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Libertà dalla Paura - Il Quaderno di Mauro Scardovelli

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Libertà dalla Paura - Il Quaderno di Mauro Scardovelli
Lib ertà dalla paura
di Mauro Scardovelli
1. Premessa
“You are codard, this is your problem”: esclamò John Pierrakos, durante la sessione di
terapia più importante della mia vita. Centro del bersaglio, tutti i miei problemi ruotavano
intorno alla stessa radice.
Mio padre era controfobico, sembrava non avere paura di nulla. Durante la mia infanzia, ci
trovammo spesso in situazioni di pericolo fisico. Io sentivo la paura salire dai visceri,
paralizzandomi. Lui rideva. Di fronte ad una scarica di pietre in montagna, o ad un fulmine
che era caduto a pochi metri da noi, lui rideva. Durante certi sorpassi in auto da far venire i
vermi alla pancia, lui rimaneva tranquillo. Vedendomi spaventato a morte, mi diceva: “Hai
visto? Non è successo nulla”.
In guerra, durante un attacco aereo, mentre tutti i soldati cercavano riparo, lui era rimasto in
piedi, indifferente. Quando l’attacco cessò, i suoi pantaloni erano forati da un colpo di
mitragliatrice, a pochi centimetri dal ginocchio.
Da piccolo, mi raccontava diversi episodi di questo tipo.
Gli chiesi una volta se lui non aveva mai provato paura. Allora mi raccontò che, prima di
entrare in scena per cantare il prologo dei Pagliacci di Leoncavallo, sì, quella volta si era
sentito sprofondare dal terrore. Il terrore di non soddisfare le aspettative del pubblico, di non
fare bella figura. Da buon istrionico, temeva più la perdita dell’immagine rispetto alla perdita
della vita. Anche perché lui viveva in un mondo magico: era convinto che non gli potesse
capitare nulla, che fosse protetto. E cercava di convincere anche me che non c’era nulla da
temere. Ma la mia pancia era di diverso avviso.
Con mio padre ho vissuto autentici momenti di terrore. Lui scherzava. Non sembrava matto,
ma forse lo era.
Quelle paure vissute da piccolo, si sono iscritte nella mia biologia.
La biologia ha buona memoria, non dimentica.
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Funziona bene per i pericoli fisici immediati: interviene in automatico, e ci salva la
vita. Ma guai quando lasciamo alla biologia il compito di affrontare situazioni che
non sono di sua competenza: le paure psicologiche o, in termini meno neutri, le
paure nevrotiche.
Non la paura che proviamo di fronte ad una tigre o alla caduta di un sasso vicino alla testa,
che sono paure reali. Ma la paura che proviamo prima di un esame, o la paura di un
rifiuto o di una riprovazione (Giacobbe, La paura è una sega mentale, Ponte alle grazie).
I bambini provano spesso paura. È naturale, sono piccoli, inesperti; il mondo presenta dei
pericoli, alcuni immaginari, altri reali. Da piccolo, ho toccato una stufa elettrica con un ditale.
C’è stata una grande fiammata e il ditale si è fuso. Solo la legge di Faraday mi ha permesso
di sopravvivere a morte certa. Mi sono spaventato, giustamente.
Ma non c’era nessuno. Non capivo che cosa era successo. I bambini hanno paura perché
possono mettersi in situazioni di vero pericolo, senza saperlo.
Sono i genitori, soprattutto la mamma che, grazie alla sua presenza, è in
grado di accogliere e modulare le paure del bambino. Crescendo, se tutto
va bene, egli impara a distinguere ciò di cui è sano aver paura e ciò di cui non ha
senso averla.
Ma una madre spaventata, o un padre controfobico, non sono in grado di svolgere bene
questa funzione.
Così accade che da adulti possiamo albergare al nostro interno molte paure
infantili. E queste paure ci rendono la vita assai più difficile di quello che è.
Perché le paure si tengono insieme, e generano uno stato di paura di fondo, che ci rende
fragili e vulnerabili. Magari non abbiamo più paura del buio, ma abbiamo paura di dire le cose
in tempo reale, di dichiarare con franchezza la nostra opinione, abbiamo paura di confrontare
qualcuno che ci ha fatto un torto, e così via. Avendo paura, compiere queste azioni
banali ci costa fatica. E allora impariamo a rimandare.
Ogni volta che rinviamo, che procrastiniamo, la nostra paura si
rinforza. Il circolo vizioso si è instaurato. E con esso l’incapacità
dell’io-governo di individuare con chiarezza la causa del nostro
disagio. Finiamo così per attribuirla a fatti contingenti, a problemimauroscardovelli.com
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trigger che non hanno nulla a che fare con il vero problema: la
paura di fondo, lo stato di paura. Questo è il vero problema.
2. Autostima
Se io albergo paure infantili al mio interno, la vita diventa una sorta di slalom per
evitare di caderci dentro.
Ogni inibizione determinata da una paura infantile, rinforza lo stato di paura. Da adulto non
posso avere stima di me se sono succube di queste forze.
Che cosa è l’autostima?
E’ l’opinione che l’orchestra delle parti interne ha del direttore, cioè dell’io-governo.
Un leader che ha paura, non può essere un buon leader. Leader è colui che ha più
coraggio degli altri, più determinazione, più visione. La funzione della leadership è quella di
guidare gli altri. Gli altri si affidano volentieri ad una guida capace. E la prima capacità è quella
di non essere in balia di pericoli immaginari e di saper affrontare con coraggio i pericoli reali,
senza scambiare gli uni con gli altri, come faceva mio padre.
