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Partiti e primarie: ovvero, che tipo di primarie, e per quale modello di
PARTITI E PRIMARIE:
ovvero, che tipo di primarie, e per quale modello di partito?
di Antonio Floridia
Osservatorio Elettorale della Regione Toscana
in Partecipazione e conflitto, n. 1, 2011
1. L’ambigua “democratizzazione” dei partiti.
Uno dei temi su cui la ricerca politologica sui partiti e le loro trasformazioni è riuscita negli ultimi anni a
fornire un significativo contributo è quello dei processi di “democratizzazione” della loro vita interna1.
L‟interpretazione più diffusa prende le mosse dalla classificazione delle dimensioni organizzative dei partiti
proposta da Katz e Mair (1995, tr.it., 2006): i partiti sono sempre più proiettati nella dimensione del central
office e concentrati nelle attività del public office, e sempre meno attenti alla dimensione del partito on the
ground, ossia al partito che vive “sul territorio” e che assegna un forte ruolo agli iscritti e ai militanti. E
tuttavia, con un dato solo in apparenza paradossale, questi stessi partiti, che pure hanno visto, generalmente,
una costante diminuzione del numero dei loro iscritti, hanno anche scelto di attribuire un accresciuto potere
decisionale alla loro “base”, specialmente in alcuni momenti chiave, quale la selezione dei candidati alle
cariche elettive e la scelta della leadership 2.
Sulle motivazioni di questo fenomeno le spiegazioni più ricorrenti sono abbastanza condivise: un bisogno di
legittimazione, a fronte della crescente “impopolarità” dei partiti; un tentativo di ricostruire un rapporto con
iscritti ed elettori sempre più debole; un bisogno di sperimentare nuove forme di coinvolgimento
dell‟opinione pubblica. Si tratterebbe quindi di un tentativo di risposta strategica alle sfide ambientali, e un
modo per contrastare, in particolare, quel deficit di credibilità che investe i partiti in molte, se non in tutte, le
democrazie contemporanee. Secondo l‟interpretazione più ricorrente, la logica che ha guidato questo
processo rimanda ad una consapevole strategia della leadership, alla ricerca di una legittimazione diretta
“dalla base”, che “by-passi”, per così dire, tutte quelle procedure, tipiche del vecchio partito di massa, che
davano peso e potere ai gruppi dirigenti intermedi e ad uno strato ampio di militanti di base. Da qui, l‟appello
diretto agli iscritti, o anche ad una base “esterna” di elettori, e la creazione di un circuito immediato di
consenso tra leadership e membership, che permetta un‟investitura “dal basso”, ma conceda anche una larga
1
Per una sintesi sullo stato della riflessione sui partiti, Massari (2004) e Ignazi (2004). Tra le opere più recenti e significative,
citiamo qui, Dalton e Wattenberg (2000); Diamond e Gunther (2001); Luther e Mueller-Rommel (2002); Gunther, Montero e Linz
(2002). All‟interno di questi volumi, in particolare, Scarrow (2000), Poguntke (2002 e 2004. Una raccolta importante di saggi, in
italiano, in Bardi (2006). Sulla più recente evoluzione dei partiti italiani, Bardi-Ignazi-Massari (2007) e Morlino-Tarchi (2006). Per
un punto di vista della cultura costituzionalistica italiana sul tema della democrazia nei partiti, si veda il volume curato da S. Merlini
(2009).
2
Una rassegna in Ignazi (2004), ma poi si vedano Hazan (2006) e Scarrow-Webb-Farrell (2000, 139).
autonomia e libertà di manovra “dall‟alto”. Una prassi e una concezione del partito che, molto spesso, non
rifugge da venature populistiche, accentuando la contrapposizione tra i cosiddetti “apparati” e il leader, e
additando le “resistenze” degli stessi apparati come fattore di freno al libero ed efficace dispiegarsi della
strategia del vertice3.
Questa interpretazione dei processi di democratizzazione, e della loro ambivalenza, consente indubbiamente
di cogliere il senso di molti processi di cambiamento organizzativo che hanno caratterizzato i partiti europei
nell‟ultimo ventennio. Tuttavia, appare piuttosto schematica la visione secondo cui la middle-level élite,
“scavalcata” e depotenziata dalle procedure di elezione diretta, sarebbe portatrice di posizioni ideologiche un
po‟ rétro, o più radicali, che impedirebbero la più disinvolta capacità di manovra dei “nuovi” leader
“modernizzanti”4.
A noi sembra piuttosto che, in questo modello interpretativo, risulti significativo, e forse più generalizzabile,
un altro elemento: quello di una visione atomizzata e individualistica della partecipazione democratica.
Come scrive Mair, “i partiti, in effetti, stanno operando un‟attenta e consapevole distinzione tra diversi
elementi all‟interno del party on the ground, nel senso che il processo di democratizzazione interno si va
estendendo ai membri in quanto individui piuttosto che a ciò che possiamo definire il partito organizzato sul
territorio” (Mair, 1994,16).
Quello che qui a noi preme sottolineare è che questo tipo di “democratizzazione” non è un “paradosso”, o un
elemento ambiguo, rispetto ad un modello di partito che possiamo definire “èlitistico-elettorale”, ma un
elemento ad esso perfettamente “funzionale”. Si configura, cioè, attraverso il diffondersi di procedure di
elezione “diretta”, un modello complessivo di “democrazia interna” che si presenta del tutto congruente con
alcune linee di tendenza che caratterizzano la trasformazione dei modelli di democrazia, tout court, del
nostro tempo: ovvero, riprendendo le parole di Poguntke e Webb (2005, 354), quelle tendenze che vedono
“le democrazie moderne” muovere “verso una fusione tra modelli elitisti e modelli plebiscitari di
democrazia”. E‟ questo scenario che ci induce a ritenere più appropriato, rispetto ai vari tentativi di
classificazione dei partiti contemporanei, questo accento sulla dimensione èlitistica ed elettoralistica che
sembra oggi prevalente in molti partiti5. E‟ un modello elitista di partito, in quanto tutto viene affidato alla
3
Tra le ragioni che possono motivare la ricerca di una legittimazione “diretta”, Scarrow-Webb-Farrell (2000, 132) ricordano anche
come sia difficile, per una leadership che pure sia mossa da una volontà di “autonomia strategica”, “mortificare” il ruolo della
membership: e questo, anche a causa di quella che gli autori definiscono “the cognitive mobilization of western publics”, che ha
portato ad un orientamento favorevole alla “democrazia partecipativa”, specie in quella parte di cittadini più attivi e politicamente più
consapevoli: “in an era where many debates have populist overtones, legitimacy – the image of being „of the people‟ -, may be one of
the least substituable of the benefits which members can corporately confer” (ivi).
