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NORME PENALI DI FAVORE E ZONE D`OMBRA

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NORME PENALI DI FAVORE E ZONE D`OMBRA
NORME PENALI DI FAVORE
E ZONE D’OMBRA DELLA GIUSTIZIA COSTITUZIONALE
di
Andrea Lollo
(Cultore della materia in Diritto costituzionale presso
l’Università degli Studi “Magna Graecia” di Catanzaro)
30 giugno 2009
Sommario: Introduzione – 1. Il problema della rilevanza delle norme penali di favore
alla luce del principio di irretroattività della legge penale: la sent. n. 148 del 1983 e la
soluzione ‘eclettica’ della Corte costituzionale – 2. Rilevanza della questione e fatti
pregressi: il principio di eguaglianza quale fondamento e limite al principio di retroattività
della lex mitior. Effetti sul giudizio a quo – 3. Principio di legalità ed inammissibilità delle
decisioni additive in malam partem. Una scelta ingiustificata? – 4. La sentenza n. 394 del
2006: un nuovo limite alla sindacabilità delle norme penali di favore (tra «specialità
sincronica» e «specialità diacronica»). Riflessioni critiche – 5. Ai confini della
discrezionalità legislativa. Riflessioni conclusive
Introduzione
La locuzione norma penale di favore viene comunemente utilizzata dalla dottrina per
indicare ogni norma penale che preveda una disciplina più favorevole al reo, rispetto a
preesistenti incriminazioni1. Si tratta di una categoria di norme estremamente eterogenea,
nella quale si tende a ricomprendere indistintamente tutte le disposizioni penali che abrogano
una incriminazione, che rendono meno grave la punizione del reato, che restringono la
1
Cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, IV ed., I, Bologna 2004, 89-90.
federalismi.it n. 13/2009
fattispecie legale, che degradano un delitto in contravvenzione, ovvero altrimenti si risolvono
in un regime penalistico meno grave per l’imputato2.
Tuttavia, alla luce di un recente trend giurisprudenziale, di cui la sentenza n. 161 del
2004 della Corte costituzionale costituisce il primo timido segnale, è opportuno restringere la
categoria appena definita alle sole leggi di deroga a norme incriminatrici di portata generale,
che siano contestualmente vigenti. Oltre tale confine, per ciò che concerne le norme
abrogatrici di preesistenti fattispecie, la dottrina più attenta preferisce utilizzare la nozione di
leggi penali più favorevoli, per indicare, de residuo, ogni altra norma più mite3.
Con riserva di approfondire in prosieguo l’argomento4, si può anticipare sin d’ora che,
rispetto a tale genere di norme, il giudice delle leggi dichiara con una certa fermezza la
propria incompetenza, per evitare di conculcare la discrezionalità del legislatore in materia
penale.
Ci si consenta, tuttavia, di manifestare sin d’ora una certa insoddisfazione per tale
orientamento giurisprudenziale che, di fatto, creando una nuova zona d’ombra della giustizia
costituzionale, si pone in totale distonia con l’esigenza, più volte affermata dalla Corte, di
limitare l’esistenza di zone franche dell’ordinamento giuridico5.
Tale necessità, difatti, fu ben presto avvertita dalla Consulta, dimostratasi attenta ad
evitare che le strozzature tipiche del meccanismo incidentale di instaurazione delle questioni
di legittimità costituzionale potessero provocare zone dell’ordinamento sottratte al proprio
controllo. Il pericolo si manifestava in maniera evidente proprio per le norme penali di favore,
considerato che, per tale categoria di norme, una eventuale pronuncia ablatoria non avrebbe
inciso sul giudizio a quo, stante il principio di irretroattività della legge penale, di cui all’art.
25, comma II, Cost., e 2, comma I, c.p., che avrebbe precluso al giudice del giudizio
principale di fare applicazione di una norma meno favorevole, eventualmente reviviscente,
non in vigore al momento della commissione del reato.
In realtà, è opportuno precisare da subito che non sempre il problema dell’irrilevanza
delle norme penali di favore viaggia di pari passo con il principio di irretroattività della legge
2
Cfr., per tutti, G. VASSALLI, Giurisprudenza costituzionale e diritto penale sostanziale. Una rassegna, in AA.
VV., Corte costituzionale e processo costituzionale nell’esperienza della rivista “Giurisprudenza
costituzionale” per il cinquantesimo anniversario, a cura di A. Pace, Milano 2006, 1049-1050.
3
Cfr. G. MARINUCCI, Il controllo di legittimità costituzionale delle norme penali: diminuiscono (ma non
abbastanza) le “zone franche”, in Giur. cost., 2006, 416; M. D’AMICO, Ai confini (nazionali e sovranazionali)
del favor rei. Relazione introduttiva, in R. BIN-G. BRUNELLI-A. PUGIOTTO-P. VERONESI (a cura di), Ai
confini del “favor rei”. Il falso in bilancio davanti alle Corti costituzionale e di giustizia, Torino 2005, 12 ss.; M.
D’AMICO-F. BIONDI, Sub art. 134, 1° alinea, in AA. VV., Commentario della Costituzione, a cura di R.
Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, Milano 2006, 2575.
4
Cfr. infra § 4.
5
Cfr., ex multis, sent. n. 148/1983, punto 3. del Cons. in dir.
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2
penale, potendo talvolta accadere che la lex mitior sia entrata in vigore successivamente alla
realizzazione della fattispecie criminosa; in tutti questi casi, come è evidente, il problema
dell’irrilevanza delle questioni sollevate su tali norme si intreccia, bensì, con il principio di
retroattività della legge penale più favorevole.
Alla luce di tale affermazione, il tema della rilevanza delle norme penali di favore
verrà trattato distinguendo opportunamente in relazione al tempus commissi delicti.
Successivamente, invece, prenderemo in esame la diversa, ma connessa problematica
della discrezionalità del legislatore in materia penale e del conseguente atteggiamento di selfrestraint adottato dal giudice delle leggi, sia riguardo alle additive in malam partem, sia in
riferimento alle nome abrogatrici, tentando di trovare il punto di equilibrio tra il principio
della riserva di legge, da cui deriva come corollario che la scelta dei fatti da sottoporre a pena
venga rimessa al monopolio del Parlamento, e la necessaria conformità delle scelte politiche
rispetto ai principi della Carta costituzionale.
