove i pochi super ricchi, attraverso una stretta
cerchia di top-manager, pagati in modo scandaloso, dominano sulle masse enormi di sudditi, che
lottano disperatamente per la sopravvivenza. Grazie poi alla delocalizzazione, le tecnologie
sofisticate dei paesi più avanzati, sono andate a finire nelle mani dei cinesi e degli indiani, che con
velocità inaspettata, si sono proiettati sulla ribalta dell’economia mondiale. In Cina il capitalismo di
stato, in nome del comunismo inesistente ha asservito le classi lavoratrici che con salari da fame,
equivalenti a 30 euro circa al mese, stanno producendo beni di consumo per tutto il mondo, mentre
gli ex burocrati di partito si sono trasformati in capitani d’industria o in top manager.
In Italia poi dalla fine degli anni 60 in poi, il processo di mafiosizzazione è andato avanti a ritmi
impressionanti. Allora gli uomini del potente partito cattolico, pensavano che le varie mafie d’Italia
fossero il vero baluardo contro il comunismo; e la gente faceva finta di credere a questa fandonia.
Le stesse stragi di Stato, programmate a partire da quella alla “Banca dell’agricoltura” del 12
dicembre 1969, servivano secondo i servizi segreti ad indebolire i comunisti. E così ci furono
innumerevoli altre: alla questura di Milano il 17/05/1973; in Piazza della Loggia a Brescia il
28/04/1974; sul treno Italicus il 04/08/1974; alla stazione di Bologna il 02/08/1980; sul treno 904 il
23/12/1984.
Caduto il muro di Berlino il 9 novembre 1989 è venuto meno il “pericolo comunista”. Per quale
motivo si insiste ancora sulla lotta al comunismo, che non esiste più nel mondo? E per quale motivo
gli italiani fanno finta di credere a questa crociata. Il motivo è uno solo: dopo Tangentopoli, quando
i cittadini onesti si sono ritirati dalla politica attiva, i servizi segreti, la massoneria, le mafie, i ladri
più incalliti d’Italia, si sono alleati in una sorta di Santa Alleanza, per rubare tutte le risorse d’Italia,
palesemente, di fronte agli occhi degli italiani, che, come paralizzati assistono impotenti a questo
scempio. È stupefacente poi constatare che tale operazione è portata avanti da loschi figuri
mediocri, al di sotto delle capacità intellettive normali.
Ma perché non esiste una reazione violenta, perché i politici non sono abbattuti come porci da
macello per le strade? La verità è una sola: la maggioranza degli italiani, spera in cuor suo di poter
partecipare prima o poi a questo infame banchetto. Il nostro paese, non chiamiamolo più nazione, né
tanto meno patria, perché non merita più questi appellativi, è senza speranza, perduto
definitivamente. –
Ormai tutti erano sfiniti, mentre il sole si alzava nel cielo ed il fuoco, ormai inutile, spento da
parecchio. Anche Filippo stanco non seppe impedire che tutti andassero di corsa a buttarsi sui propri
lettini.
Invitò però tutti, prima della partenza, programmata per il pomeriggio inoltrato, di descrivere su un
pezzo di carta in anonimato, una possibile soluzione incisiva per l’Italia; uno di loro avrebbe letto le
risoluzioni auspicate.
Erano all’incirca le 7 del mattino quando tutti andarono a letto e a mezzogiorno il solo Andrea si
svegliò. Si alzò e andò a sbirciare nel frigorifero, dove c’erano solo una decina di melanzane, alcune
uova, prosciutto cotto in abbondanza e numerose sottilette. Appese alla parete di fronte al caminetto
c’erano una ghirlanda di agli ed un’altra di cipolle e un mazzetto di origano. C’erano inoltre quattro
confezioni di pomodori pelati e due confezioni medio-grandi di passata di pomodori.
Data l’abbondanza di ciocchi, accese il fuoco nel caminetto e poi con delicatezza andò a svegliare
Isidoro e sottovoce gli richiese collaborazione per preparare velocemente un pranzetto.
Restò perplesso Isidoro non tanto per la proposta di collaborazione, quanto per il fatto che il
frigorifero appariva sfornito di quanto servisse persino per un poverissimo pranzo.
- Ricordati, che io come Gesù, che amo moltissimo e che considero il più grande rivoluzionario
della storia, farò il miracolo di creare dal quasi nulla un pranzo raffinato; imiterò il miracolo dei
pesci e del pane.
Tanto per cominciare inizia a sbucciare tre melanzane, che non sono piccole e poi riducile a cubetti
di circa 1,5 cm di lato. Quando avrai fatto quest’operazione friggili assieme a pezzetti di aglio. Le
restanti melanzane falle a fette e metà di esse friggile, mentre le restanti cospargile di sale e lasciale
riposare in quel contenitore celeste. –
Nel frattempo Andrea armeggiava con prosciutto e con uova che lessava in un tegamino.
Alle tre di pomeriggio prese un ciocco e cominciò a batterlo con delicatezza sul fondo di un grande
recipiente di rame, appeso ad uno stipite di una porta murata. Esso funzionò da gong e tutti si
alzarono di soprassalto.
Con letizia si apprestarono al pranzo inaspettato, ma Filippo ingiunse loro di scrivere sul foglio di
carta quanto sopra stabilito. Qualcuno obiettò che sarebbe stato preferibile farlo dopo, ma egli fu
irremovibile in quanto temeva che a pancia piena e con l’aiuto di un bicchiere di vino, sarebbero
stati clementi con i politici da giudicare. Gli addetti alla cucina imbandirono una saporitissima pasta
alla Norma, che soddisfece i commensali, mentre successivamente pervenne miracolosamente una
squisita parmigiana, cotta in un antico forno a legna, alloggiato sotto un casotto all’esterno della
baita. A questo punto fu doveroso un applauso per il cuoco ed il suo aiutante. Chiusero il pranzo
delicatissime melanzane grigliate, al salmoriglio, cotte alle braci su una vecchia graticola. Quando
furono servite, si levò un oh prolungato, servito tra lo sfottò e l’ammirazione. Comunque Andrea
era molto gratificato per l’esito positivo della sua arte culinaria. Naturalmente accompagnò il tutto,
il solito popolare e buon Barbera, seguito dal caffè.
A questo punto Domenico cominciò lo scrutinio delle “schede” e cominciò:
- Su sei foglietti c’è l’indicazione di uccidere l’Uomo-Fogna e di far saltare in aria il parlamento,
assieme agli occupanti, con una potente carica di tritolo. –
Intervenne Filippo a commentare.
- Emergono in quasi tutti noi volontà tirannicide, senz’altro giustificate, ma non so fino a che punto
legittime dal momento che i componenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica,
risultano regolarmente eletti da circa il 70 % degli italiani … - Non sono d’accordo – interruppe Paolo – sul concetto di tirannicidio, che nel presente caso è fuori
luogo, poiché si tratterebbe di clowncidio, in quanto la maggioranza degli italiani, pagliacci
interessati, hanno eletto a rappresentarli un uomo degno di loro, ossia un clown.
Una minoranza d’ italiani, accettabilmente onesta, ha diritto di privare la maggioranza degli italiani,
pagliacci, del loro clown? Il quesito sul diritto delle minoranze, o di pochi addirittura di abbattere
un dittatore o un surrogato di dittatore, come nel nostro caso, si dibatte nella civiltà occidentale da
514 a. C., ossia da quando Armodio ed Aristogitone, uccisero Ipparco, figlio di Pisistrato, fratello di
Ippia, che reggeva in modo antidemocratico Atene.
Sull’argomento si dibatté anche in epoche successive ed il tirannicidio fu praticato molto in tutti i
tempi e ricordo i più emblematici riferiti alla civiltà romana, quali l’uccisione di Cesare, l’episodio
di Nerone costretto al suicidio tramite uno schiavo, anni dopo il fallimento della congiura dei
Pisoni, l’eliminazione di Caligola. Ho posposto volutamente Caligola a Nerone, dal punto di vista
cronologico, per il fatto che l’identità è quasi totale tra l’imperatore della dinastia Giulio-Claudia e
l’Uomo-Fogna.
Infatti Caligola designava come senatori i suoi cavalli, l’Uomo-Fogna suole introdurre armenti di
docili somari, in parlamento; resta da vedere se sarà assassinato dalle sue guardie del corpo, in
quanto Caligola fu ucciso dai suoi pretoriani oppure si farà sopprimere da un suo servitore, come
capitò a Nerone che sul punto di essere linciato si fece uccidere da uno schiavo. Il tema fu di
attualità anche nel periodo dell’Illuminismo e in quello della Rivoluzione Francese, quando in pieno
Terrore, Carlotta Corday uccise Marat. Ora bisogna stabilire in nome di chi e con quali mezzi
bisogna eliminare questo pagliaccio. –
- Io vado subito al sodo – cominciò Domenico – e dal momento che non è degno neppure di una
pallottola, il mezzo migliore per toglierlo di mezzo, sarebbe quello di immergerlo nel suo elemento
naturale, ossia la merda. Non è facile però, dal momento che è difeso da schiere di guardie del
corpo, per cui non resta che lo strumento più facile, ossia una pallottola, veicolata da un fucile di
precisione. Sarebbe da esplorare anche l’ipotesi di un attentato con l’ausilio di esplosivo, ma è più
problematico. In tutti i modi, dal momento che qui stiamo facendo solo salotto, possiamo
sbizzarrirci con svariate proposte. –
- Personalmente – intervenne Teodoro – nutrito di legalità sin da bambino, provo orrore a teorizzare
un attentato persino ai danni di un personaggio squallido qual è l’uomo di cui stiamo dibattendo. Gli
italiani l’hanno voluto? Se lo tengano! Aggiungo inoltre che a favore della sua scesa in campo si
batterono volontariamente, indirettamente ed in modo interessato, perché corrotti, tanti politici del
centro-sinistra. Ormai non c’è speranza e solo una ribellione improbabile del popolo italiano ci può
salvare. Del resto quasi tutta la storia d’Italia, dall’unità ad oggi, ha seguito la via maestra della
corruzione e della corsa alla razzia del pubblico denaro.
Qualche anno addietro ascoltai un’intervista di Donna Assunta Almirante, la quale affermava che
suo marito, simbolo vivente fino alla morte, del rispetto formale e sostanziale del concetto di patria,
poggiante sull’onestà, quando morì gli lasciò un libretto di risparmio di soli 4 milioni di lire.
Alludendo poi ai rappresentanti più in vista della destra attuale, faceva capire più o meno
velatamente, che individui al massimo agiati, si sono trasformati, in un decennio di vita politica, in
persone ricche. In quanto poi all’ipotesi di far saltare in aria almeno uno dei rami del parlamento, lo
considero raccapricciante, in quanto si violerebbe uno dei simboli fisici della Repubblica.
Naturalmente ho saputo che Filippo, ha organizzato questa specie d’indagine apparentemente
improvvisata, proposta come gioco di società, per conoscere, con un campione ristretto di persone
provenienti da alcune regioni d’Italia, l’umore vero degli italiani. Contemporaneamente gli
individui prescelti dovevano corrispondere a delle caratteristiche precise: essere dotati di una certa
cultura e rappresentare diverse tendenze politiche.
So per certo, che l’assieme di tutti noi, nonostante le parole dette, rappresenta, per le idee politiche,
la destra, il centro, la sinistra.
Io non riesco a capire perché è stato organizzato tutto ciò e a quali finalità tende. - Il responsabile di questa messinscena – iniziò l’ex allievo di Filippo – sono io e tutti quanti ci
siamo sottoposti ad una terapia di gruppo, da cui è venuto fuori in maniera spontanea tutto il
risentimento contro la classe politica italiana, che è al di sotto della media, di tutto il popolo italiano
messo assieme, dal punto di vista dell’onestà, della sensibilità, del civismo ed è emerso chiaramente
che la repubblica italiana, contrariamente a quello che recita la costituzione è fondata sulla mafia,
sulla corruzione, sul ladrocinio, sull’intrigo, sulla menzogna e sulla disonestà.
In altri termini il nostro esperimento ha denunciato l’odio viscerale di tutti contro la classe politica.
Nessuno di loro si salva. Metà degli italiani credono che il male della nostra nazione derivi dalla
politica del centro-sinistra, l’altra metà dalla politica del centro-destra, dove però è ben definito il
colpevole, rappresentato in questo caso dall’Uomo-Fogna. Fin a quando reggerà quest’equilibrio? E
cosa succederà quando si romperà? Vi dico solo che di questa riunione ho avvisato alcuni miei
colleghi, alti funzionari dell’apparato dello Stato e dell’esercito e le nostre conversazioni sono state
registrate a distanza, tramite un’apparecchiatura miniaturizzata che ho addosso. Non dovete però
temere, sarà tutto distrutto e vi spiego il motivo di questo mio atteggiamento.
Tra gli alti gradi dell’esercito, tra i servizi non deviati, tra le forze dell’ordine, tra gli alti funzionari
serpeggia un sordo malcontento ed alcuni hanno auspicato l’uccisione dell’uomo oggetto prevalente
della nostra tavola rotonda. Io ed altri abbiamo voluto saggiare, con persone scelte a caso, l’umore
degli italiani. È stato bellissimo ed ognuno di noi, come dallo psicanalista, raccontando se stesso, ha
passato in rassegna buona parte della storia d’Italia. Vi prego di perdonarmi ancora. –
Nessuno aprì bocca e Domenico, nero in volto invitò Paolo a lasciare il posto. In men che non si
dica tutti abbandonarono la baita, ognuno per la propria destinazione, pieni di preoccupazione e di
angoscia. Prima di partire Isidoro, in qualità di aiutante cuoco, abbracciò Andrea e fu avvicinato da
Teodoro che gli allungò un foglio scritto a mano e gli richiese il suo indirizzo. Sbirciò il foglio dove
c’era scritto: “verrò a trovarti in Calabria”. Poi s’infilò nella macchina assieme a Filippo e al suo ex
allievo e dopo poco più di un’ora fu a Porta Nuova, dove salì su un treno per Milano e poco dopo
prese un altro per Monza e con un taxi raggiunse Lissone.
Ormai il sole era tramontato, ma nonostante ciò l’afa era insopportabile. Entrato a casa si mise per
un pezzo sotto la doccia e l’acqua fresca gli portò refrigerio, che non fu capace però di cancellare
dalla sua testa la preoccupazione, per quello che aveva detto a Sant’Elisabetta e che era stato
registrato. Durante il tragitto in macchina con Filippo ed il suo ex allievo verso la stazione di
Torino, Isidoro non disse neppure una parola e non intervenne mai nel dialogo degli altri due.
Invitato di dare un parere su qualcosa rispondeva solo a monosillabi e tale suo comportamento
provocava un lieve sorriso sardonico sulla bocca dell’alto funzionario dello Stato. Quando poi scese
dall’automobile nei pressi di Porta Nuova, Filippo gli disse di stare tranquillo mentre l’altro lo
salutò con una formale stretta di mano. Appena fu per terra però, sentì che i due ridevano di gusto e
ciò lo fece dubitare di Filippo e gli provocò maggiore preoccupazione.
La notte non dormì, si alzò per tempo e uscì, fece colazione in un bar e poi andò a trovare un’amica
d’infanzia che si era trasferita in Lombardia 40 anni prima. Abitava nel comune di Monza a ridosso
di Lissone e fu lieta di rivederlo. Lo portò a visitare le sue galline ed il suo orto, curatissimo da
quando era andata in pensione. Nonostante ciò non perse la sua preoccupazione.
All’improvviso gli squillò il cellulare e sentì Filippo che l’avvisava che si sarebbero visti, per
qualche minuto alla stazione ferroviaria di Monza. Arrivò dopo circa un’ora e lo rassicurò
aggiungendo che negli alti apparati dello Stato c’era molta insoddisfazione e preoccupazione e c’era
la tentazione da parte di alcuni di preparare una congiura finalizzata all’eliminazione del politico di
cui si era dibattuto durante l’incontro a Santa Elisabetta.
Tali affermazioni lo rasserenarono un po’. Filippo era arrivato in macchina per cui, date le dovute
informazioni, partì alla volta di Como.
Isidoro nell’arco di due giorni sbrigò delle faccende e poi ripartì per la Calabria.
Ai primi di agosto cercò di organizzare il suo tempo, andando al mare, curando un pezzo di terra,
organizzato come campo di conservazione di viti autoctone e piante da frutto. A quel punto,
nonostante qualche turbamento, volle aprire il sacco ricevuto dal misterioso personaggio, prima
della sua partenza per Milano. C’era un foglio dattiloscritto, su cui erano evidenziate delle
coordinate geografiche. Sullo stesso veniva data l’informazione che nel posto indicato, era già stato
riposto, in una grande custodia per uno strumento musicale, un fucile di precisione; dentro un
sacchetto di pelle c’era una quantità notevole di proiettili che un foglio scritto a matita quantizzava
in 200. L’abbondanza eccessiva di munizioni, era dovuta alla necessità di allenarsi al tiro
autonomamente, perché era impossibile farlo, sull’arma consegnata, in un poligono.
Inoltre dentro la busta, c’era un manuale d’istruzione e sole 20.000 euro, in banconote da 500 e da
100 euro; erano stati promessi 50.000 per ogni base. A giustificazione di questo, c’erano dei
chiarimenti: i “volontari” per l’operazione erano saliti a dodici. Nel caso dovessero aumentare
ulteriormente, avrebbero dovuto trovare altri finanziamenti. Da una distratta lettura delle coordinate
capì che la località, dove era stato nascosto il fucile, si trovava un po’ oltre il 38° parallelo, ad una
quarantina di km dal posto dove egli abitava, in montagna. In un’altra annotazione si avvisava che
periodicamente sul cellulare consegnato, sarebbero comparse delle coordinate, corrispondenti a
delle località o a degli edifici con funzioni istituzionali.
I brevi ed improvvisi contatti del personaggio in questione, sarebbero state seguiti sul cellulare,
dalle coordinate precedute da P, che stava ad indicare le prove con funzione di esercitazione.
Solamente quando la visita sarebbe stata programmata ed abbastanza lunga, solo allora sarebbe
scattata la possibile emergenza ed in quel caso sul cellulare sarebbe comparsa la lettera A, nel
significato di azione, seguita dalle coordinate geografiche del posto visitato.
Isidoro non sentiva nessuna sollecitazione di fronte a questa prospettiva ed ormai la persona che
prima odiava così profondamente, cominciava ad essergli indifferente. Se tale stato d’animo,
sarebbe stato presente anche in seguito in lui, di sicuro avrebbe rinunciato al progetto che prima lo
solleticava.
Di nuovo cadde in uno stato di abulia e di frustrazione e se avesse avuto la possibilità di comunicare
con colui che lo stava trascinando in una situazione tanto complicata e nello stesso tempo logorante
dal punto di vista psicologico, gli avrebbe detto che preferiva rimanerne fuori.
Sperava che al più presto gli arrivasse una telefonata dal personaggio misterioso, perché gli potesse
comunicare la sua non disponibilità a continuare.
Da tanti giorni ormai viveva in uno stato di prostrazione, quando arrivò da Londra sua cugina, che
era capace di svegliarlo dal torpore. Prima di giungere nella casa di sua madre, era stata ospite in
Sicilia dei due fratelli, titolari della più importante casa editrice siciliana, Francesco ed Antonia,
conosciuti tramite Margherita, fidanzata del primo.
Si ritrovò in una dimora signorile di campagna, immersa nel verde di un giardino all’italiana, con al
centro una fontana monumentale zampillante acqua attraverso i capezzoli dei seni di quattro sirene.
Visse con intensità i dibattiti culturali che duravano fino alle prime luci dell’alba, tra personaggi
impensabili in altri posti d’Italia.
Raccontò di una serata calda, che si stava prolungando sul tema sofisticato della donna ed il potere
nel mondo antico, proposto dal raffinato Donatello Dell’Uva, amico ed abituale animatore del
cenacolo culturale della padrona di casa, splendida valchiria bruna dalla pelle di luna.
Prima d’iniziare il dibattito, la comitiva cenò all’aperto in giardino, in un delizioso posticino
abilitato per gustare il the, a ridosso di un boschetto di querce. Esso era circondato da muri alti
meno di due metri, affrescati con scene ispirate alla mitologia greca ed il tutto formava un ambiente
quadrangolare, di 7 – 8 metri di lato e su ognuno di essi erano collegate delle torce, ricavate dal
tronco di un pino d’Aleppo ch’era stato sradicato dal vento alla fine dell’inverno; esse producevano
una luce ovattata ed emettevano un acre profumo di resina, che si univa a quello dolce dei
gelsomini, che crescevano su quattro strutture di legno predisposte a mo’ di ghirlande.
Al centro era stato creato un tavolo in pietra tenera, dotato di dodici sedili dello stesso materiale,
forniti di schienali rigidi. Fu necessario aggiungere altre tre sedie, in quanto i convitati erano
quindici: prevalentemente signore. Fu servita una cena parca a base di verdure e di pesce e subito
dopo si passò alla presentazione del tema.
- Gentilissime signore – esordì Donatello – il tema prescelto vi si riferisce in quanto donne e mette
in risalto il ruolo femminile nella società dell’antico Egitto. Di sicuro in tale mondo il loro ruolo era
altamente considerato ed il loro universo osservato con tatto e delicatezza. Io credo che, in nessun
periodo storico, compreso quello attuale, la donna abbia avuto una considerazione ed un rispetto
superiore. La civiltà egizia fu quella in cui la figura femminile mantenne buona parte del potere che
aveva avuto nella precedente civiltà mediterranea, prima dell’irruzione, in tale area, dei
guerrafondai e maschilisti indoeuropei.
Infatti vi vigeva la civiltà matriarcale e la donna, in quanto generatrice di figli, aveva la funzione
primaria all’interno della società. Era madre e contemporaneamente guida all’interno del nucleo
familiare. Il partner o i partner, venivano scelti da lei e i figli riconoscevano in lei l’unica autorità.
Nel mondo egiziano, anche se non nei termini prima descritti, la donna ebbe una grandissima
autonomia. Il diritto di famiglia le riconosceva l’assoluta libertà di decidere sulla scelta dello sposo
e sul suo futuro, anche dal punto di vista di eventuali attività economiche e neppure il padre, per
legge, aveva la possibilità d’interferire nelle decisioni prese da una figlia; vi informo che erano
consentite le esperienze prematrimoniali a sfondo sessuale e ci sono notizie addirittura di donne nel
ruolo di comandanti di navi.- Affascinante l’argomento che ha scelto per questa sera, signor Dell’Uva – lo interruppe
Margherita, una trentenne dalla bellezza botticelliana – se assieme, e con il suo aiuto
l’approfondiremo, potrei ricavare un pezzo per il mio giornale? –
- Su quale giornale scrive? –
- Su Repubblica. –
- Io sono un lettore attento di Repubblica, nonostante talvolta su di esso leggo degli articoli, che mi
si riferiscono, non certamente lusinghieri. –
- Evidentemente lei ha o ha avuto dei ruoli importanti, se su di lei qualcuno scrive. –
- Non saprei. Lei sarebbe … - Sono la fidanzata, diremmo la ragazza di Francesco, fratello della sua amica e vivo a Mosca. –
- Interessante … - Signor Dell’Uva – protestò un’avvenente signora sulla trentina – prima ci sollecita la curiosità e
poi ci lascia in mezzo …? –
- Scusami Patrizia, riprendiamo. Dove eravamo rimasti? –
- Si parlava della libertà di decidere da parte delle figlie in seno alla famiglia, ma i rapporti con il
marito erano improntati alla subalternità della moglie? –
- No Patrizia cara, ci è pervenuto un papiro risalente, mi pare al tempo della XVII dinastia, dove
chiaramente venivano consigliati i comportamenti dovuti dall’uomo nei confronti della sposa.
“Non agire in modo sostenuto con tua moglie,non dirle mai vai a prendere quell’oggetto. Ricordati
di non essere richiesto di qualcosa da parte della tua donna, ma devi capire i suoi desideri ed
anticiparli”. –
- Esattamente come capita in Sicilia – interruppe ironica Antonia, la padrona di casa.
- Resto perplessa sempre più della civiltà egiziana, di cui scopriamo sempre cose nuove – disse la
signora Agata intervenendo – allora la donna a Tebe o a Menfi era più emancipata della donna di
Atene? –
- Signora lei sta bestemmiando, cercando di paragonare la condizione della donna in Egitto con
quella di Atene. Lei praticamente era prigioniera nella sua casa ad Atene. Addirittura le dimore non
avevano finestre che affacciassero all’esterno, ma solo verso l’interno, ossia verso il cortile.
Naturalmente le donne non uscivano più quando smettevano di essere bambine, neppure per andare
a fare la spesa al mercato; per questo adempimento erano preposti i mariti, mentre
contemporaneamente non avevano possibilità di scegliersi il futuro sposo, che era concordato dal
genitore con un eventuale consuocero.
Era già migliore la situazione della donna a Sparta, dove almeno aveva la possibilità di riunirsi con
le amiche o coetanee in una palestra per fare esercizi ginnici.
La donna poi a Roma, ne parleremo la prossima volta, nel caso lo vorrà la dolcissima padrona di
casa … - Donatello, tu lo sai che questa è casa tua. –
- A Roma, dunque, le donne uscivano liberamente, gestivano autonomamente dal marito i loro
affari, andavano persino al circo, lo sappiamo da Marziale, dove si sedevano in promiscuità assieme
agli uomini, che ricercavano, in tale luogo eventuali “prede”.- Ritornando in Egitto … A questo punto si udirono nella notte dei rumori di automobili in arrivo e dopo un po’, preceduto da
un maggiordomo giunse sul luogo del dibattito un personaggio importante della politica, amico di
Francesco, fratello della padrona di casa. Era circondato da un codazzo di guardie del corpo ed era
letteralmente “guidato” da un enorme San Bernardo, che arrivato in mezzo alla comitiva, tra i
sorrisi ironici e le grida un po’ allarmate delle signore, le andava annusando nonostante le loro
rimostranze un po’ divertite. Naturalmente tutte si alzarono per accogliere con il dovuto rispetto il
personaggio importante, tranne Donatello Dell’Uva che palesò una certa contrarietà, restando
seduto.
- Presidente come sta? – salutò Antonia, evidenziando un sorriso radioso.
- Bene cara … riverisco le signore presenti, che in parte conosco e naturalmente i signori uomini.
Vedo poi … oh il mio Donatello. Fatti vedere … ti vedo in forma. –
E si avvicinò per salutarlo. Dell’Uva non si mosse e replicò al saluto con una fredda stretta di mano.
- Sono latore, da parte del nostro leader di saluti affettuosi e della consueta stima. –
- Non ho che farmene né dei saluti, né degli apprezzamenti del tuo leader. –
- Del nostro, mio caro … -
- Io non ho mai avuto leader, essendo stato sempre indipendente ed autonomo in tutte le mie
decisioni, pretendendo semmai una, per diecimila cosa che avrò dato. –
- Tu lo sai che ti è sempre riconoscente. –
- Non pretendo riconoscenze da parte di nessuno, nonostante potrei richiederne. –
- Lo sai che sempre ti pensa e cerca di esserti moralmente vicino ora, per via del tuo grosso
problema. –
- Con il pensiero, ma non con i fatti. –
- Egli, lo sai ha tanti fastidi, connessi ad una giustizia ad orologeria, teleguidata da una regia occulta
e misteriosa. –
- A ciascuno il suo – concluse Donatello Dell’Uva, accompagnato dalla desolazione delle signore
quando si alzò per andarsene.
Antonia lo seguì volutamente da sola fino alla sua auto, dove lo salutò a malincuore, dicendogli
- Come al solito gli uomini rovinano tutto –
- Non gli uomini, gli omuncoli, i garzoni da fornaio … - Ma cosa sta succedendo? –
- Siamo vicino alle strette finali qui a Palermo. Se non si risolveranno positivamente alcuni
problemi, ci saranno delle reazioni a catena e salterà tutto in Italia perché verranno fuori fatti
compromettenti per personaggi importantissimi. La politica sarà letteralmente destabilizzata, nei
piani alti. –
- Mi dispiace … - Pazienza, avremmo parlato delle “grandi spose reali”, Nefertari e Nefertiti. Buon proseguimento di
serata, dolce bambina. –
E la baciò sulla fronte, salendo poi sulla sua auto.
Invece Antonia non era affatto dispiaciuta per la piega che stava prendendo la politica a livello
nazionale, ma doveva recitare da afflitta per motivi di opportunità aziendale.
Rientrata nella comitiva ritrovò il San Bernardo che teneva banco, giocando con le signore, saltando
di qua e di là, preferendo Patrizia ed Agata, che evidenziando gambe splendide, tentavano di
cavalcarlo, come fosse un pony.
Il presidente se lo mangiava con gli occhi, ridendo divertito e soddisfatto nel vederlo impazzare di
gioia.
A questo punto intervenne Francesco, che propose un nuovo tema per il prosieguo della serata: il
potere ed il cane.
Risero di gusto tutti quanti e al cameriere che proponeva loro dei cannoli richiesero due bottiglie di
passito di Pantelleria, fredde al punto giusto.
Ad un certo punto il cane si stancò e si accucciò accanto al padrone, che con un certo sussiego
cominciò a parlare del suo ruolo all’interno del parlamento, specie nel caso dovesse defungere il
Presidente della Repubblica.
Ben presto i suoi discorsi, accompagnati dagli sbadigli degli astanti, cominciarono a stancare, per
cui ci furono le prime defezioni. Patrizia ed Agata abbracciando il testone del cane festante,
salutarono la comitiva, seguiti da altri. In poco tempo restò solo il presidente, con la scorta e con il
cane, ma alla fine anche lui si arrese; abbracciò Antonia e Francesco, fece un inchino a Margherita,
a Stella ed andò via.
Naturalmente i padroni di casa, con le ospiti, velocemente ed in silenzio, guadagnarono le proprie
stanze e dormirono all’istante.
Il pomeriggio seguente i quattro commentando la serata precedente espressero le loro impressioni e
Francesco riferì di aver sentito in giro, che quasi tutti i deputati siciliani della maggioranza di
governo non ne potevano più della situazione emersa nel loro partito e che meditavano il
cambiamento del Presidente del Consiglio.
Ci furono altre serata su temi vari, ma nessuna somigliò a quella in cui Donatello Dell’Uva aveva
affascinato i presenti introducendo appena il tema della “donna ed il potere” nell’antichità.
Addirittura Margherita si accorse che in un libro, dalla veste tipografica bellissima, lasciato sul
tavolo di pietra nel giardino, c’era un programma, digitato al computer, su alcune serate, da
dedicare al tema suddetto. Spiccavano fra l’altro: le donne nella funzione di faraone da Nicotri a
Cleopatra; l’etera Aspasia: confronto con le attuali accompagnatrici; il grande amore di Marziale
finito nelle mani rudi di Antonio, in una tenda militare della Gallia; Agrippina: il fascino al servizio
del potere.
Stella ammirò il libro, Le storie di Erodoto, ed analizzò la grafia, chiara, equilibratissima, dalle
vocali tondeggianti; l’ultima caratteristica evidenziava la bontà d’animo del soggetto.
Si meravigliò del fatto che un uomo di grandi qualità, forse anche morali, si fosse messo al servizio
di un politico così losco.
Antonia allora tentò un’interpretazione del personaggio: il suo era stato un gioco, finalizzato a
sperimentare la sua intelligenza. Ossia aveva voluto dimostrare come un uomo superintelligente,
con strumenti non ortodossi, addirittura illegali, avesse potuto trasformare uno sciocco, brutto
anatroccolo, prima in un creso e poi in un cigno della politica.
Con tale operazione aveva evocato un mostro di vanagloria, futilità, egoismo, che s’era
materializzato, occupando con la sua ingombrante megalomania la scena politica.
Ritornata nella casa di sua madre Stella raccontò ad Isidoro, che restò perplesso, la sua esperienza
siciliana.