4
E‟ un‟interpretazione, quest‟ultima, che sembra limitarsi a generalizzare una vicenda sicuramente significativa, ma pur sempre
circoscritta, quale è stata quella del New Labour di Tony Blair. Non c‟è dubbio che questa fosse la situazione nel Labour Party “preBlair”, a causa dello storico legame con le Trade Unions; ma non pare che sia una diagnosi sempre e comunque valida. Per alcune
osservazioni critiche, Carty, (2006, 96-97), Scarrow-Farrell-Webb (2000, 131-133), Heidar (2006, 308-309), Bosco (2000, 34-35).
Sulle vicende del New Labour Party, si vedano Calise (2000, 39-48), Massari (2004,145), Webb (2002).
5
La questione, del resto, è stata posta anche dagli stessi Katz e Mair, nel saggio in cui hanno lanciato il modello del cartel party:
“come ciascuno dei modelli di organizzazione partitica che l‟hanno preceduto (partito di notabili, partito di massa, partito pigliatutto)
era associato ad un modello di democrazia, così anche la nascita del modello del cartel party come fenomeno empirico è associata ad
una revisione del modello normativo di democrazia. In questo modello rivisto, l‟essenza della democrazia sta nella capacità degli
elettori di scegliere da un menu fisso di partiti politici. I partiti sono gruppi di leader che competono per l‟opportunità di occupare
incarichi governativi e di assumersi la responsabilità dei risultati del governo alle successive elezioni…La democrazia sta nel
tentativo della èlite di accattivarsi il favore del pubblico, piuttosto che nel coinvolgimento del pubblico nella politica. Gli elettori
dovrebbero preoccuparsi dei risultati piuttosto che delle politiche, che sono dominio dei professionisti. I partiti sono società di
professionisti, non associazioni di e per i cittadini (2006, pp. 53-54).
2
capacità della leadership di rivolgersi direttamente alla “gente” o al “popolo”; ed è un modello elettoralista,
in quanto privilegia in modo pressoché esclusivo una funzione del partito come mera “macchina” elettorale,
finalizzata alla conquista delle cariche pubbliche. Un modello di partito, in cui procedure “dirette” di
elezione/selezione si coniugano perfettamente ad una concezione atomizzata e individualistica della
partecipazione, e all‟inaridimento di un‟altra, “classica”, funzione dei partiti, quella fondata sulla loro natura
di associazione, cioè organizzazioni che abbiano finalità politiche, che siano strumenti di lotta e di iniziativa
politica, ma che siano anche luoghi di partecipazione e di discussione, di confronto e di elaborazione
programmatica, di formazione di una cultura politica condivisa.
2. Le origini delle primarie e i loro effetti.
Ci siamo fin qui soffermati su una delle possibili interpretazioni che la letteratura politologica ha fornito
sulle ragioni del diffondersi di procedure che, in varia misura, prevedono l‟intervento diretto di una larga
base elettorale, al fine di selezionare i candidati di un partito alle cariche pubbliche e/o di scegliere e
legittimare la leadership del partito stesso. Tuttavia, a questo punto, sorge un interrogativo: quale modello di
partito è “compatibile” con l‟uso sistematico di procedure elettorali che prevedano la legittimazione e
l‟investitura diretta dei leader e dei candidati? Il ricorso alle primarie è possibile solo dentro questo modello
di partito che abbiamo definito “elitistico-elettoralistico”?
Per tentare una risposta, appare opportuno tornare a riflettere sulle origini della primarie e sugli effetti che si
ritiene esse producano sui partiti e sul loro modello organizzativo.
Una lettura ricorrente del significato delle primarie pone questo strumento come un fattore di indebolimento
dei partiti: e questa interpretazione, in effetti, si fonda su solide ragioni storiche. La nascita stessa di questo
strumento affonda le proprie radici negli Stati Uniti, nei due decenni a cavallo tra Otto e Novecento, quando
sull‟onda del cosiddetto Movimento Progressista, si affermò come un tentativo (riuscito) di attacco al
peculiare modello di “partito di massa” che si era affermato negli USA nel corso dell‟Ottocento. Le primarie
furono allora esattamente viste come il grimaldello attraverso cui scardinare le party machines americane, il
loro progressivo configurarsi come organizzazioni dedite al patronage e allo spoils system.
Una visione riduttiva, quest‟ultima, in verità, del ruolo che i partiti americani avevano svolto nel corso
dell‟Ottocento, quando con decenni di anticipo rispetto alle successive esperienze europee, avevano anche
svolto un ruolo tipico dei partiti di “integrazione”, governando i processi di mobilità sociale e di
democratizzazione, governando le grandi ondate migratorie, e costruendo solide identità politiche e
subculturali, non di rado intrecciandosi ad una dimensione comunitaria di tipo etnico6. E tuttavia, alla fine
dell‟Ottocento, è vero che i partiti americani si stavano rivelando come delle “macchine” sempre più
inadeguate a governare la fase di intensa trasformazione sociale ed economica che vivevano gli Stati Uniti: i
processi di industrializzazione e urbanizzazione, l‟emergere di una nuova middle-class, la pressione delle
grandi corporations, resero sempre più fragile la vecchia struttura dei partiti americani, fondata sui caucus e
sul controllo politico delle cariche pubbliche. A ciò si aggiunse una nuova egemonia della cultura liberale,
6
Sui partiti americani, dagli anni Trenta agli anni Novanta dell‟Ottocento, si veda Calise (1992, 2000), Testi (1992), Massari (2004,
132-140), Melchionda (2005). .
3
che aveva guardato sempre con sospetto l‟installarsi, ai vertici della vita politica, di un personale politico,
spesso di umili origini sociali, espressione di masse “incolte” e incontrollabili. E dunque, come ha scritto
Fabbrini (2005, 68) “nel movimento riformatore che ha sostenuto le primarie dirette, ha convissuto una
doppia esigenza, quella di aprire i partiti e quella di superarli”. 7
Nel corso del Novecento americano, dopo alterne vicende che qui non possiamo ripercorrere, le primarie si
affermarono sempre più nel sistema politico americano, soprattutto a partire dalla celebre e contrastata
Convenzione del Partito Democratico che si tenne a Chicago nel 1968. Ma la peculiare genesi delle primarie,
e il ruolo che hanno svolto nel determinare le caratteristiche dei partiti americani, ha continuato a segnarne la
visione e l‟interpretazione. La stessa American Political Science Association, in una celebre dichiarazione
del 1950, affermò che le primarie aperte “tendono a distruggere il concetto di membership come base
dell‟organizzazione partitica”. E ancora in un recente testo (Dalton e Wattenberg, 2002, 13), per citarne solo
uno tra i tanti, viene esplicitamente teorizzato una sorta di trade-off tra la “forza” dei partiti e il ricorso a
primarie “aperte”, interpretando la diffusione delle primarie come un sintomo, tout court, dell‟indebolimento
dei partiti: “un crescente numero di partiti, o di interi sistemi di partito, hanno accettato primarie, o altri
metodi, che di fatto indeboliscono il loro ruolo nella selezione dei candidati. Lo stadio più avanzato di questo
fenomeno è negli Usa, dove l‟espansione di primarie aperte o non-partisan ha minato la capacità di
reclutamento dei partiti”.