1. Il problema della rilevanza delle norme penali di favore alla luce del principio
di irretroattività della legge penale: la sent. n. 148 del 1983 e la soluzione ‘eclettica’ della
Corte costituzionale
La giurisprudenza costituzionale degli anni settanta, nell’affrontare la questione
dell’apparente irrilevanza delle norme penali di favore costituzionalmente illegittime, si
caratterizzava per una certa ondivaghezza, ammettendo, con alcune sentenze, il sindacato su
tale categoria di norme, in base all’assunto che «le questioni inerenti alla retroattività delle
decisioni di accoglimento della Corte costituzionale attengono all’interpretazione delle leggi e
pertanto devono essere risolte dai giudici ordinari»6, ma sostenendo, idiosincraticamente, con
altre decisioni coeve, o di poco successive, l’irrilevanza teorica7 di tali questioni, considerato
che, il tassativo disposto degli artt. 25, comma II, Cost., e 2 c.p., avrebbe fatto obbligo al
giudice a quo di applicare in ogni caso, nella concreta fattispecie, la norma impugnata,
quand’anche viziata d’incostituzionalità, non invece la norma precedente eventualmente
6
Cfr. sentt. nn. 155/1973; 22/1975.
Cfr. M. DOGLIANI, Irrilevanza “necessaria” della questione relativa a norme penali di favore, in Giur. cost.,
1976, 585. L’A. afferma, in commento alla sentenza n. 85 del 1976, che trattandosi di una «irrilevanza
totalmente indipendente dall’atteggiarsi delle questioni nelle quali si articola il giudizio a quo, ma essendo
invece intrinseca ad un “tipo” di norme, essa comporta che, per queste ultime, il giudizio di legittimità
costituzionale non solo non possa avvenire oggi, in presenza di questa specifica fattispecie, ma non possa mai
avvenire».
7
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3
reviviscente8. In altri termini, esisteva un orientamento giurisprudenziale che riteneva che la
sentenza ablatoria della Consulta non avrebbe influito sul giudizio principale, verificandosi un
difetto relativo di rilevanza9.
Con la sentenza n. 148 del 1983, che è divenuta la clef de voûte della ‘dottrina’ della
Corte costituzionale sul tema, assai dibattuto, della rilevanza delle norme penali di favore, si è
ammessa ex professo la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale su tale categoria
di norme, riconoscendosi coesistenti il principio di irretroattività delle norme penali e quello
dell’assenza di zone franche sottratte al giudizio di costituzionalità10.
Come si legge in tale pronuncia, ribadita la assoluta intangibilità del principio di cui
all’art. 25, comma II, Cost., la Corte ha riconosciuto che l’eventuale accoglimento delle
questioni di costituzionalità sollevate su questa categoria di norme verrebbe comunque ad
incidere sul processo a quo, per almeno tre ordini di ragioni.
In primo luogo, perché l’eventuale accoglimento della questione di costituzionalità
inciderebbe sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, sulla sua ratio
decidendi, oltre che sulle formule di proscioglimento o, quanto meno sui dispositivi, i quali
dovrebbero fondarsi non sulla sola disposizione annullata, ma sull’art. 2, comma I, c.p., oltre
che sull’art. 25, comma II, Cost.
In secondo luogo, poiché, essendo anche le norme penali di favore parte del
sistema, lo stabilire in quali modi l’ordinamento potrebbe reagire ad una sentenza di
illegittimità costituzionale, è questione inerente all’interpretazione di norme diverse da quelle
annullate, che non spetta alla Corte costituzionale, ma che i singoli giudici devono affrontare
caso per caso, nell’ambito delle rispettive competenze.
In terzo luogo, in quanto non può escludersi a priori che il giudizio di
costituzionalità avente ad oggetto una norma penale di favore si concluda con una sentenza
interpretativa di rigetto (nei sensi di cui in motivazione), o con una pronuncia correttiva delle
premesse esegetiche su cui si fondava l’ordinanza di rimessione.
Tuttavia, la funzione di garanzia svolta dal principio di irretroattività della
legge penale più sfavorevole, comporta che, comunque, posto il divieto di applicare la norma
8
Cfr. sentt. nn. 26/1975; 85/1976; 122/1977; 91/1979.
Cfr. A. RUGGERI-A. SPADARO, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 2009, 188. Gli AA.
distinguono tra “difetto assoluto” e “difetto relativo” di rilevanza: «si ha il primo quando manca del tutto
l’incidentalità (giudizio astratto) o quando la q.l.c. non è più attuale (perché la norma di legge costituzionalmente
dubbia è già stata applicata nel processo a quo); si ha il secondo quando – pur sussistendo l’incidentalità e
l’attualità della q.l.c. – tuttavia, nel caso concreto, la decisione della Corte non è in grado di incidere sul giudizio
principale».
10
Cfr. A. RUGGERI-A. SPADARO, op. cit., 191, secondo i quali la Corte costituzionale avrebbe considerato
coesistenti due principi in realtà opposti.
9
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4
abrogata reviviscente meno mite al giudizio a quo, l’imputato sarebbe giudicato sempre con la
legge più favorevole11.
A tale pronuncia ha fatto seguito una vera propria summa12, trattandosi di un
orientamento ormai consolidato.
La decisione di ammettere il sindacato sulle norme penali di favore sembra legata ad
una influenza minima prodotta dalla sentenza della Corte costituzionale sul giudizio
principale13, fondata sulla distinzione tra effetti materiali ed effetti giuridici della pronuncia
di illegittimità costituzionale14. In ogni caso, un sicuro effetto materiale si produrrebbe, oltre
che in tutti gli altri giudizi penali, nello stesso giudizio a quo, qualora il processo ad quem si
concludesse con una sentenza interpretativa di rigetto, o correttiva delle premesse esegetiche
su cui si fondava l’ordinanza di rimessione15.
Tuttavia, rispetto a quest’ultima affermazione, va considerato che la rilevanza può
individuarsi soltanto con un ragionamento postumo della Corte costituzionale, non essendo
essa certamente prevedibile da parte del giudice remittente, nello svolgimento della sua
funzione di filtro, salvo ammettere un’ordinanza di rimessione costruita in termini dubbiosi
(ma su tale questione la Corte si è ripetutamente pronunciata nel senso della
inammissibilità)16.
Per meglio comprendere le ragioni che stanno a fondamento della pronuncia appena
riferita, è utile ricordare brevemente la querelle dottrinale che costituì l’humus
dell’orientamento giurisprudenziale appena descritto.