3. Potere e paura
Il potere, ogni forma di potere oppressivo, utilizza la paura per
sottomettere le persone.
Si subisce il potere perché si ha paura.
In passato il potere utilizzava in modo massiccio le paure reali per sottomettere intere
popolazioni: uccisioni, torture, stupri, violenze di ogni tipo erano in grado di aver la meglio
sulla volontà di chi si trovava in posizione di inferiorità o debolezza. La nostra civiltà, come
tutte le civiltà, si è imposta nel mondo non per la bontà dei suoi principi, ma per l’efficacia
delle sue armi. I nativi americani, dal punto di vista della qualità umane, erano superiori agli
invasori. Ma erano inferiori nelle armi, e nella capacità di difendersi e contrattaccare. E così
sono stati in gran parte sterminati. Come gli aborigeni australiani. Interi genocidi compiuti alla
luce del sole e poi dimenticati, perché l’ideologia che ha il sopravvento è sempre quella dei
vincitori. Ancora oggi si festeggia il Columbus day. Forse tra cento anni ci vergogneremo
collettivamente di questa infamia: festeggiare un atto di prevaricazione e distruzione di intere
popolazioni. Da parte di chi si ritiene inventore dei diritti umani, e che vuole imporli al mondo.
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Sempre nello stesso modo: attraverso la paura, con le armi dell’economia o della
guerra.
Non festeggiamo l’avvento di Hitler al potere per una sola ragione: perché è stato sconfitto.
Non festeggiamo più il fascismo e il comunismo, perché sono stati sconfitti. La lezione è
chiara: potere e giustizia sono tra loro incompatibili. Mai fidarsi delle lezioni umane che
vogliono fornirci i vincitori per ammantare di bellezza e virtù il loro operato.
Dopo la dichiarazione dei diritti umani, dopo l’ONU, il potere, nella sua veste
esteriore, ha cambiato forma. Oggi non si va più in guerra per depredare un paese, ma
per salvare altri popoli da se stessi.
Si compiono guerre umanitarie.
Si vitupera chi queste guerre non vuole combatterle, perché ritiene che ci siano mezzi assai
più efficaci di soluzione dei conflitti. Mezzi che vanno adoperati per tempo, e non possono
funzionare dopo che la situazione è precipitata. Naturalmente non si può escludere che ci
siano conflitti nel mondo che siano autoctoni, guerre tra tribù, guerre di religione e così via,
come ci sono sempre state, in cui noi occidentali c’entriamo ben poco. Non possiamo
prenderci la responsabilità per azioni non nostre. Attribuirsi tutte le responsabilità, come
tendono a fare alcuni estremisti di sinistra, è un errore, simmetrico all’errore opposto: non
assumerne nessuna.
La nostra politica economica è così aggressiva che lascia ben poco spazio a chi
vuol percorrere un'altra strada. Di questa aggressività dovremmo farci carico e rimediare,
se davvero vogliamo la pace. Quando partecipiamo a guerre umanitarie, invece, vogliamo far
la parte dei cavalieri senza macchia e senza paura, quelli che salvano i primitivi dalle loro lotte
intestine. Mentre siamo quasi sempre noi ad aver contribuito in modo massiccio alle
condizioni di instabilità e insicurezza alle quali poi vorremmo rimediare.
La storia, in piccolo o in grande, tende a ripetersi finché certe strutture mentali, dalle quali
origina, non vengono cambiate. Ricordo un padre che si rivolgeva al figlio piccolo con fare
minaccioso. Il bimbo si metteva a piangere, e il padre lo rimproverava perché era un pauroso.
Comprendere questa struttura è cogliere l’essenza del doppio legame, cioè del
fattore patologico universale più diffuso, che ogni cattiva autorità regolarmente
utilizza.
Il doppio legame consiste in questo: l’autorità A crea un problema in B, e
poi rimprovera B di avere quel problema.
Una madre anaffettiva tiene il figlio lontano, poi lo rimprovera di non volergli bene.
Un padre violento spaventa un bambino, e poi lo rimprovera di avere paura.
Una religione organizzata inibisce la libera espressione sessuale, generando in tal modo il
proliferare di perversioni, e poi condanna le perversioni che lei stessa ha generato.
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Un paese che si reputa civile sottrae le risorse ad un paese più debole, e poi, dall’alto della
sua posizione di forza, rimprovera la popolazione del paese più debole di essere pigra e poco
intelligente.
Oggi il potere si avvale della forza fisica assai meno di una volta. Ha capito
che in gran parte è inutile. Assai più efficace è la persuasione attraverso
mezzi psichici. E qual’è la porta di ingresso di questi mezzi che colonizzano la mente delle
persone, rendendole ottuse e succubi al potere? La
paura.
Ma quale paura, quali paure? Le paure reali? No, le paure nevrotiche, cioè le paure infantili.
Le paure reali terminano di fronte al cessato pericolo. Le paure infantili, le paure nevrotiche,
no. Continuano per tutta la vita. Fino a quando? Finché non si cresce, finché non si cresce in
consapevolezza, e si diventa adulti. Vero adulto è solo chi non è più preda di paure infantili.
Di adulti che rispondano a questo requisito ce ne sono pochi. Li chiamiamo eroi, e per
riconoscerli, quasi sempre abbiamo bisogno che superino la prova più grande: quella di
essere ammazzati.