Egli continuava a persistere nella sua abulia ed ogni tanto accendeva il telefonino per verificare se
ci fossero dei messaggi, mentre di malavoglia andava al mare e distrattamente ascoltava le notizie
dei telegiornali.
Nonostante il suo stato d’animo aveva deciso di ritornare in contrada Palazzo di Caulonia con tutto
l’armamentario necessario per esplorare la grotta sottostante il basamento del tempio ellenico.
La sera prima di partire preparò tutto l’occorrente e lo sistemò nella vecchia macchina: una piccola
cazzuola, la scala di corda, la corda annodata, una piccola scure, un coltello, tre piccole travi di
castagno. Quest’ultimi fuoriuscirono per più di un metro dal portellone, che fu lasciato semiaperto
su di esse.
Assieme furono ben ancorati al gancio da traino sottostante. In una borsa sistemò il binocolo agli
infrarossi, la digitale, un cacciavite, un gomitolo di spago e poi puntò la sveglia alle quattro e
quando fu attiva la suoneria si alzò e già alle quattro e mezza fu in partenza.
Già prima che fosse chiaro arrivò a Caulonia Marina, dove consumò un cappuccino in un bar,
aperto ininterrottamente notte e giorno. Prese la direzione della montagna e alle sei fu in contrada
Palazzo. Il sole era appena sorto ed il cielo verso il mare era irrorato di un tenuissimo rosso, mentre
tra gli arbusti del pianoro attorno si udivano i versi dei colombacci, intervallati sporadicamente da
quelli di un merlo. Trasportò in pochi minuti, ai bordi del dirupo, il materiale che aveva in macchina
e per prima cosa legò ben saldamente alla base di un robusto cespuglio di lentisco, i due capi della
scala di corda, attraverso cui scese, portandosi appresso una delle tre travi di castagno e a tracolla la
corda annodata. Arrivato in direzione dei due grossi lecci divaricati, posti appena al di sotto
dell’apertura verso la grotta, incastrò tra i due alberi la trave e poi tenendosi dalla scala di corda ci
salì sopra e cominciò a guardare dentro la caverna. Restò subito turbato alla vista di due scheletri
riversi su un’enorme lastra rettangolare di pietra, poggiante forse su altre pietre. Essi erano
avvicinati, come in un abbraccio e a questo punto si ricordò della leggenda raccontatagli da Maria.
Sotto il tempio, diceva, esiste una grotta maledetta, mai profanata in quanto dentro vi morirono di
fame e di sete, due giovanissimi amanti. La ragazza era figlia di un funzionario di altissimo rango
dell’impero bizantino, che era rimasta orfana sin dalla nascita, in quanto la madre era morta nel
partorirla. Il padre era vissuto nel ricordo della moglie, di cui era stato innamoratissimo e mai più
aveva cercato una nuova compagna. Con molta cura aveva fatto allevare la bambina, che era
cresciuta, avendo come compagno di giochi, il figlio di un servo. Divenuta adolescente si era
innamorata del suo compagno di giochi, ricambiata.
Il padre quando lo seppe rimase sconvolto ed addolorato e proibì alla fanciulla di frequentarlo, anzi
cacciò dalla sua dimora, ch’era una fortificazione, il servitore con la famiglia, che si trasferì in un
tugurio nei pressi di contrada Palazzo. Una notte la fanciulla scappò dal castello e raggiunse il
ragazzo, che spaventato l’invitava a ritornare a casa.
Il funzionario, accortosi della fuga della figlia, ne organizzò la ricerca. Quando i due ragazzi videro
da lontano un gruppo di armati, s’immaginarono che a guidarlo era il padre della fanciulla e
scapparono e si rifugiarono nella caverna, attraverso uno strettissimo cunicolo che la raggiungeva
dal basamento del tempio. Arrivato alla povera casa, il padre non vedendo la figlia e neppure il
giovane, comprese che s’erano nascosti da qualche parte, per cui furibondo, di propria mano
massacrò la povera famiglia; di essa facevano parte, oltre il padre e la madre, due bambine in
tenerissima età.
Fuori di sé continuò la ricerca e quando seppe che s’erano rifugiati nella caverna sottostante il
tracciato del tempio, fece ostruire l’accesso ad essa, con dei grandi massi. I giovani dopo qualche
giorno cominciarono a chiedere aiuto attraverso la finestra ricavata sullo strapiombo e li sentirono
alcuni giovani pastori, che solevano percorrere la macchia, che si estendeva nella vallata. Cercarono
di porgere loro dall’alto una lunga corda ricavata dagli steli lunghi e flessibili di vitalba, ma furono
sorpresi dagli armati che ispezionavano l’area e furono giustiziati. I lamenti dei giovani divennero
sempre più flebili e poi non si sentirono più.
Passarono pochi giorni ed il padre, folle per il dolore s’impiccò in un ramo di quercia che penzolava
sul vuoto, nel posto dove egli aveva costretto l’unica persona che avesse potuto amarlo, ad una fine
orribile.
D’allora quel posto e quella caverna si considerarono maledetti e d’inverno quando soffia il vento
furibondo di greco, si ode il pianto lamentoso dei due giovani e l’urlo disperato del padre.
Nessuno mai ha tentato di entrare nel luogo dove i due giovani penarono tantissimo prima di essere
liberati dalla morte.
Isidoro rammentando il racconto di Maria e guardando i due scheletri si commosse e delle lacrime
solcarono il suo volto ormai segnato da qualche ruga e dalle preoccupazioni. Guardò lungo la parete
e in una fessura della roccia, notò una violaciocca in fiore, poco distante da uno dei due tronchi di
leccio. Pericolosamente, camminando sul tronchetto, si avvicinò alla pianta e colse i fiori, restando
aggrappato alla scala, che gli permise di entrare poi nella grotta. Per prima cosa depose i fiori sulle
povere ossa e poi s’inginocchiò in senso di riverenza, persistendo nello stato di profonda
commozione. Dopo un po’ cominciò a perlustrare la grotta, non molto illuminata dalla poca luce
che entrava. Era a forma quadrangolare, di circa dieci metri di lato e risultava, dai segni lasciati dai
picconi, essere stata creata artificialmente. Guardò in giro e vide ovunque grossi frammenti di
ceramica emergere a malapena da spessi strati di polvere e poi sagome tondeggianti. A questo punto
legò la corda annodata, dopo aver ricavato un grande cappio, al lato interno più corto del lastrone,
su cui erano adagiati i due scheletri; infatti i lati lunghi erano orientati perpendicolarmente verso
l’apertura, dalla forma perfettamente rettangolare e probabilmente corredata da una finestra
nell’antichità. Come aveva giustamente pensato prima, il lastrone era poggiato su basamenti di
pietre regolarmente squadrate alti circa 70 cm.
Fece in modo che la corda passasse di lato e non di sopra, per non profanare il riposo dei defunti,
poi la raccolse ordinatamente e la collocò all’interno dell’apertura. Nel caso qualcuno si fosse
accorto della scala e l’avesse tirata a sé, mentre egli era nella grotta, gli rimaneva una via di fuga,
ridiscendendo con la corda annodata lungo la parete.
A questo punto risalì due volte e ridiscese con le altre due travi che sistemò, incastrandole tra i due
tronchi divaricati; ormai era agevole calarsi e camminare davanti alla finestra in quanto la passerella
ricavata era larga circa 40 cm.
Prima di risalire definitivamente volle riposarsi un po’ nel fresco della caverna, mentre all’esterno,
ancora faceva molto caldo, nonostante ormai si era avvicinata la fine di agosto.
Si ritrovò accanto ad una delle tante sagome tondeggianti ed allora prese dalla borsa, la piccola
cazzuola che aveva riposto e cominciò ad asportare con delicatezza, i sedimenti sopra ed attorno ad
essa; alla fine apparve, completamente intatta un’anfora vinaria del tipo G.M.S. Provò ancora ed
estrasse dalla polvere sedimentata e dal terriccio un’altra. Poi vide che alla parete di fronte al tavolo
di pietra, erano addossate altre ancora; in due di esse riconobbe delle dressel e a ridosso di esse i
frammenti di un vaso dipinto a figure nere, chiaramente locrese. Dedusse che attorno fossero stati
attivi vigneti fiorentissimi dal periodo magnogreco al periodo repubblicano romano. Nell’angolo di
destra intravide, a dimensioni umane, una statua di marmo. Cominciò a pulirla con delicatezza e alla
fine gli apparve una divinità maschile nell’atto di scagliare qualcosa, con la mano destra;
guardandola attentamente capì che rappresentava Zeus fulminante. Probabilmente l’area sacra era
rimasta operativa fino alle guerre annibaliche, quando sarà stato distrutto o abbandonato il tempio,
in seguito alle ritorsioni incrociate tra romani e cartaginesi.
Ormai stremato per le tante emozioni provate risalì su e dopo aver ritirato la scala di corda, si
accinse a ritornare a casa, dove la moglie e le due figlie erano appena rientrate dal mare.
Ai primi di settembre sul cellulare dell’uomo dei servizi comparve un breve messaggio preceduto
dalla lettera P, che stava per prova, seguito da coordinate geografiche, che indicavano la città di
Milano. Non riuscì però a stabilire, tramite il G.P.S., in quale edificio preciso si sarebbe recato
l’Uomo-Fogna e tale problema si sarebbe riproposto in prospettiva. Per ovviare a tale inconveniente
comprò un navigatore di ottimo livello ed allora incrociando i dati, capì che l’edificio istituzionale
in questione era Palazzo Isimbardi, sede principale della provincia di Milano.
Alla fine della prima decade di settembre all’improvviso arrivò Teodoro, che fu ospite di ex
militanti del P.C.I., in un casolare restaurato nelle campagne di Riace e che gli diede un
appuntamento per il pomeriggio inoltrato del giorno 11. L’invitava ad essere disponibile a
pernottare.
Isidoro si preparò ad incontrarlo, ma prima si recò in un suo piccolo podere, per provvedere ad
alcuni adempimenti indispensabili. Contigua al suo pezzo di terra, un vecchio omonimo di suo
padre, defunto ormai da più di vent’anni, possedeva e curava una vigna bellissima, ricca di viti, che
davano ottime uve da tavola.
Guardando in cielo ed imprecando contro il diavolo, lamentava il furto dei grappoli più belli di
zibibbo e zibibbo moscato, che proprio quel giorno avrebbe dovuto portare ai suoi nipotini.
Augurava malattie dolorosissime al ladro e a tutti i suoi familiari.
Isidoro, ridendo di gusto cercava di rabbonirlo, ricordandogli che sarebbe caduto nel peccato,
augurando il male al ladro, che di sicuro non navigava in acque favorevoli, dal momento che si
dedicava al furto.
A questo punto il buon vecchio si rabbonì e volle raccontarmi una fiaba, che evidenziava il rapporto
tra un ladro incallito e Cristo.
- Gesù andava in giro per il mondo per tentare di redimere dai peccati, quante persone potesse,
quando incontrò in un paese un ladro, che vedendogli estrarre dalla tasca, in una bottega dove
aveva comprato un pezzo di pane, un porta zecchino con delle monete d’oro, voleva derubarlo.
Gesù, uscendo dal paese, si vide dietro il ladro, che lo seguiva da vicino, come un’ombra nelle notti
di luna.
Camminando uno dietro l’altro, arrivarono sotto una quercia vetustissima, dove Cristo si coricò
per terra, mettendosi sotto la testa una manata di avena e di altre erbe. Il ladro si coricò accanto,
mettendosi sotto il capo una pietra, per appoggio, e chiese al suo compagno se avesse bisogno di
lui, come uomo di fatica.
“Io personalmente, buon uomo, non ho bisogno, ma chiedo a dei miei parenti, se vi possono
aiutare”.
“Non avete capre, pecore, vacche che io possa pascolare per voi?”
“No, no!”
“Posso diventare vostro amico?”
“Senz’altro!”
“Come vi chiamate?”
“Cappellaccio!” Gli mentì Gesù. “E voi?”
“Filippino!” E invece si chiamava Peppe.
Era alla fine di maggio e faceva caldo, nonostante che il tempo fosse un po’ nuvoloso ed erano in
cammino già dal mattino, quando il ladro cominciò ad essere tormentato dai morsi della fame, per
cui si lamentava in continuazione.
“Abbi pazienza”, gli diceva Gesù, “che ora mangiamo!”
“Non si tratta di pazienza, ma per la debolezza estrema non riesco più a camminare!”
“Va bene! Guarda, su quell’altura c’è una grande mandria di pecore e capre in un ovile, dove i
pastori stanno facendo la ricotta, che è quasi pronta, in due grandi paiuoli. Va e a nome di
Cappellaccio, chiedi due porzioni abbondanti di ricotta, assieme a del siero e al ritorno,
l’impaneremo con un tozzo di pane che ho nella bisaccia. Porta con te questo secchio di legno, che
ho sempre con me, dentro cui ti verseranno ciò che ti daranno.”
“Ma che mi state infinocchiando! Son sicuro che appena sarò arrivato i pastori mi aizzeranno i
cani, che mi faranno a pezzi!”
“Va tranquillo, perché fra breve mangeremo!”
Andò e appena arrivò, i cani gli fecero festa ed addirittura uno gli leccò la mano. I pastori poi, con
tanta cortesia lo salutarono e dopo gli riempirono a metà il recipiente, con ricotta e siero. Restò
sbalordito Filippino, che salutando ritornò da Cappellaccio, a cui disse:
“Ma voi, come ho potuto constatare avete più potere di un mago!”
“Non è vero quello che tu dici, perché quello che abbiamo avuto, a farcelo avere è stato Dio che
aiuta tutte le anime buone e tutti i peccatori che sono pronti a redimersi, facendo buone azioni. Tu
sei responsabile di qualche piccolo peccato? Pentiti, se lo sei e fa sempre il bene e mai il male!”
“No, no, io sono puro come una colomba e non ho mai peccato!”
Dopo averla impanata, si mangiarono la ricotta e dopo si coricarono sotto una pianta d’ulivo,
frondosa, con una cavità vicina alla biforcazione.
Gesù prima appese il secchio e la bisaccia ad un ramo e dopo infilò il portamonete, con qualche
moneta d’oro, nella cavità dell’albero.
Quando il ladro pensò che Gesù s’era addormentato, si alzò ed allungò la mano per rubare il
portamonete, ma quando cercò di tirarla non fu capace e restò con la mano dentro la parte vuota
della pianta.
Gesù fingeva di dormire e solo dopo tre ore aprì gli occhi e vide il ladro in quella strana posizione.
“Che stai facendo Filippino? Stai tentando forse di rubarmi il portamonete?”
“Che dite mai! Io ho messo la mano dentro la cavità per sapere se c’è un nido di barbagianni!”
“Va bene! Vieni a sederti!”
E allora la mano di Filippino fu libera ed il portamonete volò nell’aria ed andò ad infilarsi nella
tasca interna dell’abito di Gesù, con grande meraviglia del ladro che esclamò:
“Ma voi siete più abile di un mago, sembrate un santo che fa miracoli!”
“Io sono semplicemente un giusto e come tutti i giusti faccio del bene e lo pretendo da quelli che mi
stanno vicino! Ricordati il bene arreca bene, il male procura il male! Tu hai fatto sempre il bene?”
“Sempre! Non ho fatto mai del male!”
Gesù non parlò più e si misero in cammino e ad un certo punto Filippino disse:
“Cappellaccio, ho fame! Procura da mangiare tu che ne sei capace!”
“Io provvedo per i giusti e per gli onesti e anche per quelli che sbagliano, ma che si pentono!”
“Io non ho niente di cui pentirmi, perché la mia coscienza è bianca come la ricotta! Provvedi
dunque al cibo!”
“Va in quella mandria laggiù, perché i pastori stanno preparando la ricotta e fatti versare un pò
nel secchio, assieme al siero!”
Andò e gliela diedero, ma di malavoglia, dicendo:
“Te la diamo, ma di malanimo, perché uno di quelli che si mangerà la ricotta, è ladro!”
Arrivando Filippino disse a Gesù:
“Cappellaccio, tu sei un ladro, perché i pastori sanno, non so come, che uno di noi due è ladro! Io
non lo sono, allora il ladro sei tu!”
Gesù fece un sorriso e rispose:
“Dio lo sa e tenta sempre di salvare i peccatori!”
“Allora salverà te!”
Si rimisero in cammino e dopo mezza giornata la fame cominciò a tormentare Filippino che
rivolgendosi a Gesù disse:
“Cappellaccio ho fame! Provvedi!”
“Allora va in quella mandria che vediamo e chiedi ai pastori che ti diano l’agnello migliore e se
non vorranno dartelo, chiamalo, perché esso, saltando la staccionata, ti seguirà!”
Non credeva il ladro a quanto Gesù raccontava, ma nonostante ciò andò e quando i pastori non gli
vollero dare l’agnello, egli lo chiamò ed esso saltò la staccionata e lo seguì, con grande meraviglia
dei presenti.
Filippino accese il fuoco, preparò le braci, scannò e scuoiò la bestia. Tagliò quattro grossi polloni
d’oleastro, gli fece la punta, preparò con essi quattro forcelle, che conficcò per terra e su di esse
fece girare sopra le braci l’agnello diviso, infilato in stecchi, assieme a fegato, pancreas, reni,
aspersi con salmoriglio, tramite un filo d’origano. Arrostendolo mangiava le parti migliori e ad un
certo punto si mangiò il fegato.
Gesù pensò:
“È l’ultimo tentativo che faccio per salvarlo!”
E quando l’agnello fu ben arrostito gli disse:
“Io non mangio perché non ho fame! Fammi assaggiare un pochettino di fegato!”
“Quest’agnello non aveva fegato!”
“Filippino di’ la verità perché ti verrà bene! L’agnello ce l’aveva il fegato e l’hai mangiato tu!”
“Io ho sempre detto la verità! L’agnello non aveva fegato!”
Gesù abbassò la testa sospirando e non parlò più. Dopo che Filippino si mangiò tutto l’agnello
partirono e camminarono tutto il giorno e la notte seguente, fin quando non arrivarono in un
bosco, dove trascorsero la notte in un pagliaio abbandonato dai carbonai.
Arrivò il mattino e attraversando tutto il bosco, verso la fine, dovevano passare per un pezzo di
strada scavato nella roccia, su cui bordi crescevano delle piante di ginestre che pendevano sulla
strada ed erano coperte letteralmente di vipere e altri serpenti velenosi, che aprivano minacciosi la
bocca, dimenando la lingua e soffiando.
“Filippino passiamo! Perché ti sei fermato?”
“Mi son fermato perché temo che mi facciano del male!”
“Cammina dietro di me e sta sicuro!”
“Nooo, io voglio la salvezza e non la morte!”
“La salvezza ti verrà da me! Sta sicuro, io dico la verità!”
Furono capaci di passare e man mano che avanzavano, i serpenti velenosi si ritiravano e così
arrivarono in una pianura dove si riposarono.
“Cappellaccio, tu hai grandi poteri, da come vedo!”
“Il mio potere è la verità! Perché non ti penti Filippino dei tuoi peccati?”
“Non ho di che pentirmi, perché non ho peccati!”
Raggiunsero la riva di una grande fiumara in piena, che rumoreggiava grandemente e Gesù disse:
“Filippino passiamo dall’altra parte?”
“E come? Voliamo?”
“Stammi dietro!”
E come Gesù camminava l’acqua si apriva e si vedeva la ghiaia asciutta come il pane. Arrivarono
all’altra riva della fiumara che subito si chiuse alle spalle.
“Cappellaccio tu hai un gran potere! Io credo che te lo dia Dio o addirittura tu sei Iddio!”
“Filippino pentiti! Dammi una piccola prova! L’agnello era dotato di fegatello?”
“Nooo, era senza fegatello!”
Camminarono per un’altra giornata in un’aspra montagna, quando arrivarono in un posto dove la
strada era franata e non si poteva passare dall’altro lato, perché c’era un burrone alto quanto il
cielo.
Gesù passò camminando nell’aria e quando fu dall’altro lato disse:
“Filippino pentiti e dimmi la verità, se no non passare, altrimenti precipiti e muori! L’hai
mangiato tu il fegatello? Dammi questa piccola prova!”
“L’agnello non aveva fegatello!”
“Non passare perché non dici la verità!”
“Dico la verità e passo, camminando nell’aria! Se l’hai fatto tu lo posso fare anche io!”
Fece il tentativo di passare e cadde urlando nel precipizio.Alla fine del racconto, il vecchio contadino sembrò meno carico di tensione e di rabbia, forse perché
aveva identificato colui che gli aveva rubato l’uva, con il ladro finito male della fiaba esposta con
tanta espressività.
Il giorno successivo Isidoro fu puntuale all’appuntamento, fissato in un bar vicino al mare, ancora
frequentato da qualche turista.
Si salutarono con una stretta di mano e poi ognuno salì sulla propria macchina e si diressero verso
l’entroterra. Raggiunsero un casolare ben restaurato non lontano dal monastero dei santi Anargiri,
Cosma e Damiano. I padroni abitavano a Settimo Torinese e per l’estate avevano restaurato il
vecchio casolare con una vista magnifica sul mare, che si godeva specialmente da un’altana
ricavata, al primo piano, sul lato orientale della casa. Attorno c’era un orto, recintato con un muretto
a secco, ed abbellito, da due gelsi, un limone, due aranci ed una pianta di mandarino. Lungo il
muretto correva, ricco ancora di frutti, un filare ininterrotto di fichidindia, mentre una pergola
proteggeva dalla calura un cortile, costruito attorno all’entrata, verso ponente.
I proprietari, due fratelli ed una sorella, l’usavano, a turno, a partire da giugno, mentre l’avevano
dato in uso gratuito, per il mese di settembre, al loro amico Teodoro, che si trovò a suo agio.
Addirittura gli procurarono da lontano degli amici sul territorio, che andarono ad accoglierlo alla
stazione di Monasterace. Infatti l’auto con cui si spostava era stata messa a disposizione dai padroni
di casa; era una vecchia Punto che lasciavano nel casolare per i loro spostamenti estivi.
Era rimasto sbigottito per quello che vide nel territorio che l’ospitava. Infatti aveva visitato prima
fugacemente il Sud, che s’immaginava una terra abitata da primitivi. Era capitato però in una delle
aree più sorprendenti d’Italia, inusuale. Il borgo di riferimento per lui era Riace, il paese nel cui
mare erano stati ritrovati i bronzi, retto da un sindaco, Mimì Lucano, dalle qualità incredibili. Egli
già prima di essere alla guida del comune del suo paese natale, aveva creato una cooperativa “Città
Futura”, che si prefiggeva di salvare Riace, uno stupendo borgo medievale, dall’esodo totale, ch’era
fino ad un decennio fa, inarrestabile.
Ha creato laboratori artistici e artigianali: uno, guidato da un latino-americano produce ceramica, un
altro è specializzato in vetri soffiati, un altro si occupa di tessitura, dove lavorano anche delle donne
mediorientali. Infatti la giunta comunale guidata da Lucano, ha creato una comunità multietnica con
elementi provenienti da molti paesi del mondo: eritrei, somali, curdi, iracheni, libanesi, palestinesi,
indiani, peruviani, ecc., che vivono in armonia ed in collaborazione. D’estate le case restaurate da
“Città Futura” accolgono ospiti da tante parti del mondo, che animano la vita del paese semiabbandonato.
All’esperimento di “Città Futura” collaborano con amore tutti i cittadini, mentre è vista male dagli
investitori dei paesi circonvicini, che hanno rilevato i terreni vicino al mare per portare avanti
orribili speculazioni edilizie.
Gli interessi di costoro, collimano con quelli della ndranghita, che ha minacciato Mimì, sparando
colpi di pistola nel suo portone di casa ed esplodendo altri contro la vetrata di una sede di “Città
Futura”. A futura vergogna, i vetri bucati rimangono per evidenziare a tutti i componenti della
comunità di Riace e a tutti i visitatori, che il male deriva dall’egoismo e che il bene dall’altruismo e
dall’amore.
L’esempio del sindaco di Riace comincia a contagiare i paesi vicini e Placanica, Stignano, Camini,
Stilo, Bivongi, Pazzano, stanno costituendo un coordinamento per portare avanti un progetto di
sviluppo basato principalmente sulle radici culturali del territorio e sull’ambiente. Bivongi, fra
l’altro, ormai da quindici anni porta avanti il suo particolare progetto basato sulla storia,
scommettendo sul passato e principalmente sul monastero greco-ortodosso di San Giovanni Teresti,
che è stato, da condizioni ruderali, restaurato e restituito al rito greco, grazie all’impegno anche
finanziario di Monte Athos e quello personale di padre Cosmas.
Teodoro restò allibito per tutto ciò e visitando Bivongi constatò la pulizia estrema del borgo, posto a
14 km dal mare e dove da tanti anni viene praticata con rigore la raccolta differenziata.
Alla base di tali risultati però, c’è la cultura e l’assenza o quasi della criminalità organizzata in tali
posti che, la ndranghita cerca d’insidiare, infiltrandosi.
Questi apprezzamenti da parte di Teodoro furono fatti sull’altana, ma ad un certo punto egli invitò
Isidoro a scendere in cucina, al piano terra per cucinare e per parlare d’altro. Ormai era scesa la sera
da qualche ora ed un concerto di grilli canterini ammaliava tutta la campagna circostante, mentre
una lieve e piacevole brezza spirava dalla montagna. La luna era in fase calante, ma nonostante ciò
riusciva a far immaginare il paesaggio, costituito da colline che si proponevano in scansioni diverse.
Velocemente prepararono degli spaghetti e mangiando iniziarono la loro conversazione.
- Dunque - cominciò Teodoro – A Santa Elisabetta non intervenni, in fase finale, perché non ti
conoscevo e non perché diffidavo dell’ex allievo di Filippo. Infatti egli è un servitore dello stato
severissimo, che sa bene chi è il presidente e conosce pure i pericoli che sta correndo l’Italia,
ostaggio di questo losco figuro.
Egli è un prefetto di un’importante città della Lombardia ed effettivamente, per conto degli altri
suoi colleghi, organizzò la registrazione, per evidenziare gli umori degli italiani, che esprimevano
liberamente il loro parere, senza alcune previsione su quello che avrebbero detto. Ciò che tutti noi
abbiamo allora espresso ha rafforzato la convinzione in lui ed in altri alti funzionari dello stato, di
operare al più presto per eliminare dalla scena l’Uomo-Fogna, come l’ha definito con un linguaggio
colorito Domenico.
Infatti il progetto bonapartista del presidente è in atto e prevede la presa del potere diretto, grazie al
controllo del Sud, tramite i plenipotenziari mafiosi, e di buona parte del nord, in virtù della
disponibilità degli uomini del partito del Nord. Infatti egli, assieme ai suoi più fidati servitori, tra
cui l’avvocato Nicola Vadalà, che cercando di qua e di là, trova espedienti vari per salvare il suo
padrone, ha elaborato due disegni: uno massimalista, l’altro minimalista. IL primo prevede,
attraverso i corrotti il controllo di tutt’Italia, il secondo la secessione e l’istituzione di una
repubblica presidenziale padana costituita con le regioni disponibili: la Lombardia, il Veneto, il
Friuli Venezia Giulia; il Trentino Alto Adige, non disponibile, si aggregherebbe all’Austria.
Dai sondaggi risulterebbe che neppure il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Liguria, sarebbero
disponibili ad imbarcarsi in tale avventura.
Comunque sia i progetti, difficilmente potrebbero essere realizzati, ma porterebbero l’Italia ad una
grave destabilizzazione per un certo periodo.
Il prefetto, mal sopportava da sempre il personaggio, ma ha cominciato addirittura ad odiarlo,
quando in un incontro ristretto tra svariati prefetti del Nord Italia, in presenza anche del leader del
Partito del Nord, per compiacere quest’ultimo e per fare qualcosa di spiritoso, fece finta di soffiarsi
il naso, con un lembo del tricolore.
In altri termini, negli ambienti che contano è visto come un appestato e trepidano in attesa della sua
fine politica. - Ma non capisco ancora; chi sono i poteri che contano, dal momento che in Italia, almeno da
trent’anni, ormai in modo non più velato, comandano le mafie? - Non è facile rispondere a questa domanda, in quanto fino a poco tempo fa si additavano tra i poteri
forti, la Fiat, l’alta finanza con le banche, una parte consistente della Confindustria, ma a questo
punto in Italia di poteri effettivamente forti sono rimasti quelli derivanti dalla criminalità
organizzata, che ormai determina tutto in Italia. Nonostante ciò c’è un grande malessere tra gli alti
quadri dell’esercito, tra i grandi funzionari dello Stato, tra le gerarchie della chiesa cattolica, fra
l’aristocrazia industriale, fra tutta la classe media, fra le forze dell’ordine, fra le logge massoniche;
sono ancora non del tutto scontenti i bottegai, mentre gongolano i palazzinari.
Per quanto riguarda la massoneria, specie quella di derivazione piduista, ha un piano pronto da
molto tempo per la sua eliminazione, ma ancora non ha trovato gli elementi adatti per il futuro
assetto politico, però alcuni suoi componenti dicono ormai liberamente che l’Uomo-Fogna è un
cadavere ambulante. Addirittura cominciano a manifestare qualche malumore i criminali delle varie
mafie. - In definitiva cosa s’intende fare? - Tutti sono in attesa e sperano in qualche evento nuovo oppure nell’implosione del partito di
maggioranza relativa, al governo. - Nessuna azione si prospetta? - Si parla di congiurati, che operano nell’ombra, ma di fatto ancora tutto è in alto mare, perché si
spera nella stanchezza del leader che potrebbe gettare la spugna. - Ciò è poco credibile, perché se lo facesse, in breve tempo cadrebbe il castello di sabbia, su cui si
regge l’attuale governo, che tenta disperatamente di diventare regime. - Intanto però la situazione peggiora di giorno in giorno, a parte la contingenza negativa a livello
internazionale, nelle grandi città si comincia a morire letteralmente di fame. - Ma tu perché sei venuto in questo posto? - Per farmi la vacanza e non spendere molti soldi, che con i tempi che corrono cominciano a
diventare pochi. - Credevo che tu fossi giunto con uno scopo ben preciso, dato che mi hai pure contattato. - Già a fine luglio sapevo della mia venuta. - Conosci il prefetto? - Da una vita … - È affidabile? - Affidabilissimo. - Sta facendo qualcosa? - Sta tentando. - E tu? - Sono tra quelli che tenteranno qualcosa. - Allora ti posso far vedere e far sentire qualcosa? - Certo. Isidoro accese il suo telefonino e gli fece vedere l’immagine del presunto uomo dei servizi e poi gli
fece sentire le sue affermazioni.
Rimase senza fiato per un pezzo e poi cominciò a dire.
- È un ufficiale di alto livello dei servizi segreti ed opera assieme al prefetto, mi meraviglia il fatto
che abbia rischiato, facendoti quelle proposte. È molto serio, per cui, scusami, non guadagna ai miei
occhi dal momento che si è rivolto a te. È preposto ai servizi e alla sicurezza delle alte personalità. - Perché dici questo? - Perché, scusami ancora, tu sei un nulla, dal punto di vista che interessa a lui, ossia per compiere un
attentato. - Ti dico però che le congiure orchestrate, tranne quella contro Cesare e poche altre, da grossi
personaggi o furono scoperte o fallirono. Invece ebbero successo gli attentati organizzati
individualmente che però ebbero alle spalle quasi sempre delle organizzazioni. Vedi il caso di
Gaetano Bresci, di Gavrilo Princip, di Giuseppe Zangara, il mio compaesano. - Non conosco quest’ultimo … - Tentò di uccidere nel 1933 Franklin Delano Roosvelt, ma sbagliò e colpì a morte il sindaco di
Chicago. - Tenta di non sbagliare tu … E rise Teodoro.