Da un lato, distinguendosi tra applicabilità della norma di dubbia costituzionalità ed
effetti concreti della decisione della Corte, si sosteneva che ammettere la sindacabilità delle
norme penali di favore, non avrebbe significato rinunciare ai caratteri del sindacato
11
Cfr. punto 3. del Cons. in dir.; per una approfondita analisi critica sull’iter razionale delle decisioni della
Corte, cfr. L. VENTURA, Motivazione degli atti costituzionali e valore democratico, Torino 1995, 35 ss.; cfr.
anche, per ciò che concerne la tecnica di selezione dei casi, P. BIANCHI, La creazione giurisprudenziale delle
tecniche di selezione dei casi, Torino 2000, 215 ss.; A. MORELLI, Lo ius superveniens come tecnica di
selezione delle questioni di legittimità costituzionale, in AA. VV., Il giudizio sulle leggi e la sua “diffusione”.
Verso un controllo di costituzionalità di tipo diffuso?, a cura di E. Malfatti-R. Romboli-E. Rossi, Torino 2002,
583 ss.
12
Cfr. sentt. nn. 826/1988; 167-194/1993; 62/1994; 14/1996; 161/2004; 393-394/2006; 126-127/2007; 324/2008;
per le indicazioni giurisprudenziali, cfr. A. RUGGERI-A. SPADARO, op. cit., 191; A. CERRI, Corso di
giustizia costituzionale, V ed., Milano 2008, 170-171.
13
Cfr. A. RUGGERI-A. SPADARO, op. cit., 191.
14
Cfr. G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale, Bologna 1988, 201.
15
Secondo A. CERRI, op. cit., 170, la pronuncia della Corte inciderebbe anche su eventuali azioni risarcitorie.
16
Per i riferimenti giurisprudenziali cfr. A. RUGGERI-A. SPADARO, op. cit., 127 ss. ; A. CERRI, op. cit., 233
ss; E. MALFATTI-S. PANIZZA-R. ROMBOLI, Giustizia costituzionale, Torino 2007, 99 ss.
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5
incidentale17. In tale ottica, si affermava che la rilevanza della questione sussiste non solo
qualora la decisione di incostituzionalità influisca praticamente sulla decisione del giudizio
principale, essendo sufficiente che essa incida almeno sull’iter logico e sul fondamento
normativo, poiché l’attività giurisdizionale è finalizzata anche alla corretta individuazione del
fondamento normativo della soluzione pratica delle controversie18. In tali casi, dunque, il
giudice avrebbe applicato la norma dichiarata incostituzionale non in quanto «norma
legittimamente qualificante il fatto oggetto del giudizio, ma solo in forza del rilievo che nel
caso avrebbe assunto, in base all’art. 25 Cost., l’apparenza del diritto creata dalla sua formale
vigenza all’epoca della commissione del fatto»19.
In senso contrario, si replicava che tale modo di argomentare avrebbe significato
«sottilizzare un po’ troppo»20, svilendo il reale significato dell’art. 23 della legge n. 87 del
1953, che richiederebbe una influenza della decisione costituzionale, se non sull’esito del
processo, «almeno sulla scelta della legge da seguire per stabilire quale sia l’esito, e non
meramente sull’iter logico retrostante ad una conclusione che appare scontata a priori»21.
È evidente che a prevalere, nella ‘dottrina’ della Corte, fu l’orientamento di cui si è
trattato per primo.
Con la sentenza del 1983, insomma, la Corte costituzionale ha adottato una
soluzione teorica per risolvere un problema pratico di grande rilievo: quello della sottrazione
al proprio sindacato di un importante e ingente settore di norme22.
Rebus sic stantibus, certamente si può manifestare una certa approvazione per
l’effetto finale prodotto dalla soluzione adottata dalla Corte, essendosi scongiurato il
deprecabile effetto di restringere l’area di sindacabilità da parte della giustizia costituzionale,
anche se al termine di tale operazione ermeneutica risulta sicuramente ampliata la nozione
classica della rilevanza, di cui all’art. 23, della legge n. 87 del 1953; tutto ciò, tuttavia,
incidendo negativamente sul principio di irretroattività della legge penale, considerato che,
come del resto affermatosi nella sentenza n. 148 del 1983, degli effetti retroattivi in malam
17
Cfr. V. CRISAFULLI, In tema di instaurazione dei giudizi incidentali di costituzionalità delle leggi, in Dir. e
società, 1973, 73 ss.; V. ONIDA, Note su un dibattito in tema di «rilevanza» delle questioni di costituzionalità
delle leggi, in Giur. cost., 1978, 996 ss.; G. BRANCA, Norme penali di favore: dall’irrilevanza alla sentenzalegge, in Giur. cost., 1981, 913 ss.; P. CARNEVALE, «Irrilevanza di fatto e sopravvenuta» e valutazione
giudiziale della rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale, in Giur. cost., 1984, 2403 ss.
18
Cfr. V. ONIDA, op. cit., 1002.
19
Cfr. V. ONIDA, op. cit., 1005 ss.;
20
G. ZAGREBELSKY, Corte costituzionale e magistratura: a proposito di una discussione sulle «rilevanza»
delle questioni incidentali di costituzionalità sulle leggi, in Giur. cost., 1973, 1201.
21
G. ZAGREBELSKY, op. ult. cit., 1201-1202; cfr. anche F. PIZZETTI-G. ZAGREBELSKY, «Non manifesta
infondatezza» e «rilevanza» nella instaurazione incidentale del giudizio sulle leggi, Milano 1972, 110 ss.
22
Quasi testualmente M. D’AMICO, op. cit., 20; cfr. D. PULITANÒ, La “non punibilità” di fronte alla Corte
costituzionale, in Foro it., 1983, I, 1803 ss.
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6
partem, seppure limitati alla formula di proscioglimento, ovvero alla ratio decidendi della
sentenza, si producono nel giudizio a quo. Inoltre, va considerata l’importanza che riveste
proprio la ratio decidendi della sentenza di proscioglimento alla luce di eventuali
impugnazioni nei gradi successivi del giudizio, fondandosi principalmente su di essa i motivi
d’impugnazioni.
Tuttavia, la soluzione della Corte ci sembra doverosa, considerato che
altrimenti una intera categoria di norme sarebbe sfuggita al controllo di legittimità
costituzionale, pregiudicando la supremazia della Carta costituzionale rispetto alle fonti ad
essa subordinate23.