Noi riteniamo che una tale equazione non risponda, sempre e comunque, agli effetti che le primarie possono
produrre. Questo legame causale diretto, tra primarie e “debolezza” dei partiti, appare tutt‟altro che scontato
per gli stessi Stati Uniti: in particolare, non è detto che siano le primarie la causa della scarsa coesione dei
partiti e della loro “debolezza”(specie a livello centrale) e che il livello centrale sia esso stesso davvero
debole, come solitamente si ritiene (su questi temi, Massari, 2004, 139-140). Riteniamo, al contrario, che tali
effetti dipendano in modo decisivo proprio dal grado di istituzionalizzazione dei partiti, - grado che, a sua
volta, non può essere addebitato allo strumento e alla pratica delle primarie, in quanto tale, ma ad un
complesso di altri fattori e di altre condizioni politiche ed istituzionali. E riteniamo altresì che tali effetti
dipendano anche, in modo decisivo, dal modello di primarie che viene adottato.
Si colloca qui il dilemma fondamentale che, oggi, anche in Italia, ci pare sembra riproporsi con molta forza:
è possibile “conciliare” le primarie con una visione dei partiti come organizzazioni strutturate fondate su un
principio di associazione volontaria? O meglio: il ricorso alle primarie può convivere con il progetto di
ricostruire, dopo anni di destrutturazione, una qualche forma di partito “organizzato e di massa” ( o magari,
più semplicemente, senza troppe ambizioni, di partiti che non siano solo coalizioni instabili di comitati
elettorali, come oggi spesso accade)?
7
Rileggere oggi i testi dei discorsi che accompagnarono nel 1903, in Wisconsin, l‟approvazione della seconda legge statale
americana che istituiva e rendeva obbligatorie le primarie (la prima fu quella della Carolina del Sud, nel 1896), risulta per molti versi
di sorprendente attualità, per il confrontarsi di argomenti che richiamano, da una parte, le ragioni del libero e autonomo associarsi dei
cittadini in partiti e, dall‟altra, una secolare cultura di ostilità e diffidenza verso i partiti (visti come “fazioni” da alcuni degli stessi
Padri Fondatori), ma anche l‟innegabile forza delle ragioni di quanti sottolineavano la “chiusura” e i vizi di quella che oggi
chiameremmo “partitocrazia”. Dobbiamo al lavoro di uno studioso prematuramente scomparso, Enrico Melchionda, la possibilità di
leggere, in italiano, questi rari documenti, tra cui il celebre discorso,“Menace of the Machine”, con cui il leader del Progressive
Movement, Robert La Follette, lanciò nel 1897 la campagna per l‟introduzione delle primarie nella legislazione del Wisconsin
(Melchionda, 2005).
4
3. I modelli di primarie e il “caso” italiano
Il tema dei possibili modelli di primarie e il tema dell‟autonomia dei partiti, in quanto associazioni
volontarie, e non “organi statali”, come tali da sottoporre ad un controllo legale, ha contrassegnato la lunga, e
tutt‟altro che lineare, storia delle primarie negli Usa. Una più attenta considerazione dei diversi modelli di
primarie che, negli stessi Stati Uniti, sono oggi praticate e regolate dalle diverse legislazioni statali, ci può
aiutare a capire, anche in chiave di analisi comparata, che tipo di primarie oggi sembra affermarsi in Italia e
quali funzioni esse sembrano svolgere, nella specificità del sistema politico italiano.
Oggi, negli Stati Uniti, è possibile individuare almeno cinque possibili modelli di primarie (con molte
ulteriori sfumature, da stato a stato), che possiamo classificare lungo un continuum che vede un maggiore o
minore grado di “apertura” e, conseguentemente, un maggiore o minore grado di “controllo” del partito sulla
procedura elettorale8.
Da una parte, abbiamo le primarie chiuse (closed): sono le primarie più diffuse (previste in 15 stati) e sono
quelle a cui “possono partecipare solamente quegli elettori che si sono anticipatamente registrati in un
partito. Il registro è pubblico nel senso che è depositato presso un‟autorità pubblica e da quest‟ultima è
scrutinato. Gli elettori ricevono una scheda in cui sono elencati solamente i candidati del partito in questione
che corrono per una data carica politica” (Fabbrini, 2005, 70-71). Inoltre, “tutti gli stati che adottano questo
tipo di primaria fissano la scadenza entro la quale un elettore può registrarsi o cambiare affiliazione”
(Massari, 2004,134). Anche questo dato incide, naturalmente, sul grado di “chiusura” della competizione: si
va da stati che richiedono almeno un anno di registrazione, a stati per i quali è sufficiente una registrazione 3
mesi prima delle elezioni, o anche solo 15 giorni.
Seguono poi le primarie chiuse ma aperte agli indipendenti: adottate in 10 stati, questo tipo di primarie,
come il precedente, prevedono che possano votare quegli elettori che si sono registrati anticipatamente;
tuttavia, possono farlo anche quegli elettori (“indipendenti”) che decidono e dichiarano di voler partecipare
alle primarie di un dato partito. “Generalmente, questi elettori vengono registrati in un partito il giorno in cui
si presentano al seggio”, ma con ulteriori, notevoli differenze, da stato a stato (Fabbrini, 2005, 71).
Si passa poi, progressivamente, alle forme di primarie più “aperte”: quelle open declaration, adottate in 11
stati, permettono di votare a tutti gli elettori “che dichiarano la loro scelta di partito il giorno della selezione
e presso il seggio in cui si tiene. Qui non c‟è bisogno di alcuna registrazione […] In alcuni stati, la scelta di
votare nella primaria di un partito viene considerata al pari di una registrazione informale […] valida per
l‟anno successivo (nel senso che l‟elettore potrà partecipare automaticamente ad altre primarie dirette di
quel partito per quel periodo di tempo)” (Fabbrini, 2005,71).
Si entra poi più direttamente nel campo delle primarie che non consentono alcun “controllo” sulla platea di
elettori che partecipano: le primarie aperte con scelta privata (dette primarie “private choice”; in alcuni casi
definite anche come primarie “non-partisan”), adottate in 9 stati, prevedono che gli elettori, presentandosi
semplicemente al seggio, ricevano tutte le schede dei partiti che partecipano alle primarie ed effettuano la
8
Facciamo qui riferimento ai lavori di Massari, (2004, 132-140) Fabbrini,, (2002 e 2005, 66-74), Valbruzzi (2005), Gerber-Morton,
(1998).