- Nella registrazione si parla di un fucile di precisione. Dove lo conservi? - Ancora non sono andato a recuperarlo. Se vuoi andremo assieme. - Va bene. Io sono esperto d’armi e d’esplosivi. Infatti quando feci la guardia del corpo al più
grande segretario politico del P.C.I. partecipai, in Medio Oriente, ad un corso finalizzato al
disinnesco di bombe. - Possiamo concertare la data. - Mi riposo alcuni giorni e poi, oggi è mercoledì, ci rivedremo domenica 14 in un posto da
concordare per telefono. Andarono a letto in una stanza del primo piano, con le porte-finestre spalancate sull’altana e quindi
con la vista sul mare, punteggiato quasi sulla linea dell’orizzonte da alcune luci in lieve movimento.
Il cielo, scarsamente illuminato da uno spicchio di luna, offriva alla vista lo scrigno brillante delle
sue stelle, mentre nella quieta campagna circostante il concerto ininterrotto dei grilli canterini
invitava al sonno, che stava per impadronirsi dei due, quando squillò brevemente il cellulare
speciale. Isidoro lo consegnò a Teodoro, che lesse un messaggio: aquila agnum rapiet.
- L’aquila rapirà l’agnello – tradussero simultaneamente ambedue, che interpretarono la città
dell’Aquila, come la probabile località dove ci sarebbe stato l’attentato.
Tentarono d’imbastire un discorso su svariati temi banali, ma alla fine il sonno li vinse e dormirono
fino a quando il sole alto nel cielo cominciò ad illuminare la stanza ed il letto su cui dormiva
Isidoro, che si svegliò e si guardò intorno, non ricordando più di essere fuori casa. Si raccapezzò
quando inquadrò Teodoro che dormiva saporitamente ed allora si alzò, si lavò con una certa
lentezza e poi, rientrò in camera e si affacciò dall’altana guardando verso oriente. Faceva caldo e
l’acqua del mare in quel periodo risultava particolarmente piacevole, riscaldata dalla lunghissima
estate che non accennava a diventare più mite, per cui ebbe il desiderio di fare un bagno nel mare
mitico dei bronzi di Riace.
Ad un certo punto sentì la banda scricchiolare e capì che Teodoro s’era svegliato. Infatti rientrando
lo sorprese nell’atto di alzarsi, per cui gli propose qualche ora di mare.
- A parte il mare, vorrei visitare il borgo di Stilo ed il monastero di San Giovanni Theresti che è
situato nelle campagne di Bivongi.
- Va bene partiamo senza perdere tempo, lavati velocemente, poiché ti propongo un itinerario
bizantino mozzafiato. - Faccio in un baleno. Infatti dopo poco più di dieci minuti partirono con la vecchia Panda di Isidoro e per strade interne
arrivarono in poco più di mezz’ora a Stilo.
- Sono le 8,20 e dato che dovremmo attorno alle tredici essere al mare, visiteremo solo i monumenti
bizantini. Consumarono un cappuccino, seduti ad un tavolino di fronte alla statua di Tommaso Campanella e
velocemente, saliti in macchina si avviarono al prezioso tempietto della Cattolica.
- Dalle fotografie me la immaginavo più grande.- Commentò Teodoro quando si trovò di fronte al
luogo di culto più famoso di Stilo.Osservarono gli affreschi all’interno, che rappresentano vari passaggi di civiltà sul territorio e poi le
colonne, forse derivanti da templi ellenici situati sulla costa dell’antica Kaulon. Usciti all’esterno,
ammirarono la magia delle cinque cupolette e poi quella del paesaggio vario che si presentava
magnifico verso il mare. Alle spalle il monte Consolino impediva la vista verso le montagne.
Dietro quella collina laggiù, indicò Isidoro, in contrada Vincitore avvenne una delle battaglie
campali più importanti prima del 1000 e naturalmente i libri di storia italiani non ne parlano, mentre
si dilungano in lunghe chiacchiere per risse scoppiate nel Centro-Nord Italia. Era il 15 luglio del
982 ed Ottone II, imperatore di Germania, avendo sposato Teofano, principessa bizantina,
pretendeva come dono di nozze, altresì promesso, la provincia bizantina rappresentata dall’Italia
meridionale e venne con un grosso esercito a prenderne possesso.
Fino a Stilo aveva sconfitto tutti gli eserciti imperiali di Costantinopoli, ma frattanto Abu-AlQassim, emiro di Sicilia, che era stata conquistata dagli arabi da più di un secolo, aveva invaso con
migliaia di fanti e cavalieri la Calabria, con l’intento di conquistarla e giunse fino a Stilo dove si
scontrò con i tedeschi. Costoro al primo scontro sconfissero gli arabi e issarono la testa tagliata di
Abu-Al-Qassim, caduto in battaglia, su una lancia. L’emiro, però, prima di iniziare lo scontro aveva
nascosto una riserva strategica di cavalieri su quell’ altura, all’epoca intieramente coperta di boschi.
Finita la battaglia Ottone concesse ai suoi di spogliarsi delle armature e di riposarsi al riparo del
sole e in questo mentre i cavalieri arabi, gonfi d’odio vennero giù dall’alto come furie e fecero a
pezzi i soldati tedeschi, tra cui decine di aristocratici ed addirittura dei vescovi, tra cui quelli di
Vercelli e di Augsburg, che avevano accompagnato l’imperatore in Italia.
Ottone sfuggito alla carneficina, assieme a suo cugino, il duca di Baviera, disperatamente cominciò
a galoppare verso il mare inseguito da cavalieri arabi. Ebbe fortuna perché, arrivato sulla spiaggia,
spinse il suo cavallo verso una salandra bizantina all’ancora, che lo condusse in salvo a Rossano. - Ma è una leggenda? - È storia. -
- Mai ho sentito parlare di tutto ciò - Bisognerebbe riscrivere la storia. - Sul monte Consolino cosa c’è? - Ci sono i resti di un castello normanno-svevo; infatti su una precedente fortezza bizantina, i
normanni edificarono un altro castello e poi Federico II, una super fortezza, forse mai espugnata.
Gli arabi dopo la vittoria su Ottone II devastarono Stilo, ma forse non presero il castello, che fu
assediato e su tale episodio si narra una bella leggenda, che io conosco. - Raccontala. - Va bene. - Era arrivato luglio e faceva molto caldo, ma nonostante ciò, la gente andava in campagna per
terminare la mietitura e per preparare la trebbiatura del grano.
Ogni famiglia, sul greto dello Stilaro aveva preparato l’orto estivo ed il lavoro degli artigiani
ferveva nel paese; i vigneti poi erano stati curati con diligenza e l’uva era ormai già ben preparata.
All’alba di uno di quei giorni due soldati di sentinella al castello, videro nel mare prospiciente, non
lontane dalla riva, moltissime navi e allora cominciarono ad urlare per dare l’allarme e dopo un
po’, tutte le campane nelle chiese del paese, cominciarono a squillare. Di conseguenza, dopo un
intervallo di tempo breve, tutti, donne e uomini, adulti e bambini, svegliati, balzarono dal letto e
dopo essersi vestiti velocemente, alcuni addirittura non completamente coperti, sciamarono per le
strade, per appurare cosa fosse capitato, poiché sapevano che il suono delle campane, significava
pericolo.
Scese a quel punto velocemente dal castello, il comandante dei soldati del presidio, che intimò che
tutti, adulti e piccini, dovessero mettersi al sicuro, poiché stavano arrivando i saraceni; aggiunse
che ognuno doveva portarsi tutto ciò che poteva essere utile, specialmente viveri ed addirittura gli
animali che fossero a portata di mano.
Nella pianura vicino al mare, si distingueva una moltitudine di uomini in marcia, simile ad una
teoria di formiche.
Ogni famiglia dalla propria casa prese tutto ciò che poteva essere trasportato con facilità, anche
con l’ausilio di bestie da soma e tutti quanti s’inerpicarono faticosamente sul monte Consolino,
lasciando il paese, mentre contemporaneamente la moltitudine in marcia, più visibile, si avvicinava
e la paura cresceva.
Arrivando sul monte, ognuno depositava nei sotterranei del castello, gli elementi deperibili al
caldo, specie i salumi ed i formaggi. Gli alimenti secchi, legumi e grano furono accatastati in
sacchi nel cortile del castello. Le capre, le pecore, i porci furono liberati sul monte, dopo che
chiusero con rocce, i varchi da cui si sarebbero potuti allontanare; infatti buona parte dell’area
circostante il castello impediva loro di scappare, per via dei precipizi che si articolavano attorno e
gli animali cominciarono a vagare, cibandosi della folta vegetazione, costituita in prevalenza da
lecci ed erba secca.
Guardando verso la pianura, diventava sempre più visibile la gente in arrivo e si distinguevano
uomini a cavallo, che staccandosi dalla formazione in marcia, appiccavano il fuoco ovunque e
dense colonne di fumo si alzavano verso il cielo, mentre la paura cresceva.
Intanto sul monte Consolino, la gente si sistemò come meglio poté e tutte le donne e i bambini
alloggiarono nel castello, mentre gli uomini lo fecero all’esterno. Dopodiché tutti, adulti e fanciulli,
cominciarono ad accatastare pietre vicino ai dirupi e a rafforzare le mura. In una bassura verso le
montagne nasceva una debole sorgente, che sistemarono con un pezzo di canna, che regalasse il
flusso e cominciarono ad attingere acqua, conservandola in recipienti. Vicino trascinarono un
truogolo di pietra, perché potessero essere abbeverati gli animali. Del resto, neppure il castello era
privo d’acqua, in quanto era dotato da quattro o cinque cisterne.
Verso mezzogiorno arrivarono i saraceni, che cominciarono ad incendiare le case e la gente
tremava per la paura. Essi inviarono dei messaggeri sul castello intimando la resa, ma la risposta
degli stilesi fu quella di rotolare dei massi sugli invasori, che arretrarono, restando a distanza di
sicurezza dai lanci, ma controllando che gli assediati non uscissero per chiedere rinforzi o per
trovare approvvigionamenti alimentari.
Dopo dieci, quindici giorni, sul monte erano stati divorati tutti i capretti, gli agnelli e qualche
porcellino, che potevano sfinire allattando, le loro madri, non adeguatamente alimentate. I legumi
venivano bolliti, mentre il grano, macinato con i piccoli mulini a mano, serviva per panificare.
Il bosco di lecci, che ricopriva il Consolino, ormai era ridotto a poca cosa, a causa dell’uso di
legna da parte degli assediati e per via delle bestie, che lo brucavano.
Nei giorni successivi mangiarono quasi tutti gli animali ed ormai le altre scorte alimentari erano
alla fine, mentre i saraceni si cibavano di tutto quello che avevano trovato nelle case o in
campagna.
Gli stilesi con quello che restava, alimentavano prima le giovani donne, madri di bambini, che
dovevano essere allattati e naturalmente i bambini più grandi.
Il tempo passava ed i saraceni erano sempre presenti, il cibo scarseggiava sempre più e non era
stato macellato, degli animali solo un maiale non magro, poiché si nutriva di radici e tuberi, che
trovava scavando. Era rimasto meno di un quintale di grano, con cui nutrirono a sazietà il maiale.
Poi lo catturarono ed esso cominciò ad emettere i suoi versi disperati, uditi distintamente dai
nemici; si avvicinarono poi al dirupo e lo scaraventarono giù, in direzione dei posti dove
stazionavano i saraceni, che lo presero ed aprirono il suo corpo, notando lo stomaco pieno di
grano. Si meravigliarono ed esclamarono:
“Se questi danno il grano come nutrimento ai porci, significa che possono resistere all’assedio
ancora per mesi!”.
Il cibo ormai era scarsissimo e per due, tre giorni, gli assediati nutrirono solo le donne che
allattavano i loro bambini, con vivande liquide, di modo che fosse in loro stimolata la secrezione
lattea. Passato tale breve periodo, ogni donna premette il latte dai propri seni e lo versò in un
paiolo e quando esso fu sufficiente, prepararono la ricotta che misero in cinque, sei contenitori di
giunco.
A questo punto, una donna bellissima, una di quelle che aveva dato il latte, accompagnata da un
giovane e da due vecchi, tutti quanti ben vestiti e ripuliti, portarono in dono, su un vassoio
d’argento, abbellito da una tovaglia di lino ricamata, al comandante dei saraceni, la ricotta
contenuta. Egli vedendola esclamò:
“Ma quante scorte alimentari hanno costoro, se si permettono il lusso di nutrire con il grano i
porci e le capre?”.
Ordinò un’assemblea, dove all’unanimità decisero di togliere l’assedio e di andarsene. Così Stilo
fu salva.- È interessante. - Identica si racconta a Gerace. - Ora dove si va? - A monte Stella nel comune di Pazzano. Montarono in macchina e dopo qualche chilometro attraversarono il paese successivo.
- Che strano nome! Significa paese dei pazzi?- Assolutamente no. Esso rappresentava il passaggio obbligato da e per la montagna e fu fondato da
fucinatori francesi, che fabbricavano armi, durante la dominazione angioina; dunque significa via di
transito per le Serre e per il Tirreno. C’erano miniere di ferro che furono sfruttate fino all’atto
dell’unificazione del Regno d’Italia e servivano le manifatture d’armi di Mongiana e di Stilo come
già hai sentito raccontare a Santa Elisabetta. Dopo una serie di tornanti svoltarono a sinistra per monte Stella ed in sommità di esso ammirarono
il panorama verso il mare e verso la montagna. Scesero velocemente di quota per poco più di 2 km e
si ritrovarono su un piccolo piazzale a ridosso di una chiesa.
- E tutto questo è quello che mi decantavi? Sarebbe la chiesa di monte Stella questa? Che delusione!
- Aspetta un po’ a giudicare … seguimi! Seguirono una scalinata che ad un certo punto girò a sinistra e si ritrovarono di fronte ad uno
spettacolo mozzafiato.
Teodoro restò di sasso ed ammirò a bocca aperta una grande grotta che si apriva verso oriente e
rientrava notevolmente man mano che scendevano gli scalini.
- Scusami Isidoro, avevo dubitato del tuo gusto estetico. Se questo è il santuario di monte Stella è
veramente notevole per la bellezza inusuale. Scesero ancora e quando si trovarono di fronte ad un altare, ricavato in una nicchia della grotta,
illuminato da candele elettriche, si voltarono indietro e guardando verso l’alto ammirarono un pezzo
di cielo sopra l’entrata da cui erano scesi.
- Questo fu uno dei tantissimi romitori che impreziosirono la Calabria a partire forse dal VI secolo
d. c. Essi si fregiavano della regola di S. Basilio di Neocesarea sul Ponto, che invitava i monaci di
tale ordine, non solo a pregare, ma specialmente a studiare i classici latini e greci, a ricopiarli nei
loro laboratori, a diffonderne i contenuti ritenuti validi. I basiliani non si fermarono a questo, ma
divennero dei formidabili divulgatori agricoli, che dissodarono terreni, piantarono vigne, uliveti,
castagneti, querceti, costituiti anche da querce che davano le ghiande dolci, a momenti come le
castagne, usate per allevamenti suini, ma anche per cibarsi nelle annate di carestie.
Essi si irradiarono dalle coste, su cui sbarcavano provenienti dall’Oriente e raggiunsero le montagne
più alte, per vivere in pace ed in preghiera. Si pensa che alla regola di S. Basilio si ispirarono sia
Cassiodoro di Squillace che S. Benedetto da Norcia.
Essi vivevano in solitudine nei romitori, in piccoli gruppi nei monasteri più o meno grandi, in
aggregazione talvolta enormi, le laure, che in alcuni casi accoglievano diverse centinaia di
monaci,costituite da celle individuali,ma che avevano in comune una chiesa. Il monachesimo
basiliano in Calabria raggiunse l’acme nel corso dell’VIII secolo, in seguito ai provvedimenti di
Leone Isaurico l’iconoclasta, che nel 726 proibì con un editto il culto delle immagini, che furono
bruciate, assieme ai monasteri, i cui monaci si rifiutavano di distruggere le icone; molti religiosi
furono trucidati.
Allora ci fu un esodo verso la Calabria e si pensa che nell’VIII secolo i luoghi di culto ortodossi
raggiunsero, in questa terra, il numero di 400; equivalenti dunque a 400 luoghi irradianti cultura
superiore. Anche in precedenza, nel VII secolo, schiere di profughi raggiunsero la Calabria dal
Medio Oriente e dall’Egitto, durante l’avanzata islamica. Smetto di parlare di quel periodo magico,
perché capisco che tu sei scettico su quello che ti sto raccontando. - In effetti stento a credere a quello che tu dici, in quanto non ne accennano i libri di storia.- Ma la storia in Italia è stata sempre influenzata dalla chiesa cattolica, che ha sempre tentato di
cancellare completamente la raffinata civiltà bizantina dalla memoria. - Prima di andarcene da un’uscita diversa, guarda là due affreschi danneggiati da poveri deficienti,
che feriscono la loro storia. Mentre qui dietro c’è un buio camminamento, dove i monaci andavano
per espiare i loro presunti peccati, soffrendo.Continuarono poi a percorrere degli scalini a destra e si ritrovarono in un ampio slargo della grotta,
che comunicava con la campagna vicina.
In risalirono verso la macchina ed in pochi minuti furono sulla statale verso Pazzano di nuovo, da
cui proseguirono verso Bivongi, il borgo civilissimo ed evoluto, dove da tempo si scommette sulla
storia e sulla cultura. Teodoro con curiosità guardava le strade pulite del paese e le vetrine linde dei
piccoli negozi.
Volle fermarsi in una gelateria e gustare un buon cono alla frutta. In tutta fretta uscirono dal paese e
si diressero, attraverso una ripida salita, verso S. Giovanni Theresti.
Prima di arrivare al monastero ortodosso, sulla destra ammirarono i ruderi del monastero latino
degli Apostoli, costruito in funzione antibasiliana dai Normanni, che furono strumenti efficaci della
latinizzazione della chiesa in Calabria, dopo il mille. Arrivati di fronte al monastero suonarono la
campanella e comparve un alto e barbuto monaco, che velocemente fece loro visitare anche
l’interno della chiesa restaurata da artisti provenienti da Athos.
Teodoro all’esterno ammirò la costruzione, affascinante nella contaminazione dello stile arabonormanno, evidenziato dagli archi che s’incrociano, con quello bizantino, messo in luce dall’uso
magistrale e differenziato dei mattoni.
- È molto bello il posto ed ispira pace e tranquillità. Ma da quanto tempo è stato restituito al culto
ortodosso? - Ormai sono trascorsi 13 – 14 anni da quando è stato riconsacrato al culto greco. - Ma come mai sono ritornati qui i monaci orientali? Raccontami. - Dunque agli inizi degli anni 90 del secolo scorso, un egumeno morente a Monte Athos, chiamò al
suo capezzale un monaco e lo pregò di venire in Calabria: “va, Cosma, nella nostra Terrasanta, che
ha bisogno di noi. Essa è oppressa dal buio del male, va Cosma a contribuire a riportarla alla luce
della verità, del bene e della giustizia. Ti prego Cosma, va!” E l’egumeno spirò.
Padre Cosma restò impressionato da queste parole e cominciò ad analizzare la storia della Calabria,
dal periodo magno-greco ai tempi nostri. Studiò inoltre i santi italo-greci, ossia, originari della
Calabria e quelli che nacquero ed operarono in Sicilia. Costoro non solo si distinsero per le loro
opere nelle loro terre d’origine, ma evidenziarono il loro valore e la loro serietà in tante città ed in
tanti monasteri dell’impero bizantino. Analizzò quanto successe dopo, quando i normanni finirono
l’occupazione della Calabria nell’anno 1060 e cominciarono, in qualità di vassalli del papa l’opera
di demolizione della chiesa greco-ortodossa.
Ad esempio sulle montagne delle Serre, a non molti chilometri da questo posto, il conte Ruggero
invitò a venire S. Bruno di Colonia, che fondò una certosa, una delle più antiche di tutta l’Europa,
dotandola di molti beni. Ma ritornando al discorso di prima, a distanza di più di mille anni, i santi
italo-greci, sono venerati in Grecia, in Russia, in Romania, in Bulgaria, in Serbia, in Ucraina,
naturalmente ad Athos ed essi sono talmente amati, che la loro terra d’origine, in questo caso la
Calabria, è considerata Terrasanta.
- Tu racconti delle stranezze a cui io stento a credere. A chi è intitolato questo monastero? - A S. Giovanni Theresti, ossia il mietitore, chiamato così perché egli aiutò dei mietitori a falciare
una distesa enorme di grano, in poco tempo ed in modo miracoloso. Egli era figlio di una cristiana
catturata dai saraceni in questi posti e portata prigioniera a Palermo dove partorì Giovanni. Secondo
una tradizione fu violentata dal padrone a cui era stata venduta, secondo altri quando fu rapita era
già incinta. Quando Giovanni crebbe, la madre lo invitò il figlio ad andare fra la sua gente e giunse
qui, dove fondò questo monastero. Ritornando al discorso di prima, Cosma studiò la
discriminazione strisciante al tempo dei normanno-svevi, tranne che per il periodo coincidente con
il regno del grande Federico II, quando una politica favorevole ai basiliani fu dettata dalla lotta che
egli dovette sostenere contro il papato.
Infatti terribile era stata la contesa anche in questo territorio tra il papa Gregorio IX e l’imperatore,
che impedì ad un vescovo di nomina papale di occupare la sede vescovile di Gerace, dove Federico
impose un intruso, il monaco basiliano Barsanufio, dal 1233 fino sua morte. La contesa aveva
raggiunto momenti altamente tragici e quando nel 1239 Gregorio IX scomunicò l’imperatore,
Federico intimò che tutti coloro che sarebbero stati sorpresi con lettere del papa, sarebbero stati
impiccati e marchiati in fronte con un ferro rovente in segno d’infamia i simpatizzanti.
Anche Innocenzo IV nel 1245 scomunicò Federico II, che attivò ritorsioni nei confronti del clero
latino e folle fu quella portata avanti a Gerace, dove il vescovo di nomina papale fu immerso in
acqua bollente.
Tale politica antipapale sarebbe stata foriera di disgrazie per la casata sveva, in quanto il papato,
dopo la morte di Federico fecero venire in Italia Carlo D’Angiò che riprese l’azione antibasiliana,
che divenne più sistematica al tempo della dominazione aragonese. Tutto ciò provocò la decadenza
dei monasteri dovuti anche alla lontananza dalla madrepatria greca e dal patriarcato di
Costantinopoli. Fra l’altro era vietato da parte dei monaci, avere rapporti con l’Oriente, pena la
morte, minacciata ed eseguita per volontà della chiesa cattolica.
Dopo la caduta di Costantinopoli venne meno anche la speranza, per cui i monasteri ortodossi non
ebbero più futuro. Proprio per questo motivo alla fine del 400 venne abolito il rito greco. Resisteva
solo a Bova dove venne eliminato nel 1573,con l’introduzione della liturgia latina per opera del
vescovo Giulio Stavriano.
Tutto questo aveva in mente padre Cosma quando arrivò, per cui subito si diede da fare a creare un
movimento, aiutato anche dal vescovo di Locri-Gerace, Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, con
cui in più occasioni pregò assieme. Il comune di Bivongi gli diede in uso i ruderi del monastero ed
il terreno circostante, per 99 anni; riparò un vecchio caseggiato rurale, lo fornì di energia elettrica,
rifornì l’area di acqua per uso irriguo e potabile, creando una condotta e veicolando l’acqua da una
sorgente montana. Qualche anno dopo da Monte Athos e da altri monasteri greci arrivarono monaci
capaci di effettuare lavori di restauro e coadiuvati da maestranze locali e aiutati finanziariamente
anche dal comune di Bivongi, ripristinarono la chiesa, riconsacrandola al rito ortodosso e
costruirono gli alloggiamenti per i monaci e gli ospiti.
Ogni anno dalla Grecia e da altre aree geografiche dove vige il rito greco, arrivano decine di
torpedoni carichi di pellegrini. Intanto il monastero è stato dotato di una biblioteca già ricca di oltre
5000 libri, mentre personalità illustri della cultura, spesso sono ospitati dentro le strutture
d’accoglienza che sono state qui costruite. - Incredibile quello che sto vedendo ed ascoltando. Attorno alle dodici salutarono il barbuto e gentile monaco, proveniente da un monastero della
Romania, che aveva fatto loro da Cicerone e poi partirono verso la marina di Monasterace, dove di
fronte al tempio ellenico di Apollo, s’immersero in mare.
Prima di sdraiarsi al sole, ancora cocente, vollero visitare i ruderi notevoli dell’area sacra.
- Da quanto ho potuto constatare, prese a dire Teodoro, ammirando i palazzi dei borghi medievali, i
monumenti, le opere d’arte presenti ovunque nel territorio che stiamo visitando, sono portato a
concludere, che quello che stiamo vivendo sia il periodo più funesto della storia della Calabria. È
difficile immaginare uno peggiore: il territorio bello, sottoposto a violenze di ogni genere, le
potenzialità culturali notevoli, vengono trascurate e talvolta distrutte, i fondi europei, come tu
affermi, supportano grossi progetti finanziati alla grande, che restano sulla carta, ma risultano
eseguiti a puntino per cui lucrano i progettisti, i collaudatori, i politici, i funzionari e naturalmente i
soggetti proponenti. A tutto ciò si aggiunge il male più grande, ossia la ndranghita, che insozza la
regione ed il cerchio si chiude. - Effettivamente la situazione è grave in Calabria, ma tutta l’Italia ormai è condannata alla rovina
più totale per colpa di una classe politica funesta. Infatti, quasi tutti gli individui che aspirano a
proporsi per il “bene comune”, nel caso riescano a raggiungere l’obiettivo di essere eletti in un
consesso importante, pensano che bisogna approfittare dell’occasione favorevole a loro capitata ed
immediatamente progettano di lucrare al massimo, organizzando azioni disoneste per arricchirsi a
spese della comunità. E questo capita a tutti i livelli, dagli enti locali a quelli più alti; rubano gli
assessori comunali e i ministri. Ormai fare politica è diventata un’attività finalizzata, nella
convinzione di tutti, a rubare ed arricchirsi alle spalle della comunità. -
- Infatti l’ambizione di rubare è comune a tutti i politici, di destra, di centro, di sinistra, per cui è
difficile trovare una via d’uscita. - Sono convinto di questo e non ci sono alternative, in quanto i cittadini italiani non sanno reagire,
protestano verbalmente, urlano promettendo sfracelli, poi si mettono la coda tra le gambe e
soddisfatti se ne vanno a cuccia. - E la situazione è peggiorata da quando è sceso in campo l’Uomo-Fogna, dal momento che egli ha
corrotto, insozzato tutto, è andato alla ricerca dei peggiori, disposti a vendersi e a prostituirsi ai suoi
interessi, che diventano sempre più consistenti, in quanto lui compra tutto, non saziandosi mai. - E noi come gli altri ci lamentiamo e basta. - Almeno noi, scusa io, ho un progetto per eliminarlo dalla scena, in collaborazione con quel
signore dei servizi. - Hai solo il progetto, in quanto non sei andato neppure a prendere il fucile. - Ma secondo me, non basta uccidere lui, bisogna pensare a qualcosa di più grosso; bisogna dare
una lezione alla classe politica. - A cosa pensi? - Bisognerebbe fare un attentato dentro il Parlamento, ma non so come. - Il difficile è arrivarci, sarebbe bello piazzare una mitragliera e fare a pezzi il più alto numero
possibile di quei porci. - Bisognerebbe preparare un commando ed irrompere con armi automatiche e fare …. - È inutile, loro sanno cautelarsi, sono irraggiungibili. - E va bene pensiamo ad altro, parliamo d’altro, quegli infami ci hanno pure tolto il gusto di vivere.- Tu almeno hai la possibilità di fare altro, hai dei campi, cerchi di curarli, t’inventi degli interessi,
hai figlie giovani che hanno bisogno di te, per cui ti senti utile ed indispensabile, io invece mi sono
sposato molto giovane, ho tre figli, sposati con bambini a loro volta, mia moglie è morta ed io sono
ormai solo. La vita di partito non esiste più e spesso mi sento inutile. Ti confesso che sta diventando
di grande interesse per me pensare seriamente ad un attentato e sta diventando l’unico scopo della
mia vita. Infatti io sono in mezzo come te e rappresento uno dei contatti.- E perché non me l’hai detto prima? - Ho avuto il compito di sondarti e studiarti, perché bisogna fare in fretta, bisogna ucciderlo prima
della primavera o al massimo non oltre il prossimo anno. Sta facendo dei danni enormi.- Va bene. Domenica tredici andremo a prendere il fucile destinato a me. A te hanno dato uno? - Al momento no, pensano di addestrare alcuni ed io sono venuto anche per questo motivo; infatti in
qualità di esperto di armi, ti farò da “consigliere militare” e chissà che non ci indicheranno di
operare assieme, nel centro-sud, dove è più facile trovare delle occasioni. Era passata più di un’ora da quando si erano bagnati, per cui decisero di lasciare quel posto e presto
si ritrovarono in viaggio per Riace, che raggiunsero in un quarto d’ora. Si prepararono un panino
con degli affettati e poi si salutarono.
Nonostante che l’estate stesse per finire, faceva ancora un caldo canicolare, che andava sicuramente
bene per Teodoro, ma non per Isidoro che era indaffarato in tante faccende connesse alla sua attività
amatoriali riferita alla terra.
Comunque all’appuntamento programmato per la domenica i due s’incontrarono in una località
della costa ai primi chiarori dell’aurora e dopo un po’ si ritrovarono a percorrere una vecchia
provinciale verso l’entroterra, che portava a Samo. Ad un certo punto, finita la provinciale,
cominciarono a percorrere un’interpoderale e poi una sterrata che portava verso la montagna. Il sole
era ancora un globo rosso sul mare e Teodoro guardava senza fiatare i paesaggi che variavano in
continuazione; si passava dal giallo delle sterpaglie, dominanti nelle colline costiere, al verde dei
rari vigneti, al bianco tendente al grigio delle colline di caolino o al verde cupo della macchia
mediterranea, mentre verso oriente il mare pervinca, appariva percorso dai riflessi rossastri del sole,
che vi si specchiava; il cielo era caratterizzato ancora da un celeste indeciso.
Ambedue avidamente respiravano l’area fresca e sempre più ricca d’ossigeno mentre salivano verso
la montagna, seguendo le coordinate sul G.P.S., precedentemente trasferite dal telefonino su un
pezzo di carta. Giunti su un breve pianoro la sterrata si biforcava, con l’asse viario principale che
seguiva la dorsale e puntava verso Montalto e con una variante che scendeva leggermente a destra,
dove bisognava dirigersi, seguendo le indicazioni dello strumento.
Per Isidoro quei luoghi erano familiari, in quanto talvolta ci andava a visitare un’area, secondo il
suo punto di vista, frequentata dall’uomo già nel neolitico. Infatti numerosi erano gli anfratti
rocciosi che offrivano dei comodi ricoveri, odiernamente frequentati dalle capre, mentre
anticamente dagli uomini primitivi, come indicavano i canalini ricavati ai bordi esterni delle rocce
che servivano a deviare in modo preciso le acque piovane ed evitare che scendessero
indiscriminatamente e bagnassero anche gli ambienti abilitati a dimore.
Spesso su grandi rocce dominanti in modo imponente sull’area circostante, si potevano leggere
delle buche di libagione, usate per raccogliere il sangue degli animali o forse dei nemici sacrificati a
divinità sconosciute, che bisognava libare ossia bere perché gli spiriti vitali degli uccisi
rafforzassero i propri.
Isidoro ricordava una “lezione magistrale” su queste tematiche offerta sulla cima di una roccia del
territorio che si apprestavano a visitare, da Paolo Piernerli di Firenze. Fino a poco prima della
seconda guerra mondiale, in alcuni territori dell’Aspromonte, quando veniva ucciso qualcuno, un
proprio congiunto, a sangue ancora caldo, era obbligato a bere un po’ del suo sangue perché il suo
spirito vitale passasse a lui.