2. Rilevanza della questione e fatti pregressi: il principio di eguaglianza quale
fondamento e limite al principio di retroattività della lex mitior. Effetti sul giudizio a quo
La questione della rilevanza delle norme penali di favore va affrontata
diversamente nell’ipotesi di fatti pregressi, cioè nei casi in cui il reato sia stato commesso
durante la vigenza della norma meno mite. In questi casi, l’influenza della decisione
costituzionale viene in rilievo non già con riguardo al principio di irretroattività della legge
penale, bensì rispetto al diverso principio della retroattività della lex mitior24.
23
In senso critico rispetto alla sentenza n. 148 del 1983, cfr. C. MEZZANOTTE, Processo costituzionale e
forma di governo, in AA. VV., Giudizio «a quo» e promovimento del processo costituzionale, Milano 1990, 63
ss., il quale ritiene una soluzione non convincente quella della Corte costituzionale, poiché l’incidenza retroattiva
sulla forma assolutoria e sulla motivazione comporterebbe, in realtà, una violazione dell’art. 25 Cost.; F.
MODUGNO-A.S. AGRÒ (a cura di), Il principio di unità del controllo sulle leggi nella giurisprudenza della
Corte costituzionale, Torino 1991, 94 ss; F. FELICETTI, Frodi comunitarie: norme penali di favore, rilevanza
della questione nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale e «principio di legalità», in Cass. pen.,
1994, 2878 ss. L’A. osserva che la tesi sostenuta dalla Corte in quella occasione sia di dubbia costituzionalità, in
riferimento all’art. 25 Cost. Inoltre, in tale contesto, si instaurerebbe un processo penale «ingiusto», diretto non
alla repressione dei reati, bensì all’unico scopo di mettere in moto, con una finta incidentalità, il processo dinanzi
alla Corte costituzionale; A. PAGLIARO, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano 2003, 131 ss.; M.
ROMANO, Commentario sistematico del codice penale. Art. 1-84, Milano 2004, 77 ss.; A. BONOMI, Zone
d’ombra, norme penali di favore e additive in malam partem: una «differenziazione ingiustificata» da parte
della Corte costituzionale?, in AA. VV., Le zone d’ombra della giustizia costituzionale. I giudizi sulle leggi, a
cura i R. Balduzzi e P. Costanzo, Torino 2007, 150, nota 24. L’A. afferma che la «difficile giurisprudenza» della
Corte costituzionale sulle norme penali di favore è probabilmente dovuta alla circostanza che essa non dispone di
quel «potere di manovra» degli effetti temporali delle pronuncie di cui sono invece dotate altre Corti
costituzionali, quali per esempio, quella austriaca; sul punto cfr. V. ONIDA, Considerazioni sul tema, in AA.
VV., Effetti temporali delle sentenze della Corte costituzionale anche con riferimento alle esperienze straniere,
Milano 1989, 186 ss.
24
Sul punto cfr. M. D’AMICO, op. cit., 20 ss.; V. ONIDA, Retroattività e controllo di costituzionalità della
legge penale sopravvenuta più favorevole, in R. BIN-G. BRUNELLI-A. PUGIOTTO-P. VERONESI (a cura di),
Ai confini del “favor rei”, cit., 285 ss.
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7
Nei casi di legge più favorevole sopravvenuta, dunque, è necessario avere
riguardo al principio della successione delle leggi penali, disciplinato dall’art. 2, commi II e
III, c.p., secondo cui, nel caso di ius superveniens che preveda un trattamento in mitius, il
giudice dovrà fare applicazione della nuova normativa, in luogo della precedente25.
Considerate le premesse, il fulcro della questione consiste nell’individuare
l’esatta portata di tale principio; se ad esso cioè si debba attribuire una copertura
costituzionale e, nel caso di risposta affermativa, il suo grado di bilanciabilità con gli altri
principi costituzionali, onde valutare se, anche in questo caso, sia legittima una deroga al
divieto di applicazione delle norme dichiarate incostituzionali, di cui all’art. 136, comma I,
Cost. e 30, comma III, l. n. 87 del 1953.
Il principio di retroattività della lex mitior ha certamente una ratio diversa rispetto a
quello di irretroattività della legge penale. Esso si fonda su una concezione “oggettivistica”
del diritto penale, alla luce del principio di offensività, risultando incongrua una determinata
risposta punitiva dello Stato rispetto ad un fatto che il legislatore non considera più reato,
ovvero lo punisce con una sanzione più lieve26.
Differente è invece la portata del principio di irretroattività della norma penale
sfavorevole, essendo esso espressione della “calcolabilità” delle conseguenze giuridico-penali
della condotta di ciascun cittadino, e dunque strumento di garanzia contro gli arbitri del
legislatore27.
Considerata questa differenza di ratio, dunque, ci sembra auspicabile far scaturire da
una eventuale dichiarazione di accoglimento della Corte costituzionale effetti diversi nel
giudizio principale, a seconda che venga in rilievo il principio di retroattività della norma più
mite, ovvero il diverso principio di irretroattività della norma più sfavorevole28. Nel secondo
25
Sulla successione delle leggi nel giudizio penale, cfr., per tutti, G. FIANDACA-E. MUSCO, op. cit., 76 ss.
Cfr. V. ONIDA, op. ult. cit., 286, secondo il quale, alla luce della ratio che sta a fondamento del principio di
retroattività della lex mitior, si capisce anche l’eccezione prevista dal nostro codice per le leggi temporanee ed
eccezionali. «Prevedere che esse non si possano più applicare, una volta scaduto il termine di efficacia,
nemmeno ai fatti commessi quando erano pienamente in vigore, indebolirebbe di molto l’effetto preventivo della
comminatoria della pena, e potrebbe al limite tradursi in un ostacolo alla chiusura del periodo “di eccezione”».
27
Cfr. sent. n. 364 del 1988.
28
A favore di tale opzione ermeneutica cfr. M. D’AMICO, op. cit., 20, la quale afferma: «come costituzionalista,
non mi pare che una eventuale distinzione fra gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di norma penale
di favore, in relazione al tempus commissi delicti, possa esser lesiva del principio di cui all’art. 25, comma 2,
Cost.: anzi, mi sembra che proprio tale principio esiga una sua interpretazione che favorisca il rispetto dei
principi costituzionali anche da parte del legislatore; V. ONIDA, Retroattività e controllo di costituzionalità, cit.,
286, secondo cui, qualora la legge sopravvenuta più favorevole fosse dichiarata costituzionalmente illegittima,
risulterebbe «irrazionale» continuare ad applicarla non solo ai fatti avvenuti durante il suo formale vigore, ma
anche a quelli avvenuti prima della sua entrata in vigore. Secondo l’A., anche per tale motivo la Corte cost., con
la sentenza n. 51 del 1998, avrebbe dichiarato che il decreto legge decaduto, recante una disciplina penale più
favorevole di quella prima in vigore, poi venuta meno a seguito di decadenza, non possa essere invocato ai fini
dell’applicazione della legge più favorevole.