5
loro scelta nella segretezza della cabina elettorale, restituendo la scheda votata insieme a quelle degli altri
partiti. A significare la problematicità di questa procedura, in alcuni stati il Partito democratico non considera
vincolante l‟esito di questo tipo di primarie (Fabbrini, 2005, 72).
E infine, le primarie “blanket”: adottate solo in 4 stati, sono le primarie che annullano ogni forma di
“controllo” sull‟elettorato. Gli elettori che si presentano al seggio ricevono una sola scheda, con
l‟indicazione delle candidature di tutti i partiti. Questo tipo di primarie “continua ad essere oggetto di
un‟infuocata discussione pubblica” (Fabbrini, 2005, 72), e di una controversia su cui si è pronunciata la
stessa Corte Suprema, con una sentenza del 2000 (530 US 567, California Democratic Party vs. Jones). Al
centro, una questione di cruciale importanza, ai nostri fini: la “sovranità” di un partito nella scelta dei propri
candidati e nell‟adozione stessa delle procedure con cui selezionarli. Questa, come pure altre sentenze 9, ha
scritto Massari, “hanno riaffermato, nel nome della libertà di associazione privata proclamata dal primo
emendamento della Costituzione, il diritto dei partiti, contro le legislazioni statali, di decidere delle modalità
in cui si debbano svolgere le primarie” (Massari, 2004, 138-139). In particolare, con la citata sentenza del
2000, la Corte suprema ha accolto un ricorso del Partito Democratico californiano, dichiarando
incostituzionale un‟iniziativa legislativa che mirava ad introdurre, obbligatoriamente, per l‟appunto, le
primarie di tipo blanket. Come ha scritto Sergio Fabbrini (2005, 72-73), “il partito democratico californiano
aveva argomentato che tale forma di primaria diretta costituiva una negazione del suo diritto a preservare la
propria organizzazione” .
Da questa breve rassegna si comprende bene come l‟adozione di un tipo o un altro di primarie può
comportare conseguenze ben diverse sui partiti e in particolare su quelli che possiamo definire i confini
organizzativi di un partito, le sfere della sua sovranità nell‟esercitare una funzione basilare quale è quella
della selezione dei propri candidati.
Questa griglia ci permette di assumere come asse di riferimento il diverso grado di “controllo” che il partito
esercita sulle procedure e il punto di equilibrio che si realizza tra “apertura” e “chiusura” della potenziale
platea di elettori. Ed è opportuno qui precisare che, per “controllo”, non si deve intendere una finalità
strumentale e manipolativa, tesa a limitare o condizionare le scelte degli elettori (intento che pure può
esserci), ma la capacità del partito di ricondurre il ricorso alle primarie ad una logica unitaria, governata da
un soggetto politico che vuole mantenere il suo carattere di attore organizzativo unitario, e che assume quindi
le primarie come uno strumento consapevole della propria strategia di rapporto con gli elettori.
Ora, se volessimo usare (con tutta la problematicità necessaria) il ricco menu di soluzioni che l‟esempio
americano ci offre, per riflettere sul “caso italiano”, potremmo senz‟altro osservare come la prassi italiana di
9
La storia delle sentenze della Corte Suprema in materia di primarie è estremamente significativa: se ne veda un‟attenta e dettagliata
ricostruzione in un saggio di Lowenstein sulla legal regulation and protection of american parties”(2005, 456-469). E‟ una storia
attraversata dal conflitto tra un‟idea dei partiti come “libere associazioni”, da proteggere dalla possibile invasività delle legislazioni
statali, da una parte, e dall‟altra parte, il principio che le stesse elezioni primarie, fin da quando furono introdotte nella legislazione di
alcuni stati, alla fine dell‟Ottocento, siano oramai parte di una funzione statale e, quindi come tali, regolabili dalla legge Un primo
passaggio cruciale si ebbe nel 1944, quando, contro il Partito Democratico del Texas, la Corte affermò il principio che gli Afroamericani non potessero essere esclusi dalle primarie, in quanto queste erano parte costitutiva di un processo elettorale “statale”. Nel
corso degli anni, e specie con gli anni Settanta, il pendolo oscillò in direzione opposta, ponendo l‟accento sul libero carattere
associativo dei partiti e sulla loro autonomia anche per quanto riguarda il modello specifico di primarie cui sottoporsi, ancor quando
la legge ne imponesse comunque lo svolgimento. In una sentenza del 1986, ad esempio, la Corte Suprema affermava apertamente che
la nomina dei candidati è una “basic function” dei partiti e che spettava ad essi stabilire chi potesse votare alle primarie.
6
“primarie” (siano esse quelle per i candidati sindaci, che quelle adottate dal PD per l‟elezione del proprio
segretario) sia generalmente riconducibile ad una versione, per così dire, piuttosto “rilassata”, delle primarie
open declaration: vota chiunque si presenti al seggio il giorno stesso delle elezioni; formalmente si
sottoscrive una qualche dichiarazione politica (ma in realtà nessuno ci fa caso…), non ci sono, non si creano
né poi si gestiscono, elenchi di elettori “registrati” e, in molti casi, appare incerta la stessa definizione delle
regole che presidiano all‟esercizio del diritto di voto e alla sua unicità e segretezza; infine, si lascia un obolo
poco più che simbolico, e in molti casi nemmeno questo. Insomma, un modello di primarie formalmente
molto “aperto”, ma che, proprio per questo, convivendo con una dimensione molto fluida e poco strutturata
dei partiti, si presenta come un‟arena competitiva essa stessa poco strutturata, su cui si “scaricano” tutte le
tensioni interne ai gruppi dirigenti dei partiti che le promuovono. Il “combinato disposto” tra partiti deboli e
divisi e primarie particolarmente “deregolate” produce così, generalmente, una situazione confusa, in cui le
primarie non sono uno strumento della vita democratica di un partito che conservi la propria identità e il
proprio profilo, ma un campo di battaglia in cui si misurano le forze per controllare il partito e “regolare i
conti” tra le fazioni e le cordate.
D‟altra parte, proprio perché inserite in un contesto di forte destrutturazione del sistema dei partiti, le
primarie, in molti casi, hanno comunque assolto ad una loro tipica funzione: quella di rendere “contendibile”
la selezione del ceto politico, di offrire ad esso una legittimazione che il circuito decisionale interno ai partiti
non avrebbe potuto garantire, di sollecitare una mobilitazione politica che i normali canali di partito non
sarebbero stati in grado di attivare e, infine, di corrispondere in qualche modo ad una domanda di
partecipazione politica altrimenti destinata a restare insoddisfatta10.