Attraversando un querceto arrivarono in contrada Litri ed in un pianoro parcheggiarono la
macchina. Erano da poco scesi, quando li avvistò Stefano, un amico d’Isidoro che da quelle parti
aveva un gregge di capre. Vedendoli li invitò ad andare al suo ovile dove si stava apprestando a
preparare la ricotta, un po’ fuori tempo, perché le capre stavano perdendo il latte, in quanto erano in
attesa dei loro piccoli. Assieme a lui si accompagnavano tre signori del territorio ed una bella
signora del Nord Italia, a cui la ricotta era dedicata. Chiese Stefano il motivo della visita ed Isidoro
mentì affermando che erano venuti per visitare la grotta del brigante Martino, che era l’attrazione
più importante di Litri. Cogliendo l’occasione, il pastore cominciò a raccontare la leggenda del
celebre brigante, che si diceva fosse vissuto anche lì.
- Un giorno Nino Martino, abile nei travestimenti, nell'eludere i gendarmi e nell'affrontare i
pericoli, vestito da montanaro, scese al paese.
Era il tempo della quaresima ed entrò nella chiesa per ascoltare la predica di un monaco, che in
quel periodo di penitenza, aveva convertito tanti peccatori.
Con la sua voce tonante il frate si mise a predicare, nel silenzio dei presenti ed il discorso si
riferiva alla morte.
“Viene come un ladro, gridava, ricordando le parole di Gesù, e voi non potete sapere quando
arriva!”.
All'improvviso per Nino Martino, scese dal cielo il pentimento, per i suoi peccati e pensò che per
lui la morte potesse arrivare da un momento all'altro senza preavviso.
Il suo cuore, fondamentalmente buono, si ribellò a quella vita di brutture, costellata di omicidi.
Gli venne in mente la sua vecchia madre, afflitta per la sua condotta, che sempre l'invitava a
ritornare ad una vita onesta e cercandola con ansia dentro la chiesa, la vide, inginocchiata vicino
ad una colonna, che pregava per lui, con il volto rigato di lacrime.
Lasciò la chiesa sconvolto e s'incamminò verso la montagna.
Quando entrò nella grotta, dove erano in riunione i suoi compagni di misfatti, essi si accorsero dal
volto, che il suo cuore era pieno di rimorsi.
Lo circondarono ansiosi e gli fecero tante domande ed egli rispose in tali termini:
“Ho combattuto una grande lotta contro la mia coscienza, ma essa mi ha vinto ed ora butto ai
vostri piedi le mie armi, i miei vestiti, i miei denari; lascio il comando della banda e mi ritiro in una
zona sperduta per implorare, in solitudine Dio, che perdoni i miei peccati!”.
Alla fine del discorso, abbracciò i compagni, uscì dalla grotta e s'incamminò verso il bosco più
fitto.
I briganti, si meravigliarono grandemente e cominciarono a parlare animatamente tra di loro,
scandalizzati per quello che aveva fatto il loro capo.
Senza di lui, ch'era il più coraggioso, si sentirono perduti e ormai nelle mani dei gendarmi, tra le
invettive lo chiamarono vile e traditore e prese le armi, si misero all'inseguimento, seguendo le sue
orme con l'intento di ucciderlo.
Lo raggiunsero in una zona della montagna, chiamata l'Arma dei Conti, una strettoia fitta d'alberi,
tra due rupi.
Nino Martino camminava incurvato, sfinito dai rimorsi, quando i suoi compagni urlando gli si
pararono davanti, come lupi affamati e dopo averlo insultato, cominciarono ad infierire sul suo
corpo e smisero quando lo videro a terra, in un lago di sangue.
Pensarono poi di seppellirlo e per ammonimento ai passanti, fecero un cumulo di pietre sul suo
corpo; chi passava doveva aggiungere una pietra al mucchio.
Terminata la faticosa incombenza, si sparpagliarono per la montagna.
Il giorno successivo si sparse la voce, nel paese, della morte di Nino Martino e lo seppe anche la
vecchia madre del brigante.
La povera infelice, spargendo le sue lacrime, partì per trovare il posto dove avevano ucciso il
figlio, che trovò a causa della terra bagnata di sangue e per la catasta di pietre.
Piangendo, cominciò a disfare il cumulo e presto le sue braccia deboli furono sfinite dalla fatica e
coperte da ferite sanguinanti, ma il suo amore di mamma fu più forte di tutto e continuò tutto il
giorno nella disperata fatica e solo quando cominciarono a scendere le prime ombre della sera, si
presentò ai suoi occhi, il figlio morto.
Il suo corpo grande, era bellissimo, nonostante fosse stato colpito da centinaia di colpi; neppure le
pietre a cui era stato sottoposto l'avevano sfigurato.
La vecchia madre, con una forza sovrumana che gli derivò dall'amore, lo prese nelle sue braccia,
come un bambino dormiente, dopo che lo riempì di lacrime e di baci e se lo portò a casa.
Nessuno la vide ed i nemici lo credettero ancora sotto la catasta di pietre, mentre lei invece lo
nascose in casa, con tanto amore, così poteva averlo sempre vicino, quando gli volesse parlare.
Gli lavò prima le ferite con acqua e aceto e non avendo il coraggio di coprirlo di terra, togliendo il
coperchio, lo depose in una botte, sistemandolo dentro. Ogni tanto riapriva la botte, lo ammirava,
lo baciava e si accorgeva ch'era sempre bello e fresco come le rose e sembrava che dormisse.
Un giorno, dopo tanto tempo, tentò di smuovere il recipiente, ma non riuscì nell’intento perchè esso
era pesante come il piombo.
Batté sopra con le nocche delle mani ed il rumore fu quello di un recipiente pieno.
“Povera me, diceva la vecchia mamma, allora ero in delirio, quando pensavo di aprire la botte e di
vedere il corpo del mio povero figlio!”
Dal momento che nella parte alta della botte c'era un rubinetto, l'aprì e con grande meraviglia si
accorse che scorreva un vino rosso come il sangue.
L'assaggiò ed era delizioso, il migliore di quelli che avesse mai assaggiato. Riempì un fiaschetto,
chiuse il rubinetto e poi chiamò tutti i poveri del vicinato ed offrì loro da bere; restarono sbalorditi
per la bontà del vino e dopo che finirono di berlo, spillò un altro fiasco, poi un altro ancora,
offrendo da bere ai vicini ed ai passanti.
La botte rimaneva sempre piena, nonostante che da essa il vino sgorgasse come da una sorgente e
la povera afflitta non sapeva spiegarsi il motivo e si preoccupava perché non poteva ammirare più
il figlio.
Un giorno chiamò il bottaio e così gli parlò:
“Da una anno spilliamo vino da questa botte ed essa è sempre piena. Togliamo il coperchio e
vediamo quanto vino c'è ancora”.
Il bottaio, quando tolse il coperchio, vide qualcosa di prodigioso; infatti nel fondo della botte era
adagiato il corpo di Nino Martino e da una ferita vicino al suo cuore, era spuntata una vite, che
anche al buio vegetava e i suoi tralci erano sempre carichi di uva matura.
Quando la vecchia madre spillava il vino, i grappoli si trasformavano in vino e ne nascevano altri,
che si alimentavano dal sangue, che sgorgava dal cuore di Nino Martino. Mentre raccontava, non aveva perso tempo a lavorare il latte che era stato precedentemente cagliato.
Frantumata la pasta fresca del formaggio abilmente cominciò a raccoglierla con una fiscella
adeguata e la stava lavorando su una piccola madia ricavata da un tronco di faggio, fra l’attenzione
attonita degli astanti e specie della signora e di Teodoro. Data la stagione ancora calda, la
preparazione del formaggio avveniva all’aperto a ridosso di un frondoso castagno, sotto cui c’era un
tavolo costituito da un’enorme lastra di pietra, poggiante su tre massi. Attorno erano poggiate sul
terreno delle sezioni di grossi tronchi di pino, più alti di una sedia. Frattanto il paiolo contenente la
scotta era stato poggiato su un tripode, mentre il fuoco scoppiettante non era invitante, data la calura
ancora notevole. Ad un certo punto fu aggiunto del latte fresco e Stefano in modo ritmico cominciò
a far scivolare dolcemente un certo bastone di legno sul fondo del recipiente, dando con lo stesso,
ogni tanto dei lievi colpi. Ad un certo punto miracolosamente cominciò ad emergere la ricotta, tra i
bollori che bisognava dominare con l’aggiunta di acqua fresca. Attorno all’attrezzo di legno, nella
ricotta che era emersa quasi completamente, si era formata una rotondità, tramite cui si vedeva il
siero ceruleo, tendente un po’ al verde.
La fiaba terminò di essere raccontata, fra la commozione di tutti, nello stesso istante in cui Stefano
tirò giù dal tripode il paiolo con la ricotta già pronta.
Ci fu un applauso ed il “buon pastore” sorridente, munì ognuno di un grande cucchiaio ricurvo di
legno di erica e di un grande barattolo di latta, che aveva contenuto dei pelati.
Ognuno si serviva dal paiolo fumante ed assieme alla ricotta aggiungeva siero, blandamente
lassativo, secondo Stefano.
La bella signora, seduta come una regina sulla sezione di tronco di pino, era obbligata a guardare
verso nord ed attraverso un rigoglioso bosco di lecci, intravide in lontananza un paese ai piedi di
una montagna.
- Che paese è quello? - San Luca.
- San Luca!! – E scese dal sedile.
- È vicino a questo posto. Ma qua siamo nel comune di San Luca? Non è pericoloso?
- No, in quello di Samo. – rispose Stefano sorridente.
- I due territori sono vicini? - Li divide solo il fiume Butramo e siamo confinanti fino a Montalto, che si vede in alto, oltre la
Valle Infernale. Un po’ prima di essa ci sono boschi millenari di lecci e querce che non sono stati
mai tagliati tranne che al tempo dei romani. Mangiarono la ricotta con il siero, calda e tenera e non la vollero amalgamata con il pane, messo in
ammollo.
Ben presto la ricotta terminò e riprese la conversazione su temi vari. Ad un certo punto Isidoro e
Teodoro, ringraziando salutarono e seguirono le coordinate sul G.P.S., che puntava verso la grotta
di Nino Martino.
Essa è situata ai bordi di un pianoro degradante verso il Butramo ed era dentro un caotico coacervo
di enormi massi. S’inerpicarono verso di essa ed entrarono nella grotta in un groviglio di pietre, che
lasciava libera un’area centrale, protetta dall’intemperie in alto, da un immane calotta litica. Isidoro
mostrò a Teodoro, sulla parete prospiciente l’entrata una misteriosa iscrizione, in parte cancellata
dal tempo, costituita anche da segni che possono ricordare lo iod ed il digamma. Fecero delle foto a
luce radente e poi consultarono il G.P:S. che indicava una posizione di una decina di metri spostata
ad est, dove però si ergeva una parete intatta. - Allora sarà stato collocato nell’ipogeo della grotta, ossia nella parte sottostante, che anni fa ho
tentato di perlustrare, ma non l’ho fatto fino in fondo, in quanto ogni tanto vi si rifugiavano dei
lupi.-
Uscirono e aggirarono gli ammassi verso est e alla base di essi entrarono in un’apertura, che man
mano si restringeva verso l’interno. Procedevano con cautela e con una certa trepidazione,
aiutandosi con una torcia elettrica. Alla fine di uno stretto cunicolo si trovarono di fronte ad una
grande custodia di qualche strumento musicale lungo circa un metro e trenta cm., nascosto per
buona parte sotto un cumulo di erba secca.
Uscirono e guardando a destra e a manca, con cautela raggiunsero l’auto e con ansia cominciarono a
percorrere la strada di ritorno, evitando però la provinciale e facendo le interpoderali, spesso delle
sterrate, che li condussero ad un casolare di Isidoro, in una campagna isolata, a ridosso di una rada
boscaglia.
Proprio sotto una parete rocciosa resisteva un piccolo casolare con il tetto ad unica falda in coppi,
che ormai non aveva più porta, asportata da qualcuno per puro atto vandalico. Una porticina
secondaria comunicava con un vano segreto costituito da un anfratto naturale, alla base della parete,
che il padre di Isidoro aveva protetto con un muro a secco. Era sufficiente asportare sei grosse pietre
rettangolari, in sommità, per entrare nella cavità. Lo fecero ed entrarono trovandovi un vecchio
piccone ed una roncola che erano appartenuti al genitore, morto 21 anni prima. Si commosse
Isidoro vedendo i due attrezzi, di cui accarezzò e baciò i manici.
Con prudenza eccessiva portarono dentro il bagaglio e l’aprirono. L’anfratto era a forma di capanna,
capace di contenere comodamente una decina di persone e la luce penetrava dall’alto attraverso una
grossa buca tondeggiante sulla parete che comunicava con l’esterno ed illuminava abbastanza
l’ambiente. Apparve un’arma che sbalordì Teodoro, che con gli occhi sgranati cominciò ad
ammirarlo e a lisciarlo. Era completo di tutti gli accessori, già montati: il mirino telescopico, il
caricatore a 5 colpi ed il silenziatore.
- È un gioiello! È un Heckler-Hoch, la fabbrica costruttrice è tedesca, che utilizza una tecnologia
ultra sofisticata. È un MSG 90, usato dai reparti speciali di tanti stati del mondo, per missioni
impossibili; naturalmente è usato anche dai nostri GIS e NOCS. Isidoro guardava ma non capiva molto, ma gli piacque tantissimo la forma del fucile. Dentro una
piccola busta c’erano 5 proiettili, che Teodoro infilò nel caricatore, dopo aver invitato Isidoro a
seguire l’operazione.
- A quanto pare hai dimestichezza con questa arma, la conoscevi? - In effetti l’avevo solo studiata su una rivista specializzata, però mi sono allenato lungamente al
tiro, con un’arma della stessa azienda, prodotta circa trent’anni fa la PS6-1A1, che era più lunga,
più pesante e senza dubbio meno maneggevole. - Il mirino telescopico di questa è regolabile in 6 posizioni, quindi più facile ad essere
personalizzato da parte di chi lo usa. - Nella confezione però non ho visto il libretto d’istruzione. - Stranamente mi è stato consegnato prima, forse nella speranza che io studiassi il fucile, ma io non
ho avuto voglia di farlo, forse perché inconsciamente lo collego ad un’azione che teoricamente
condivido, ma che poi praticamente mi ripugna. - Ormai però siamo arrivati ad un punto di non ritorno e poi guarda che bisogna salvare l’Italia con
un’azione scioccante che traumatizzerà l’opinione pubblica, specie se sarà accompagnata
dall’attentato in Parlamento, per cui non abbiamo né i mezzi tecnici, né quelli finanziari per
affrontarlo; per il primo obiettivo siamo attrezzati, in quanto abbiamo l’arma per farlo.- Talvolta ho dei forti dubbi, in quanto gli altri politici non sono di molto migliori di lui, anche se
egli con la sua megalomania ha accelerato il degrado di tutta la classe politica, in atto già da tanto
tempo. Ormai essa è sorda e cieca e non vede che sta ballando irresponsabilmente sull’orlo di un
baratro dove precipiterà prima o dopo.- È così purtroppo e noi dobbiamo aiutarla a farla risucchiare dall’abisso predisposto da tempo. - Infatti è noto che essa è autoreferenziale, bada unicamente ai propri interessi e mentre gli altri
muoiono ormai di fame, specie nelle grandi città, essa predispone vantaggi sempre più vergognosi
per se stessa. - Infatti, in prospettiva quelli che smetteranno di lavorare per anzianità di servizio o per raggiunti
limiti d’età, percepiranno una pensione più magra, mentre essi ancora non hanno rinunciato ai
propri privilegi e con meno di una legislatura interamente fatta, mi riferisco ai parlamentari,
usufruiranno di una pensione; pertanto per essi non bisogna avere rimorsi. Orsù andiamo a provare
il fucile, anche se abbiamo solo cinque colpi. - Il signore dei servizi mi ha lasciato duecento che ho nascosto in un altro pezzo di terra di mia
proprietà. - Allora siamo a posto! - Prendi quella casseruola che l’usiamo come bersaglio. - No, no, ci cucinava mio padre quando pernottava qui a curare una vigna di cui non è rimasto
nessun segno, tranne quel palmento laggiù, scavato nella roccia.- Va bene, prendi allora un frammento di tegola e vai a segnare sulla parete d’arenaria che abbiamo
di fronte tre cerchi concentrici con un puntino nella parte centrale e poi vieni qui che cominciamo. - Sparo io per primo, ma osserva come faccio. –
Appoggiò alla spalla destra il calcio del fucile, mise avanti il piede sinistro di mezzo passo rispetto
al destro, fece pressione con delicatezza sul grilletto, poi mirò, trattenne il respiro, aumentò la
pressione sul grilletto e sparò. Si sentì solo un sibilo lieve, quasi un fruscio, in quanto l’arma era
dotata di silenziatore. Isidoro andò a vedere ed il colpo era andato due centimetri sopra il centro.
- È andata non bene in quanto stiamo sparando a meno di cinquanta metri e due centimetri di errore
a questa distanza, può significare un fuori bersaglio sui duecento. - Vieni tu ora. Gli fece imbracciare il fucile, gli raccomandò di far coincidere il punto centrale della crocetta del
mirino telescopico con il centro del bersaglio, poi lo lasciò fare ed il colpo con un fruscio partì, ma
andò addirittura di qualche centimetro fuori del limite del bersaglio.
Riprovò ancora una volta Teodoro e questa volta centrò il bersaglio.
Toccò ancora una volta ad Isidoro, che seguì con più cura le raccomandazioni dell’altro, lasciò
partire il colpo e questa volta colpì la parte interna dell’ultimo cerchio del bersaglio.
Utilizzò l’ultimo proiettile Teodoro che non mancò il centro.
- Per oggi abbiamo finito perché abbiamo terminato i proiettili. - Se vuoi resti stanotte in una mia casina vicino al mare e così domani ricominceremo. -
- Va bene accetto. - Stasera sei invitato a casa mia, per la cena. Prima di partire Isidoro scavò con il piccone una lunga buca nel terreno e vi collocò il fucile con la
custodia. La ricoprirono poi con molta cura, uscirono dall’anfratto e rimisero a posto le sei pietre
rettangolari e tutto tornò come prima.
Al mattino molto presto ripresero ad allenarsi, ma prima erano passati nell’altro nascondiglio e
prelevarono 30 proiettili.
Si allontanarono dal bersaglio, dopo aver contato 120 passi.
Toccò prima a Teodoro, che mancò il centro per meno di un centimetro, provò poi Isidoro che
miracolosamente colpì l’ultimo cerchio che conteneva il centro del bersaglio.
Nei tiri successivi Teodoro solo una volta mancò di poco il centro, mentre Isidoro solo una volta
andò fuori dal cerchio più interno, mentre per ben due volte colpì il centro. Era visibilmente
soddisfatto e sentiva che ce l’avrebbe fatto a colpire un uomo ad un centinaio di metri di distanza.
Nascosero il fucile, rimisero al loro posto le pietre e si allontanarono, dirigendosi verso la marina
dove si salutarono, ma prima di farlo Isidoro gli raccontò del basamento del tempio ellenico in
contrada Palazzo e della grotta sottostante, contenente dei reperti archeologici.
Teodoro espresse il desiderio di visitare il posto ed Isidoro promise che l’avrebbe accompagnato,
per cui fissarono la data per il 20 di settembre.
A partire dal 16 settembre cominciò a piovere con inaudita violenza e l’estate improvvisamente finì.
Ancora le fiumare, non ancora ricaricate e sature d’acque fin in profondità, apparivano asciutte,
mentre i terreni non assorbivano più acqua per la quantità enorme che cadeva. Le colline ovunque
erano ferite da numerosi smottamenti e le strade risultavano pericolosamente percorribili per la
melma che le ricopriva in parte.
La data del 20 saltò per il maltempo e solo attorno al 25 ci fu una stasi del maltempo.
Il 26 prestissimo Isidoro partì portandosi dietro l’occorrente per scendere nella grotta, ma in
aggiunta si portò un sacco a pelo ed un plaid di lana per uno strano presentimento. Sulla linea infatti
dell’orizzonte verso il mare aveva intravisto, tra i chiarori incerti dell’alba una linea ininterrotta di
nuvole nere, che secondo le tradizioni popolari potevano presagire tempesta.
Arrivati a Caulonia Marina, avrebbero potuto puntare diritto verso Ursini e poi proseguire verso
contrada Palazzo, ma Isidoro temeva che il suo compagno di viaggio avrebbe potuto rivelare il sito
dove riposava protetto dalla segretezza da oltre duemila anni, un Zeus fulminante. Pertanto continuò
per Riace, lambì Camini poi attraversò Stilo e Pazzano, procedendo sulla statale per le Serre, poi
improvvisamente, dopo 5 chilometri circa proseguì per Petra a dopo aver attraversato il Precariti si
diresse verso contrada Palazzo. Teodoro si meravigliava per i tanti andirivieni e guardava a destra e
a manca e leggeva ad alta voce i nomi delle località segnalati dai cartelli stradali. Finalmente
arrivarono, ma la macchina per precauzione, non fu portata vicino al traliccio dell’alta tensione, ma
fu lasciata ai bordi di una sterrata, cosparsa di pietrisco, nei pressi della provinciale; infatti nel caso
fosse sopravvenuta la pioggia come si prevedeva, l’automobile non sarebbe rimasta bloccata nella
sterrata divenuta scivolosa.
Presero tutto l’occorrente, compreso il sacco a pelo ed il plaid e cominciarono a camminare verso il
posto prefissato. Appena arrivarono Teodoro guardava in tutte le direzioni, ma l’unico punto di
riferimento poteva essere rappresentato dal mare, che ad oriente s’intravedeva oscuro, coperto da
nubi minacciose. Infatti verso nord delle colline boscose, oltre lo strapiombo, coprivano la visuale,
mentre a sud e ad ovest faceva altrettanto una macchia rada di lentischi.
Erano ormai le nove e velocemente legarono le cime della scala di corda ai soliti arbusti e
cominciarono a scendere lentamente a turno e in silenzio, nel timore che dalla parte sottostante ci
fosse qualche pastore. Entrò per primo Isidoro e si trovò davanti gli scheletri dei due giovani e con
sorpresa udì un vocio proveniente, evidentemente da una caverna accanto, attraverso una fenditura
della roccia. Ritornò verso Teodoro che si apprestava ad entrare e gli fece segno di non fiatare ed
egli appena fu dentro, capì il motivo.
La fenditura cominciava a circa un metro e cinquanta da terra e continuava fino alla sommità. La
parete divisoria era spessa più di un metro e la spaccatura era larga circa tre centimetri; la parte da
cui venivano le voci, era protetta dal buio quasi completo. Isidoro si avvicinò con un occhio alla
fenditura e si predispose a guardare e ad ascoltare; Teodoro con la sua imponente mole, fece
altrettanto con facilità perché lo superava in altezza con tutta la testa.
A sei metri circa di distanza da loro, vicino ad una strettissima finestrella sullo strapiombo era stato
ricavato un lungo tavolo con degli assi ed accanto ad esso erano sistemate delle sedie pieghevoli di
plastica bianca. La grotta era più ampia di quella dove si apprestavano ad origliare i due ed al centro
di essa, verso est si vedeva chiaramente il cunicolo, tramite cui erano entrati e che sboccava a circa
trecento metri di distanza; era lo stesso osservato da Isidoro e che comunicava con un pianoro ad
una certa distanza dalla caverna.
Erano una quindicina di persone, per lo più anziani ed aspettavano delle altre, che sarebbero arrivate
a breve dalla Locride meridionale.
Dopo appena dieci minuti infatti arrivarono quattro persone, un giovane e tre anziani, che appena
entrati si tolsero di dosso la polvere, specie il giovane elegantemente vestito. Isidoro riconobbe
subito in lui il ragazzo che aveva incontrato alla stazione di Milano e che era dotato di un portatile.
Ci fu un coro festante ed il centro dell’interesse fu rappresentato fondamentalmente dal giovane,
che cercava di salutare solamente con delle strette di mano, adducendo la scusa di una violenta
influenza in atto in quei giorni, ma ad un certo punto il più vecchio dei presenti, un tal D’Agostino,
l’avvinghiò e lo baciò ripetutamente dicendo: questo è per il buon’anima di tuo padre, questi due
sono per i buon’anima di tuo nonno materno e di suo figlio, questo è per il buon’anima di tuo nonno
paterno, questo è per il buon’anima del tuo prozio, Giuseppe Belfiore e questo è per te Francesco. E
lo baciò all’angolo della bocca.
- E l’influenza è assicurata. - Disse il giovane e tutti quanti risero in coro.
- Bello mio sta tranquillo, a quest’età, a novantadue anni suonati, non ho mai avuto un raffreddore. A questo punto Francesco, in modo rituale baciò tutti gli altri, al pari degli altri tre, che lo fecero
con sussiego ed impegno.
Chiaramente era una riunione di ndranghita che doveva stabilire qualcosa di importante e che
coinvolgeva le cosche più legate tra loro da interessi e da parentela.
La parola fu data a D’Agostino, in qualità di membro più anziano dei presenti.
- Amici carissimi sono onorato nel guidare la presente adunanza fatta di esponenti delle famiglie più
oneste del nostro territorio che si distinsero sempre per il loro comportamento aderente ai principi
più santi della nostra società. Io stesso ho voluto scegliere i nominativi che indicano chiaramente la
virtù a cui ciascuno di noi aspira. Voglio ancora ricordare ciò che significava andragatìa; essa
indicava il fiore degli uomini che rifiutavano il male, ossia il furto, la violenza, l’arroganza, la
prepotenza. L’uomo virtuoso doveva difendere i deboli, i poveri, gli oppressi, gli orfani.
Nel passato essa si era battuta contro i pirati turchi che arrivavano, incendiavano, uccidevano e
rubavano i giovani; essa inoltre vigilava a che non ci fossero traditori che indicassero ai turchi i
paesi da colpire; essa era la difesa delle giovani povere e belle che venivano sedotte con la violenza
dai ricchi prepotenti. Naturalmente i tempi cambiarono ed esseri spregevoli snaturarono questi
principi. L’andragatìa, specie dopo la seconda guerra mondiale mutò e fu prevaricata da persone
senza scrupoli, ladri, violenti, ipocriti, seminatori di discordie.
I presenti in parte aderiscono ai principi antichi, a cui bisogna ritornare se non si vuole perire. Le
famiglie qui rappresentate, non hanno mai praticato il furto, non hanno preso parte ai sequestri di
persona, non hanno trafficato in droga, non hanno avvelenato il nostro territorio con i rifiuti tossici.
Certamente, quando ne valeva la pena, hanno curato il contrabbando di sigarette, hanno accettato
offerte in denaro per aiutare i parenti in carcere e poi, senza prevaricare nessuno, hanno lavorato
onestamente nel settore dell’edilizia e di quello dei lavori pubblici. I soldi così onestamente
guadagnati, spesso sono stati reinvestiti specie nei settori del commercio e del turismo.
Naturalmente accanto al fiore dell’andragatìa ci sono quelli che hanno deviato dalla retta via attratti
dai soldi, tanti soldi e ciò ha provocato fiumi di sangue nelle nostre terre.
Quelli che hanno preso vie diverse sono straricchi, ma spesso cadono nella tentazione di prevaricare
gli altri, in virtù del loro denaro e periscono, combattuti dai propri consimili e dallo Stato. Noi che
rappresentiamo in parte le antiche virtù, dobbiamo stare uniti, aiutarci reciprocamente, investire con
saggezza i nostri risparmi per aiutare la nostra povera terra. Abbiamo di fronte dei pericoli nuovi
costituiti dai desideri del partito del Nord d’impadronirsi dei nostri soldi per cercare di tappare i
buchi della loro cattiva amministrazione.
Inoltre c’è la tentazione da parte dell’uomo che guida l’Italia, di non mantenere le promesse fatte,
ossia di limitare le carcerazioni e di non privarci dei nostri sudati capitali. Eppure c’era stato
promesso l’eliminazione del 41 bis, per cui tanti di noi stanno soffrendo nelle carceri. Molti beni,
contrariamente alle promesse fatte ci sono stati tolti e pubblicamente si vantano che ci faranno una
guerra tanto dura, da portarci alla rovina totale. Io vi ricordo che le parole dette contano, perché
offendono e non è tollerabile metterci in ridicolo agli occhi della gente, specie di quella che crede in
noi. Le parole prudenti e di pace di D’Agostino furono accolte con il totale assenso dei presenti, che
furono invitati ad ascoltare il secondo personaggio, che si preparò a parlare.
- Nonostante che la famiglia che guido con onore, non ha mai preso parte ad azioni infami, quali
furto, sequestro di persone, traffico di droga, da alcuni anni è sottoposta a persecuzioni da parte
dello Stato. L’uomo che ci governa ci aveva promesso mari e monti ed invece quotidianamente ci fa
degli affronti gravissimi, in quanto aspira ad impossessarsi dei tesori di noialtri “uomini”. Su
indicazioni della D.I.A. molti dei miei sono stati privati della libertà, dopo tante vite perdute per
inimicizie accese da infami capaci solo di preparare “tragedie”. Alla mia “famiglia” sono stati
sequestrati beni per tre milioni di euro e confiscati altri per due milioni. Nonostante ciò assieme ad
altre due “famiglie” vicina alla mia, abbiamo raccolto un milione di euro e lo mettiamo a
disposizione di tutta la “società” per il progetto di cui in seguito parlerà Francesco. Il terso oratore parlò a nome di due “famiglie” legate da vincoli di sangue e di matrimoni e lamentò
il tradimento dell’uomo che aveva garantito per tutti gli “uomini” della ndranghita, la possibilità di
lavorare in pace e in tranquillità in Calabria e altrove. Decine di arresti li avevano profondamente
umiliati e nell’adunanza portavano un contributo di un milione di euro.
Parlarono altri in nome delle proprie “famiglie” con discorsi dello stesso tenore e alla fine offrirono
un contributo per un progetto forse da portare avanti a breve o da dilazionare nel caso non fossero
state mantenute le promesse fatte.
Il discorso più importante lo fece Francesco Belfiore, che quando cominciò volle sedersi accanto a
D’Agostino e tenergli una mano stretta nella sua destra.
- Fratelli, molti dei miei cari non ci sono più e mi sono seduto accanto a Peppino D’Agostino perché
egli mi ha baciato sei volte, ma cinque di quei baci onorarono cinque miei congiunti, che ci hanno
lasciato, di cui quattro furono ammazzati. Mio padre fu ucciso perché si opponeva a coloro che
portarono rifiuti tossici nella nostra sventurata terra, mio zio materno e mio nonno, furono uccisi
perché si opposero ad un sequestro di persona, il mio adoratissimo prozio, Giuseppe Belfiore fu
ucciso perché, cercava di portare la pace tra due “famiglie” in guerra, mio nonno paterno morì nel
suo letto, disperato, perché impedito dalla malattia, non aveva potuto consumare legittime vendette.
Mio padre mi lasciò quando avevo meno di dieci anni e fui mandato a studiare da mia madre in una
prestigiosa scuola all’estero. Mi laureai in economia alla Bocconi e poi frequentai diversi masters
all’estero, tra cui uno all’Imperial College di Londra. Proprio in questa città conobbi la ragazza che
sposai, che insegna ora in un’università svedese. Vi racconto queste cose non per vantare i miei
successi nella vita, ma per evidenziare le rinunce che feci, per i motivi di cui parlerò in seguito.
Dopo severissime selezioni, fui assunto nel F.M.I., dove lavorai per alcuni anni e dove conobbi i
meccanismi che regolano i rapporti finanziari internazionali. Ero ritenuto efficientissimo, per cui
avevo cominciato a fare carriera, con prospettive di diventare manager ed essere gratificato con uno
stipendio da favola. Lavoravo a Londra e già guadagnavo più di 100.000 sterline all’anno, ma
ritornando in Calabria, come tutti gli anni, promisi a mio nonno paterno, prima che morisse, di
mettere a disposizione di alcune “famiglie” amiche e corrette, le mie conoscenze tecniche nel
campo degli investimenti.