26
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8
caso, difatti, non si colgono validi argomenti di diritto costituzionale per continuare a
sostenere l’applicazione della norma più favorevole dichiarata illegittima, ostando ad una
soluzione differente il disposto dell’art. 30, comma IV, l. 87 del 1953, che fa divieto di
applicare le norme dichiarate illegittime dal giorno successivo alla pubblicazione della
decisione di incostituzionalità.
La sentenza n. 394 del 2006 della Corte costituzionale ha avallato tale scelta
ermeneutica, chiarendosi che nel caso di fatti pregressi non viene in rilievo il principio della
irretroattività della legge penale, bensì il principio della retroattività della lex mitior che, già
riconosciuto in vari strumenti internazionali, non ha fondamento nell’art. 25, comma II, Cost.,
ma nel principio di eguaglianza, che impone, in linea di massima, di «equiparare il
trattamento sanzionatorio dei medesimi fatti, a prescindere dalla circostanza che essi siano
stati commessi prima o dopo l’entrata in vigore della norma che ha disposto l’abolitio
criminis o la modifica mitigatrice»29.
Il riconoscimento di una tale copertura costituzionale costituisce senz’altro una scelta
innovativa30, ancorché la Corte costituzionale ritenga che, a differenza del principio di
irretroattività, che si connota «come valore assoluto, non suscettibile di bilanciamento con
altri valori costituzionali»31, quello di retroattività della lex mitior debba «ritenersi suscettibile
di deroghe legittime sul piano costituzionale ove sorrette da giustificazioni oggettivamente
ragionevoli»32, segnandone l’art. 3 Cost., il fondamento, ma anche il limite33.
In particolare, tali deroghe saranno ingiustificate qualora la norma
sopravvenuta più favorevole sia costituzionalmente illegittima, in quanto non sia stata
validamente emanata, o sul piano formale della regolarità del procedimento dell’atto
legislativo che l’ha introdotta, ovvero sul piano sostanziale dei valori espressi dalle norme
costituzionali34. In queste ipotesi, nessuna ragione si avrebbe per derogare al divieto di
29
Cfr. sent. n. 394 del 2006, punto 6.4. del Cons. in dir. in cui si legge: «il principio di retroattività della norma
più favorevole non ha alcun collegamento con la libertà di autodeterminazione individuale, per l’ovvia ragione
che, nel caso considerato, la lex mitior sopravviene alla commissione del fatto, al quale l’autore si era
liberamente autodeterminato sulla base del pregresso (e per lui meno favorevole) panorama normativo»; cfr.
anche la sent. n. 393 del 2006; cfr. i commenti alla sent. n. 394/2006, di I. PELLIZZONE, Il fondamento
costituzionale del principio di retroattività delle norme penali in bonam partem: due decisioni dall’impostazione
divergente, in www.forumcostituzionale.it (senza data); V. MANES, Illegittime le “norme penali di favore” in
materia di falsità nelle competizioni elettorali. Nota a Corte cost. n. 394/2006, in www.forumcostituzionale.it
(senza data); A. RIDOLFI, Intervento della Corte costituzionale in materia di reati elettorali, in
www.associazionedeicostituzionalisti.it (12 novembre 2006).
30
Cfr. V. MANES, op. cit., § 4.
31
Cfr. sent. n. 394/2006, punto 6.4. del Cons. in dir.
32
Ibidem.
33
Cfr. G. MARINUCCI, op. cit., 4164.
34
Cfr. sent. n. 394/2006, punto 6.4. del Cons. in dir.: «il collegamento del principio della retroattività in mitius al
principio di eguaglianza ne segna, peraltro, anche il limite: nel senso che, a differenza del principio della
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applicabilità della norma dichiarata incostituzionale, previsto dagli artt. 136, comma I, Cost. e
30, comma III, della l. 87 del 1953.
Ci sembra che la scelta della Corte costituzionale sia pienamente compatibile
con i principi costituzionali.
In conclusione, alla luce della giurisprudenza costituzionale, si può affermare
che, per ciò che concerne le questioni “processuali”, le norme penali di favore sono rilevanti:
a)
nel caso di fatti pregressi, in quanto, in tal caso, si potrebbe applicare
al giudizio principale la normativa più sfavorevole, venendo in rilievo non certo il
principio di irretroattività della legge penale, bensì quello più «debole»35 della retroattività
della lex mitior;
b)
nel caso di fatti concomitanti, considerata l’influenza minima prodotta
dalla decisione costituzionale sul giudizio a quo, come risultante dalla impostazione
classica della sentenza n. 148 del 198336.
3. Principio di legalità ed inammissibilità delle decisioni additive in malam
partem. Una scelta ingiustificata?
Dalla sent. n. 108 del 1981 in poi la Corte costituzionale distingue chiaramente la
questione del sindacato sulle norme penali di favore da quella della ammissibilità delle
decisioni additive in malam partem37, individuandosi nel principio di legalità, di cui all’art.
irretroattività della norma penale sfavorevole − assolutamente inderogabile – detto principio deve ritenersi
suscettibile di deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente
ragionevoli (sentenze n. 74 del 1980 e n. 6 del 1978; ordinanza n. 330 del 1995).
Ma soprattutto, per quanto interessa nella specie, è giocoforza ritenere che il principio di retroattività della norma
penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé,
costituzionalmente legittima. Il nuovo apprezzamento del disvalore del fatto, successivamente operato dal
legislatore, può giustificare − in chiave di tutela del principio di eguaglianza – l’estensione a ritroso del
trattamento più favorevole, a chi ha commesso il fatto violando scientemente la norma penale più severa, solo a
condizione che quella nuova valutazione non contrasti essa stessa con i precetti della Costituzione. La lex mitior
deve risultare, in altre parole, validamente emanata: non soltanto sul piano formale della regolarità del
procedimento dell’atto legislativo che l’ha introdotta e, in generale, della disciplina delle fonti (v., con
riferimento alla mancata conversione di un decreto-legge, sentenza n. 51 del 1985); ma anche sul piano
sostanziale del rispetto dei valori espressi dalle norme costituzionali. Altrimenti, non v’è ragione per derogare
alla regola sancita dai citati art. 136, primo comma, Cost. e 30, terzo comma, della legge n. 87 del 1953, non
potendosi ammettere che una norma costituzionalmente illegittima – rimasta in vigore, in ipotesi, anche per un
solo giorno – determini, paradossalmente, l’impunità o l’abbattimento della risposta punitiva, non soltanto per i
fatti commessi quel giorno, ma con riferimento a tutti i fatti pregressi, posti in essere nel vigore
dell’incriminazione o dell’incriminazione più severa».