Prima cerchiamo di svalutarli, di trovare i loro punti deboli. Il potere fa sempre così. Con
Giovanni Falcone, con Borsellino, con il poeta nigeriano Ken Saro-Wiwa che parlava alla sua
gente dei crimini di una multinazionale del petrolio, ed aveva il torto di essere ascoltato. Il
potere fa così, e con molta facilità convince le persone comuni a fare altrettanto. Perché?
Perché se siamo tutti uguali, tutti un po’ disonesti, allora nessuno è davvero responsabile, e
questo ci libera dal compito di fare qualcosa, di lasciar andare i nostri meschini interessi e di
impegnarci davvero per il bene comune.
4. Paure
Molti adulti albergano al loro interno paure di questo tipo:
- paura del rifiuto o del mancato riconoscimento;
- paura di essere abbandonati o emarginati;
- paura di essere traditi;
- paura di essere umiliati, svergognati;
- paura di dire le cose;
- paura delle reazioni degli altri;
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- paura della riprovazione;
- paura del giudizio;
- paura di essere considerati colpevoli, disonesti, cattivi;
- paura di essere considerati stupidi, incapaci, poco intelligenti;
- paura di non essere capiti, di essere svalutati; - paura della
solitudine;
- paura di non essere attraenti;
- paura di non essere simpatici;
- paura di non aver nulla da dire, di essere noiosi;
- paura delle brutte figure;
- paura di deludere;
- paura che accadano delle disgrazie a sé o alle persone care;
- paura delle malattie;
- paura della depressione;
- paura di aver paura;
- paura della morte;
- paure di cadere in povertà...
L’elenco è molto lungo. Tutte queste sono paure infantili,
nevrotiche, non reali. Non sono reali perché le uniche paure reali
sono quelle nei confronti di un pericolo fisico attuale. In quel caso la
paura, come emozione, non solo è giustificata, ma è utile alla nostra sopravvivenza, perché ci
mette nelle condizioni fisiologiche che la favoriscono. O perché ci prepara ad una fuga
precipitosa, o perché ci immobilizza e ci rende meno visibili ad un eventuale predatore.
Negli altri casi, l’emozione paura non solo non è utile, ma addirittura crea essa
stessa il pericolo dal quale dovrebbe salvaguardarci. Chi ha paura della solitudine, si
predispone al meglio per andarvi incontro, così come chi ha paura dell’emarginazione o
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paura di fare brutta figura. Chi ha paura di essere incapace, per questa stessa ragione crea la
sua incapacità. Sono paure nevrotiche perché non solo non hanno fine, ma tendono ad
amplificarsi nel tempo, per la coazione a ripetere di cui parla Freud. Mentre la sana paura,
una volta memorizzata, è funzionale proprio ad evitare di esporsi al pericolo, la paura
nevrotica ci espone sempre più spesso al pericolo temuto e ci fa vivere male. Cioè ci fa vivere
in uno stato di paura, che è l’opposto di uno stato di risorsa.
Le paure nevrotiche ci rendono impotenti e passivi. Speriamo di non caderci dentro.
Temiamo le nostre stesse paure. La nostra capacità di movimento ed esplorazione si riduce,
e con essa la nostra capacità di apprendimento, di comprensione, di visione.
Più paure abbiamo, più la nostra mente creativa si spegne. Più ad esse diamo potere, più
siamo succubi. Non solo delle nostre paure, ma di chi vuole utilizzare la paura per dominarci.
Quindi siamo disposti a tradire noi stessi per un po’ di sicurezza. Falsa sicurezza, perché non
difende il nostro essere, la nostra vera identità, ma la nostra immagine.
5. Paura e amore
Il mondo è guidato da due forze: il potere e l’amore, dice Raimon Panikkar.
Possiamo tradurre questa affermazione in quest’altra: il mondo è guidato da due
emozioni: la paura e il coraggio.
Il vero coraggio non è di chi non avverte la paura. Il vero coraggio è di chi, sentendola, sa
guidare se stesso a superarla e a compiere la retta azione. Coraggio ha la stessa radice di
cuore: il cuore aperto dà coraggio. Dà coraggio perché fornisce visione, visione d’insieme,
quella del cuore, capace di integrare in un campo più ampio percezioni parziali che, prese
isolatamente, ci forniscono un’opinione distorta.
La paura si vince diventando adulti, cioè capaci di pensare in modo
adulto, di usare la ragione, l’Io-governo, per guidare le parti di noi
ancorate alle esperienze del passato.
Strumento della ragione è il pensiero. Pensare significa soppesare, soppesare le cose per
metterle nel luogo giusto, nel luogo che compete loro. Se scambio una corda per un
serpente, è logico che abbia paura. Se proietto nella realtà le mie paure infantili, è logico che
abbia paura delle reazioni o dei sentimenti degli altri.
Ma se vedo lo stato paura per quello che è, cioè un cattivo funzionamento della
mente-cervello, allora non cerco più di fronteggiare i problemi che mi genera,
perché comprendo che quelli sono solo sintomi.
Il vero problema è uno solo: il mio stato di paura.
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E se comincio a pensare davvero, cioè a mettere le cose nel giusto posto, mi accorgo in
fretta che quello stato non è solo mio.
L’assoluta maggioranza degli adulti soffre di paure infantili. Il problema diventa quindi: come si
può aiutare le persone, tra le quali ci sono anch’io, a superare le paure infantili? Se ci
poniamo questa domanda, nasce in noi un vero desiderio di aiuto nei confronti di tutti gli
esseri umani sofferenti: allora siamo già fuori dalle paure e dallo stato problema chiamato
paura. Ponendoci questa domanda, ci disidentifichiamo subito dalla visione parziale che ci fa
credere isolati, separati, in competizione gli uni con gli altri. Visione che è alla base di TUTTE
LE PAURE INFANTILI.