Abbandonai così il mio prestigioso posto di lavoro, con grande rammarico di mia moglie e
particolarmente di mia madre. Cominciai a manovrare somme vostre notevolissime, che investii in
modo vario. Comprai per voi titoli di stato, azioni di importanti industrie europee solide ed attive,
immobili in paesi europei sicuri quali il Belgio, l’Olanda, la Germania, attività commerciali sempre
nei più prosperi stati della comunità europea, addirittura villaggi turistici in Portogallo ed in Spagna.
Ho sempre evitato investimenti fantasiosi e privi di fondamento quali furono i prodotti derivati ossia
pacchetti di debiti rifilati dalle banche agli sprovveduti. Non vi ho mai fatto perdere un solo
centesimo.
Quando in giro si disse che alcune “famiglie” avrebbero guadagnato di più con alcuni prodotti
finanziari, consigliati da super esperti, vi dissi che gli esiti li avremmo visti ai fatti. In breve poi,
quando scoppiò quella che chiamarono bolla speculativa, ingenti capitali furono persi, in seguito al
fallimento di alcune banche, specie in America, Irlanda e Inghilterra. È sotto gli occhi di tutti la fine
che hanno fatto le iniziative turistiche connesse appunto ad investitori inglesi ed irlandesi. Questo è
il resoconto sul piano finanziario ossia dei soldi, parlando terra terra, su quello politico la situazione
è tragica in Italia ed anche di conseguenza per le “famiglie” calabresi.
A breve si voterà un provvedimento per favorire il rientro dei capitali, ma io già vi consiglio, di
lasciarli all’estero; infatti l’operazione di legittimazione di risorse finanziarie è possibile portarla
avanti, pagando il dovuto, che non è molto, lasciando i soldi là dove sono. Del provvedimento,
voialtri avrete dei benefici, ma è stato fatto, per i grandi evasori fiscali del Nord, che hanno portato
l’Italia sull’orlo del fallimento.
L’attuale classe dirigente è costituita da straccioni e da analfabeti, sul piano della preparazione
tecnica ed amministrativa. Infatti ho constatato che alcuni ministri, dalla competenza di lavacessi, si
avvalgono, per far funzionare i loro ministeri, di schiere di esperti esterni. Sul piano dei
provvedimenti hanno puntato tutto sullo sfruttamento dei lavoratori ed i ricchi non pagano più
neppure un centesimo di tasse, mentre miliardi di euro sono stati destinati alle cordate di amici loro.
In riferimento alle promesse fatte prima delle elezioni, fu preparato un tavolo di lavoro e di
trattative, in un albergo della Costa Azzurra, predisposto dai nostri amici del Ponente ligure, per le
“famiglie” calabresi.
Vi partecipai in qualità di esperto finanziario, con delle proposte operative, promettendo l’impegno
di nostri capitali, a favore di tutta la costa ionica del Reggino.
Gli emissari, ad altissimo livello del “Grande Lavandaro”, che si è arricchito facendo il candeggio
delle risorse dei siciliani, dei calabresi e dei napoletani ci fecero le seguenti promesse che ho
appuntato in questo taccuino: abolizione del 41 bis, limitazione drastica della legge sui pentiti,
abolizione o almeno forte limitazione dell’uso delle intercettazioni telefoniche. Sul piano dei nostri
interventi finanziari sul territorio ci assicurarono ampie possibilità di manovra, in quanto noi
avremmo avuto la funzione dei grandi istituti finanziari e saremmo stati di volano allo sviluppo
della Calabria, che avremmo trasformato in una piccola California, puntando sul turismo,
sull’agricoltura specializzata, sulle opere strutturali della regione.
Mi ricordo pure di un particolare, riferito da uno degli emissari, ligure mi pare. Egli affermò a più
riprese che noi saremmo stati come i grandi fuorilegge del Texas, a cui nell’800 furono conferiti
tutti i poteri dal governo federale americano, per riportare l’ordine nello stato, attraverso
l’eliminazione violenta di chi si opponeva al progetto di riportare la legalità, ossia attraverso gli
assassinii di banditi da parte di altri banditi; e così avvenne, raccontava.
Ritornando ai nostri problemi, l’estate scorsa, che è finita a quanto pare, perché è in atto un violento
temporale, percorrendo la costa ionica ho constatato che i villaggi turistici, che stavano per essere
costruiti con le nostre risorse, sono stati miseramente abbandonati, perché i conti in banca dei nostri
sono stati bloccati e perché sono in atto indagini della magistratura. Intanto sono stati utilizzati, al
momento inutilmente, milioni di euro. Di chi è la responsabilità di tutto ciò e dove sono andate a
finire le promesse fatte? Non mi ricordo se abbiamo parlato di questo, ma in certi ambienti della
Lombardia, vicini al partito del Nord, si vocifera a mezza bocca, che il governo, a corto di risorse,
voglia impadronirsi delle risorse degli amici siciliani, napoletani e di noialtri calabresi. In
prospettiva diventeranno operativi dei decreti legge e saranno approntate delle rogatorie
internazionali per confiscare i nostri capitali nelle banche europee o in quelle dei paradisi fiscali.
Nel caso si dovesse arrivare a questo disastro la nostra risposta sarà immediata contro lo Stato, che
più di una volta è stato aiutato dai miei famigliari. Ricordo il caso più eclatante, durante il sequestro
Moro, quando uno della mia famiglia fu in via Fani, in funzione antibrigatista ed essa svelò, dopo
una breve ricognizione in città e tramite degli informatori fidatissimi, che l’onorevole Moro si
trovava prigioniero in via Montalcini 8.
I dirigenti democristiani, di più alto livello, avvertiti, fecero finta di non sentire, per i motivi che noi
ormai sappiamo e Moro fu ucciso.
Nel malaugurato caso, ripeto, che si arrivi a quanto si vocifera in giro, la nostra risposta sarà
implacabile. Il parlamento salterà in aria, il “Grande Lavandaro” e la sua famiglia saranno tutti
trucidati. Qui in contanti saranno conservati, 5 milioni di euro, io ho portato degli altri in aggiunta a
quelli menzionati prima, in due valigette che poggeremo in quell’angolo buio di destra e non
saranno gli unici. Sono stati predisposti altri due depositi in caverne dell’Aspromonte. Qui dentro in
quelle cassette all’angolo buio di sinistra ci sono 2 quintali di TNT con numerosi detonatori
elettrici, esploditori, telecomandi .. - E che è Francesco? – Gli domandò D’Agostino.
- Esplosivo. - … ed inneschi. Inoltre qui saranno conservati quattro bazooka e due carabine ad altissima
precisione ed un vecchio, ormai, stinger - Fratelli ho terminato, vi ringrazio per il vostro affetto e l’attenzione. Mi dimenticavo; l’accesso là
sul pianoro sarà ostruito con un enorme cumulo di massi, che sarà cementificato. È pronta una ruspa
e più tardi arriveranno le betoniere con il cemento. Abbiamo misurato questa finestrella ed è larga
23 centimetri, la parete su cui è stata aperta è spessa due metri ed è collocata a quasi cinque metri
dall’orlo del precipizio. Freneticamente cominciarono a lavorare per custodire quanto avevano portato e dopo meno di
mezz’ora furono pronti ad andare via. Da lì a poco sentirono i rumori di una potente ruspa che
evidentemente accatastava massi, all’imboccatura del cunicolo. Più tardi sentirono rumori di mezzi
pesanti; forse erano le betoniere che cementavano i massi. L’accesso ad uno dei covi della
ndranghita era praticamente tappato.
I due nella grotta sottostante il tracciato del tempio, quando furono sicuri di essere soli,
commentarono sbalorditi quanto avevano sentito, mentre restarono intrappolati dentro in attesa che
la furiosa tempesta d’acqua cessasse e desse loro la possibilità di uscire ed andare via. Teodoro
guardava l’acqua che scendeva ininterrottamente ed i due scheletri sulla lastra, che orientati con i
teschi verso la finestra, sembrava che osservassero a loro volta la pioggia. In un angolo c’erano
mucchi di foglie secche, portate dal vento, attraverso l’apertura sulla parete, chissà quando.
Cominciò a raccogliere una parte e a sistemarle a mo’ di materasso e poi si avvolse nel plaid e si
adagiò sopra.
- Adoro dormire quando piove, perché la pioggia mi concilia il sonno. Se non vuoi fare altrettanto
svegliami quando spioverà e così ce ne andremo. Io ho il sonno molto duro e sarei capace di
svegliarmi domattina. Erano ormai le quindici e l’acqua non smetteva di cadere a scrosci; il vento sibilava tra le rocce ed
incurvava i rami degli alberi che Isidoro guardava giù nella vallata, mentre sentiva uno stridio dai
due lecci divaricati, provocato forse da stecchi secchi che facevano frizione tra di loro. Non
avevano portato da mangiare ed aveva un po’ fame, ma l’affliggeva piuttosto la sete; infatti la
bottiglietta da mezzo litro ormai l’aveva terminata. Allora di essa tagliò la parte superiore e poi
sporgendosi all’esterno, l’incastrò tra due travi. Si annoiava a morte e andò ad ammirare lo Zeus
fulminante, che accarezzò nel volto e poi le MGS, mentre Teodoro ronfava.
Non trovando niente da fare prese la piccola cazzuola ed in un angolo vicino alla parete divisoria tra
le due grotte, cominciò a ripulire del terriccio il pavimento, nella speranza di trovare qualche
frammento di vaso. Ad un certo punto l’attrezzo restò impedito da qualcosa ed allora con più
impegno e più attenzione si mise a ripulire la parte ed apparve un grosso anello di bronzo, fissato
tramite un grosso chiodo, pur’esso di bronzo, al centro di un riquadro di circa 70 cm. di lato. Tolse
il terriccio attorno agli interstizi di ciò che sembrava una botola e poi si mise a tirare e dopo molti
tentativi riuscì a smuoverla e a tirarla su.
Apparve una buca ed allora prese la torcia elettrica che aveva nel borsone e l’illuminò. Con cautela
scese dentro ed il corpo gli restò fuori dal petto in su. Si abbassò e constatò che un cunicolo si
dirigeva verso est, in modo non rettilineo. Con non poca ansia, mista a paura, in quanto soffriva di
claustrofobia, cominciò a percorrere il cunicolo che si fermò di fronte ad una lastra quadrangolare,
un po’ più piccola della botola. Lateralmente ad essa c’erano quattro passanti di bronzo, poggiati
alle pareti e posti in canalini adeguati, che penetravano la lastra, su cui, al centro, era conficcato un
anello di bronzo, simile a quello della botola.
Dopo svariati tentativi fu capace di tirare i passanti e spingendo smosse la lastra verso l’esterno e si
trovò al bordo del camminamento, debolmente illuminato, che portava alla seconda grotta, che
ammirò voltandosi indietro, dove entrò, facendo tre scalini; infatti la caverna era rialzata rispetto
alla lastra di circa 80 cm. Puntò la torcia agli angoli, dove vide tre valigette in quello di destra e
cinque contenitori metallici in quello di sinistra.
Fece dei velocissimi calcoli mentali e ritornò indietro, dove ritrovò Teodoro che dormiva
beatamente. Guardò fuori e si accorse che la pioggia era diminuita d’intensità e velocemente svuotò
il borsone di tutto il contenuto che ripose sulla lastra accanto agli scheletri. Con esso ritornò nella
seconda caverna ed illuminò le tre valigette, che erano chiuse semplicemente con una cerniera.
L’emozione era tale, che temeva che il cuore non gli reggesse più. Aprì una e la vista gli si
annebbiò trovandosi di fronte a tante mazzette costituite da banconote di 500 euro. Il respiro gli
veniva meno per cui si avvicinò alla finestrella ed aspirò aria avidamente.
Ritornò poi alle valigette e contò le banconote di una mazzetta: erano cento. Cominciò a prenderne
e a collocarle ordinatamente nel borsone. Ne prelevò dalle tre valigette in tutto trenta, per un valore
di un milione e mezzo di euro. Risistemò le mazzette nelle tre valigette, allargando quelle di sotto,
per evitare che si notassero quelle mancanti e poi ritornò nella prima caverna, dove sopra le
banconote mise una vecchia rivista di archeologia che aveva nel borsone, assieme alle altre cose e
sopra sistemò il binocolo, il coltello, un cacciavite, una tenaglia, mentre la piccola cazzuola e il
cellulare non fu capace di collocarli, assieme ad un rotolo di nastro adesivo ed altre cianfrusaglie.
Tranne il cellulare e la piccola cazzuola buttò tutto attraverso l’apertura nella parete. A questo punto
svegliò Teodoro e gli raccontò che aveva trovato un passaggio segreto verso l’altra grotta,
evidentemente una via di fuga ideata quando erano stati scavati i due vani sotterranei.
Teodoro si alzò in piedi immediatamente ed invitò Isidoro a precederlo. Appena furono dentro la
seconda grotta si fece consegnare la torcia elettrica ed ispezionò prima i contenitori metallici, dove
constatò la presenza d’esplosivo e di ciò che era necessario per confezionare degli ordigni, gli
imballaggi che conteneva, le altre cose, fucili e poi le valigette. Alla vista delle mazzette sbiancò in
viso e per evitare uno svenimento andò a respirare aria più fresca alla finestrella.
- Dunque Isidoro, qui abbiamo l’occorrente per portare avanti il progetto e punire in modo feroce la
nostra immonda classe politica, fermo restando che non cambieremo idea sull’Uomo-Fogna, che
deve essere tolto di mezzo. Il difficile è trovare chi metterà una carica esplosiva in uno dei due rami
del parlamento, o a Palazzo Madama o a Montecitorio. Io nel frattempo prenderò il materiale, con
cui preparerò tre ordigni esplosivi, che tu conserverai. Vai a prendere il sacco a pelo, dove
metteremo l’esplosivo, i detonatori, gli inneschi, i timer, gli esploditori, i telecomandi. –
Isidoro fece in un baleno e ritornò con il sacco a pelo.
- A proposito poi dei soldi, tu che ne pensi? –
- Io sono indifferente ai soldi – mentì Isidoro.
- Come mai? –
- Boh –
- Io vorrei prenderne un po’; mi potrebbero fare comodo. –
- Fai bene. –
- Ma tu non ne vuoi una piccolissima parte? –
- No, no, ti dico! –
- Mi metti in crisi e mi sembra di passare per ladro, ma ricordati che non è peccato rubare ai
criminali. –
- Sono convinto. –
- Allora approfitta! –
- No, non m’interessano i soldi. –
- Strano, uno dei piemontesi, che sono ritenuti tra i più onesti d’Italia ruberà e uno dei calabresi,
considerati tra i più ladri, ometterà di farlo; arrossisco solo a pensarlo. –
- Guarda fai come vuoi. –
- Ne prendo un po’. –
E prese solo quattro mazzette, riordinando le rimanenti. Scelse poi opportunamente il materiale per
preparare tre cariche esplosive, mettendolo nel sacco a pelo e poi si prepararono ad uscire.
Isidoro appena dentro il cunicolo riordinò la lastra dall’interno, con l’uso dei passanti e rientrati
nella prima grotta, risistemò la botola, coprendola di terriccio. Ormai aveva smesso quasi di
piovere, ma nubi cariche d’acqua non promettevano nulla di buono, per cui si affrettarono a partire,
tanto più stavano calando le ombre della sera. Uscì prima Teodoro che salì con il sacco a pelo, poi
Isidoro uscendo baciò i teschi dei due ragazzi, buttò giù la piccola cazzuola che non aveva dove
riporre, si lavò le labbra con l’acqua piovana caduta nella bottiglietta, che schiacciò ed infilò in una
tasca e poi si apprestò a salire tramite la scala di corda. Restando sul primo piolo di essa, scaraventò
giù le tre travi di castagno e poi finalmente salì.
- Addio Zeus fulminante, addio ragazzi, di sicuro io non verrò più a farvi visita; non sarà salutare. –
Appena fu sull’orlo del precipizio tentò di slegare la scala di corda, ma l’acqua piovana l’aveva resa
rigida, per cui fu costretto a tagliarne i capi legati agli arbusti. Fece una cinquantina di metri e tagliò
a pezzi la scala stessa e così ridotta la buttò nel precipizio; così facendo aveva cancellato i segni del
loro passaggio. Camminava Isidoro con il borsone a tracolla ma sistemato davanti; gli scendeva fino
allo stomaco e lo teneva abbracciato come si fosse trattato di una dolcissima amante.
Arrivarono appena in tempo alla macchina, perché un acquazzone furioso arrivò, accompagnato da
tuoni e fulmini. Il buio della sera era già calato, ma era stato reso nero come la pece da nuvole
immani e basse. Furono costretti ad un’andatura lentissima, in quanto la strada, piena di buche, era
resa incerta da quantità di acqua spropositata. Il cielo livido era attraversato dalle linee
asimmetriche dei fulmini, che illuminando tutto, mostravano all’improvviso i contorni delle
montagne lontane.
Isidoro non usò precauzioni per il rientro, tanto più che Teodoro, non avrebbe più osato fare ritorno
in Calabria, dopo il furto alla ndranghita,anzi quando arrivarono a Riace , volle velocemente
preparare la valigia. Mise a posto ogni cosa in casa, avvisò gli amici dei suoi ospitanti
dell’improvvisa partenza e arrivati poi al bar del paese, vicino al municipio, vi lasciò le chiavi della
casa e dell’automobile.
Ripartirono verso la marina e non parlarono per un lungo tratto.
- Stasera, se non ti dispiace dormirò nella tua casina al mare e stanotte ti preparerò le tre cariche. –
- Va bene. –
- Domattina prestissimo verrai e così le porterai nel tuo covo segreto, dopodiché andremo presso
un’agenzia di viaggio e se ci sarà un posto, nel pomeriggio mi accompagnerai in aeroporto. –
- Va bene, stai tranquillo. –
Tranquillo non era, con quello che aveva addosso. Era ansioso di portare quel bottino a casa e poi
pensava ad ipotetiche terribili ritorsioni che sarebbero arrivate dagli uomini dell’andragatìa.
- Dovremmo, ripeto per l’ennesima volta, trovare il modo di collocare una carica in uno dei due
rami del parlamento. –
- Studia tu qualche soluzione, mentre io farò altrettanto. –
- Cosa preferisci, Camera o Senato? –
- Io preferisco i fuochi d’artificio dentro il Senato per fare festa al suo presidente, che lo merita
perché è di fine intelligenza e di rara perizia politica. – Aggiunse ironicamente Isidoro.
- E faremo festa al tuo amato presidente del Senato. Senti mi avevi parlato di Villa Caristo. Non
l’abbiamo visitata. –
- Hai fatto appena in tempo a parlarne, in quanto fra qualche centinaio di metri, c’è l’indicazione
che la segnala a pochi chilometri. Te la illustro semplicemente dunque. È stata fatta costruire dai
Clemente, signori di Placanica, Stignano, S. Luca, Pentedattilo, alla fine del 700. Il padrone afferma
che è stata ideata da Vanvitelli, ma sicuramente è di scuola vanvitelliana. Ora è stata abilitata ad uso
agrituristico mentre vengono celebrati anche matrimoni pretenziosi nella cappella gentilizia situata
nella parte nord del complesso. Agli inizi dell’800, i marchesi Clemente impoverirono a tal punto,
almeno nel ramo che aveva fatto costruire la villa, che i loro eredi si ridussero a chiedere
l’elemosina a Napoli.
Un funzionario del Regno, Caristo, la comprò , con parte delle pertinenze agricole. Essa era dotata
di 365 statue marmoree, trafugate agli inizi del 900, dai nuovi ricchi, che abbellirono le loro dimore.
Sono rimaste solo due: una di fronte alla facciata, raffigurante Tancredi disperato, che reca sulle
braccia Clorinda morente; era la più pesante, quindi più difficile da trasportare. L’altra raffigurante
un Tritone ed è posta in una fontana monumentale in fondo al giardino all’italiana. Sotto la fontana
è ricavata una stanza, che secondo il racconto del proprietario era dotata di un letto, dove si
rifugiavano amanti clandestini, durante il gioco in promiscuità della mosca cieca, dove i toccamenti
erano conseguenza del gioco, ma consentiti agli aristocratici nel tollerante secolo XVIII. Man mano che percorrevano ormai la litoranea, Teodoro leggeva i cartelli con le indicazioni
turistiche e faceva delle domande.
- Su quella collina vedo un grande manufatto illuminato … - È il castello di Roccella, rimaneggiato varie volte, dalle dominazioni che si susseguirono, dai
bizantini, ai normanni, agli aragonesi, spagnoli, austriaci … - Ma che dici! Che c’entrano gli austriaci con l’Italia meridionale, scusa questa è grossa! –
- Facevo l’insegnante di lettere, buon dilettante di storia ed in qualità di ex-docente, pretendo ancora
di svolgere la mia funzione pedagogica, a questo punto nei tuoi riguardi. Dopo la fine dell’indecente
dominazione spagnola gli austriaci governarono l’Italia meridionale, con un’inversione di tendenza
in positivo, per pochi decenni, prima dell’arrivo dei Borboni, discendenti del re Sole, ma che erano
stati imposti sul trono di Spagna. –
- Mah, quando arriverò a casa mi documenterò … - Fai bene a farlo e così le vicende ti rimarranno più impresse nella memoria. –
Proseguirono in silenzio lungo la costa e ad un certo punto Teodoro lesse:
- Villa romana del Naniglio … che significa villa romana del piccolo nano? –
- L’indicazione turistica invita a visitare una delle tante fattorie rustiche, che i romani costruirono
tra il I ed il IV secolo d.C.. Esse rimasero attive per tutto il tardo antico, ossia fino oltre il VI secolo
d.c., producendo ed esportando i prodotti del territorio, specialmente vino. Naniglio deriva dal greco
ana + elios, senza sole, in quanto ciò che resta di essa è costituito dalle splendide terme abbellite da
mosaici, che sono al buio sotto l’antica strada che corre verso le Serre vibonesi. È ubicata a Gioiosa
Jonica e si pensa che sia stata devastata dal popolo germanico dei vandali, che partivano per le loro
incursioni dalle basi dell’Africa settentrionale, prima che fossero massacrati dall’esercito bizantino
di Belisario, all’inizio del VI secolo. –
Teodoro annotava qualcosa su un’agendina e non parlò per circa 20 chilometri.
- Villa romana di Palazzi di Casignana, lesse, parlami di questa. –
- Come ti dicevo, tutta la costa jonica della Calabria meridionale, fu prospera per tutto il tardo
antico e fino al periodo culminante della civiltà bizantina, quando cominciarono le incursioni
saracene ossia degli arabi stanziati nel Mediterraneo occidentale, che partivano dalla Sicilia dal IX
secolo in poi. Non tutta la Calabria si trovò in tale posizione privilegiata perché i longobardi del
ducato di Benevento attaccavano anche la parte settentrionale della provincia di Cosenza, dove
addirittura costituirono dei castaldati autonomi. –
- Anche nei meridionali ora c’è sangue longobardo! Vuoi togliere al capo del partito del Nord anche
questa soddisfazione! –
- No povera bestia, gliela lascio, ma ti voglio rammentare che mentre al Nord i longobardi furono
per buona parte annientati dai franchi di Carlo Magno, già alla fine dell’VIII secolo e all’inizio del
seguente, nel Sud sopravvissero in enti territoriali autonomi fino all’XI secolo quando si fusero con
i normanni originari della Norvegia e della Danimarca, trapiantati poi però nell’attuale Normandia
francese. Ti ricordo che Sichelgaita, la seconda moglie di Roberto il Guiscardo era longobarda,
imparentata con Guaimaro principe longobardo di Salerno. –
- Mah, allora ai militanti del partito del Nord cosa resta, che non hanno in comune con i
meridionali? –
- Sono un po’ migliorati nella loro conoscenza storica e hanno deciso di cambiare direzione e di
optare per i celti, di cui hanno studiato la storia ed hanno appreso che a partire dal V secolo a.c. o un
po’ prima, dilagarono nella Pianura Padana, espandendosi oltre il Po raggiungendo con le loro
incursioni addirittura Roma, che fu messa in serio pericolo. Non sanno però chi c’era prima nella
Pianura Padana, eccetto il Veneto. –
- Perché chi c’era? –
- Era abitata dai liguri, che furono massacrati e resistettero solo nelle regioni montuose della Liguria
e della Toscana settentrionale. Essi erano tenaci e bruni, perché erano originari dell’Africa
settentrionale. Infatti se vai nell’entroterra ligure troverai dei soggetti autoctoni molto bruni, dalla
pelle talvolta olivastra. Del resto i baschi, i sardi, i berberi e probabilmente anche i liguri
dell’entroterra, rappresentano ciò che resta degli antichi popoli del Mediterraneo.
Se tu osservi attentamente il capo storico del partito del Nord, ti accorgi come somiglia ad un
berbero o ad un abitante della Libia. Se ci fai caso somiglia molto a Gheddafi. - Vuoi scherzare? –
- Un po’ per sdrammatizzare. –
- Parlami della villa di contrada Palazzi e lasciamo perdere il precedente argomento. –
- Va bene. Essa era stata edificata su almeno 100.000 metri quadri e oltre la dimora padronale e del
fattore, vi erano gli alloggiamenti per gli schiavi che lavoravano almeno un migliaio di ettari di
terreno attorno, ma anche i laboratori sartoriali, la falegnameria, la fucina, i depositi per tutto quello
che vi si produceva. Era servita da un approdo da cui partivano le navi che portavano in mercati
lontani il vino, l’olio, il grano, ecc. Produceva enorme ricchezza deducibile dalla presenza di due
aree termali, abbellite da mosaici e da marmi pregiati provenienti dall’Oriente: le terme occidentali
e le terme orientali.
L’uso non era solo appannaggio del dominus, ma anche dei lavoranti. Probabilmente le terme
doppie stanno ad indicare la destinazione differenziata per gli uomini e per le donne; del resto il
cristianesimo sessofobico, si era ormai diffuso ampiamente.
Era in funzione persino una sauna, destinata ad eliminare dal corpo, attraverso il sudore le tossine
dovute ad errata alimentazione. –
- Sono stanco di sentire altro per oggi. –
- Va bene smetto, ma prima di dimenticarmi ti chiedo la cortesia di lasciarmi il cellulare che stai
usando, il cui intestatario non sarai certamente tu. –
- Eccolo, prendilo, ma che te ne fai? –
- Nel caso riesca a trovare un collaboratore per portare avanti il progetto sul senato, lo potrà usare
senza essere individuato. Tu te ne procurerai un altro intestato ad una persona diversa da te. –
Arrivarono alla casina di Isidoro e Teodoro scese portandosi dietro l’occorrente per preparare le tre
cariche esplosive.
- Domani andrò a comprarti un biglietto per il pomeriggio, solo che ti porterà a Roma e poi
raggiungerai Torino con un altro aereo. –
- Va bene, aspetta che ti do i soldi. –
- Me li darai domani, perché si è fatto tardi ormai ed il tempo volge ancora al peggio e sta arrivando
una tempesta. Buonanotte. La notte piovve ininterrottamente fino alle prime luci dell’alba, ma poi il sole si aprì un varco tra le
nuvole ad oriente e poco alla volta esse si diradarono e poi si dissolsero del tutto.
Isidoro comprò un biglietto aereo in un’agenzia e poi andò a consegnarlo a Teodoro, da cui ebbe gli
ordigni, dotati di telecomandi¸ si fece spiegare il funzionamento e poi raggiunse il covo segreto,
smosse le pietre, si aprì un varco e li collocò in un angolo; rimise tutto a posto e ripassò da Teodoro.
- Sono ormai le undici, se vuoi possiamo partire e mangeremo strada facendo qualcosa. –
- Va bene possiamo andare e se vuoi ti posso portare in un agriturismo, dove troveremmo forse
qualcosa di genuino da mettere sotto i denti. –
Partirono e prima di mezzogiorno raggiunsero un agriturismo, che visitarono e si predisposero a
mangiare sotto un pergolato da cui vedevano in lontananza Bova.
- Che paese è quello? –
- È Bova, che fu il centro più importante dei greci di Calabria, nelle cui contrade più isolate
parlavano il greco fino ad alcuni decenni fa. –
- Il greco, come mai? –
- Mi pare di averti già detto a proposito di S. Giovanni Theresti, che la Calabria fu parte integrante
dell’impero bizantino fino al 1060, quando si concluse la conquista normanna e la gente che vi
abitava era ellenofona e professava la religione greco-ortodossa. Per ordine del papato, di cui i
normanni si dicevano vassalli, iniziò la latinizzazione, sia sotto l’aspetto linguistico che da quello
religioso. I nuovi dominatori fecero affluire in Calabria gente dalla Normandia, dal resto d’Italia,
persino dalla Germania, coloni che inquinassero sia la lingua che la religione della Calabria e ci
riuscirono.
A proposito della Germania il conte Ruggero vi fece venire S. Bruno di Colonia, che costituì
nell’attuale Serra S. Bruno, la certosa di S. Stefano del Bosco; fu la seconda in assoluto in tutta
Europa. Essa è ancora molto attiva, anche se ha perso la ricchezza del passato basata su numerose
donazioni elargite a spesa talvolta della chiesa basiliana. I normanni, per loro convenienza, fecero
finta di seguire la volontà del papato, continuando ad erodere la posizione della chiesa ortodossa in
Calabria.
Tale collaborazione durò per circa 170 anni e cessò con lo splendido Federico II di Svevia, che
entrato in conflitto con la chiesa di Roma, privilegiò le comunità basiliane, che erano espressione
del rito greco in Calabria. Durissima fu la lotta tra Federico ed il papa.
La mancata acquiescenza al laido potere papale, costò caro a Federico, in quanto esso gli suscitò
nemici in tutt’Italia, compresi i comuni del Nord e sappiamo come andò a finire a Fossalta.
Finché fu in vita l’imperatore nessuno osò attaccare il suo fantastico regno, ma alla sua morte, il
papa con la pretesa che i territori che costituivano il regno di Sicilia, formassero un’entità
subalterna, o in vassallaggio della chiesa di Roma, “assegnò” il regno dei normanno-svevi a Carlo
D’Angiò, che vinse a Benevento Manfredi e poi a Tagliacozzo, Corradino di Svevia,
impadronendosi del Regno di Sicilia.
Nonostante le tante traversie la grecità resistette a Bova, talvolta rinvigorita da nuovi arrivi
dall’oriente durante l’avanzata islamica, prima araba e poi turca.
Il tempo passò ed il rito latino fu imposto ai greci di Calabria nel corso del XVI secolo, ma la lingua
continuò a sopravvivere nelle campagne, tra gli umili e gli oppressi, fino al tempo del fascismo.
Raccontava, il mio dolce amico, Bruno Casile, poeta contadino, che tentò fino alla morte di salvare
la lingua dei padri, che da bambino, quando la madre lo mandava a scuola nel paese, gli
raccomandava: “Bruno, ti prego, non parlare la nostra lingua perché i maestri ti puniranno e
potranno fare del male anche a noi”. In aggiunta all’azione demolitrice del fascismo i preti della
chiesa di Roma ogni domenica strepitavano dal pulpito e raccomandavano ai genitori di non far
parlare ai propri figli la lingua dei “rambali”, dei “tamarri”, ma piuttosto la lingua nobile di Dante.
La nobile lingua dei padri continuò a sopravvivere, secondo l’espressione di Bruno, “tra le capre” e
tra i rudi contadini. Nel frattempo erano arrivati degli studiosi, dalla Germania, tra cui Rohlfs, e
dalla Grecia e scoprirono che il greco di Calabria conservava elementi del greco classico, ma
fondamentalmente era la cataréusa, ossia la lingua nobile, contrariamente a quella che era parlata
dalla madrepatria, rappresentata dal demotichì, ossia la lingua popolare.