35
Cfr. I. PELLIZZIONE, op. cit.
36
Cfr. M. D’AMICO, op. cit., 21.
37
Cfr. M. D’AMICO, op. cit., 12; M. D’AMICO-F. BIONDI, op. cit., 2575.
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25, comma II, Cost., una nuova «barriera processuale»38, con la conseguenza che la ragione
dell’inammissibilità da processuale si trasforma in sostanziale39.
Tuttavia, come si è correttamente affermato, il reale fondamento di questa nuova zona
d’ombra della giustizia costituzionale è rinvenibile, non tanto nella vigenza del principio della
riserva di legge40, bensì nella particolare natura delle norme oggetto del sindacato di
legittimità costituzionale41 e, dunque, nella necessità di riservare al momento politico la scelta
sull’an, sul quid, e sul quomodo della punibilità42. Va da subito notato, però, che se la Corte
ha da sempre attentamente vagliato le richieste di additive in malam partem, diversamente, ha
varie volte adottato decisioni manipolative con effetti in bonam partem, con ciò incidendo
comunque sulla discrezionalità del legislatore, in quanto, in ogni caso, dalle «operazioni di
dettaglio e di aggiustamento della Corte nascono norme nuove»43.
Inoltre, con la sentenza n. 161 del 2004 e, con maggior chiarezza e vigore, con la
sentenza n. 394 del 2006, la Corte costituzionale ha esteso ulteriormente le zone franche
dell’ordinamento sottratte alla giustizia costituzionale, ridefinendo, in maniera ben più
rigorosa, la nozione di norma penale di favore. In particolare, da questa sentenza in poi il
sindacato di costituzionalità viene limitato alle sole leggi di deroga a leggi generali o comuni,
rimanendo invece precluso il sindacato per ciò che concerne le norme più favorevoli
abrogatrici44.
38
Cfr. A. BONOMI, op. cit., 145.
Cfr. M. BRANCA, op. cit., 913 ss.
40
Difatti, in tal caso, la situazione non sarebbe differente per tutte le altre materie che la Costituzione riserva
all’intervento del legislatore: cfr. R. ROMBOLI-E. ROSSI, Giudizio di legittimità costituzionale, in Enc. dir.,
Agg., Milano 2001, 532, nota 124; sul punto cfr. pure A. PIZZORUSSO, Sui limiti della potestà normativa della
Corte costituzionale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1982, 309 ss.
41
Cfr. L. PALADIN, Corte costituzionale e principio costituzionale di eguaglianza: aprile 1979-dicembre 1983,
in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, I, Padova 1985, 663. L’A. afferma che la scelta sui fatti da sottoporre a
sanzione penale debba essere circoscritta ai soli casi «stretta necessità» e riservato al «momento politico» delle
scelte legislative, di modo che «una certa tutela penale può risultare costituzionalmente lecita, ma non
costituzionalmente indispensabile».
42
Cfr., ex multis, sent. 394/2006, punto 6.1. del Cons. in dir.
43
Cfr. M. D’AMICO, op. cit., 14 ss. L’A. ritiene non condivisibile tale orientamento giurisprudenziale, in quanto
sarebbe «del tutto evidente che una scelta sull’an, sul quid e sul quomodo della punibilità, lesiva dell’art. 25,
comma 2, Cost., se fatta dalla Corte, avviene anche con decisioni di questo tipo, apparentemente riduttive, ma in
realtà modificative della fattispecie penale». Tra l’altro, secondo l’A., «la giurisprudenza costituzionale che, in
virtù di una rigorosa concezione dell’art. 25, comma 2, Cost. esclude qualsiasi sindacato che comporti modifiche
sfavorevoli al reo dovrebbe essere attentamente rimeditata per due ragioni: la prima è che tale principio risulta
applicato a fattispecie molto diverse fra loro, per alcune delle quali la negazione del sindacato costituzionale
comporta la lesione di altri valori costituzionali, apparendo inopportuna; la seconda è che, in ogni caso, la
solidità stessa del principio viene messa duramente alla prova nei casi di fattispecie riduttive, nelle quali la Corte
interviene modificando la norma penale, e, a maggior ragione, in casi nei quali la Corte pronuncia una vera e
propria additiva, sia pure “mascherata”». In senso critico a tale orientamento giurisprudenziale, cfr. anche A.
BONOMI, op. cit., 148 ss.
44
Cfr. sent. n. 394/2006, punto 6.1. del Cons. in dir.
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Si tratta di valutare se, realmente, le scelte operate dalla Consulta siano
costituzionalmente apprezzabili.
Ci potrà essere d’ausilio, a tale scopo, porre da subito un punto fermo: in ogni caso, il
self-restraint della Corte, in relazione al principio di legalità penale, non è posto a palladio
degli interessi delle parti del processo pendente, considerato che vige nei loro confronti la
tutela apprestata dal principio di irretroattività della legge penale. Difatti, la nuova situazione
normativa, eventualmente prodottasi a seguito dell’intervento demolitorio della Consulta,
produrrà effetti pro futuro, applicandosi ai fatti commessi dal giorno successivo alla
pubblicazione della decisione dal contenuto ablatorio.
Tenuta in conto questa precisazione, si deve considerare che, a stretto rigore, sia che si
tratti di una sentenza manipolativa, sia che si tratti di una pronuncia di accoglimento totale, in
entrambi i casi, da un punto di vista formale, è la Corte, e non il Parlamento, a compiere la
scelta punitiva45. Invero, non va sottovalutato che anche una sentenza di accoglimento
integrale è in grado di innescare delle reazioni nel sistema giuridico conseguenti alla lacuna
normativa creatasi, provocando, in particolare, la sussunzione in una fattispecie astratta più
generale, di tutti i fatti concreti precedentemente qualificati da norme speciali.
Ragionando
in
tali
termini,
dunque,
è
opportuno
mutare
la
prospettiva
dell’osservazione, non più solo formale, ma anche e soprattutto sostanziale.