Se quello appena descritto sembra il quadro dominante in Italia, resta tuttavia un interrogativo: i partiti sono
destinati a proseguire nella loro trasformazione in chiave elitistica ed elettoralistica (e quindi a dare sempre
più un ruolo alle primarie come unico meccanismo interno di selezione e legittimazione)? Ovvero, è
inevitabile che questo accada? Sono possibili “altre” primarie, con “altri” tipi di partito? Come si possono
“combinare” i diversi modelli di primarie e i diversi possibili “modelli di partito”?
4. Dai modelli analitici ai modelli normativi: quali alternative al modello “elitistico-elettoralistico” di
partito?
Queste domande spostano il nostro discorso da un piano analitico ad un piano normativo e, a questo punto,
possiamo riassumere così il nodo da affrontare: se il partito di massa, nelle sue varie declinazioni conosciute
anche nel nostro paese, sembra tramontato e “irrecuperabile” (soprattutto perché sembra venuta meno la
possibilità di costruire una cornice ideologica “forte”, che ne era componente essenziale),
davvero
l‟alternativa obbligata è quella descritta dal modello idealtipico di partito che abbiamo definito “elististicoelettoralistico”? E se una “tradizionale” dimensione democratico-rappresentativa e partecipativa che
regolava, in forme molto varie, la struttura organizzativa dei vecchi partiti di massa, sembra insufficiente,
10
Solo un‟analisi specifica, potrebbe dirci quale sia stato il segno prevalente nelle varie situazioni: si vedano, ad esempio, i saggi
contenuti nel numero monografico dei “Quaderni dell‟osservatorio elettorale” (AA.VV. 2006), dove si analizza la prima fase delle
primarie in Italia, quelle “per Prodi” del 2005, le prime primarie pugliesi e quelle toscane (le prime regolate da una legge regionale);
più recente il lavoro curato da Pasquino e Venturino (2009), dove si analizzano molti casi di “primarie comunali”.
7
davvero la scelta, o la tendenza ineluttabile, è quella che ci porta a forme di democrazia interna di tipo
“direttistico”, “immediato” o apertamente “plebiscitario”? Davvero, anche per le forze di sinistra, l‟unica via
da percorrere è quella di un mix tra forti leadership “personali” e forme “destrutturate”, “liquide”, di
organizzazione? Un mix in cui, naturalmente, le “primarie” sono chiamate a svolgere una funzione
centrale?11
Forse il modo migliore per affrontare questa ricerca è quello di ripartire da una riflessione sulle funzioni o
dimensioni “classiche” che i partiti hanno avuto o svolto, chiedendoci se davvero, nelle condizioni della
società contemporanea, tali dimensioni siano esaurite, o se piuttosto non debbano o non possano essere
riprese e re-interpretate dai partiti – da quei partiti, naturalmente, che vogliano farsi portatori di un diverso
modello di democrazia, rispetto a quello che oggi sembra affermarsi. L‟ipotesi che qui vorremmo avanzare è
che, pur in forme completamente diverse dal passato, la società contemporanea non possa fare a meno di
attori politici organizzati, dotati di un‟ampia base associativa, che si propongano ancor oggi di svolgere
questi compiti, e che il ruolo dei partiti potrebbe anche essere quello, non solo di tornare a reinterpretare
quelle funzioni, ma anche quello di scoprirne di nuove.
Se riconsiderassimo tutte le “classiche” funzioni che i partiti storicamente hanno svolto (strutturazione del
voto, aggregazione e integrazione degli interessi sociali, “reclutamento” del personale politico, integrazione
sociale, mobilitazione e partecipazione, formazione delle politiche pubbliche), possiamo notare come alcune
di esse, ben lungi dall‟essersi esaurite, siano oggi interpretate, a modo loro ma efficacemente, da alcuni
partiti “mediatici” e “leaderistici”: ad esempio, la “strutturazione” del voto viene perseguita semplicemente
attraverso un‟adesione alla “spontaneità” dei processi che, in una società altamente esposta all‟influenza dei
media televisivi, plasmano l‟opinione pubblica e il “senso comune” di vasti strati popolari; o ancora,
potremmo vedere come questi stessi partiti siano bene in grado di “rappresentare” interessi diffusi e
parcellizzati, senza alcun bisogno di “aggregarli” o “integrarli”, ma semplicemente assecondando il
particolarismo e la frammentazione sociale. Di contro, potremmo notare come siano soprattutto i partiti della
sinistra democratica ad incontrare difficoltà nell‟interpretare tali funzioni, soprattutto quelle che possono
contrastare o invertire processi sociali e trasformazioni culturali che, quasi naturaliter, alimentano la
formazione di orientamenti politici conservatori o anche apertamente reazionari. Sulle ragioni di questo
specifico deficit si potrebbe a lungo disquisire: alcune sono ragioni “storiche”, altre forse più contingenti.
Ma tra le concause certamente vi è l‟allentamento, o anche il disgregarsi, dei legami organizzativi di questi
partiti. Insomma: articolare, rappresentare e ricomporre interessi sociali diffusi, proporre obiettivi di
trasformazione sociale ispirati da ideali di giustizia e di uguaglianza, promuovere inclusione e coesione
11
Va segnalato come, nella situazione italiana, segnata da un lungo processo di progressiva destrutturazione dei partiti della sinistra,
si facciano strada posizioni che, esplicitamente, teorizzano la “fine” dei partiti, legandosi ad uno stadio avanzato di
“personalizzazione” della leadership: si legga, ad esempio, un‟intervista di Nichi Vendola, dopo il suo successo elettorale in Puglia:
“Io penso che siano finiti i partiti. Consumati, inadeguati, fuori dalle virtù civiche”. E poi, contrapponendovi l‟esperienza delle
cosiddette “fabbriche di Nichi”, che avevano segnato la sua campagna elettorale, così Vendola definisce i partiti, nel suo linguaggio
immaginifico: “aree delimitate da una specie di filo spinato in cui la competizione è sfacciata, ossi di seppia, luoghi pieni di detriti,
posti senza anima. I partiti sono fuori dal popolo, oltre la gente. A volte contro di essa. Una catena, una rete oligarchica e distante”.
“Partito: participio passato. Cioè e anche: fuggito, sparito. Scomparso”. (“Vendola avvisa gli alleati: ' Non c‟è futuro per i partiti. Io
punto sulle virtù civiche'”, intervista di A. Caporale, “la Repubblica”, 31 marzo 2010, p. 12). La vicenda pugliese, peraltro, mostra
proprio come le primarie possano svolgere un ruolo positivo, di “supplenza”, per un verso (a fronte di partiti “rinsecchiti”), e di
incanalamento e sollecitazione di un potenziale partecipativo, altrimenti destinato a restare inespresso, per altro verso.