Bruno fu scoperto ed onorato da Pier Paolo Pasolini, riverito dal Ministro della Cultura Ellenica,
Melina Mercuri, che ogni anno si fregiava di farlo ospitare in Grecia.
Più di ogni parte della Grecia, amava Creta e raccontava un episodio illuminante. Un giorno ad
Heraclion si trovò a chiacchierare con una signora, su una panchina in un giardino pubblico e dopo
una lunga conversazione ella gli chiese da quale città provenisse e restò allibita quando seppe che il
suo interlocutore proveniva non da una comunità ellenica, ma da un villaggio sperduto della
Calabria.
Bruno continuò la sua lotta ma le “pale dei mulini a vento”, lo scaraventarono ogni giorno per terra
a mordere la polvere. Ed allora, dopo un furioso incendio che cancellò le piante millenarie collocate
nella sua “Cavalli” dai profughi di Caso, di Rodi e di Cipro, non ebbe più voglia di vivere. Si
ricoverò per un intervento alla prostata e si addormentò tra la desolazione di quanti lo conobbero,
rendendo più povera la sua Bova. –
Non parlò più Isidoro, perché la commozione lo interruppe e delle lacrime rigarono il suo volto. Il
suo compagno rispettò i suoi sentimenti e per un pezzo non gli fece delle domande.
- Senti, osò dopo alcuni minuti, vorrei visitare Bova. –
- Ti accompagnerò volentieri ed approfitterò dell’occasione in quanto dovrei ritirare da un mio
amico la traduzione nel dialetto romanzo di Bova, di una fiaba raccontatami 13 anni fa, prima che
morisse, da Bruno Casile. –
- Va bene, mangiamo in fretta, perché le cose che mi hai raccontato mi hanno molto incuriosito. –
In breve consumarono il pranzo e poi partirono, facendo la vecchia strada che, s’inerpicava tra
numerosi tornanti, dal mare a quota 900, per 14 chilometri.
- Conosci qualcuno che parli ancora il greco? –
- Ti farò conoscere il mio amico Bruno Traclò, che mi consegnerà la traduzione della fiaba e poi
Agostino Siviglia; Bruno è relativamente giovane e fa il dentista, Agostino non lo è più e appunto
per questo la sua conoscenza del greco è più profonda, perché possiede anche i termini del
linguaggio settoriale riferiti ai mestieri che non esistono più.
La macchina se la cavò egregiamente ed in meno di 20 minuti arrivarono nella piazza principale del
paese e posteggiarono. Teodoro ad un certo punto fu attratto da qualcosa d’insolito, costituito da
una vecchia vaporiera adagiata su un pezzo di binario.
- Dimmi, ma anche qui arrivava la ferrovia? Fino a quando i treni sono stati attivi in questo
territorio impervio? –
- Guarda che la ferrovia non c’è mai stata qui. –
- Ed allora che ci fa qui quella stupenda vaporiera? –
- Essa rappresenta un frutto amaro della politica democristiana. –
- Che significa? –
- Per vent’anni e passa questo paese fu amministrato dal sindaco Foti, che aveva forti agganci
nell’ambiente democristiano. Bastava che alzasse la cornetta del telefono ed in poco tempo
arrivavano dei fondi per tutto quello che egli proponeva.
Ad un certo punto ebbe un’idea balzana e propose al suo amico, Ludovico Ligato, presidente
dell’ente ferroviario dell’epoca, che gli regalasse il locomotore a vapore che vedi.
Foti ebbe bisogno di fondi, perché la vaporiera fosse trasportata sulla strada allucinante, che
abbiamo percorso e gli furono accordati; ebbe bisogno di un mezzo speciale e lo trovò, aveva
necessità di tecnici che predisponessero i binari su cui è stata collocata la locomotiva e li trovò … - Basta non voglio sentire più queste stronzate; in Italia bisognerebbe far funzionare per anni i
plotoni di esecuzione. Ti sembra il modo questo di servirsi dei fondi pubblici? –
- A me no, ma ai nostri politici comportamenti simili risultano normali, addirittura ovvii. –
- Mah … andiamo a trovare i tuoi amici. - Aspetta che telefoni a Bruno, ma devo trovare il suo numero segnato su un foglietto. –
Cercando tra i numerosi biglietti da visita che aveva nel portafogli, miracolosamente trovò un
piccolo foglio piegato in quattro, che aprendolo lo fece sorridere di gioia.
- Teodoro, guarda, leggi, è Bruno Casile che ci parla, che ci manda un messaggio! È l’ultima sua
poesia, inedita, di cui mi fece dono prima che morisse. È scritta in greco, ma è anche corredata della
traduzione in italiano. Ce l’ho in questo scomparto protetta dalla cerniera da 14 anni ormai. Il
portafoglio che l’ha contenuta per tanto tempo all’epoca l’avevo messo da parte, perché non mi si
adattava la patente. Da pochi mesi, rinnovandola e avendo ricevuto quella valida per tutta l’Europa
comunitaria, che è più piccola, ho ripreso ad usare il vecchio portafoglio e Bruno si è fatto vivo. –
- Fammi leggere:
“O chimóna i zoì
Ene chimóna, olo jénete tsichrò,
tsichrèni i elpìda tus áthrupu
tsichrèni to nerò sta riàcia
ti murmurízi catu stin vathía
tsichrèni to onirò ti nnista
ti o áthropo angaglíazi sto scotídi
tsichrèni cióla i cardíamu
den stipái pléo sto sternò
i zoímu jénete pago”. –
- Ma non capisco manco una parola! –
Per forza è un’altra lingua. Leggi la versione italiana.
- L’inverno della vita È inverno, tutto diventa freddo,
fredda la speranza degli uomini,
fredda l’acqua dei ruscelli
che mormora giù nella valle.
Freddo il sogno della notte
che l’uomo abbraccia nell’oscurità,
freddo anche il mio cuore,
non batte più nel petto.
La mia vita diventa gelo.
Bova, marzo 1995”. - È molto triste. Rappresenta un mondo muto, incapace di comunicare. Racconta l’inverno, ma
quello del suo cuore, che ormai aveva perso tutte le speranze e disilluso aspettava solo la pace che
solo la morte può dare. –
Isidoro telefonò al suo amico Bruno, che in meno di cinque minuti li raggiunse e li condusse al bar
sulla piazza, dove consumarono una bibita. Assieme andarono poi al punto vendita della
cooperativa vinicola, per trovare Agostino Siviglia, che cominciò a conversare in greco con Bruno.
Naturalmente tutto ciò fece molta impressione a Teodoro, che ascoltava sbalordito e nello stesso
tempo contento per quello che aveva visto durante il breve periodo di permanenza nella terra così
vituperata da buona parte degli italiani.
Ad un certo punto Agostino si rivolse in italiano ai due ospiti e li pregò di assaggiare i loro vini,
prodotti da poco tempo, da uve di vitigni autoctoni del territorio.
Assaggiarono due tipi e poi Bruno volle leggere in italiano, la fiaba raccontata da Casile prima che
morisse.
- Una coppia aveva avuto dodici figli, ma un giorno la moglie capì d’essere ancora una volta
incinta e lo comunicò al marito. Prima che nascesse il bambino si scervellarono non poco per
sceglierne il nome, in quanto avevano usato completamente il nome di tutti i loro famigliari.
Pensarono per un po’ di tempo e alla fine decisero di chiamarlo Tredicíno.
Il bambino che nacque cresceva delicato, molto intelligente e dotato di infinita bontà e quando tutti
i suoi fratelli si sposarono, egli non lo fece e restò con i suoi genitori nella loro casina. Quando essi
morirono, restando solo, si dedicava ad aiutare i vecchietti.
In una notte d’inverno, cominciò a diluviare e l’acqua era accompagnata da tuoni e fulmini. Ad un
certo punto sentì bussare alla porta; si alzò dal letto ed aprendo si trovò di fronte, bagnato fino alla
radice dei capelli, un uomo sulla trentina, alto, magro, delicato nel volto e con i capelli lunghi ed
ondulati. Lo fece entrare, accese subito il fuoco, gli asciugò gli abiti, arrostì per lui un pezzo di
lardo, che gli offrì assieme ad olive schiacciate, sott’aceto e lo fece mangiare. Assieme bevvero un
boccale di vino, dopodiché l’invitò ad andare a dormire nel suo letto, costituito dai trespoli su cui
poggiavano delle tavole ed un materasso fatto da un grande sacco riempito di paglia d’orzo; gli
diede due coperte di ginestra, un’imbottita di lana ed un cuscino confezionato con penne di galline.
Egli invece si adagiò su un tronco squadrato, di circa un metro, accanto al focolare e coprendosi
con una bisaccia, sonnecchiava poggiando i piedi vicino al fuoco.
Al mattino si alzò e all’ospite arrostì un palmo di salsiccia, una spanna per sé, stringendoli in un
pane spaccato a metà, e mangiarono assieme, bevendo ciascuno un boccale di vino. Alla fine di
tutto questo l’uomo si rivolse a Tredicíno e gli disse:
“Tredicíno, io non sono quello che tu hai pensato, ma Gesù e sto andando in giro per il mondo per
saggiare il cuore degli uomini. La notte scorsa durante quella tempesta d’acqua, ho bussato a
moltissime porte, ma nessuno ha aperto per ospitarmi, anzi una persona mi ha aizzato il suo cane
che invece si è avvicinato e mi ha leccato, invece di mordermi. Tu sei l’uomo più buono che abbia
mai visto e voglio ricompensarti; qualsiasi cosa tu chiedi, io te la procurerò!”
“Io non voglio niente, perché ciò che ho fatto, me l’ha dettato il cuore!”
“No tu devi accettarmi qualcosa, altrimenti mi offendo, perché significa che non mi vuoi bene.
Chiedimi tre cose dunque!”
“Se voi pensate che non vi voglio bene, vi accetto qualcosa per dimostrarvi che ciò non è vero!”
“Comincia a chiedere dunque! Che cosa desideri?”
“Desidero una sedia!”
“Ma una sedia … è troppo poco per te!”
“La sedia però non deve essere come le altre, ma tale che, quando qualcuno vi si siede, non potrà
alzarsi senza la mia volontà”.
“Va bene, questa è la sedia da te richiesta!” E comparve una sedia impagliata.
“Cosa cerchi ora?”
“Desidero un sacco”.
“Un sacco?”
“Un sacco, ma non come tutti gli altri, ma confezionato in modo che, chiunque vi s’infila non potrà
più uscirne senza il mio permesso”.
“Questo è il sacco!” E apparve un sacco bianco, tessuto a trame spesse, molto grande.
“Per finire cosa chiedi?”
“Un berretto!”
“Un berretto! Così poco?”
“Ma non deve essere come gli altri, ma leggero per me, ma tanto pesante da non poter essere
smosso dagli altri”.
Così gli diede il berretto richiesto, ch’era di color marrone chiaro. Da quel momento in poi
Tredicíno lavorando continuò a vivere con l’aiuto di Dio, ma una notte sentì bussare.
“Chi è?” Chiese.
“Sono io!”
“E chi sei tu?”
“Sono la morte!”
“E che vuoi da me?”
“Sono venuto a prenderti perché è arrivata la tua ora!”
Tredicíno andò ad aprire la porta, chiusa con il passantino, fece entrare la morte e la invitò ad
accomodarsi.
“Aspetta che vado a lavarmi e a prepararmi; indosserò il vestito apposito, il berretto nuovo e poi
partiremo”.
Avvenne che quando fu pronto si avvicinò alla morte e le disse:
“Io sono pronto!”
La morte fece il tentativo di alzarsi, ma restava attaccata alla sedia; provò, una, due, tre, dieci,
venti, cento volte, ma non le fu possibile alzarsi. Passò un giorno, poi dieci, venti, trenta, ma la
morte restava avvinta alla sedia. Nascevano bambini ma nessuno moriva più.
La morte, avendo compreso che la possibilità di alzarsi dalla sedia dipendeva da lui, un giorno gli
disse:
“Tredicíno, non sai quanti danni stai combinando! Bimbi nascono, ma nessuno più muore e nello
spazio di poco tempo, tutto il mondo sarà così pieno di gente, che alla fine gli uomini si
mangeranno tra di loro. Dimmi che vuoi che te lo concedo”.
“Voglio vivere altri trecento anni!”
“Avresti potuto chiedermelo prima! Fra trecento anni ci rivedremo!”
Passarono gli anni ed anche per Tredicíno stava arrivando l’ora. Una notte sentì bussare, andò ad
aprire e vide che era la morte.
“E’ arrivata la tua ora, andiamocene! Ricordati che sta per albeggiare e come tu sai, io non posso
camminare di giorno. Fa presto!”
“Ho capito! Vado a prepararmi, ad indossare il vestito per l’occasione, il berretto nuovo. Intanto
sedetevi!”
“Non mi freghi questa volta! Sto all’impiedi non ti preoccupare! Fa presto che sta albeggiando!”
La morte restò all’impiedi e Tredicíno andò a prepararsi e fece di tutto per perdere tempo e alla
fine, quando fu pronto, era ormai chiaro.
“Hai visto? Ora debbo aspettare tutto il giorno a casa tua!”
“Ma non è detto. Possiamo andare comunque. Mi indicate la strada, v’infilate in questo sacco e vi
metterò sulle mie spalle ed andremo, ad esempio, in paradiso”.
“Sta fresco! Apri il sacco e ricordati di andare verso la montagna, seguendo sempre il sentiero più
frequentato.”
Tredicíno aprì il sacco e la morte saltò dentro. Camminavano da un pezzo quando arrivarono in un
posto dove c’erano uomini che spaccavano pietre e Tredicíno poggiò il sacco per terra e disse loro:
“Tirate alcuni colpi di mazza sul sacco”.
Gli spaccapietre eseguirono e la morte, ad ogni colpo, lanciava urla disperate:
“Maledetto il giorno in cui ti ho incontrato! Tredicíno mi stanno riducendo in poltiglia! Fammi
uscire, per l’anima dei tuoi morti!”
“Non ti preoccupare. Ti farò uscire, ma quando sarà buio, come tu hai comandato”.
Proseguirono il cammino ed attraversarono tutta la montagna, giungendo su un’altura dove c’era
una fucina. Appena giunse Tredicíno vi entrò e disse ai fabbri ch’erano quattro, dopo aver
poggiato il sacco sull’incudine:
“Tirate qualche colpo qui sopra!”
Al primo colpo la morte cominciò ad urlare:
“Tredicíno, cuore di pietra! Mi stanno facendo a pezzi! Fammi uscire, ti prego!”
“Ora ti farò uscire, perché sta calando la sera, ma prima mi devi promettere che mi farai vivere
altri mille anni!”
“Te lo prometto, parola di morte!”
Così appena fece buio uscì fuori dal sacco, ma dopo mille anni ritornò e si portò via Tredicíno,
dicendogli:
“Brutto ceffo; ti aggiusterò io ora! La prima volta avevo pensato di portarti in purgatorio, ma ho
cambiato idea e ti porterò dritto all’inferno, dove ti divertirai un mondo a gironzolare tra braci
grandi come una cassa!”
Camminarono per cinque, sei ore ed arrivarono di fronte alla porta dell’inferno, arrugginita e
grande quanto quella di una chiesa, localizzata in un posto buio, che provocava solo sconforto.
Bussò la morte ed aprì un diavolone, rosso con la coda attorcigliata, nera e gialla; gli orecchi li
aveva come quelli di una capra minda, interamente neri. Aprì e chiese con stizza:
“Che cercate?”
“Voglio”, gli disse la morte, “che ti prendi cura di questo delinquente che mi ha fatto passare le
pene di Giobbe; ti raccomando di rifilargli tre mani di botte al giorno!”
“Ma che dici! Se lasci qua codesto babbeo è capace di darci fastidio e di mettere zizzania e di
provocare discordie tra noialtri diavoli! Vattene prima che decida d’infilzarti con questo tridente di
ferro!”
Sconfortata la morte andò via pensando:
“Spero che l’accettino al purgatorio e così me lo tolgo dai piedi!”
Camminarono un altro po’ e arrivarono davanti alla porta del purgatorio, ch’era più piccola di
quella dell’inferno. Bussarono e si affacciò una figura d’uomo con un berretto rosso, ornato di
fiocchi verdi.
“Cosa desideri?” Chiese alla morte.
“Ti ho portato questa faccia di scimmia che mi ha procurato tante sevizie!”
“Ma che dici! Non te l’hanno accettato all’inferno, replicò con un tono di voce femminile, e
pretendi di lasciarlo qua! Vattene via, altrimenti chiamo rinforzi e non so cosa ti potrà capitare!”
Sconfortata la morte andò via pensando:
“Va a finire che gli devo permettere di vivere sempre, ma nel dubbio passo dal paradiso”.
Arrivarono di fronte alla porta del paradiso e bussarono. Aprì San Pietro e saputo cosa desiderava
la morte disse:
“Ma cos’hai in zucca? Non te l’hanno accettato all’inferno e nel purgatorio e pretendi di lasciarlo
qua? Vattene, perché se perdo la pazienza ti do una botta in testa e te la spacco a metà!”
La morte era tanto sconfortata che partendo pensò:
“Ora debbo riportarlo nel mondo, dove mi toccherà farlo vivere per sempre, dopo tutto quello che
mi ha fatto!”
Nel frattempo Tredicíno, con parole gentili si rivolse a San Pietro:
“Maestro, per cortesia, potete socchiudere la porta e così potrò vedere com’è fatto il paradiso?”
“Va bene, ti accontento!”
Appena aprì Tredicíno si tolse il berretto dalla testa e lo buttò davanti alla porta semiaperta, al ché
San Pietro disse:
“Bestia, screanzato e maleducato!” E cercò di togliere il berretto che impediva la chiusura della
porta, attraverso cui, essendo semiaperta si vedevano gli angeli giocare a palla. Cercò di afferrarlo
San Pietro, ma non lo spostò neppure di un centimetro e nonostante si sforzasse non riusciva a
smuoverlo ed intanto la porta rimaneva aperta. Seppero la notizia le anime dell’inferno, con i
diavoli e tutti quanti cominciarono a correre per infilarsi nel paradiso.
“Sventura nostra!” Gridava San Pietro assieme agli angeli, che smisero di giocare a palla.
“Se entrano nel paradiso, la nostra pace finirà! Forza togliamo il berretto!”
“E’ inutile che vi sforziate!” Disse loro Tredicíno.
“Allora cosa possiamo fare?”
“Se mi promettete che mi farete entrare, per restare, la tolgo io!”
“Te lo prometto! Fa presto!”
Tredicíno entrò e tolse il berretto e fece appena in tempo, in quanto tutte le anime dannate
dell’inferno, assieme ai diavoli, erano arrivati a pochi passi. - Bellissima e molto arguta. – Apprezzò Teodoro.
- È inutile che la legga in greco di Calabria, tanto non capireste nulla. Dove siete diretti ora? –
- Prendo l’aereo per Roma da Reggio, da cui raggiungerò Caselle, mentre lui tornerà a casa. –
- A questo punto è inutile parlare di cena, però se volete possiamo visitare il poco che resta del
castello normanno e la parte alta dove era ubicato il quartiere ebraico. –
- C’era una comunità ebraica a Bova? - Molto antica. Infatti in località San Pasquale circa trent’anni fa è venuta alla luce una sinagoga di
una città distrutta nel V secolo d.c. forse dai vandali o dagli arabi nel IX secolo. Comunque
l’edificio sacro si riferisce al periodo romano probabilmente in quanto tale appare un mosaico che
rappresenta la Menerah, ossia il candelabro ebraico a sette bracci. –
- Fino a quando abitarono questo territorio? –
- La loro presenza è documentata fino alla fine del XV secolo, ma quando arrivarono gli spagnoli o
già prima con gli aragonesi, dovettero andar via. Si racconta infatti che il pretesto per la cacciata
discese da un’epidemia di peste. Infatti la comunità giudaica era prospera per via dei commerci che
attivava con l’oriente, specie con i territori gravitanti attorno al Mar Nero, anche dopo la caduta di
Costantinopoli in mano ai turchi. In Oriente gli ebrei portavano i prodotti locali,tra cui il vino
contenuto dalle keay LII ,marchiandola con la menorah, mentre per il ritorno si rifornivano di
prodotti di lusso, tra cui tessuti di seta.
Ai primi del 500 qui a Bova scoppiò un’epidemia di peste che coincise con il rientro dall’Oriente di
mercanti ebrei, carichi di merci preziose. Una giovane signora comprò da loro un bellissimo velo di
seta e malauguratamente si ammalò e morì di peste, che si diffuse in tutta la comunità. Agli abitanti
fu vietato di uscire dalla loro città a cui fu imposta la quarantena e quando finirono la scorta di cibo,
furono aiutati dagli abitanti di Amendolea, che avvicinandosi lasciarano nei pressi di essa, andando
velocemente poi via, delle mucche, che macellate, sfamarono la cittadinanza.
Quando l’epidemia cessò, gli ebrei furono mandati via. Secondo il mio punto di vista molti
abiurarono la loro religione e rimasero sul territorio. Infatti nel circondario erano diffusi i cognomi,
corrispondenti a nomi di città spagnole, tra cui Cordova e Siviglia e si sa che spesso essi erano
denominati con le loro città d’origine. In questo caso si sarà trattato di individui, che cacciati dalla
Spagna nel 1492 da Isabella di Castiglia, si rifugiarono in queste aree, da cui furono cacciati oppure
per restare furono costretti a rinnegare la loro fede. Visitarono il castello, il borgo, dove Teodoro evidenziò il restauro di alcune case eseguito alla
perfezione rispettando la tipologia del territorio, poi salutarono Bruno Traclò ed Agostino Siviglia
ed andarono via facendo questa volta la nuova strada, per cui arrivarono sulla statale in poco più di
dieci minuti.
- Dunque abbiamo trascorso pochi giorni assieme, ma intensissimi ed emozionanti e ho capito
quanta sofferenza ha prodotto in questa terra sfortunata la corruzione ed il degrado politico.
Speriamo che il futuro riservi per tutta l’Italia tempi migliori, ma ci credo poco. In tutti i modi devo
avvisarti di alcune cose, per cui ascoltami con attenzione. Sul G.P.S. ho segnato le coordinate del
tuo covo, perché le devo consegnare all’ufficiale dei servizi che ti ha coinvolto in questa vicenda. –
- Ma perché … ? –
- Perché loro faranno fuori l’Uomo-Fogna, ma hanno bisogno di capri espiatori e nel caso l’attentato
avverrà nella parte più meridionale d’Italia o in Sicilia, farà loro comodo tirarti in ballo, per cui
segui con attenzione le vicende e al momento opportuno sposta altrove il fucile e le altre cariche
esplosive che ti ho preparato. –
- Bell’affare … - Credo però che sarà ucciso al Nord, dove le occasioni saranno più numerose. Filippo comunque ti
pensa sempre con affetto e ti ha mandato questi documenti falsi, con la tua foto … - Ma chi gliel’ha data? –
- Quel giorno a Santa Elisabetta, se ti ricordi, ha voluto fotografare alcuni di noi, mentre le tue foto
le ha eseguite in casa, con lo sfondo neutro del muro imbiancato di fresco della cucina. Ti ha fatto
sedere e ti ha fatto mettere in posa. –
- Ma quanto è stato bravo … ! –
- Nel caso dovesse capitare quanto ci auguriamo, per qualche tempo, un anno scarso, vai all’estero.
Ti basteranno le 20.000 euro che ti ha lasciato l’uomo dei servizi, se li userai con una certa sagacia.
Volevo aggiungere che ho notato quanti giri tortuosi hai fatto quando ci siamo recati nella grotta e ti
è andata bene in quanto avevo dimenticato a casa il G.P.S., con cui avrei potuto annotare le
coordinate. Comunque hai fatto male quel giorno a non prendere un po’ di soldi dal deposito della
ndranghita. –
- Non ci pensare, così sono più tranquillo. –
- Ma cosa succederà quando se ne accorgeranno? –
- Penseranno che alcuni di loro hanno contribuito con una somma minore. –
- E per l’esplosivo che manca? –
- Non ci faranno caso perché dal mucchio, notevole, tu hai prelevato da 10 a 15 chili. –
Intanto percorrendo la statale verso Reggio arrivarono in un punto dove si ammirava Pentedattilo in
tutta la sua straordinaria particolarità. –
- Che paese è quello? –
- Pentedattilo. –
- Potremmo visitarlo? –
- Il volo è fra tre ore ed un quarto e considerando che il check-in si fa un’ora prima, abbiamo a
disposizione un’ora e mezza, per cui possiamo andare. –
Cominciarono a salire verso il paese e quando furono di fronte, su un piccolo piazzale …
- Ma è abbandonato …! –
- Da poco più di cinquant’anni. –
- Come mai? –
- Agli inizi degli anni 50, la rupe che ci sovrasta, che è a forma di mano con cinque enormi dita, da
cui Pentedattilo, secondo un’equipe d’ingegneri era sul punto di crollare, per cui in tempi rapidi
bisognava evacuare il paese, spostandolo per salvare da morte sicura la sua gente e così a poche
centinaia di metri nacque il nuovo e squallido Pentedattilo, da cui la gente è andata via comunque.
L’unica a rimanere nel posto dove si erge da chissà quante centinaia di migliaia di anni è la rupe,
mentre la gente minacciata non c’è più, assieme al paese, che poco alla volta scompare anche
fisicamente in quanto i tetti crollati si portano dietro anche i muri delle case. –
- Allucinante quanto racconti. È continuo, titanico, lo sforzo degli apparati dello Stato a distruggere
l’Italia, non solo del Sud, ma tutta ormai. Bisogna fare presto, è indispensabile fermare questa
deriva, questo meccanismo infernale che ha annientato il Sud, ma che ora sta divorando il Nord. È
come se tutta la classe dirigente o quasi di questo paese si sia trasformato in un unico, smisurato
Doctor Faust, che ha venduto l’anima al diavolo, in cambio del successo e di soldi.
Bisogna fare in fretta e cominciare con l’Uomo-Fogna, ma non basta; è necessaria un’ecatombe in
parlamento. –
- L’abbiamo detto altre volte. Dobbiamo visitare ciò che resta di un gioiello costruito pietra su
pietra, per più di un millennio e poi annientato in pochi lustri dal maglio dell’ignominia? –
- Certamente. Vorrei andare fino in cima. –
- Non è possibile, possiamo arrivare al massimo nel posto dove era ubicato il castello, distrutto, mi
pare, dal terremoto del 1783. –
E s’inerpicarono passando attraverso i corpi in decomposizione delle case fino al sito del castello e
s’affacciarono, dalla cinta muraria orientata verso le montagne.
- Sarà stato grande anche ed era in bella posizione. I signori godevano di una bella vista in
sicurezza. –
- Non direi, in quanto in questo posto nel 600 si è consumata un’orribile tragedia, che vide
protagonisti proprio i castellani. –
- Che cosa accadde? Raccontami.
- Nell’ultimo scorcio del XVII secolo era Signore di Pentedattilo, il marchese Domenico Alberti
felicemente sposato con donna Giovanna Vactoten e padre di numerosi figli.
Dominava a Montebello, il cui territorio era confinante con quello di Pentedattilo il barone
Bernardino Abenavoli, discendente di Ludovico, uno dei tredici cavalieri italiani, che si erano
battuti con successo contro i tredici cavalieri francesi nella celebre disfida di Barletta.
Da sempre non correva buon sangue tra i signori dei rispettivi feudi, per motivi di confine.
La situazione si era rasserenata da quando il barone ebbe modo di vedere la figlia del marchese,
Antonietta, dotata di una bellezza divina. La splendida fanciulla occupò allora il cuore e la mente
del barone, che non lasciò indifferente la ragazza. I due avevano modo di comunicare tramite la
complicità clandestina di una donna di Pentedattilo.
Nel 1685 venne a morire il marchese e subentrò come titolare del feudo il figlio Lorenzo, che aveva
avuto la fortuna di fidanzarsi con la figlia del viceré di Napoli, Caterina Cortez. Il matrimonio tra i
due fu celebrato nell’aprile del 1686 e la sposa arrivò da Napoli, accompagnata da un grande e
sontuoso corteo, di cui faceva parte il padre, la madre Agnese Velasquez ed il figlio, don Pedrillo
Cortez, che si ammalò dopo le nozze ed assieme alla madre dovette prolungare il soggiorno nella
dimora del cognato. Ebbe modo a questo punto di conoscere la bellissima Antonietta e di
innamorarsene, chiedendone la mano al fratello Lorenzo che acconsentì di buon grado.
Quando Bernardino Abenavoli seppe del progettato matrimonio, un terribile furore lo invase e
meditò la vendetta.
Servendosi del tradimento di Giuseppe Scrufari, risentito contro il marchese, che non lo riteneva più
degno della sua fiducia come consigliere, la notte della domenica di Pasqua del 16 aprile 1686,
servendosi di scale ed aiutato dal servitore infedele irruppe nel castello con numerosi armati e
dirigendosi nella camera nuziale degli sposi, colpì a morte con due archibugiate Lorenzo e poi per
assaporare ulteriormente la vendetta, affondò per 14 volte il suo pugnale nel corpo del morto,
straziandolo e lasciandolo in un mare di sangue. Alle urla disperate della sposa, accorse la madre
del marchese, Maddalena Vactoten, che fu trucidata. La caccia fu estesa alle altre stanze, da cui fu
prelevato il fratellino minore di Lorenzo, di 8 anni che in un crescendo di orrore fu straziato,
sbattuto con la testa su uno sperone roccioso. Completò la strage della famiglia Alberti il servitore
infedele che uccise Anna, una fanciulla di sedici anni; altre persone non appartenenti alla famiglia
del marchese furono trucidate. Il barone risparmiò Antonietta, la sua amata, don Pedrillo Cortez e la
madre donna Agnese Velasquez, da usare come ostaggi, contro l’intervento del viceré spagnolo. Il
19 aprile del 1686 Bernardino sposò a Montebello Antonietta.
La notizia della strage pervenne al governatore di Reggio, che avvisò il viceré di Napoli, il quale
prontamente mandò sette galee con nove compagnie di fanteria spagnola. Le truppe irruppero nel
castello di Montebello, liberarono don Pedrillo e donna Agnese, ma non trovarono il barone e la
marchesina Antonietta, ma in compenso furono catturati sette responsabili della strage, tra cui
Giuseppe Scrufari. Essi furono decapitati e le loro teste furono appese ai merli del castello di
Pentedattilo, mentre la testa del servitore infedele fu esposta sul posto dove era stata uccisa la
marchesina Anna.
Il barone frattanto si era rifugiato nel convento del Crocefisso sopra Reggio, ma delle informazioni
pervennero ai comandanti delle truppe, che ispezionarono il monastero senza trovare Bernardino.
Egli infatti era fuggito, rifugiandosi a Malta, ma prima di farlo, aveva accompagnato Antonietta in
un convento.
Il matrimonio nonostante l’orribile trauma a cui era stata sottoposta Antonietta era stato consumato,
in uno stato d’animo immaginabile da parte della marchesina. Nel 1690 la Sacra Rota annullò il
matrimonio perché era stato imposto con la violenza alla giovane donna, che trascorse i suoi giorni
fino alla morte, in un convento di clausura, rosa dal rimorso di essere stata la causa della rovina
della sua famiglia.
Frattanto da Malta Bernardino raggiunse Vienna, dove riuscì a convincere l’imperatore che la
condotta provocatoria di Lorenzino Alberti l’aveva indotto a consumare quell’orribile strage.
Per espiare la sua colpa chiese di poter partecipare ad operazioni di guerra contro i turchi, che
attaccavano sia per terra che per mare l’impero asburgico. Fu arruolato con il grado di capitano
nell’esercito austriaco ed il 21 agosto del 1692 durante uno scontro navale contro i turchi, morì
colpito dall’esplosione di una palla di cannone.