Finché ci sentiamo isolati, è naturale avere paura. Una cellula separata dal corpo è
destinata a breve vita. Un essere umano separato dagli altri è in continuo pericolo di vivere
disagi emotivi piccoli o grandi. Anche da adulto. Ma da adulto, a differenza di quando era
bambino, può ragionare, può pensare correttamente, e non scambiare più la corda
per il serpente. Magari stando vicino ad altri adulti che lo possono aiutare a non caderci
dentro. Non perché è un bambino, ma perché utilizza ancora la mente come un bambino, e
quindi ha le stesse reazioni.
Il problema non sono le singole paure. Quelle sono solo sintomi. Il problema è lo
stato di paura. Che però è più difficile da vedere delle singole paure. Mentre queste abitano
la superficie, lo stato paura giace più in profondità, alberga nelle viscere, nelle parti più
arcaiche del cervello. Lasciate a se stesse, non sono in grado di funzionare correttamente in
un ambiente altamente civilizzato. Hanno bisogno di aiuto, di guida. Come un bambino.
Vanno educate. Come un bambino.
Molti adulti rifiutano di svolgere con se stessi questo compito elementare, che poi è quello di
diventare genitori, terapeuti, leader di se stessi. Preferiscono mettere al mondo dei figli prima
di far crescere quelli che hanno dentro. Che veri e propri figli non sono, ma funzionano come
se lo fossero. Solo diventando genitori di se stessi, buoni genitori di sé, queste paure
scompaiono per sempre. E’ ovvio, troppo ovvio, troppo semplice perché un adulto
intelligente possa crederci. Si sente facilmente un po’ stupido a pensare in questi termini. Ma
questa è una paura infantile.
Chi è adulto non ha paura di passare da stupido, neppure se fa cose intelligenti che la
maggior parte degli altri non capisce. Non ha paura perché ha superato l’origine di tutte le
paure, che è l’altra faccia della separatività: la paura del giudizio. Del giudizio degli altri che fa
risuonare un equivalente giudizio interno: gli altri pensano che sia stupido, io credo di no; ma
una parte del mio io crede di sì, che abbiano ragione gli altri. Allora finisco in un tribunale
interiore dove difendo la mia causa, che è già persa in partenza, appena varco la soglia del
tribunale. Nel momento che accetto la sua giurisdizione, e divento imputato, non mi rimane
che difendermi. Ma nessuna difesa sarà mai sufficiente a cambiare opinione all’accusa.
Quindi, alla fine, nel tribunale io fisso la mia dimore e la residenza. E il tribunale, qualunque
tribunale, è una fabbrica di paure, che alimentano lo stato di paura di fondo.
Un noto libro di Jampolsky s’intitola: “Amare è lasciar andare la paura”. Jampolskj
chiarisce bene un concetto centrale della psicologia asiatica: solo l’amore, solo il risiedere nel
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vero sé può porre fine alla paura. Finché siamo separati, finché siamo lontani dalla nostra vera
casa, la paura sarà la nostra fedele compagna.
Cor meum inquietum est donec in te requiescat, dice Agostino nelle sue Confessioni.
Petrarca, raggiunta la cima del monte Ventoso in Francia, apre le Confessioni e gli occhi gli
finiscono su questa frase. Nella visione agostiniaia Dio è fuori di noi, sopra di noi. Nella visione
asiatica, Dio è in noi. Solo quando riconosciamo la scintilla divina che abita al nostro interno,
lasciando andare le altre identificazioni parziali, il nostro cuore sarà in quiete, cioè senza
paura.
6. Paura e rabbia
Chi ha paura, almeno a livello inconscio, vive circondato da nemici che gli vogliono
male. Non solo nemici esterni, ma interni, che vengono proiettati sugli altri. Perché?
Perché chi ha paura, ha anche molta rabbia. Rabbia di averla, la paura, rabbia di essere
dominato da forze che non controlla. Sente che tutto questo è ingiusto. La rabbia nasce dal
senso di ingiustizia e prevaricazione. Di questa rabbia è poco consapevole, e quindi la
proietta fuori. Da qui l’equivalenza: più paura, più rabbia, più ostilità interna, più nemici esterni
di cui avere paura.
Il circuito vizioso paura-rabbia-paura non è visibile in superficie. Occorre scendere
un minimo in profondità. La paura copre la rabbia.
Lo stesso per il circuito rabbia-paura-rabbia. Chi prova molta rabbia a livello conscio, al suo
interno, nell’ombra, alberga la paura.
La paura finisce solo quando cessa la rabbia. E la rabbia finisce solo quando cessa
la paura. Solo lì inizia l’amore, la pace, il senso di unità, di appartenenza, di sicurezza, di
fiducia profonda.
Quando il cuore è aperto, quando siamo in stato di coerenza cardiaca, siamo in contatto con
la nostra anima. La paura finisce perché ha termine il giudizio: su di noi (subpersonalità
depressa, paura, sottomissione, compiacenza) e sugli altri (subpersonalità narcisista, rabbia,
ostilità, prevaricazione). Su di noi o sugli altri, il giudizio è sempre giudizio. E’ una danza che,
indipendentemente dalla posizione che si assume in essa, attira nel suo campo semantico i
doveri, la colpa, l’indegnità, la vergogna, la paura della punizione, dell’esclusione,
dell’abbandono, del rifiuto, dell’umiliazione.