Difatti, da un punto di vista sostanziale, nei casi di additive di principio rimane intatta
la discrezionalità del legislatore nella determinazione della regola di diritto conforme al
principio introdotto dalla pronuncia della Corte46. Del resto, ogni regola dovrebbe costituire
45
Cfr. G.MARINUCCI-E. DOLCINI, Corso di diritto penale, I, Milano 2001, 89 s.; E.R. BELFIORE, Giudice
delle leggi e diritto penale. Il diverso contributo delle Corti costituzionali italiane e tedesca, Milano 2005, 149.
L’A. afferma che «se la Corte diventa arbitra della delimitazione dell’area di punibilità o della entità della
sanzione (decidendo della validità o meno di norme di favore, e quindi, a contrario, dell’estensione delle
fattispecie incriminatrici) al potere legislativo viene sottratto uno spicchio di discrezionalità rilevante sotto il
profilo punitivo». In senso contrario cfr. V. ONIDA-M. D’AMICO, Il giudizio di costituzionalità delle leggi.
Materiali di giustizia costituzionale, I, Il giudizio in via incidentale, Torino 1998, 269 ss.
46
In tal senso, pur se in un contesto più generale, cfr. P. FALZEA, Norme, principi, integrazione. Natura, limiti
e seguito giurisprudenziale delle sentenze costituzionali a contenuto indeterminato, Torino 2005, 89 s.: «Mentre
in occasione dell’emanazione di sentenze additive semplici la Corte, dopo aver individuato il principio (che è il
frutto del bilanciamento tra i valori costituzionali che vengono in rilievo con riferimento a quella specifica
situazione normativa), rinviene nell’ordinamento giuridico soltanto una norma compatibile con tale principio (“a
rime obbligate”), in occasione della sentenza additiva di principio, invece, dinanzi alla possibilità di una pluralità
di soluzioni normative e all’esigenza di evitare la usurpazione delle prerogative costituzionali del legislatore,
essa si ferma all’identificazione del principio (anch’esso “a rime obbligate”) che deve presiedere alla produzione
della norma reintegrativa. La Corte, dunque, pur dichiarando l’illegittimità della norma oggetto del suo giudizio,
non indica la norma “nuova” che deve sostituirsi alla prima, ma esclusivamente il principio attuativo della
Costituzione che deve presiedere al processo di produzione della nuova norma. La presenza di una pluralità di
norme compatibili con il suddetto principio o la circostanza che non esiste una soluzione costituzionalmente
obbligata determina per la Corte l’impossibilità di una scelta che non comporti una sostituzione arbitraria al
legislatore nelle sue prerogative costituzionale. Pertanto tale scelta, che la Consulta non ritiene possa esserle
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l’attuazione di un principio costituzionale e, di certo, il legislatore non ha discrezione nella
determinazione degli obiettivi contenuti nella Carta fondamentale.
Per quanto riguarda le additive “a rime obbligate”47, invece, la situazione è
leggermente diversa. In questi casi, trattandosi di soluzione “costituzionalmente obbligata”48,
la discrezionalità del legislatore risulta naturalmente limitata, ancor prima di una eventuale
dichiarazione di incostituzionalità49, esistendo alcune scelte costituzionali sottratte alla
valutazione contingente del legislatore ordinario50, come ad esempio accade per gli obblighi
costituzionali espressi di tutela penale51.
La formula dell’inammissibilità, nel caso di additive in malam partem, invece, come
correttamente affermato dalla dottrina, costituisce il risvolto processuale dell’inesistenza di
tali obblighi costituzionali di tutela penale52; il che suscita qualche perplessità.
È evidente, del resto, che esistano degli obblighi espressi di incriminazione, dei quali il
caso più significativo è rappresentato dall’art. 13, comma IV, Cost. («è punita ogni violenza
fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà»)53. In attuazione
di quell’obbligo, l’art. 608 c.p. sanziona con la reclusione sino a trenta mesi l’abuso di
autorità contro arrestati o detenuti da parte del pubblico ufficiale54. Oltre a questa ipotesi, che
è certamente la più evidente, la dottrina penalistica formula una serie ulteriore di esempi55. A
noi sembra, in questi casi, che un intervento della Corte costituzionale non inciderebbe sulla
discrezionalità del legislatore, in quanto una pronuncia caducatoria avrebbe l’effetto di
assicurare semplicemente l’adempimento di un obbligo espresso di incriminazione56.
Sul punto si ritornerà in seguito57.
consentita, non può che essere rimandata al legislatore»; sul punto cfr. anche G. SILVESTRI, Le sentenze
normative della Corte costituzionale, in Giur. cost., I, 1981, 1648 ss.
47
Cfr. V. CRISAFULLI, Lezioni di diritto costituzionale, Padova 1984, 402 ss.
48
Cfr. A. RUGGERI-A. SPADARO, op. cit., 149; sentt. della Corte cost. nn. 205-435/1987; 349-398/1998; 283310-341/1999.
49
Sugli effetti delle sentenze additive nell’ordinamento giuridico, cfr., per tutti, P. FALZEA, op. cit., 113 ss.
50
Cfr. G. MARINUCCI, op. cit., 4166.
51
Sul punto cfr., per tutti, D. PULITANÒ, Obblighi costituzionali di tutela penale?, in Riv. it. dir. e proc. pen.,
1983, 484 ss.; L. STORTONI, Profili costituzionali della non punibilità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1984, 636
ss; G. MARINUCCI, op. cit., 4166 ss.
52
Cfr. D. PULITANÒ, op. ult. cit., 484 ss.
53
Cfr. G. MARINUCCI, op. cit., 4167.
54
Si riporta il testo dell’art. 608 c.p.: «Abuso di autorità contro arrestati o detenuti: Il pubblico ufficiale, che
sottopone a misure di rigore non consentite dalla legge una persona arrestata o detenuta di cui egli abbia la
custodia, anche temporanea, o che sia a lui affidata in esecuzione di un provvedimento dell'Autorità competente,
è punito con la reclusione fino a trenta mesi. [II]. La stessa pena si applica se il fatto è commesso da un altro
pubblico ufficiale, rivestito, per ragione del suo ufficio, di una qualsiasi autorità sulla persona custodita».
55
Cfr., per tutti, G. MARINUCCI, op. cit., 4166 ss.
56
Cfr. G. MARINUCCI, op. cit., 4167.
57
Infra, § 4.