Ancora oggi, nelle notti d’inverno, quando il vento ulula tra le gole del monte Calvario, ai piedi del
quale sorge Pentedattilo, si odono i dolorosi lamenti di Lorenzo Alberti, mentre la rupe sovrastante,
si colora di vermiglio, assumendo le sembianti di una mano insanguinata, quella diabolica di
Bernardino Abenavoli. - Raccapriccianti le vicende che mi hai raccontato; andiamo non voglio più visitare il resto del
villaggio, che mi sembra pervaso dall’orrore. Non parlarono più e discesero lentamente verso la statale imboccando la direzione per Reggio.
Ad un certo punto l’attenzione di Teodoro fu attratta da un’altissima ciminiera.
- Che è questo? –
- Agli inizi degli anni 70 si decise di costruire in questo sito, che era in parte occupato da un bacino
lacustre, una fabbrica del settore chimico, fornito di porto, che avrebbe dovuto produrre bioproteine.
Si oppose ferocemente a questo progetto l’ingegnere capo del Genio Civile, Romano, che affermava
che l’area prescelta era inidonea, in quanto le correnti marine avrebbero reso inutilizzabile il porto
da costruire, con l’aggravante che c’era il rischio dell’abbassamento del terreno dove sarebbe stato
costruito il complesso.
L’ingegnere fu ucciso in un incidente stradale simulato ed i lavori iniziarono, finalizzati solo al
furto di capitali pubblici. Terminati i lavori la fabbrica lavorò per pochi mesi e poi fu chiusa, gli
operai, messi in cassa integrazione, usufruirono di tale provvedimento fino a pochi anni addietro,
mentre il porto s’insabbiò.
Furono sperperati all’epoca circa duecento miliardi di lire e stanno spendendo altri per la
demolizione; frattanto, come aveva ipotizzato Romano, la sede stradale che lambisce il complesso
si è abbassata. La costruzione del porto inoltre, ha provocato un disastro ambientale, per cui tutta la
spiaggia da Capo D’Armi a Pilati di Melito, è stata erosa dal mare. –
Arrivati un po’ prima di Capo D’Armi Isidoro accostò la macchina ed invitò Teodoro a scendere.
- Mi dimenticavo, guarda quel complesso vicino alla riva sinistra di quel torrente. Dopo lo sperpero
della Liquichimica, a pochi centinaia di metri, fu progettato un altro strumento per rubare soldi
pubblici e divenne operativa la costruzione delle Officine Grandi Riparazioni dove si sarebbero
dovuti riparare i locomotori ed altri macchinari delle Ferrovie dello Stato. Appena furono
completate, con grande utilizzo di fondi pubblici, si disse che era antieconomico l’utilizzazione, per
cui furono chiuse dopo un breve periodo di attività. –
- Non ne posso più. Ma quanti esempi di spreco di pubblico denaro! Questo significa che siete
irrecuperabili voialtri meridionali! –
- Ma che dici! Le ruberie piuttosto sono state portate avanti da plenipotenziari pubblici e da politici
non certo del luogo, che in nome dell’aiuto da dare al Sud, hanno gonfiato i propri portafogli!
Ricordati che quelli del sud hanno sempre dato e mai hanno preso, se non batoste! –
- Cosa hanno dato? –
- Tutto! Sono stati sempre derubati! Dall’inizio dell’unificazione fino ai tempi attuali! Ora è in atto
la spoliazione dei cervelli del Sud, oltre che dei capitali. Non esiste più una banca del Sud ed il
risparmio dei meridionali è gestito dalle banche del Nord. I nostri soldi vanno nel centro-nord con
l’acquisto di appartamenti per i nostri figli laureati, fra l’altro nelle migliori università d’Italia, quali
quella di Bologna ad esempio. Noi abbiamo dato a voi, piatti e banali la nostra genialità. –
- E quando? –
- Alcuni vostri simboli li abbiamo creati noi! –
- Quando e quali! –
- Il vostro Corriere della Sera è stato fondato da Eugenio Torelli Violler, avellinese. –
- Ma che cazzo dici! –
- L’Alfa Romeo è stata fondata dall’ingegnere napoletano Vincenzo Romeo. –
- Ma che cazzo dici! –
- Scommettiamo? –
- Certo. I miei coglioni contro un euro da parte tua! - E diventerai eunuco! –
Presi dalla passione non svoltarono verso l’aeroporto e dovettero trovare un’uscita successiva e
tornare indietro, per cui smisero di rinfocolare il dibattito campanilista, portato avanti con tanta
passione per giunta da due ex militanti del P.C.I.
- Dunque rimettiamo ordine nelle nostre idee., Isidoro, lasciando da parte le polemiche. Dunque non
è difficile eliminare l’Uomo-Fogna con un fucile di precisione, ma per salvare l’Italia, bisogna
incidere in profondità ed eliminare il male oscuro che sta distruggendo il nostro paese. –
- E come? –
- Bisogna dare a quei immondi porci una lezione durissima ed attaccarli durante un congresso
oppure intervenire in uno dei rami del parlamento. –
- Penso che la seconda opzione sia preferibile in quanto colpirebbe un simbolo ormai del degrado. –
- Non solo, avrebbe un effetto destabilizzante e ci sarebbero reazioni a catena e verrebbero a cadere
psicologicamente le resistenze di tutti i centri di potere e si aprirebbero degli scenari nuovi per la
ripresa morale e civile della nostra martoriata nazione. –
- Ascolta, per fare alcune decine di morti, quanto esplosivo occorrerebbe? –
- Non conta il numero, ma la “qualità” dei morti. Basterebbero quattro, cinque chili di tritolo per
uccidere quindici – venti persone, ad esempio dentro il senato, se fosse ben posizionata la carica.
Bisognerebbe scegliere però il personaggio, ti ripeto. Per aumentare l’effetto sarebbe opportuno
riprovare con una seconda carica, nel momento della fuga dei superstiti verso la salvezza.
Bisognerebbe studiare i tempi e il posto di massimo affollamento. –
- Ho capito, è necessario utilizzare almeno due cariche. –
- A te ho dato tre, di circa 4 kg ciascuna. –
- Ma come si usano quelli che mi hai consegnato? –
- Con molta cautela. Bisogna evitare urti violenti prima che siano depositati nel posto prescelto. In
seguito si possono far deflagrare a distanza con i telecomandi. Ogni carica è corredata di una specie
di modalità d’uso e come hai potuto notare, è riposta in un contenitore. –
- Solo i servizi possono portare avanti il progetto. –
- Non è difficile per noi, ma le forze occulte, che hanno dato il potere all’Uomo-Fogna, che pensano
di eliminare, sono terrorizzate dall’idea di destabilizzare troppo il sistema e stanno studiando un
personaggio sostitutivo, puntando ad un modello blandamente bonapartista, orientato verso quello
presidenziale, corroborato da alcuni contrappesi, per non scandalizzare l’opinione pubblica europea.
Alcuni di loro pensano al presidente della Fiat che incontra ancora notevoli resistenze. –
Arrivarono all’aeroporto e Teodoro eseguì il check-in e subito dopo continuarono a chiacchierare.
- Senti stai molto attento quando ti daranno il segnale d’azione; tieniti lontano dal luogo indicato e
fatti vedere in giro nella tua zona, perché altrimenti potresti diventare un capro espiatorio. –
- Va bene. –
- Mi dispiace per via di qualche incomprensione legata alla diversa interpretazione della nostra
storia. –
- Non ci pensare … - Penso invece al tesoro notevole della ndránghita che abbiamo lasciato intatto o quasi, senza
approfittarne. Sarebbe conveniente ritornarci. –
- Daremmo troppo nell’occhio. –
- Comunque debbo andare. –
Teodoro ben presto scomparì alla vista, dopo essersi avviato all’imbarco ed Isidoro non attese il
decollo dell’aereo, partendo subito dopo.
Alla fine di settembre e ai primi di ottobre, dopo una breve pausa di bel tempo riprese a piovere con
molta violenza ed insolitamente persino le fiumare, ricaricate nelle falde profonde, cominciarono ad
assumere le sembianze di corsi d’acqua, ma limacciosi per via dell’humus e del terriccio
superficiale eroso e poi trasportato dalla pioggia.
L’enorme quantità d’acqua caduta con violenza in pochi giorni, produsse effetti devastanti specie
nella Sicilia orientale, con conseguenze tragiche per gli abitanti di quelle aree.
Ai primi d’ottobre sul telefonino speciale di Isidoro giunse un messaggio preceduto dalla lettera A
indicante azione, corredato dalle coordinate geografiche con questo contenuto: “Foetidus hircus
cras apud fretum pabulabitur” (Il puzzolente caprone domani si pascerà d’erba in riva allo Stretto).
Con l’aiuto del navigatore riuscì a stabilire il luogo più cruciale per il visitatore, corrispondente al
Duomo di Messina.
Nonostante l’avvertimento di Teodoro, qualche ora dopo aver ricevuto il messaggio partì per la città
dello Stretto e si recò in un albergo vicino all’edificio religioso indicato dal messaggio e richiese
una camera con il balcone che desse verso la piazza e gli fu risposto che da qualche giorno l’albergo
era stato dato in uso intieramente alle forze dell’ordine. Infatti notò all’entrata la presenza di giovani
prestanti sulla trentina e ciò dimostrava che l’area era già abbondantemente presidiata da forze della
sicurezza. Notò che appena si diresse verso l’uscita, uno di loro si avvicinò alla reception a chiedere
qualcosa ed Isidoro si affrettò a girare l’angolo, di corsa, s’infilò in un negozio di frutta, dove
tergiversò a scegliere delle mele e vide in lontananza il giovane guardare in giro. Perse un po’ di
tempo e poi con cautela si diresse verso l’approdo degli aliscafi e fece in tempo a salire su uno già
pronto per la partenza. Nel primo pomeriggio era già a casa.
Il giorno successivo non si allontanò dal paese dove abitava e si fece vedere in giro ripetutamente,
fermandosi in un bar, dove dei suoi conoscenti giocavano a carte e fece finta di essere interessato
all’esito delle varie partite.
Contrariamente alle sue abitudini si mise a passeggiare sulla strada principale ed incontrando degli
amici li portò in un bar e li costrinse a consumare il caffè. Attorno a mezzogiorno in un centro
abilitato spedì un fax.
Tranquillo ormai, per il resto della giornata sperò nell’evento augurabile che non si verificò e si
sorbì le immagini dell’Uomo-Fogna, che con il volto di circostanza, seguiva nel Duomo della città
dello Stretto, la messa officiata per le vittime di un disastro naturale.
Nei giorni successivi ritornò il bel tempo e si dedicò a dei lavori agricoli nel suo campo di
conservazione di vitigni autoctoni, difendendosi dalle informazioni di carattere politico, non
comprando giornali e non guardando la televisione.
Nonostante ciò ogni tanto captava delle notizie, riferite a scandali, a provvedimenti per evasori
vecchi e nuovi, a tentativi di produrre delle leggi più favorevoli ai corrotti e alle varie mafie d’Italia.
Questo tentativo di difesa persino dalle sozzure riferite, lo portò a rinchiudersi a riccio nel suo
mondo che stava diventando sempre più angusto. Si vietò di partecipare a conferenze a cui era
invitato e persino negò la sua collaborazione ad un’associazione ambientalista romagnola, che
cercava collaboratori sul territorio per fotografare e mettere in rete le numerosissime piante
monumentali della Calabria meridionale.
In riferimento a quest’ultimo argomento era amareggiato per due casi capitati. In uno era stato
protagonista un suo conoscente, che dopo aver distrutto un antico selciato, per rendere più agevole
una pista, aveva raggiunto una quercia plurisecolare, ripulita con fasce antincendio per alcuni anni,
da lui assieme al suo amico Paolo ora gravemente ammalato; tagliandola, aveva ricavato trecento
quintali di legna da ardere. L’altro caso più recente si riferiva ad un gruppo di castagni millenari,
piantati dai monaci basiliani, dal diametro di quasi tre metri tagliati da alcuni carbonai
dell’Aspromonte, grazie all’indifferenza delle guardie forestali della caserma di pertinenza.
Intanto il tempo non si fermava, assieme alle vicende umane, sempre più problematiche in Italia e
nel mondo globalizzato, dove la delocalizzazione aveva favorito la Cina. In novembre andò in
Toscana e poi in Lombardia, sempre più assediata dalle mafie di tutto il mondo e da Porta Garibaldi
partì su un treno regionale per Bergamo, dove avrebbe dovuto incontrare un suo ex alunno, che da
circa un decennio faceva l’imprenditore edile a Palma di Maiorca. Era per lui necessario incontrarlo
perché era imparentato con un commesso di Palazzo Madama, che si era messo in notevoli
difficoltà in seguito al matrimonio con una bella ragazza ucraina.
Il breve viaggio per Bergamo lo sbalordì in quanto non poté neppure sedersi poiché le carrozze
erano sudice a tal punto che tutte le persone erano in piedi, mentre i servizi igienici non erano
agibili non essendo stata fatta la pulizia da parte dell’impresa addetta a tale compito. La gente
sfiduciata neppure protestava ed un signore diede una notizia strana, che Isidoro e gli altri
considerarono una panzana.
- A breve – disse- su questa tratta fino a Milano, sarà operativo un treno austro-tedesco, pulito,
efficiente, veloce, dotato di tutte le comodità e sempre in perfetto orario. –
L’appuntamento con il suo ex alunno era fissato in un locale della Mc Donald, poco distante dalla
stazione ferroviaria, dove in una certa ora si sarebbero trovati, fingendo un incontro casuale.
Egli era appena di ritorno dalla Calabria, dove si era recato per la ricorrenza dei morti, a cui
mancava ormai da parecchi anni .
Non lo vedeva da più di vent’anni da quando era andato via spinto da qualche necessità ambientale,
forse in Toscana inizialmente e poi in Lombardia.
Si era trasferito assieme alle sue pale meccaniche, al suo escavatore e a due camion adatti al
trasporto degli inerti.
Isidoro non aveva saputo più niente di lui, ma un giorno in una cittadina della Calabria incontrò la
sorella, che si ricordò di lui e lo salutò e cominciarono a conversare. Era accompagnata dalla moglie
del fratello, una splendida donna di circa quarant’anni d’origine lucana, gentile e molto aperta.
Isidoro offrì loro una consumazione in un bar dove si accomodarono. Conversando osservavano la
gente passare e ad un certo punto la loro attenzione fu attratta da un anziano che si accompagnava,
sorridente, ad una giovane badante dall’est europeo; le due donne facevano osservazioni sulla
coppia e ad un certo punto la moglie del suo ex alunno esternò la sua amarezza per la situazione
incresciosa in cui s’era cacciato un suo cugino, sposando una giovane donna ucraina.
- Era stato fortunato, esordì, in quanto fa il commesso al senato, dove era stato sistemato dal nostro
grande benefattore, il politico per eccellenza della nostra terra, più di vent’anni fa.
Era stato fidanzato con una ragazza del nostro paese, Barile, ed era pronto a sposarsi quando in un
incidente stradale la sua promessa sposa morì assieme a sua sorella e a suo cognato. Fu una tragedia
immane e lui si prese l’incarico di allevare due nipotini rimasti orfani, un bambino ed una bambina,
e fece ciò con amore mantenendoli a scuola. Ora sono all’università ed il ragazzo è vicino a
laurearsi in ingegneria elettronica, mentre la ragazza frequenta un corso di laurea in medicina.
Assorbito dal suo compito non pensò mai a formarsi una sua famiglia, fino a quando non ebbe la
sfortuna d’incontrare una ragazza dell’est europeo, presentatagli da un senatore della Campania.
Ebbe modo di conoscerla nello studio del politico, che faceva l’avvocato e restò folgorato dalla sua
bellezza; gli ricordava molto la sua promessa sposa, morta tragicamente, con la differenza che era
più alta. Egli era ormai vicino ai cinquant’anni mentre la ragazza era di poco al di sopra dei trenta.
Il senatore comprese l’interesse del suo conoscente, che considerava un subalterno in servizio
permanente ai suoi voleri. Infatti lo utilizzava anche per i piccoli compiti esterni alla sua funzione a
Palazzo Madama. Egli ne abusava talvolta, dato ch’era molto potente dentro al senato e vicino agli
interessi del capo del governo. Fece le presentazioni e la ragazza guardò con un certo interesse il
soggetto, dato ch’era giovanile, dal volto bello, molto alto, superava il metro e novanta, dal fisico
asciutto e scattante.
Il politico era parecchio più basso, robusto, di qualche anno più giovane , sposato con due figli
ventenni, ad una donna sulla quarantina ancora bella, ma che certamente non reggeva il confronto
con la ragazza che fungeva da segretaria, coadiuvante quella vera ch’era professionale, ma ormai
sfiorita.
In seguito mio cugino, che si chiama Antonio, conobbe a sua spese la vera natura dell’aiuto che ella
dava al politico; infatti era l’amante che il senatore cercava di ben sistemare, però con un uomo
buono, ma non di carattere, che egli avrebbe potuto dominare in un rapporto a tre. La ragazza aveva
i capelli nerissimi e gli occhi verdi come l’erba della steppa a maggio, era alta, dal corpo perfetto,
prosperosa ma non in modo esagerato. Aveva la pelle candida ed un sorriso smagliante ed era
ucraina di un villaggio della Crimea, vicino al mare. Ella manifestò una certa simpatia per Antonio
e grazie all’appoggio del politico cominciarono a frequentarsi.
Mio cugino ben presto s’innamorò, mentre l’ucraina evidenziava una certa attenzione, ma mai
ricambiò gli intensi sentimenti del suo spasimante.
Viveva ancora mia zia, la madre di Antonio, che lo sconsigliò ad imbarcarsi in una relazione
squilibrata per via dell’età di entrambi. Inoltre la sensibilità materna aveva ravvisato nella ragazza
un animo infido che avrebbe potuto arrecare dispiaceri al figlio. Aggiungeva che c’erano decine di
buone e sicure opportunità matrimoniali nel nostro paese e che inoltre bisognava ancora vegliare sui
nipoti orfani che ancora avevano bisogno di lui.
Egli promise di essere cauto ed aggiunse che mai e poi mai avrebbe smesso di essere vicino in tutti i
sensi ai nipoti.
Dietro insistenza del senatore in poco tempo si sposarono e scelsero la comunione dei beni.
La donna, che appagava pienamente il marito sul piano fisico, recitava da moglie affettuosa e
premurosa, mentre contemporaneamente continuava a frequentare lo studio del senatore in qualità
di “segretaria”.
Antonio colmava di regali costosi la moglie, che inoltre l’aveva facilmente convinto a mandare ai
parenti in Ucraina ogni mese dei soldi, in quanto versavano in condizioni economiche disagiate.
Contemporaneamente cominciò a finanziare con meno generosità gli studi dei nipoti e ciò turbò
moltissimo la vecchia madre che vide materializzarsi le sue fosche previsioni.
Antonio vent’anni prima aveva comprato a prezzi convenientissimi da due anziani coniugi un
appartamento ampio e comodo, in via Franco Bortoloni, con vista sul parco archeologico della
Caffarella. Era comodissimo in quanto era vicino alla stazione metropolitana dei Colli Albani,
mentre il traffico automobilistico che vi scorreva non era molto intenso.
Dopo appena cinque mesi dal matrimonio, l’ucraina che si chiama Svetlana, cominciò a proporre al
marito la vendita della loro casa in quanto il senatore aveva trovato una vera occasione in corso
Vittorio Emanuele II, vicino allo studio del politico e contemporaneamente non distante da Piazza
Navona.
Andarono a vedere la casa in vendita, di circa 80 metri quadri, contro i 120 della sua, mal divisa e
poco funzionale, dal costo esorbitante, per via della vicinanza alla celebre piazza.
Obiettò che la sua era senza dubbio di gran lunga migliore, ma la donna non volle sentire ragione e
tanto strepitò che alla fine fu costretto a svendere la sua e predisporsi a comprare l’altra, ricorrendo
ad un forte mutuo, di oltre 130.000 euro che gli fu accordato da una banca, dato il suo buon
trattamento economico.
Quando lo seppe la madre per il dolore si ammalò e quando il figlio le si presentò in ginocchio
davanti al suo letto di morte, di fronte ai suoi nipoti orfani e ai figli del fratello, ebbe la forza di
maledirlo e di chiedere ai nipoti di non accettarlo ai suoi funerali; e spirò rimanendo con gli occhi
sbarrati su di lui.
Egli cercò di avvicinarsi alla salma, ma i miei cugini lo allontanarono con fermezza e l’invitarono a
lasciare la casa.
Gli impegni finanziari per 15 anni furono sottoscritti solamente da lui, mentre la moglie risultò
intestataria di metà dell’appartamento, che assorbì anche i risparmi del povero Antonio.
I nipoti con atto di compravendita, voluta dalla vecchia congiunta, ereditarono la casa della nonna e
per potersi mantenere agli studi la vendettero a parenti, che s’impegnarono a permetterne loro l’uso
per alcuni anni.
Divenuta comproprietaria della casa in via Vittorio Emanuele, Svetlana non volle avere più rapporti
con lui, che un giorno tentò di forzare la sua volontà, provocando l’intervento del senatore, che lo
schiaffiò. La reazione di Antonio fu violenta, per cui il politico risultò pestato a sangue e per 15
giorni non si recò a Palazzo Madama.
E la risposta del senatore fu violentissima, in quanto fece picchiare selvaggiamente il poveraccio,
più di una volta, da una banda di camorristi della Campania settentrionale.
Il politico promise che l’avrebbe fatto uccidere, però solo dopo la vendita della casa da poco
comprata, di cui metà apparteneva per legge a Svetlana, che nel frattempo era andata a vivere in un
mini appartamento, a Montesacro, a spese del senatore.
Durante l’assenza di Antonio la casa fu letteralmente devastata: fu rovinato l’impianto elettrico,
distrutti i sanitari, frantumati i mobili, rotti i piatti, i bicchieri, in altri termini niente rimase integro
nella casa che risultò inabitabile.
Lo sconforto più totale s’impadronì di lui, che cominciò a vivere come un incubo la sua vita, privo
ormai degli affetti che l’avevano tanto gratificato.
Dovette affittare una casetta nei pressi di largo Boccea, per cui cominciò a pagare 800 euro mensili;
ormai la sua vita era diventata un inferno, e più di una volta meditò il suicidio.
Un giorno incontrò per caso la moglie del politico, che gli raccontò della relazione ormai non più
clandestina del marito, per cui ella s’era decisa alla separazione, spinta anche dai figli amareggiati
dall’atteggiamento del padre. L’amarezza della signora, che volle sapere come aveva fatto a
conoscere l’amante del marito lo sollevò un po’ e cominciò a nutrire nei confronti dell’uomo che gli
aveva procurato tanto male un odio inestinguibile e cominciò a meditare vendetta.
Per celare i suoi sentimenti chiese scusa al politico, che rimase sulle sue, ma che poco alla volta
cambiò atteggiamento, in cambio di un continuo sfottò di fronte a chicchessia, basato sul concetto
del supporto affettivo che egli dava al povero diavolo.
Un giorno persino il capo del governo si rivolse al senatore definendolo aiutante generoso di una
donna afflitta e di un marito incapace a copulare. Tale intervento procurò le risate scimmiesche di
una parte dei senatori della sua parte politica ed atteggiamenti di disgusto da parte dei suoi
oppositori.
Il senatore umiliava in continuazione Antonio commissionandogli delle incombenze servili ed
apostrofandolo con nomignoli svariati.
Egli sopportava con pazienza ogni affronto, per poter coronare il suo sogno ossessivo di vendetta.
Studiava piani di eliminazione fisica continuamente ed ipotizzava scenari truci.
Un giorno il senatore gli comunicò che Svetlana aveva deciso di vendere la casa e gli chiese la
disponibilità di fare altrettanto per la sua parte.
In questi giorni appunto, si è recato in Lombardia a chiedere consigli a mio marito. –
Smise di parlare la donna e questo racconto stimolò la fantasia d’Isidoro, che chiese alle due signore
di poter parlare al telefono con il loro congiunto.
Le due acconsentirono e favorirono immediatamente il contatto.
Damiano, il suo ex alunno, fu felice di sentirlo e disponibile ad incontrarlo, quando gli fosse
capitata l’occasione di andare in Lombardia.
E l’occasione la preparò, inventando una visita medica urgente e dopo tre giorni si ritrovò a Milano.
Isidoro dunque giunse al Mc Donald e si apprestò ad una consumazione al piano terra, quando entrò
il suo ex alunno che riconobbe, nonostante fosse passato tanto tempo.
Cominciarono a parlare del più e del meno e seppe che Damiano aveva smesso di lavorare a Palma
di Maiorca in quanto il mercato immobiliare non tirava più. Infatti s’era deciso di ritornare in Italia,
lasciando il compito ad un’agenzia di vendere circa 40 alloggi per uso turistico.
Egli grazie ad alcuni amici calabresi, a breve avrebbe iniziato a lavorare con i suoi mezzi all’Expo
2015 e ciò lo rendeva tranquillo in quanto aveva necessità anche lui di guadagnare.
Ad un certo punto Isidoro portò il discorso su quanto aveva appreso , fingendo afflizione per
Antonio ed il suo interlocutore gli rivelò che era disperato, pronto a qualsiasi cosa. Uscirono fuori e
camminando gli rivelò che addirittura andava alla ricerca di un sicario, per cui avrebbe pagato
anche il ricavato della sua parte della casa che prima o poi bisognava mettere in vendita. Si era
recato in Lombardia perché gli si trovasse un killer, ma Damiano pensava che fosse difficilmente
realizzabile l’eliminazione a Roma ed impossibile in Campania, dato che il senatore era protetto da
una falange di camorristi.
Isidoro espresse il desiderio di conoscerlo e Damiano li mise telefonicamente in relazione e preparò
per loro un incontro per la stessa serata, in quanto Antonio all’indomani sarebbe partito per Roma.
Egli non sarebbe stato con loro perchè sarebbe stato impegnato in una cena di lavoro con degli
amici calabresi a Corsico, dove avrebbero deciso la spartizione di alcuni appalti per l’Expo 2015.
L’incontro avvenne nella stazione di Rho, dove Isidoro aveva l’uso di un appartamento di un
congiunto momentaneamente assente. I due dopo aver consumato delle bibite in un bar, andarono
alla ricerca di un luogo isolato per poter parlare e cominciarono a camminare lentamente su una
strada sopraelevata che da Rho porta a Cornaredo.
Antonio era ansioso e depresso, ma risultò all’altro il soggetto adatto a portare avanti un progetto
eventualmente auspicabile per ambedue.
Egli evidenziò la sua repulsione per tutta la classe politica ed espresse sentimenti profondi di
disprezzo e di odio per il capo del governo, volgare, disonesto, spregiudicato, megalomane, che per
apparire si circonda di uomini mediocri, di nessun valore, capace di qualsiasi nefandezza, pur di
mantenere i propri privilegi ed il proprio smisurato potere.
Isidoro ascoltava ed osservava l’altro guardandolo attentamente nel corpo e nel volto. Gli appariva
molto bello, altissimo, snello ma forte, dai capelli castani fluenti, dagli occhi azzurri, dalla pelle
chiara. Somigliava un po’ ad Alain Delon e si meravigliava come l’ucraina l’avesse tradito, lasciato,
vilipeso preferendo l’altro.
Evidentemente ella cercava unicamente di realizzare un suo progetto che era quello di fare soldi.
- Perché ha voluto conoscermi? –
- Mi hanno interessato le sue vicende, in quanto odio forse più di lei il presidente, che amo chiamare
l’Uomo-Fogna. –
- E che risultato vuole ottenere dalla mia eventuale amicizia o collaborazione? –
- Dipende da lei. –
- Intanto cosa vuole da me? –
- Parliamo prima, così ci possiamo conoscere un po’. Dunque sono stato l’insegnante di lettere di
suo cugino Damiano …. –
- Anche io sono laureato in lettere, in lettere classiche per la precisione. –
- Strano caso. Anch’io sono laureato in lettere classiche. Ma come mai lei fa il commesso al senato
e non l’insegnante? –
- Ero sul punto di laurearmi quando morì mio padre, mi mancava solo qualche materia e stavo
lavorando sulla tesi in storia greca, su un argomento della mia terra, sulla tematica della “ubris”,
riferita alla distruzione di Siri e a quella di Sibari, che determinò la rovina della prima. –
- Bellissimo l’argomento. Anch’io all’epoca ho lavorato per la tesi, su un argomento di storia greca,
riferito ad un’opera attribuita falsamente, a Scilace di Carianda, un condottiero della Caria, che
venne in esilio in occidente dopo che la sua patria fu occupata dai persiani. –
- Ho letto anch’io lo Pseudo Scilace, in quanto avevo analizzato il contenuto etnografico da mettere
a confronto, per la mia tesi, con i popoli che abitavano l’Italia meridionale nel VI e nel V secolo
a.C. –
- Abbiamo dunque un interesse comune per la storia antica. –
- A quanto pare … Ma torniamo a noi. Mi racconti del motivo vero per cui è venuto a trovarmi. –
- Non ha risposto del perché non ha fatto l’insegnante … - Dunque quando morì mio padre, il nostro politico per eccellenza e benefattore della nostra terra,
venne a casa per farci le condoglianze, data l’amicizia che lo legava con il mio genitore e restò
impressionato positivamente della mia prestanza fisica e della mia preparazione culturale e m’invitò
a prendere parte ad un concorso che superai. Io consideravo tale lavoro provvisorio, ma data la
buona retribuzione alla fine rimasi a fare definitivamente il lavoro che consideravo transitorio;
anche se ugualmente conseguii la laurea da lì a poco. Ritorniamo ora sul primo argomento la prego.
Cosa vuole da me? –
- Senta, che considerazione ha dei politici italiani? –
- Guardi, salvo rare eccezioni, rappresentano la feccia d’Italia, sono in assoluto i peggiori cittadini
della nostra nazione e che pensano senza alcuna remora a rubare e a portare a termine progetti
infami. –
- C’è differenza tra i due schieramenti, secondo il suo punto di vista? –
- Guardi, quello del presidente è espressione della sua personalità in quanto, data l’impossibilità di
scegliere, cura nei minimi particolari la cernita dei suoi candidati ed opta per i più meschini, per i
corrotti, per i servi, che poi saranno, anima e corpo, acquiescenti alla sua volontà. Quelli del centrosinistra spiccano per inettitudine e pusillanimità e sono espressione di un debole apparato di partito,
pronto a scomparire; sono nel complesso più dignitosi. –
- Odia qualcuno in particolare? –
- È una domanda retorica la sua, in quanto è stata informata da mia cugina. –
- Per intensità di odio o di un sentimento consimile, chi è secondo nella sua graduatoria? –
- Ovviamente l’Uomo-Fogna, come lei lo chiama. Per cortesia vada al dunque e la smetta con
queste domande insulse, a questo punto. –
- Guardi sono stato contattato da un uomo dei servizi, il quale mi ha confidato che pensano di
eliminare il male assoluto che sta inabissando l’Italia in un mare di vergogna, di sperpero di
pubblici denari, di inefficienza e corruzione. Essi sono d’accordo con la massoneria, che fino al
momento l’ha sorretto; gli resta intatto il potere squalificato della chiesa, retta formalmente da un
papa senza carisma e scialbo, alla mercé di una banda di individui senza scrupoli, che pensa solo al
contingente, eliminando con operazioni alla K.G.B., gli spiriti onesti che la sorreggono.
Sono stato dotato di un fucile ad altissima precisione e di una piccola somma di denaro, ma mi è
venuto in soccorso il potere del caso ed ora dispongo di una quantità notevolissima derivante da una
potentissima organizzazione e la metto a disposizione per un progetto che miri a dare una lezione
alla squallida classe politica, all’insaputa dell’uomo dei servizi. –
- Guardi su due piedi, non le posso dare la mia disponibilità ma non l’escludo per il futuro. Mi lasci
il suo indirizzo e così in anonimato potrei eventualmente comunicare con lei. –
- Va bene, ma a questo punto le faccio dono di un telefono cellulare, intestato non so a chi, con cui
senza pericolo, potrebbe mandare dei messaggi a questo numero, il cui intestatario non sono io.