Nella nostra cultura siamo educati a subire, e a nostra volta ad utilizzare, il giudizio, la colpa,
la vergogna, la paura, come mezzi normali e ordinari per controllare gli altri, affinché si
comportino nel modo desiderato (Marshall Rosemberg, Le parole sono finestre). Alcune
religioni organizzate forniscono l’immagine di un Dio autoritario e punitivo per mantenere il
potere sui fedeli. Lo stesso potere utilizzano i genitori con i bambini, gli insegnanti con gli
allievi, gli imprenditori con i dipendenti. Da sempre, salvo eccezioni.
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La paura è utilizzata,
da chi vuol esercitare il potere,
come mezzo di controllo mentale.
Chi, educato a subire il potere, si trova temporaneamente in una situazione di libertà esterna,
comincia comportarsi in modo da ricreare le condizioni affinché un’autorità oppressiva si
instauri di nuovo. Gli allievi, in assenza dei professori, non fanno più nulla. Così i dipendenti in
assenza di controlli, diventano irresponsabili, sempre salvo eccezioni. Perché chi agisce
motivato dal dovere e dalla paura, quando la paura finisce, smette di agire.
Estirpare il giudizio dal nostro modo di pensare è la più grande rivoluzione che possiamo
compiere: libera gli altri dai nostri tentativi di manipolazione, e nel contempo libera noi stessi
dall’oppressione che generiamo al nostro interno.
Solo chi esce dalla prigione del giudizio, diventa un liberato e un liberatore.
7. Paura del giudizio
Una donna ama suo marito. Ma teme le sue pretese e i suoi giudizi. Così cerca di
comportarsi in modo da evitarli. Ma non sempre vi riesce, anche perché al suo interno vive
una parte arrabbiata, che ogni tanto le sfugge di mano e, al di fuori della sua consapevolezza
e volontà, cerca di ricambiare il marito della stessa moneta: lo critica, lo giudica, lo umilia,
appena può, in modo molto sottile. Spesso solo al suo interno. Ma attraverso la
comunicazione non verbale, l’inconscio del marito percepisce la sua ostilità, e questo
fomenta in lui il bisogno di controllare la moglie incutendole timore.
Senza libertà non c’è vero amore. Privati della libertà, diventiamo preda dell’ottusità.
Senza libertà siamo ciechi all’amore e alla conoscenza.
Ma che cosa è la libertà? La libertà di fare ciò che ci piace, senza tenere conto degli altri?
No, quella è solo una maschera della libertà.
La libertà è in primo luogo libertà dalla paura. Ma la paura può esistere solo finché esiste il
giudizio, e finché esiste la separazione che esso implica, tra soggetto e oggetto, tra
osservatore e osservato, tra sé e altri, tra io e mondo.
Il marito giudica la moglie, la moglie giudica il marito. Tra loro si crea un fossato che può
diventare incolmabile
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Quindi, la vera libertà è la libertà dal giudizio.
Occorre capirlo molto bene. La cultura, l’educazione, la socializzazione, nella misura in cui ci
insegnano a giudicare, ad etichettare, a separare in categorie i buoni dai cattivi, chi ha
ragione e chi ha torto, chi è intelligente e chi è stupido, chi è affidabile e chi non lo è, come se
queste caratteristiche non fossero trasversali e accomunassero in differente misura e in tempi
diversi tutti gli esseri umani, con la pratica del giudizio ci insegnano anche ad essere guidati
dalla paura anziché dall’amore. Passando attraverso l’educazione e la socializzazione finiamo
tutti per pagare un prezzo, talvolta molto alto, in termini di libertà. Libertà di essere se stessi,
di sviluppare la propria coscienza come bussola per il proprio agire.
Separato dalla propria coscienza, l’uomo, soggetto a giudizio, non è in grado di conoscersi, e
quindi gli è impossibile realizzare la propria vera identità. E’ pronto quindi a sottomettersi a
qualunque autorità che gli indichi ciò che va fatto, sotto forma di doveri. Non avendo autorità
interna, dipende sempre da un’autorità esterna.
Questa è la piaga, all’origina di ogni tirannia interna ed esterna, di ogni violenza, di ogni
sopruso e prevaricazione.
Liberiamo il mondo da questa piaga cominciando a liberare noi stessi. Da subito.
8. Schiavi salariati
Oggi molte persone vivono in stato di schiavitù. Nel terzo o quarto mondo? No, qui
vicino a noi, nel primo mondo. I call center sono pieni di giovani laureati che
guadagnano 500 euro al mese. Sono schiavi. Per bisogno. Per paura. Solo la paura
dà loro la forza di svolgere un lavoro alienante e stressante.
Ciò significa che non hanno alternative? Questo è ciò che il sistema economico postcapitalistico fa loro credere. Separati, divisi tra loro, i lavoratori hanno perso ogni
capacità di contrattare con la controparte da una posizione di sufficiente forza. La
globalizzazione ha creato una competizione all’ultimo sangue tra i lavoratori meno qualificati,
ma anche tra lavoratori qualificati che non trovano sbocchi professionali. La crescente
disoccupazione e la precarietà a vita giova a chi stabilisce il valore dei salari. Più alta è la
domanda di lavoro, più basso è il salario. Sono fatti noti.
Il senso di essere sfruttati rimane, rimane quel minimo di consapevolezza. Tutto qui.
Ma manca la visione per creare un’alternativa.