8
sociale, alimentare lo spirito civico dei cittadini attraverso la partecipazione, promuovere una visione della
politica come azione collettiva,…tutti questi potenziali compiti che i partiti democratici, (non da soli, ma
certo in modo decisivo), possono proporsi, sono compiti che esigono comunque un ben diverso “modello” di
partito: non possono essere svolti da partiti che “funzionino” in modo elitistico, elettoralistico o leaderistico.
Naturalmente, tra queste funzioni, quella della formazione e della selezione del personale politico continua
ad essere una funzione nevralgica: e occorre chiedersi, in primo luogo, se essa può essere affidata solo alle
primarie, ma poi anche a che tipo di primarie.
Il vero punto discriminante, che può distinguere profondamente usi delle primarie solo in apparenza simili,
può essere individuato proprio nel grado di strutturazione che un partito possiede e nel ruolo che, in questo
specifico contesto, alle primarie viene affidato: un generico bisogno di legittimazione? Un‟occasione di
mobilitazione e di propaganda? Un‟effettiva verifica sulla forza di alcune candidature? Oppure, oltre a ciò,
anche un canale di stabilizzazione della rete associativa di un partito?
Quello che va sottolineato è come il ricorso ad elezioni primarie, in sé, non caratterizza un modello di
partito: il rapporto va rovesciato, è l’insieme delle regole, e l’insieme del “modello di democrazia” operante
in un partito, che può dare un senso ben diverso all’uso delle primarie.
Un partito puramente office-seeking o voter-seeking (Wolimetz, 2002) può benissimo ritenere adeguata alla
propria logica organizzativa e politica l‟adozione delle forme più aperte e incontrollate di elezioni primarie,
sia per ciò che riguarda il diritto di voto che il diritto a candidarsi: in fondo, conta selezionare un candidato
vincente, e cosa di meglio, in questo senso, se non chiamare a pronunciarsi una platea quanto più larga e
indifferenziata di elettori, potenzialmente “rappresentativa” (anche in senso “speculare” e statistico)
dell‟intera platea dei futuri votanti alle elezioni? Se un partito adotta la logica aziendale del franchising
(Carty, 2006), non conta molto controllare i possibili esiti di una competizione locale (ad esempio, per la
scelta di un candidato sindaco): si affida al vincente di quelle primarie il compito di difendere e valorizzare il
“marchio” del partito, attraverso uno scambio di risorse tra centro e periferia.
All‟opposto, tuttavia, anche un partito che si fondi su una base associativa organizzata, e che quindi assegni
alla propria membership incentivi collettivi e selettivi (tra cui quello di poter “contare” effettivamente, nella
scelta dei candidati), può comunque ritenere “razionale” l‟apertura dei processi di selezione dei propri
candidati ad una platea più vasta di sostenitori. La “razionalità” delle primarie sta nel fatto che un partito, per
quanto strutturato in forme che lo mettano in grado di percepire efficacemente le sfide ambientali,
rappresenta comunque un organismo collettivo caratterizzato da limiti cognitivi e informativi e, spesso, da
un‟elevata dose di incertezza strategica. E l‟arena elettorale costituisce, per definizione, un ambiente ricco di
incognite.
Le primarie, se ben regolate, - ossia, se prevedono meccanismi che a) affidino un ruolo decisivo agli iscritti
(ad esempio, nella fase di presentazione delle candidature) e agli organismi dirigenti (ad esempio, nella
definizione di regole condivise e certe per la competizione interna) e b) possano anche limitare l‟apertura
indiscriminata ad un corpo elettorale esterno (ad esempio, con la costruzione di appositi elenchi di elettori
“registrati”) -, possono costituire uno strumento utile a conseguire una serie di obiettivi: una più trasparente
9
selezione delle candidature (con un buon impatto di immagine sull‟opinione pubblica); una più elevata
legittimazione delle candidature che il partito proporrà alle elezioni; una verifica preventiva della forza o
dell‟efficacia di tali candidature; una più intensa e prolungata mobilitazione del partito; e infine, ma non
ultimo per importanza, un controllo e una regolazione della conflittualità interna, rendendola più aperta e più
produttiva e separandola dalla successiva competizione “esterna”.
In definitiva, il punto dirimente è legato al se e al come il ricorso alle primarie possa anche rivelarsi un
fattore di costruzione e stabilizzazione del tessuto associativo di un partito, senza intaccarne i confini
organizzativi e senza lederne l‟autonomia. Le primarie, insomma, possono agire da moltiplicatore dei legami
associativi di un partito, ma possono anche rivelarsi l‟unico legame, e quindi un legame molto debole, nel
rapporto tra partiti, iscritti ed elettori12.
5. Partecipazione democratica e partiti: ipotesi su un possibile uso ragionevole delle primarie
Per valutare la funzione che le primarie svolgono all‟interno di un modello organizzativo di partito occorre
quindi guardare anche ad altro: e il tema, qui, è quello delle forme e dei livelli di partecipazione che la
membership è in grado di esercitare nei processi di decision-making delle proprie policies di cui è fatta,
concretamente e quotidianamente, l‟azione di un partito. Anche da questo punto di vista sembra affermarsi
nei fatti, o sembra che la si debba accettare come ineluttabile, una visione secondo cui l’offerta politica di un
partito possa essere solo il frutto di un‟azione strategica delle èlites, elaborata dai gruppi parlamentari (nella
migliori delle ipotesi) e/o da ristretti think-tanks, e/o contrattata con gruppi di pressione esterni, e/o definita
dagli staff di esperti professionali al servizio del leader; e che questa offerta di policies, così come viene
proposta agli elettori in occasione delle scadenze elettorali, possa essere semplicemente prospettata anche
alla membership del partito, come base sufficiente per chiederne l‟adesione e magari motivarne l‟azione
volontaria.
A fronte di ciò, occorre chiedersi in che misura nei partiti, oggi, possa essere ricostruito invece un modello
riconducibile ai principi della democrazia rappresentativa, che assuma una concezione densa e viva della
partecipazione – quel modello, cioè, che in forme molto diverse e con interpretazioni e adattamenti molto
variegati, ha comunque contraddistinto l‟epoca dei partiti di massa.
Ora, la chiave di volta di questo modello, se ne vogliamo definire il profilo normativo, è la costruzione di
un‟efficace circolarità di rappresentanza e partecipazione, di un flusso comunicativo (per definizione, biunivoco) tra rappresentanti e rappresentati: ossia, per restare ai partiti, l‟operare di una struttura e di una
dinamica organizzativa che permetta di attivare meccanismi permanenti di accountability e di
responsiveness, dei gruppi dirigenti nei confronti della base associativa, e meccanismi di partecipazione
attiva della stessa membership, in grado di legittimare, discutere e valutare l‟operato dei dirigenti e,
soprattutto, di contribuire all‟elaborazione politica e programmatica del partito. E‟ solo grazie all‟attivarsi di
questa circolarità che si può arricchire la qualità del processo di decision-making delle politiche di un partito,
12
Per un‟analisi del ruolo delle primarie nel “primo” statuto del Pd, Floridia (2009): nel maggio 2010 l‟Assemblea nazionale del
partito ha approvato importanti modifiche.