Sono stato dotato di questi apparecchi dagli uomini dei servizi. –
- Va bene prendo il portatile. –
- La prego di non usarlo per altri scopi e di non comunicare con esso, facendo delle conversazioni,
perché in questo caso esso risulterà bruciato, ossia inutilizzabile. –
- Stia tranquillo. –
Continuarono la conversazione camminando fino a Cornaredo, dove presero un caffè in un bar
frequentato in prevalenza da calabresi e poi ritornarono indietro ed arrivati sulla piazza prospiciente
la stazione di Rho si salutarono.
Isidoro sulla via del ritorno in Calabria si fermò per alcuni giorni a Roma, ospite della sua amica
Elia in via Azone, vicino Largo Boccea. Si alzava prestissimo e poi si faceva condurre da un taxi in
via degli Astalli nella chiesa del Gesù dove già alle sette confessava ad un giovane prete orribili
peccati mai commessi. Alla fine della confessione consegnava al ministro di Dio cento euro in una
busta.
All’indomani rivelava altri peccati dimenticati il giorno prima e poi dava l’obolo aspettato con
ansia.
A piedi percorreva l’ultimo tratto di corso Vittorio, via del Plebiscito, raggiungeva talvolta Piazza
Venezia e studiava la posizione di due alberghi della zona. Dalla sua analisi emergeva che non c’era
la possibilità nell’area di portare a termine, né con il fucile di precisione né con l’esplosivo un
attentato.
Espletata tale indagine, ritornò in Calabria, dedicandosi in modo rituale alla coltivazione di due
campi.
Rigorosamente non guardava la televisione e solo saltuariamente comprava dei giornali per tenersi
informato a grandi linee sulle vicende politiche nazionali ed internazionali. Passarono novembre e
dicembre e non ci furono novità. Solo alla fine di gennaio ebbe due messaggi nel telefonino
speciale, ambedue preceduti dalle coordinate geografiche e dalla lettera A, indicante azione.
Le coordinate riconducevano a due località improponibili, da non prendere assolutamente in
considerazione. A metà febbraio ebbe un messaggio sul telefonino particolare di Antonio, il
commesso di Palazzo Madama, che l’invitava per un incontro a Scalea, che dista non molto dal
confine con la Basilicata.
L’incontro era stato deciso per le 10 di un mattino che si prevedeva freddo, ma sereno. Per
raggiungere la località puntualmente, Isidoro partì alle cinque e trovò la strada libera del tutto di
traffico, ma la distanza era notevole, per cui arrivò a destinazione solo con mezz’ora di anticipo.
S’incontrarono in un bar a ridosso della stazione ferroviaria e subito entrarono nel vivo della
conversazione.
- Ho impiegato tanto tempo a farmi sentire, in quanto ho voluto raccogliere delle informazioni su di
lei, che sono risultate positive. A convincermi è stato determinante un suo compaesano che vive
ormai da molto tempo qui a Scalea. Qui ho una casettina che uso per l’estate, vicina a quella del
signore in questione e alla fine di gennaio ci trovammo assieme e ad un certo punto la
conversazione fu incentrata su di lei, che avevo incontrato a Milano. Quando gli feci il suo nome e
quello del suo paese egli per tutta risposta prese dalla sua biblioteca due testi e m’invitò a leggere il
nome dell’autore che risultò essere lei. Lessi la sua dedica e capii che vi conoscevate. A questo
punto mi rivelò che lei è un idealista, ossessionato dall’amore per la verità, onestà, giustizia, per una
patria che non esiste più, vilipesa e distrutta da una classe politica stracciona, la più ladra
dell’Europa, sorretta da cittadini sempre più squallidi e più acquiescenti ai potenti di turno.
Lessi poi la presentazione dei libri di cui risultava autore e capii che potevo fidarmi e sono qui a
sua disposizione, se posso essere utile. –
- È indispensabile. Come ha risolto i suoi problemi? - Mi hanno sottoposto a pestaggi altre due volte, per costringermi a mettere in vendita la casa, per
poi dare almeno la metà del ricavato all’ucraina. Tento però di resistere in quanto il senatore ha
programmato il mio assassinio dopo la vendita. Questo l’ho saputo dal marito di mia cugina, l’ex
alunno suo, che come ha potuto capire è organico alla ndranghita calabrese. In aggiunta mi hanno
fatto sapere che se oso fare denuncia uccideranno i miei nipoti. L’unica alternativa è quella di
uccidere quel verme. Inoltre sono oberato dai debiti con le banche ed avrei bisogno urgente di una
somma al momento di circa 100.000 euro. –
- Senta Antonio non deve pensare ai soldi, che sono l’ultima cosa. –
- L’ultima cosa, ma ora ho bisogno di soldi … sono disperato … Ed il poveretto si mise a singhiozzare come un bambino.
- Antonio, per cortesia, non è dignitoso da parte sua comportarsi così. I soldi li avrà perché glieli
darò io, a partire da domani. –
- E lei me li darà in cambio di che? –
- In cambio di niente, anzi io l’aiuterò inoltre a consumare la sua vendetta, necessaria per la sua
incolumità. –
- Non capisco perché mi vuole aiutare. –
- Io l’aiuterò perché odio i politici, come già le dissi a Rho ed il suo nemico è un politico. –
- Ho capito, se per questo io li odio più di lei perché ci vivo assieme. –
- Ed allora assieme faremo fuori più di uno, con il senatore. È contento? - Non vedo l’ora … ma come? –
- Guardi, volendo posso avere a disposizione dei finanziamenti per un attentato ad un politico o a
più politici da parte di un’organizzazione che vedrebbe di buon’occhio qualcosa di questo tipo per
iniziare a liberare l’Italia dalla feccia. –
- Ma ci vorrebbe un attentato con esplosivo ad uno dei due rami del parlamento, perché si possa
raggiungere lo scopo. –
- Se questo è il suo pensiero io la posso aiutare a tradurlo in azione. –
- Ma come? –
- Non corra e cominci a pensare ad un progetto e al resto ci penso io, ossia ai finanziamenti e a tutto
ciò che occorre. –
- Guardi lei sta promettendo con troppa facilità cose a cui io stento a credere e prima di continuare
su questi temi mi dia una prova che lei non dice solo chiacchiere. –
- Va bene, ho capito, io adesso farò subito ritorno a casa e stanotte ripartirò per questo posto con i
soldi promessi. Quanto le serve? –
- Le ho detto prima almeno 100.000 euro. E poi i miei nipoti, nonostante abbiamo venduto la nostra
casa avrebbero necessità di una certa somma di denaro per essere tranquilli e concludere i loro
studi. –
- Ho capito, va bene una somma di 150.000 euro? –
- Va bene. Ma come me li darà? –
- In contanti. –
- Sicuro che non sono falsi? –
- Guardi domattina prima dell’apertura delle banche cercherò di essere qua e così lei con somme
inferiori a 5000 euro, anche se di poco, per evitare accertamenti di polizia, si presenterà agli
sportelli bancari e trasformerà in assegni circolari intestati a lei i soldi che io le darò e così facendo
verificherà se sono falsi o meno. Naturalmente in ogni banca lei si potrà far intestare un solo
assegno, per cui dovremmo girare da un paese all’altro. Nel tempo che avremo a disposizione
potremmo fare le operazioni in cinque o sei banche. Ciò però le servirà per fugare i sospetti, mentre
la continuazione di tale procedura la proseguirà a Roma in banche diverse ed in giorni diversi, per
evitare le ripeto, accertamenti di polizia.
Ora ci lasciamo in quanto deve ripercorrere più di 250 km. –
- A domani dunque. –
Isidoro arrivò a casa sul pomeriggio inoltrato e dopo aver mangiato velocemente si recò nella sua
piccola cantina, dove aveva nascosto la somma di denaro rubata alla ndranghita. In un angolo buio,
aveva scavato una buca ed interrato il borsone, poggiando sopra un vecchio armadio. Al tempo del
furto, per alcuni giorni, aveva provato una forte emozione quando si trovava vicino a quella quantità
notevole di soldi, ma una notte ebbe un incubo terribile, che gli fece provare disprezzo per quel
tesoro. Sognò infatti che si trovava nel luogo sopra accennato per effettuare il travaso del vino,
quando in un angolo si udirono pianti infiniti di giovani che lamentavano le sofferenze patite per via
della droga. All’improvviso dal posto dove era nascosto il borsone cominciò ad emergere un rivolo
di sangue accompagnato dai lamenti, che cominciò a lambire Isidoro. Dal sangue che gli bagnava i
piedi si alzavano gridi disperati misti a sospiri e poi il rivolo raggiunse l’uscio e cominciò a scorrere
su una stradina antistante.
Anche all’esterno dal sangue si levavano lamenti ancora più forti e all’improvviso da esso emerse
una schiera di giovani emaciati, che puntarono il dito contro Isidoro gridando: “la sete di denaro si
nutrisce del nostro corpo!” A questo punto si svegliò dall’incubo e si ritrovò madido di sudore.
Il giorno successivo pensò di distruggere il denaro, ma dopo, riflettendo, decise di risparmiarlo per
usarlo in modo utile a favore di altri o per una giusta causa. Non utilizzò per fini personali neppure
un centesimo e tutti i giorni si portava appresso una scorta di monete da due euro e li dava a tutti
coloro che ne richiedevano.
Infatti aveva fretta di sbarazzarsi di quel mostruoso coacervo di peccati e quando andava in quel
posto a prendere qualche bottiglia di vino, immediatamente si sentiva sporco in tutto il suo essere.
Prelevò dal nascondiglio in cantina 150.000 euro, sistemandoli in un suo vecchio borsello che
ripose poi sotto il sedile della vecchia macchina e rientrò a casa.
Poco prima delle quattro di un mattino freddissimo, ma sereno si ritrovò in viaggio e alle 8 fu a
Scalea.
Incontrò Antonio e cominciarono le operazioni, usando banche diverse, in paesi diversi, puntando
sempre verso la stessa direzione, che in quel caso era il sud.
Conclusero la riconversione in assegni a Paola, durante la breve apertura pomeridiana e alla fine
furono capaci di convertire in assegni circolari circa 50.000 euro.
Antonio era ormai sereno e a partire dalle undici cominciò a raccontare barzellette, di cui alcune
apprese dall’Uomo-Fogna.
Isidoro consigliò ancora Antonio di usare solo i contanti che gli aveva dato, risparmiando il suo
conto in banca. Chiese inoltre quanto di quella somma avrebbe destinato ai nipoti ed Antonio gli
rivelò che nella stessa giornata avrebbe loro consegnato 45.000 euro.
Gli chiese inoltre se desiderasse riscattare la casa dei genitori ed Antonio rispose negativamente in
quanto i ragazzi semmai avrebbero avuto bisogno di una casa a Roma, anche se piccola.
Isidoro promise un aiuto e a questo punto portò il discorso sul progetto “politico”.
- Dunque, come sta il senatore? –
- Lui bene e attualmente con quella poco di buono di Svetlana si trova in Brasile, per cui sono
tranquillo. –
- Ancora è dell’avviso di procedere verso una soluzione radicale? –
- Sempre più convinto –
- Ha studiato un piano? –
- Due addirittura. Uno si pone degli obiettivi minimi, con l’eliminazione dell’Uomo-Fogna e del
senatore, in una località della costiera amalfitana, nella casa di villeggiatura del politico campano,
dove so per certo, trascorreranno un fine settimana in maggio. A cento metri dalla dimora estiva del
senatore sorge un albergo dove noi ci potremmo recare e tentare l’eliminazione dei due con un
fucile di precisione.
L’albergo sovrasta la casa con la sua posizione dominante ed è immerso in un parco selvaggio,
disponibile all’uso dei clienti e da un anfratto roccioso, sommerso dalla macchia mediterranea, si ha
sotto tiro la casa del senatore, che si affaccia in una piccola cala non servita da strada. A 200 metri
dall’albergo, verso l’alto si snoda una strada utile per una veloce via di fuga verso un’altra a
scorrimento veloce. In alternativa alla soluzione dell’albergo c’è quella di una villetta, circondata da
un boschetto di allori e di corbezzoli, più vicina alla strada, distante circa 250 metri dalla villa del
senatore, in posizione prospiciente l’altana, dove il politico suole consumare i pasti. –
- Io credo che sia preferibile la villetta. –
- Solo che l’affittano in nero per tutto l’anno e chiedono 15.000 euro. –
- Non ci sono problemi. –
- Senta dovrebbe trovare un fucile di precisione. –
- Sarà fatto quello che lei richiede. –
- Chi sparerà? –
- Lo farò io. –
- Ma su chi? Io preferirei il senatore. –
- Sarebbe un obiettivo minimo e non risolutore dei suoi problemi. Eliminando invece l’UomoFogna, il quadro politico sarà destabilizzato dalle fondamenta, il suo senatore sarà raggiunto da un
avviso di garanzia o da un mandato di cattura, mentre contemporaneamente sarà varato un governo
tecnico di salvezza nazionale. –
- Forse ha ragione lei. –
- Questo è il progetto minimo e quello più ambizioso quali percorsi prevede? –
- Apparentemente è quello più complicato, però credo che sia più incisivo e più facilmente
realizzabile. Infatti esso prevede la collocazione di un ordigno esplosivo da parte mia dentro
Palazzo Madama, facendolo poi esplodere a distanza. –
- Lei studi il piano perché per il resto penserò io. –
- Per il primo progetto bisognerebbe contattare a breve il proprietario e fare al più presto un
contratto in nero per tutto l’anno. –
- Mi comunichi la data ed io verrò con l’occorrente entro 24 o 48 ore. –
- Allora è tutto a posto e a breve mi farò sentire. Adesso cosa vuole fare. Le posso offrire un
pranzo? –
- No grazie, ho problemi di rientro e non voglio tardare. Mi offrirà un caffè e poi ci lasceremo. E così avvenne e dopo mezz’ora Isidoro fu sulla via del ritorno.
Trascorse febbraio e marzo e non ci furono novità, ma all’inizio della seconda decade di aprile sul
telefonino speciale Isidoro ebbe un messaggio di Teodoro, con cui indicava la data del suo arrivo,
all’aeroporto di Reggio e l’ora con un volo del mattino da Roma.
Fu puntuale l’aereo da cui scesero Teodoro e l’uomo dei servizi, che dopo aver ritirato il bagaglio
cercarono con lo sguardo Isidoro, che andò loro incontro festante e li costrinse riluttanti ad un bacio
affettuoso.
Era andato a riceverli con la macchina della moglie, una Punto nuova e ben tenuta, con cui, dopo
una consumazione rituale al bar dell’aeroporto, partirono.
- Tutto a posto? – Iniziò l’uomo dei servizi.
- Insomma. Io tiro avanti con la mia famiglia a stento, dato che sono l’unico ad avere un reddito
derivante da una pensione. Per la situazione in Italia, lei la conosce meglio di me. Qui dalla metà
degli anni 70 in poi la funzione di governo l’assolve la ndranghita. –
- Lo so. Ormai le mafie stanno governando tutta l’Italia, con qualche rara eccezione. Ancora
reggono il Trentino Alto Adige e forse la Valle d’Aosta, dove è in atto l’infiltrazione da alcuni
anni.- Come sta il governo? –
- Si regge per mancanza di alternativa, ma gli scricchiolii si sentono ormai chiaramente. –
- Non si è fatto niente poi. –
- Non c’è più bisogno, perché persino l’interessato sa che la sua fine politica è vicina, per cui si
preoccupa di trovare delle vie di fuga per buona parte dei suoi capitali, collocandoli in Libia,
Russia, Bielorussia. Il problema sussiste per il dopo, quando deciderà di togliersi dai piedi. Quando
il partito del Nord, è quasi vicino il tempo, lo abbandonerà, si arriverà ad un governo d’unità
nazionale. –
- Meglio così. –
- Forse sì, ma i danni prodotti dal personaggio sono stati infiniti; ha fatto scempio dell’Italia, dove i
corrotti ad ogni livello hanno avuto il via libera ad operare, con la conseguente prevaricazione degli
onesti. –
- Senti – irruppe Teodoro – il signore qui presente, è diretto in Sicilia, mentre io resterò con te
qualche giorno. Vuoi accostare da qualche parte? Parleremo velocemente di qualcosa e poi
l’accompagneremo a prendere un aliscafo per Messina. –
- Dunque – riprese l’uomo dei servizi – la registrazione che lei mi ha fatto, potrebbe cancellarla, se
lei ha una sola? –
- Subito. Ho una sola, contenuta nel telefonino che mi porto appresso. È sufficiente che lei controlli,
poi tirerà fuori la scheda e la distruggerà. –
- Se lei è d’accordo … - Assolutamente. –
Si fermarono in un bar, fecero l’operazione e subito dopo lo accompagnarono a prendere un aliscafo
al porto di Reggio.
Questa volta presero la via del ritorno e non parlarono per un po’.
- Dunque – ricominciò Teodoro – mi sono documentato su quelle notizie storiche che ti contestavo
ed avevi ragione tu. La storia d’Italia è stata falsificata almeno per gli ultimi 150 anni. Comunque
sia credo che questa Italia, basata sulla menzogna e sull’intrigo stia arrivando al capolinea, o si
cambierà oppure essa, come nazione cesserà di esistere. –
- Ma come si farà? –
- Tutto è in movimento e si sta tentando, contrariamente a quello che si è detto prima o di
allontanarlo dal potere con le buone o sarà ucciso in una congiura di palazzo. Qualcuno dei suoi
“pretoriani” è già d’accordo. Si preferisce la prima ipotesi. –
- Quanto tempo passerà? –
- Dipende dalla pressione finanziaria internazionale, che sta tentando di destabilizzare l’area euro.
Guidano l’operazione rischiosissima i possessori di titoli di stato ma fanno la loro parte anche
singoli stati. Nel caso riuscisse l’attacco all’Italia, in pochi giorni si arriverà ad un governo di salute
pubblica, con l’estromissione dell’Uomo-Fogna dal potere, con la possibilità del suo arresto e della
sua eliminazione fisica. –
- Quindi tutto si deciderà a breve? –
- Si dice entro l’anno. –
- Tu come stai, come mai da queste parti? –
- Sono venuto con il preciso compito di consegnare a te il denaro rubato alla ndranghita. –
- Come mai? –
- Quando arrivai a Torino, la sera stessa andai a cenare in un ristorante lussuoso, pagando con quei
soldi e la notte feci indigestione. Giorni dopo feci la stessa cosa in un altro ristorante e all’indomani
mi ritrovai ricoverato in ospedale per intossicazione alimentare. E la prima notte di ricovero in
sogno mi apparvero decine e decine di giovani che piangevano lacrime di sangue che cadendo per
terra di trasformavano in un rivolo che si dirigeva verso di me e quando mi raggiunse si trasformò
gradualmente in un grumo sempre più grande che imprigionò poco alla volta il mio corpo e quando
esso arrivò a livello della bocca mi svegliai. Da quel momento in poi non usai più quei soldi, anzi
ricomposi la somma con denari miei per quello che avevo speso e ho portato tutto con me, pronto a
consegnarlo a te. –
- Ed io che c’entro, non sono certo un affiliato alla ndranghita e non avrei come spenderli se non a
mio favore. Dato però i presupposti, ossia gli incubi che perseguitano i possessori che li usano a fini
personali, non posso accettarli. –
- Allora non ci resta che andare a riporli dove li abbiamo presi. –
- Non è neppure proponibile ciò, in quanto firmeremmo la nostra condanna a morte, nel caso
fossimo sorpresi da quelle parti. –
- Ed allora cosa mi consigli? –
- Consegna la somma alla Caritas, che di sicuro l’accetterà. –
- L’organizzazione a cui hai accennato utilizza il 90 % dei fondi destinati in Italia alle associazioni
che operano senza fini di lucro e successivamente partecipa anche al residuo 10%. In altri termini
s’impadronisce di quasi tutti i fondi disponibili. –
- Ho capito, allora consegna i soldi ad Emergency di Gino Strada. –
- Mi hai dato un’idea, Strada è una persona meravigliosa e farò ciò che mi hai suggerito. –
- Ascolta io ti consegnerò la somma datami dall’uomo dei servizi, a cui tu la girerai. –
- Lo farò. –
E poi il fucile – recitò Isidoro – che tu riconsegnerai. –
- Naturalmente lo porterò a tracolla sull’aereo. Fa di esso ciò che vorrai. Distruggilo, buttalo in
mare. –
- Lo lascerò invece lì dov’è, tanto in pochi anni la ruggine lo renderà inutilizzabile. Senti e i
telefonini ed i documenti falsi? –
- Tienili per il momento, possono essere utili nel caso ci fosse ancora un cambiamento di
programma. –
- Allora andiamo a casa mia? –
- Senti dato che riporterò indietro i soldi, per cui ero venuto, torna indietro all’aeroporto, da cui
partirò con il primo volo utile per Roma, Torino o Milano. –
Tornarono indietro, ma il primo volo per una delle tre destinazioni fu nel primo pomeriggio e così
ebbero modo di fare un’escursione sul territorio visitando il castello di S. Aniceto e poi Motta S.
Agata, che gratificarono moltissimo Teodoro. Nel primo pomeriggio un aereo lo portò via ed
Isidoro tornò a casa, contrariato per non aver potuto restituire i soldi all’uomo dei servizi. Si
ripromise di andare appositamente a Torino, per consegnarli a Teodoro, che aveva assentito a tale
proposta.
Dopo qualche giorno il telefonino speciale di Antonio, il commesso di Palazzo Madama, segnalò un
appuntamento a Maratea, per l’affitto della villa per tutto l’anno sulla costiera amalfitana; il costo
sarebbe stato di 20.000 euro. L’incontro avvenne alle ore 9 del 17 aprile, per cui ancora una volta
Isidoro partì prestissimo, attorno alle tre con l’occorrente; portò con sé anche i documenti falsi, di
cui fece delle fotocopie. Il signore proponente l’affitto era un distinto pugliese sulla cinquantina di
Gioia del Colle, che ebbe la premura di portarsi dietro il titolo di proprietà. Viaggiarono su una
potente BMW del proprietario della casa e imboccata l’autostrada raggiunsero ben presto Vietri sul
Mare e viaggiando sulla statale 163, dopo breve tempo furono nella villetta, non grande, graziosa,
immersa in un giardino all’inglese, costituito da essenze mediterranee. La casa era prossima alla
statale, da cui in poco tempo si sarebbe potuto raggiungere l’A3. In un momento di distrazione del
proprietario, Antonio indicò ad Isidoro la villa del politico, distante circa trecento metri, con l’altana
ben visibile dalla villetta proposta in affitto. Era circondata da un muretto elegante in pietra a vista e
costruita con sobrietà e buon gusto; era dotata di un grande giardino.
I due evidenziarono al pugliese il loro apprezzamento per la casa ed in pochi minuti stilarono un
contratto da non registrare e dopo il pagamento con banconote da 500 euro, sottoposte a verifica di
autenticità tramite una macchinetta, avute due copie di chiavi, partirono verso Sud.
Percorsero in minor tempo il tragitto e ben presto furono a Maratea. Rimasti soli, Antonio espresse
ad Isidoro la sua preoccupazione in quanto era stato picchiato ancora una volta. Il pestaggio aveva
avuto doppia funzione, quella di costringerlo a svendere la casa e l’altra punitiva. Infatti il senatore,
camorrista organico, non aveva mandato giù la reazione di Antonio che aveva osato difendersi,
picchiandolo al cospetto di persone.
Ciò costituiva un punto di forza per il progetto in quanto il commesso in modo disperato tendeva
alla stessa finalità di Isidoro, che promise all’altro, nel caso riuscisse l’attentato un premio di un
milione e duecento mila euro, come al solito in contanti, offerti da un’organizzazione segreta che
aveva a cuore la salvezza dell’Italia. Si lasciarono con l’augurio di rivedersi a maggio.
Ed in effetti il 19 maggio apparve un messaggio sul telefonino speciale che indicava per il 22
seguente un incontro di lavoro tra il senatore e l’Uomo-Fogna, alle 21 di sera. Nella stessa serata
Isidoro fu in viaggio per Maratea, che raggiunse alle 22. Si portava dietro 150.000 euro come
anticipo del premio promesso ad Antonio, i documenti falsi ed il fucile di precisione, riposto nella
custodia di uno strumento musicale. La restante parte del tragitto la percorsero sull’automobile di
Antonio, sul cui cruscotto campeggiava protettiva un’immagine di S. Attanasio. All’una di notte
erano già a letto. Trascorsero i due giorni in casa, uscendo solo per fare la spesa e badando solo a
cucinare e a studiare nei minimi particolari una fuga fulminea dopo l’attentato.
Antonio ebbe la forte somma di denaro con la promessa della parte restante a qualche giorno
dall’evento ormai prossimo.
Arrivò l’ora tanto attesa e nessuno arrivò, furono svegli tutta la notte in trepidazione, ma invano.
Alle sette del mattino del 23 s’addormentarono e quando si svegliarono, nel primo pomeriggio,
delusissimi andarono via.
Progettarono durante il viaggio il tentativo disperato dell’uso dell’esplosivo, che Isidoro avrebbe
dovuto procurare. Antonio da tempo doveva portare al senatore in tre pacchetti per Svetlana, una
coppia di abat-jour in oro e cristallo che le aveva regalato al principio del loro rapporto e un
diadema in filigrana d’oro bianco, impreziosito al centro da un turchese, dono per l’agognato giorno
del matrimonio. Li conservava gelosamente nella sua nuova casa, in ricordo degli intensissimi
sentimenti che aveva provato per la sposa infedele.
Al posto del diadema e di un abat-jour, avrebbe recato doni dispensatori di morte e proponeva
inoltre un tributo prezioso per l’Uomo-Fogna. Bisognava fare presto perché le pressioni che
venivano esercitate su di lui erano diventate insopportabili e a breve avrebbe dovuto cedere e
mettere in vendita la casa. Dal canto suo avrebbe indicato la data della visita del presidente in
senato, per cui il giorno prima Isidoro sarebbe partito con le cose necessarie. Si lasciarono a
Maratea ed ognuno prese la via di casa.
Dopo qualche giorno fu comprato il dono prezioso per l’Uomo-Fogna, creazione del grande orafo
calabrese Gerardo Sacco, costituito da un piccolo scettro in oro abbellito da bande di smalto
oblique, verdi ed azzurre; esso era sormontato da una croce giustinianea, smaltata in rosso rubino.
L’oggetto era contenuto da un cofanetto di cristallo, che l’evidenziava con la sua trasparenza.
Nel frattempo Isidoro preparò in confezioni eleganti due delle tre cariche esplosive, che sistemò in
un borsone separandole tra loro da una quantità rilevante di lana di vetro e deponendole nella
cantina.
Ogni giorno aspettava con trepidazione il segnale per l’ultimo tentativo e si distraeva da qualsiasi
altro pensiero o dalle occupazioni solite, che di solito l’appagavano. Aveva consultato varie volte
gli orari dei treni per l’andata e quello degli aerei per il ritorno. Sarebbe arrivato a Latina, dove
avrebbe consegnato il tutto ad Antonio e poi in tempo utile sarebbe stato accompagnato da un taxi a
Fiumicino. Aveva contato le ore, i minuti per sé e per l’altro, ma tutto gli sembrava molto difficile,
impossibile da attuarsi. I giorni erano interminabili, come pure le ore ed i minuti che sembravano
dilatarsi e non passare mai.
Passò la prima decade di giugno ed allora Isidoro comprò una valigetta dove ripose i due
telecomandi per le cariche esplosive in altrettanti contenitori rigidi e poi aggiunse 200.000 euro per
Antonio. Il tempo passava lentamente e nessun messaggio arrivava. Il 25 di giugno arrivò una
lettera senza mittente con un messaggio costituito da lettere di giornale incollate su un foglio, che
spiegava: “sono disperato, ho comprato una pistola e se non capiterà qualcosa di nuovo, provocherò
il senatore, che mi picchierà ed io l’ucciderò”. Chiaramente era Antonio.
Trascorsero altri giorni e finalmente il 5 luglio arrivò un messaggio dal suo telefonino speciale, in
cui si annunciava la seguente comunicazione: 15 luglio, ore 10,40; arrivederci a Latina alle sei e
trenta.
Isidoro andò in un’agenzia e prenotò un biglietto con un posto in cuccetta di prima classe per la sera
del 14 su un treno per Roma, con partenza da Reggio alle ore 19; l’arrivo a Latina sarebbe stato alle
ore sei e trenta. Contemporaneamente comprò un biglietto aereo, intestato al nominativo dei
documenti falsi e si preparò alla partenza.
Il giorno 14, con il borsone e due valigette, di cui una contenente i telecomandi e i soldi per
Antonio, partì alle 16 con la sua vecchia Panda alla volta di Reggio ed arrivato all’aeroporto, la
posteggiò nei pressi di esso in una stradina. Da un taxi si fece poi accompagnare alla stazione di
Reggio, da cui partì in treno alle 19. Nello scompartimento a lui assegnato fu solo, ma non riuscì a
prendere sonno, in quanto temeva, in caso di urti violenti, che esplodessero le cariche. Stette
lontano dal suo posto per tutta la notte e fu per lui una liberazione l’arrivo a Latina alle 6 e 30 .
Scese velocemente, incontrò Antonio, lo salutò, gli mostrò i telecomandi, indicati con il numero 1 e
il numero 2, poi la somma di denaro e a questo punto gli ribadì la promessa; ad operazione
completata gli avrebbe consegnati i restanti 700.000 euro.
Gli raccomandò di attirare l’Uomo-Fogna nel posto dove avrebbe collocato la prima carica,
consegnata sotto forma di regalo al senatore della camorra, con l’evidenziazione dello scettro d’oro.
Nel frattempo andando fuori con la scusa di andare a prendere il diadema, avrebbe spostato verso
l’uscita la seconda carica e poi allontanandosi un po’ avrebbe fatto deflagrare le cariche; la seconda
dopo 20 secondi dalla prima. Si lasciarono velocemente ed Isidoro con un taxi raggiunse Fiumicino,
con un solo bagaglio a mano, la sua valigetta personale. Alle 9,15 decollò l’aereo per Reggio, dove
atterrò alle 10,30.
Già alle 10,45 era alla guida della sua vecchia auto e cominciò a correre come non mai verso casa,
perché sospettava qualche contatto telefonico. Negli ultimi chilometri prima di arrivare, per le
strade notò delle strane animazioni; la gente era in festa e molti si abbracciavano. Addirittura
incrociò un corteo strombazzante di macchine, talvolta dotate di bandiere tricolori.
La stessa animazione la notò nel paese dove abitava, che attraversò con difficoltà. In ogni casa le
televisioni erano accese ad altissimo volume e davano edizioni straordinarie.
Arrivò a casa alle 11,20; non c’era la moglie, al lavoro, né le figlie, forse al mare.
Alle 11,35 arrivò un messaggio da Teodoro con la seguente comunicazione: L’Uomo-Fogna non c’è
più, volato in cielo con altri 33 tra lacché . Ti contatterò subito da un telefono pubblico sul tuo di
casa perché voglio verificare la tua estraneità al meraviglioso evento; io non parlerò tu mi reciterai
la poesia di Casile,che mi hai fatto leggere.
Dopo un po’ squillò il telefono e non avendo avuto risposta Isidoro cominciò a recitare:
- È inverno, tutto diventa freddo,
fredda la speranza degli uomini,
fredda l’acqua dei ruscelli
che mormora giù nella valle.
Freddo il sogno della notte
che l’uomo abbraccia nell’oscurità,
freddo anche il mio cuore,
non batte più nel petto.
La mia vita …. –
Un suono metallico interruppe il contatto quasi alla fine della recita.
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