L’alternativa richiede un grande impegno per unire le forze del lavoro onesto, non egoico, per
resistere alla violenza strutturale del capitalismo, che è una manifestazione dell’Ego collettivo:
manipolatore delle coscienze, sfruttatore, esternalizzatore dei suoi costi.
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Non si esce di prigione con la chiave in mano. Nessuno degli schiavisti, servi inconsapevoli
dell’Ego collettivo, che risuona con il loro, fornirà mai la chiave. Si esce segando le sbarre,
scavando dei tunnel, unendosi in un progetto comune, inventandosi qualcosa di nuovo. Si
esce rischiando, connettendosi ad altri e impegnando tutta la propria energia.
Rassegnazione, delusione, nichilismo, rabbia, individualismo, pigrizia, evitamento,
procrastinazione, continuo bisogno di distrazioni e ricerca di piaceri compensativi
(cibo, alcol, sesso, droga, shopping ecc.), sono solo l’altra faccia dell’Ego, cioè della
danza del potere dominio che sta invadendo tutto il pianeta. Chi si lamenta, chi dissipa
la sua energia richiudendosi in se stesso, sottomettendosi ad un sistema incivile e disumano,
collabora alla diffusione del potere oppressivo quanto le élite che lo esercitano. Non potrà mai
essere felice, perché sta tradendo la sua anima. Giorno dopo giorno, dissipa la sua energia
vitale, e diventa sempre più debole, fragile, sottomesso.
Se si ascolta, se entra dentro se stesso, si accorge che al suo interno, accanto
alla rabbia, cova un senso di colpa intrinseco (Maslow, Verso una psicologia dell’essere),
non nevrotico. E’ un segnale della sua Anima, che lo invita a cambiare strada, a fare qualcosa
non solo per sé, ma per il bene comune.
Nessuna terapia potrà mai avere risultati durevoli se si limita ad analizzare la sua biografia, i
rapporti con i suoi genitori, i suoi problemi relazionali, senza metterlo in contatto con questo
segnale e interpretarlo correttamente. In fondo, la sua Anima vuole una cosa sola: che
egli sviluppi il suo potenziale umano-divino di libertà, amore, creatività, uscendo
dall’illusione della separazione, della distanza, dell’incomunicabilità. Guai ai tiepidi,
ha detto Gesù. I tiepidi sono i conformisti, i sottomessi, i servi del potere. Chi non è
con me, è contro di me, significa: chi non serve la causa dell’anima, è contro
l’Anima. Gesù, l’uomo che si è fatto Dio, ha portato nel mondo la buona novella: tutti
possiamo diventare divini, cioé liberi, liberi dalla paura, capaci di amare, creatori. Si diventa
liberi dalla paura quando si lascia andare il giudizio, che ci rende servi, dipendenti, sottomessi
all’inconscio sociale, impregnato dalla danza del potere.
Finché dipendiamo dal giudizio esterno, internalizzato nella forma di coscienza morale
conformista, non si fa un passo avanti. Perché la dipendenza dal giudizio indica la
separazione dalla propria coscienza (Angela Volpini), l’organo di senso che ci serve a
comprendere chi siamo e che cosa siamo chiamati a realizzare, in armonia, - non in conflitto
-, con gli altri esseri. Paura del giudizio e separazione dalla propria coscienza, che è la voce
della nostra anima, sono sinonimi.
La paura del giudizio è una forma di giudizio. Non si ha paura del giudizio
se non si giudica più.
Chi davvero si libera dal giudizio e si riconnette al progetto dell’Anima,
automaticamente diventa rivoluzionario dentro e fuori di sé. Smette di occuparsi di
cose futili, e guarda a ciò che è essenziale: promuovere solidarietà e giustizia, al
posto della ricerca del profitto come unico valore. Non guidato dall’odio e dal risentimento,
che sono figli dell’Ego, ma dalla compassione, che è una qualità dell’amore. Se comincerà a
mettere la propria energia e creatività in questa direzione, tutta la sua vita cambierà. Da
subito, perché dal progetto dell’Ego, collettivo e individuale, si è spostato a servire il progetto
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dell’Anima, individuale e collettiva, che vuole realizzare il bene comune. Da subito riceverà
una spinta e una forza che si rinnova in continuazione. Prima era stanco e senza energia. Ora
dispone di una vera forza inesauribile, una forza spirituale che deriva dal sentirsi parte e
servire qualcosa di più grande.
Chi fa questo passaggio, vive nel flusso, nel qui ed ora, nella totalità dell’esperienza.
Ed è felice perché fa ciò che va fatto.
Attenzione, però:
la libertà ha un prezzo molto alto, non è per tutti. Stare nella schiavitù costa poco in
termini di forza di volontà. Di fronte alla paura di finire sulla strada, quasi tutti
trovano l’energia che deriva dall’istinto di sopravvivenza.
Se si sceglie di essere leader di se stessi, la via è tutta in salita. Occorre sapersi
motivare a fare cose faticose, noiose, difficili, senza scoraggiarsi. Cioè mantenendo
il cuore al di là degli ostacoli.
In un primo periodo, occorre motivarsi a fare cose ancora più faticose e meno riconosciute,
meno pagate di quando si era schiavi. Occorre saper rinunciare ai piaceri facili e alle
gratificazioni immediate, che ci hanno compensato, almeno in parte, dal non essere noi
stessi. La libertà è possibile, ma richiede una visione, una perseveranza e forza di volontà che
la maggior parte delle persone non possiede. Per questo molti preferiscono subire e
lamentarsi. Si genera quindi una forte resistenza che ci mantiene nello stato di
passività.