10
grazie soprattutto all‟apporto di conoscenze, competenze ed esperienze che può venire da una rete
associativa ampia e ramificata, in grado di interagire e comunicare con i luoghi deputati alla decisione.
Naturalmente, si può ritenere oramai irreversibile l‟affermazione di tutt‟altro modello di democrazia (e di
partito): un modello, che guarda con diffidenza e scetticismo al grado e al livello di competenza politica dei
“cittadini ordinari” (o, nel nostro caso, dei semplici iscritti) e che vede in un partito, secondo la celebre
definizione di Schumpeter, null‟altro che un team di politici tesi alla conquista di cariche pubbliche
attraverso la competizione elettorale. Se così è, allora le forme di “democrazia immediata” che si sono
diffuse in molti partiti contemporanei sono certamente quelle più “funzionali” e coerenti a questo stato di
cose: forme di democrazia, che assumono come data la dimensione atomizzata e individualistica della
società contemporanea, che non hanno bisogno di corpi e strutture intermedie, che tendono ad instaurare un
rapporto diretto tra la leadership e la “base”; una base, a sua volta, non organizzata e non strutturata,
caratterizzata (presuntivamente) da una bassa propensione partecipativa e tutt‟al più, appunto, da coinvolgere
solo in alcuni momenti elettorali, quali appunto si riducono ad essere le primarie, in un tal contesto.
Ma se non è così, ovvero riteniamo che possano e debbano esserci partiti che si ispirano ad una concezione
non elististica della democrazia, che vogliono anzi assumere la democrazia come paradigma critico del
presente, e come ispirazione della propria stessa azione politica, allora anche il ruolo delle primarie può
essere declinato diversamente, mostrando come esse non siano incompatibili con una visione ricca ed
esigente della partecipazione e della rappresentanza democratica.
Proviamo allora ad immaginare un modello di partito strutturato, con una propria base associativa su base
volontaria, con procedure decisionali interne fondate sui principi della democrazia rappresentativa, diretto da
organismi collegiali non solo pienamente legittimi sul piano formale ma anche pienamente riconosciuti e
accettati come tali dalla base associativa, dotato di regole e luoghi di discussione collettiva. In linea teorica,
questo modello di partito può anche fare a meno delle primarie: può affidare la selezione dei propri
candidati alla decisione e alla valutazione dei propri organi dirigenti e può coinvolgere, in varie forme, la
propria base associativa, raccogliendone proposte e giudizi, come pure può delegare alle proprie
organizzazioni territoriali il potere decisionale sulle candidature locali, magari con qualche forma di
controllo e di ratifica “dall‟alto”. Un partito siffatto può anche adottare procedure elettorali di selezione dei
propri candidati e chiamare solo i propri iscritti a votare: in questo caso, saremmo di fronte a “primarie
chiuse”.
Ma scatta qui, come abbiamo sopra ricordato, la peculiare “razionalità” che può rendere consigliabile e
conveniente il ricorso a forme di primarie “aperte”, anche per un partito “ideale” quale quello che qui
immaginiamo. Se un partito agisce come un “attore razionale”, troverà infatti molto ragionevole “fare
respirare”, non solo le classiche smoke-filled rooms, laddove ce ne siano, ma anche uno spazio interno che,
anche nelle migliore delle ipotesi, rischia di rivelarsi asfittico, di fronte alle incognite della futura
competizione elettorale. Di fronte alle sfide strategiche che vengono dall‟esterno, è molto più razionale e
prudente una condotta che cerchi di verificare preliminarmente i possibili costi e benefici delle diverse
soluzioni.
11
Primarie, dunque: ma di che tipo? Un partito che voglia mantenere e arricchire la propria rete associativa, e
non intenda delegittimarla delegando ad un corpo elettorale esterno e indistinto la scelta dei propri candidati,
potrebbe assumere questi orientamenti:
Costruire procedure e meccanismi stabili di registrazione degli elettori. Si tratta di costruire una più
larga cerchia associativa di sostenitori, rispetto a quella dei soli iscritti, da coinvolgere in determinati
momenti della vita del partito. Le finalità di questa “registrazione” non devono essere solo
“elettorali”: si tratta di chiedere ai partecipanti alle “primarie” l‟autorizzazione ad inserire nomi e
recapiti in un elenco di “elettori-sostenitori”, a cui inviare regolarmente, ad esempio, una newsletter
del partito e a cui chiedere, in particolari occasioni, valutazioni sulle scelte programmatiche e
politiche del partito. Certamente, la raccolta e la gestione di questi elenchi esige una particolare cura
e una particolare trasparenza: si deve sapere chi e come custodisce e gestisce gli elenchi, e chi ha
diritto al loro uso. Con regole certe, e chiare responsabilità politiche: si potrebbe prevedere, ad
esempio, che il diritto di voto alle primarie sia concesso solo agli elettori che si siano regolarmente
registrati almeno tre mesi prima delle primarie. Non vanno sottovalutati i potenti incentivi alla
mobilitazione che questa soluzione implica: così come accade negli USA (si pensi alla stessa
campagna di Obama) è necessario un lavoro capillare di contatto e di orientamento degli elettori, per
indurli alla registrazione e poi alla partecipazione.
Ruolo degli organismi dirigenti. L‟importanza di un partito strutturato, in cui vi siano operanti
organismi dirigenti collegiali, dotati di una piena e riconosciuta legittimazione democratica da parte
degli iscritti, risalta con tutta evidenza nel momento in cui si affronta il tema specifico delle regole
che devono presiedere allo svolgimento di primarie.
In questo senso, occorre prevedere un regolamento-quadro nazionale, o disposizioni statutarie, che
assicurino anche la necessaria flessibilità alle scelte locali, ma non affidino tutto alla discrezionalità
delle dinamiche “periferiche”. Decisivo è il timing delle primarie: non si può lasciare al mutevole
equilibrio nei rapporti di forza interni ad un partito, in sede locale, la decisione sul se e sul quando
fare le primarie. Nulla di più deleterio, come molti casi dimostrano, di primarie svolte a ridosso delle
elezioni “vere”, o primarie la cui fissazione sia soggetta al mutevole arbitrio dei gruppi dirigenti
locali.