Da dove viene questa resistenza? Dall’Ego, non certo dall’Anima. L’Anima aspira alla
libertà come valore assolutamente primario. Senza libertà non ci può essere amore e felicità
(Angela Volpini, Resurrezione di Dio). Non ci può essere vera umanità. L’Anima è disposta a
dare tutta se stessa per la propria crescita, per lo sviluppo della personalità. Metterci l’Anima
in un progetto significa metterci tutto se stessi. Vuol dire essere totali, senza riserve, senza
risparmio, senza calcolo, senza conflitto, vivendo nel qui ed ora, non lasciandosi distrarre,
mantenendo la visione. Ma l’Ego non è mai disposto a fare questo, e combatte contro il
progetto dell’Anima. La schiavitù interiore è l’ambiente in cui L’Ego, per sua natura, è abituato
a vivere.
L’Ego calcola sempre: mi conviene? non mi conviene? come posso risparmiarmi?
come posso faticare meno? e se facessi una cosa diversa?
L’Ego è per sua natura pigro. Perché pigro? Perché è conflittuale. Appena si pone una meta,
la inserisce in un contesto di dovere, confronto, giudizio. Automaticamente genera al suo
interno una parte oppositiva, che si ribella al progetto (cfr. bilancia strutturale). Ecco che cosa
sono la pigrizia e la distrazione: sono soluzioni tentate di risolvere il conflitto negandolo,
mettendolo sotto il tappeto. Una parte di me vuole studiare, e si automotiva con il dovere.
L’altra si ribella. Io soffro, mi stanco, non so come fare. Il mio io-governo abdica alla funzione
di far crescere le parti, guidato dall’Anima, perché anch’esso pratica il giudizio, identificandosi
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con l’una o l’altra parte, aggravando il conflitto. A questo livello, le scappatoie per ridurre la
sofferenza sono la distrazione, la pigrizia, l’evitamento, la procrastinazione.
Non sono poche le persone che non riescono a svolgere un compito se non in prossimità
della scadenza. Allora diventano attive, e riescono nell’intento, ma ad un prezzo molto alto in
termini di stress. Persone così hanno difficoltà a programmare e a rispettare impegni e
scadenze, perché riescono a motivarsi solo con la paura, che è l’altra faccia del dovere.
Finché lavoriamo dipendendo da un’autorità (falsa autorità) che ci domina in posizione
gerarchica, ci pensa la paura delle sanzioni a motivarci. Ma quando scegliamo noi l’attività da
svolgere? Lì nasce il problema. Lasciati a noi stessi, come ci motiviamo?
Finché frequentiamo il liceo, giorno per giorno siamo costretti a studiare per paura dei brutti
voti o della bocciatura. Ma quando andiamo all’università? Anche lì ci sono gli esami, ma
possiamo rinviarli quanto vogliamo. E allora ci vuole uno sforzo di volontà superiore, anche se
la materia che abbiamo scelto ci piace di più.
Ricordo un amico che provava grande piacere nel leggere un libro di Watzlawich, Il linguaggio
del cambiamento. Quando dovette portarlo ad un esame universitario, tutto il piacere
scomparve di colpo. Era rimasto il dovere, e con il dovere la resistenza al compito.
Finché al nostro interno alberga la percezione delle cose da fare in termini di doveri,
implicitamente stiamo praticando l’attitudine al giudizio, al confronto, al senso di
colpa, indegnità, vergogna. Anche se siamo noi a decidere che cosa fare, e non
un’autorità esterna, la struttura rimane la stessa. In entrambi i casi si attiva per reazione una
parte ribelle. Ma mentre nel caso dell’autorità esterna, il contesto è costruito in modo da
contenere la ribellione attraverso la paura di sanzioni, se a decidere è un’autorità interna, la
molla rimane sempre la paura, ma abbiamo molte possibilità per occultarla a noi stessi,
rendendola inefficace. E così la parte ribelle può giungere a paralizzarci, renderci pigri,
incapaci di portare a termine i nostri progetti. Tutto questo riduce la nostra autostima, ci
rende fragili, ci fa sentire inadeguati, non abili a gestirci da soli. E quindi, se non godiamo di
una rendita, finiremo per rassegnarci a fare gli schiavi salariati, in un luogo dove è qualcun
altro a gestire la nostra vita.
9. Conversazione sul tema
Ci sono persone che pur avendo al loro interno le strutture giudicanti comuni, riescono a
diventare imprenditori e a crearsi una condizione di agiatezza, anche partendo dal nulla. Ho
un amico che ha aperto un negozio di telefonia, e in pochi anni si è comprato la casa, la
barca, una macchina costosa. Come mai la paura del giudizio non lo ha bloccato?
Non so nulla del tuo amico, non so che abilità e motivazioni possiede. Posso solo
fare un ragionamento a partire da questo stimolo. Che cosa impedisce a te di fare
altrettanto?
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Non mi interessa per nulla vendere telefonini.
Ora hai la risposta. Non lo fai perché non ti interessa, quindi non ti impegni a
generare le capacità che ci vogliono a creare un’impresa commerciale. Ricordo che
il mio analista una volta mi disse: lo sa perché Paul Getty è diventato così ricco?
Perché aveva in testa solo il denaro. Tu non hai in testa il denaro. E’ all’ultimo posto,
ma ti serve per vivere. Quindi sei in conflitto.
Non voglio diventare imprenditore di negozi di telefonia, ma desidero vivere promuovendo lo
sviluppo della consapevolezza. E anch’io ho bisogno di soldi. Fino ad oggi per procurarmeli
ho fatto ogni sorta di mestieri manuali o comunque poco pagati.
E’ naturale. Tu vuoi “vendere” un prodotto che ha ancora pochissimo mercato. Chi è
disposto a spendere soldi per acquisire consapevolezza? La gente è stata educata
a disinteressarsi a questo tipo di cose: al massimo vogliono risolvere i loro problemi
personali. Ma non sono educati a collegare i problemi personali con la mancanza di
consapevolezza. Tu vuoi “vendere” la pietra più preziosa, in un mercato interessato
solo a oggetti di scarso o nullo valore.
Ma ci sono persone che riescono a fare imprenditoria con prodotti che aiutano a sviluppare la
consapevolezza. Ad esempio il settore agriturismi, prodotti biologici, medicina alternativa,
dove il denaro non è collegato alla distruttività.
Perché tu non ti impegni in quei settori?
Perché fin da ragazzo ho scelto di contribuire allo sviluppo della consapevolezza attraverso la
conoscenza di sé, lo studio, la ricerca dei maestri. Ho speso molti soldi in libri, e ho dedicato
molto tempo alla mia formazione.
Ognuno di noi ha una sua specificità, una qualità interiore che lo rende unico. E’
parte della propria anima. Conoscere se stessi e seguire il progetto dell’anima è il
nostro compito. Il tuo è un compito particolarmente difficile ed in salita, per il
contesto in cui ci troviamo a vivere oggi. In altri tempi e contesti, non avresti avuto
alcun problema a seguire questa via. Come oggi non ha grande difficoltà chi vuole
aprire un’agenzia immobiliare. Proprio per questo il tuo progetto è prezioso. Ma il
tuo Ego può renderti la vita veramente difficile, in quanto può porti domande
perverse, alle quali non sai rispondere. L’Ego crea un conflitto al tuo interno, e lì
dissipi molta energia. Il tuo amico imprenditore, non ha questo conflitto. Molte
persone, nel mondo degli affari, non hanno conflitti: il loro Ego si sintonizza con
quello collettivo. Il profitto diventa il loro primo valore. Si dedicano al profitto con
l’amore che hanno per un figlio. Sono totali, instancabili, efficienti.
Nel mondo dello spirito, vale la stessa legge: chi è senza conflitto, si muove
rapidamente e trova la sua strada.
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Ma è molto più difficile!
Certo, perché chi segue la via dello spirito ha tutto l’inconscio sociale contro. Non
segue la corrente, ma la risale. E’ infinitamente più faticoso. Ti ricordo che oggi
l’inconscio sociale è l’economia (Hillman). Quindi ti stai mettendo contro una forza
immensa. Solo collegandoti ai grandi maestri puoi ricevere l’energia di cui hai
bisogno. Ma occorre una fede veramente grande. E’ una prova, una grande prova in
cui ti stai impegnando. Non basta che elimini alcuni conflitti. Lì devi scovare nei
recessi più reconditi della tua mente. Ogni conflitto è come un peso che ti tira giù.
Solo se raggiungi uno stato di coerenza moto elevato ce la puoi fare. Quindi, in un
certo senso, ce la puoi fare solo se ciò che dici di volere lo vuoi veramente, lo
pratichi su te stesso, fino in fondo.
Ma ci sono tante persone oneste, che lavorano senza sfruttare nessuno, senza porsi mete
impossibili. Semplicemente compiono bene il loro lavoro, sono utili agli altri, non si travagliano
per problemi insolubili. Sono contenti, così pare, e guadagnano a sufficienza per vivere bene.
Certo, la maggior parte delle persone vive così. Solo una parte vive in modo
disonesto, sfruttando gli altri, evadendo il fisco, corrompendo le autorità ecc.
Questo è vero. Ma queste persone che vivono onestamente guardano fuori dal loro
orticello e guardano come funziona il mondo? Sono consapevoli che più di un
miliardo di persone vive nella povertà? Sono consapevoli che gli acquisti che fanno,
il loro stile di vita, apparentemente innocuo, mantiene in piedi un terribile sistema di
sfruttamento dell’uomo sull’uomo e sulla natura? Raimon Panikkar viveva in
California, insegnava all’università, godeva di tutti i privilegi che una società ricca
può fornire. Era circondato da persone simpatiche, che lo stimavano, che seguivano
i suoi insegnamenti. Ma un giorno si è detto: voglio ancora stare qui, in una terra
che prospera sul sangue degli innocenti?
Ci siamo mai chiesti fino in fondo da dove viene la ricchezza dei paesi ricchi? Non
occorre essere estremisti radicali, ispirati da odio e rancore, per porsi una simile
domanda. Occorre solo essere in contatto con la propria anima, che per sua natura
è collegata a tutte le anime, e non può rimanere indifferente alla sofferenza.
Essendo intelligente, l’anima sa benissimo che ogni privilegio comporta uno
svantaggio per qualcun altro. E’ assolutamente ovvio, può capirlo un bambino.
Gandhi chiedeva ai più ricchi di vestirsi come i più poveri. Oggi essere distinti è un
valore. Distinguersi dagli altri, mostrarsi superiori. In che cosa? Nella bellezza, nella
forza, nella ricchezza materiale. Ma questo si paga con il prezzo di un
impoverimento spirituale. E’ una legge della fisica, non si tratta di teosofumi o di
paccottaglia spiritualista.
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