Specifiche disposizioni statutarie possono poi prevedere alcune essenziali regole, sia sul versante
dell‟elettorato attivo che di quello passivo. Laddove ci sia una rete associativa “esterna” degli
elettori, e tale rete appaia già ampia e consolidata, un partito può prevedere un modello di primarie
riservate solo agli elettori preventivamente registrati e che abbiano riconfermato, per un congruo
periodo di tempo, la loro adesione (come accade nella maggioranza dei casi nelle primarie USA). Ma
spetta alla responsabilità politica dei gruppi dirigenti valutare se sia opportuno sperimentare una fase
di maggiore “apertura” e quindi prevedere forme di primarie che richiamino il modello americano
delle primarie open declaration. E‟ una valutazione politica che spetta agli organismi dirigenti
compiere: si tratta, volta a volta, di valutare quale sia il grado di “apertura” delle primarie che si
12
ritiene più opportuno adottare. Ma ciò, evidentemente, presuppone organismi e gruppi dirigenti non
solo legittimati formalmente a compiere queste valutazioni e a decidere sulle procedure, ma anche
pienamente riconosciuti nel loro diritto a farlo e rappresentativi dell‟insieme del partito.
Decisive sono poi le regole che disciplinano l‟accesso alle candidature. Se ne possono qui indicare
alcune:
Rendere più difficile il ricorso alle primarie nel caso di eletti al primo mandato che intendano
ripresentarsi. Come mostrano molti casi, la mancata ricandidatura di un incumbent è operazione
molto rischiosa e spesso fallimentare. Per quanto criticamente si possa valutare l‟operato di
un‟amministrazione uscente, “cambiare” il candidato in corsa – specie dopo una dura battaglia nelle
primarie - si rivela spesso, agli occhi degli elettori, come una confessione di fallimento.
Fissare soglie percentuali adeguate e differenziate per la presentazione delle candidature. Tali
soglie si devono riferire ai componenti degli organismi dirigenti, agli iscritti (e possono essere più
basse), ma possono anche riferirsi agli elettori regolarmente registrati (in questo caso, con soglie più
alte e selettive), laddove un qualche ”Albo” degli elettori sia sufficientemente consolidato e operante.
Questo elemento di “filtro” è essenziale: da una parte, perché attribuisce poteri e incentivi selettivi
agli iscritti, ma dall‟altra, aprendo anche agli elettori registrati la possibilità di proporre candidature,
perché rende effettiva l‟”apertura” del partito, promuovendo possibili candidature esterne, ma
evitando anche che le candidature alle primarie divengano occasioni folcloristiche di
autopromozione.
La richiesta di un contributo monetario non simbolico. La misura dell‟entità del contributo minimo
da richiedere ai partecipanti alle primarie viene in genere vista come una possibile barriera
all‟accesso di una più larga massa di elettori; ma vale anche un principio opposto, che è ben noto alla
luce dei normali comportamenti dei consumatori, e cioè che, a volte, il “prezzo” è un indice del
valore, anche simbolico, che si attribuisce ad una merce. Nel nostro caso, “svalutare” troppo, o
annullare, il costo della partecipazione alle primarie ne abbassa la percezione del valore politico e dei
possibili “benefici”.
Una riflessione specifica merita, infine, lo stesso sistema elettorale con cui si svolgono le primarie:
un aspetto, in genere, largamente ignorato, ma che può avere effetti sulla dinamica competitiva
interna. Così, ad esempio, se vi è in palio una carica monocratica, si può adottare il modello
“classico” di voto, tipico di una competizione in un collegio uninominale; ma se, ad esempio, si
tratta di selezionare una lista per la quale decisiva, ai fini della futura elezione, è la posizione del
singolo candidato, oppure vi sono 4 o più candidati -, si possono anche adottare sistemi di voto
fondati sull‟espressione di un ordinamento delle preferenze, - sistemi, che possono avere anche un
effetto secondario non privo di vantaggi, ossia quella di stemperare la conflittualità tra i candidati e
consentire agli elettori di esprimere anche l‟intensità delle loro preferenze (su questo, e in
particolare, sul sistema del “voto supplementare”, si veda Gallagher-Mitchell, 2005, 580-581).
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Abbiamo solo indicato, a titolo di esempio, alcune possibili soluzioni, che si sbaglierebbe però a considerare
solo da un punto di vista procedurale: in questo campo, la “forma” è sostanza. Determinate regole, o la loro
assenza, o anche una loro disinvolta variabilità a seconda delle contingenze, possono cambiare
profondamente il segno di un ricorso alle primarie, e possono cambiare totalmente il loro significato: le
primarie sono un mero canale di selezione e di competizione elettorale tra i candidati, con un partito assente
e silente, o sono uno strumento di partecipazione politica di cui un partito, nel suo complesso, si avvale per
arricchire la propria rete associativa e allargare il circuito informativo e comunicativo con una più larga base
del proprio potenziale elettorato?
10. Oltre le primarie, quale concezione della “democrazia di partito”?
In questo articolo siamo partiti dalle possibili interpretazioni, all‟interno della odierna riflessione teorica sui
partiti, di una tendenza che può essere definita di “democratizzazione” della loro vita interna, soprattutto per
quanto riguarda i processi di selezione dei candidati e la stessa scelta della leadership. E abbiamo visto
l‟ambiguità di questo processo, che appare generalmente riconducibile ad un bisogno di legittimazione della
leadership, a fronte dell‟inaridimento delle tradizionali forme della membership e della diffusa ondata di
sfiducia che investe i partiti; ma che appare anche inscriversi dentro un‟altra tendenza (non solo dei o nei
partiti), quella a costruire forme sempre più “personalizzate” della leadership e a prospettare, o praticare nei
fatti, una visione elitistica ed elettoralistica dei partiti e del loro modo di funzionamento. In particolare,
abbiamo visto come si vada affermando una concezione “atomizzata” o individualistica della stessa
membership dei partiti, e dei possibili rapporti tra “base” e “vertice”.
In un tale contesto, le primarie per la selezione dei candidati di un partito alle cariche istituzionali
elettive, possono assumere significati, e produrre esiti, molto diversi a seconda del grado di
istituzionalizzazione di un partito e del modello complessivo di “democrazia interna” che un tale
partito adotta e pratica. Le primarie, in sé uno strumento flessibile e versatile, possono concorrere a
rafforzare una visione “immediata” della democrazia e della partecipazione, abbinata ad un modello
poco o nulla strutturato di partito; ma possono anche rivelarsi, a certe condizioni, uno strumento
eccellente di rafforzamento della rete associativa e organizzativa di un partito – di un partito che
voglia puntare, beninteso, su una rinnovata visione della democrazia fondata sui principi della
rappresentanza e della partecipazione. 13
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13
Sulla democrazia rappresentativa, i suoi principi e la sua “genealogia”, si vedano i recenti lavori di Nadia Urbinati (2006 e 2009). .
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