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4. La sentenza n. 394 del 2006: un nuovo limite alla sindacabilità delle norme
penali di favore (tra «specialità sincronica» e «specialità diacronica»). Riflessioni
critiche
La questione delle additive in malam partem ed il discorso sulla discrezionalità
del legislatore in materia penale si intrecciano con la definizione di norma penale di favore
adottata dalla Corte costituzionale dalla sent. n. 394 del 2006 in poi58.
La scelta della Consulta di limitare il proprio sindacato alle sole leggi di deroga
a leggi generali o comuni che siano compresenti nell’ordinamento giuridico, trova la sua
giustificazione proprio nel rispetto del principio di legalità penale, affermandosi che l’effetto
in malam partem non discenderebbe «dall’introduzione di nuove norme o dalla
manipolazione di norme esistenti da parte della Corte»59, la quale si limiterebbe a «rimuovere
la disposizione giudicata lesiva dei parametri costituzionali»60, rappresentando tale effetto una
conseguenza dell’automatica riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso
legislatore al caso già oggetto di una incostituzionale disciplina derogatoria. Una reazione
naturale dell’ordinamento, dunque. Differente sarebbe l’ipotesi di incostituzionalità di norme
penali abrogatrici di una precedente legge meno favorevole. In questi casi, il sindacato della
Corte resterebbe precluso, in quanto, considerata la reviviscenza della precedente normativa,
espressione di una scelta di incriminazione non più attuale, ciò comporterebbe una invasione
del monopolio del legislatore su tali decisioni61.
Alla luce di tale nuance definitoria accolta dalla giurisprudenza costituzionale,
parte della dottrina ha proposto di distinguere tra norme penali di favore e norme penali più
favorevoli62; le prime caratterizzate da un rapporto di «specialità sincronica»63, rinvenibile
58
Cfr., punto 6.1. del Cons. in dir. e, successivamente, in tal senso, cfr. ord. n. 126/2007; sent. n. 324/2008.
Cfr. sent. n. 394 del 2006, punto 6.1. del Cons. in dir.
60
Ibidem.
61
A queste conclusioni è agevole giungere a seguito della lettura di alcuni passi della sentenza n. 394 del 2006,
ed in particolare dal punto 6.1. in cui si legge: «(…) In simili frangenti, difatti, la riserva al legislatore sulle
scelte di criminalizzazione resta salva: l’effetto in malam partem non discende dall’introduzione di nuove norme
o dalla manipolazione di norme esistenti da parte della Corte, la quale si limita a rimuovere la disposizione
giudicata lesiva dei parametri costituzionali; esso rappresenta, invece, una conseguenza dell’automatica
riespansione della norma generale o comune, dettata dallo stesso legislatore, al caso già oggetto di una
incostituzionale disciplina derogatoria. Tale riespansione costituisce una reazione naturale dell’ordinamento –
conseguente alla sua unitarietà – alla scomparsa della norma incostituzionale».
62
Cfr. G. MARINUCCI, op. cit., 4161; M. D’AMICO-F. BIONDI, op. cit., 2575.
63
Cfr. sent. n. 324 del 2008, punto 5. del Cons. in dir.
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nella compresenza delle due norme nell’ordinamento, le seconde, invece, da un rapporto di
«specialità diacronica», aventesi tra una norma abrogata ed una abrogatrice64.
Delle due categorie la Corte ritiene non sindacabile la seconda.
Tuttavia, anche questa scelta ci sembra che debba essere rivalutata.
In primo luogo, perché non sempre è agevole distinguere in concreto tra abrogazione e
deroga, alla luce del criterio di specialità65. In secondo luogo, perché non è per nulla pacifico
che una sentenza ablatoria di una legge di deroga salvaguardi la discrezionalità del legislatore,
considerato che, a stretto rigore, anche la scelta di sottrarre una determinata categoria di
soggetti o condotte ad una norma comune rientra in una decisione politica relativa all’an, al
quid ed al quomodo della punibilità66.
64
Cfr. sent. n. 394 del 2006, punto 6.1. del Cons. in dir.: «(…) Con riguardo ai criteri di identificazione delle
norme penali di favore, questa Corte ha già avuto modo di sottolineare come occorra distinguere fra le previsioni
normative che “delimitano” l’area di intervento di una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della
fattispecie di reato; e quelle che invece “sottraggono” una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di
applicazione di altra norma, maggiormente comprensiva. Solo a queste ultime si attaglia, in effetti – ove
l’anzidetta sottrazione si risolva nella configurazione di un trattamento privilegiato – la qualificazione di norme
penali di favore (…) Inoltre, la nozione di norma penale di favore è la risultante di un giudizio di relazione fra
due o più norme compresenti nell’ordinamento in un dato momento: rimanendo escluso che detta qualificazione
possa esser fatta discendere dal raffronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima
con effetti di restringimento dell’area di rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva».
65
Cfr. A. RUGGERI, Fonti, norme, criteri ordinatori. Lezioni, IV ed., Torino 2005, 65 ss.; cfr. ‘l’idea’ di
motivare le leggi di deroga, di L. VENTURA, op. cit., 111 ss. In particolare, l’A. afferma che la motivazione
delle leggi di deroga «diverrebbe una sorta di indicazione dei “profili” della costituzionalità, quasi a
rappresentare simmetricamente (ma specularmente) i profili di una possibile e futura questione di
incostituzionalità, già preliminarmente prefigurata e “contestata” (…) si immagini un Parlamento che fa “un
passo avanti”, giustificando nei confronti della Corte (ma anche dei possibili giudici a quibus) le proprie scelte e
motivando la loro (non ancora contestata) costituzionalità. (…) Si tratterebbe, bensì, della motivazione di (quello
che ora si definisce) un bilanciamento di valori effettuato dal legislatore che quantomeno, fermo restando che
allo stesso modo dei “profili” suddetti non costituirebbe un ostacolo invalicabile, renderebbe, se possibile, più
“resistente” la normativa derogante, costringendo la Corte, che volesse argomentare diversamente, a costruire
nella motivazione un diverso bilanciamento (e non già un suo bilanciamento tout court). (…) la motivazione
possa, sempre sotto il profilo del giudizio sulle leggi, essere rivista quale strumento sia per favorire il controllo
della Corte, sia per resistervi meglio»; cfr. V. MANES, op. cit., § 3, che critica la distinzione della Corte (norme
che sottraggono “soggetti” o “condotte” vs norme che delimitano); l’A. afferma: «Una tale distinzione – norme
che sottraggono “soggetti” o “condotte” vs norme che delimitano – può risultare agevole in alcuni casi,
conducendo ad esiti non particolarmente problematici: basti pensare, da un lato, ad una fattispecie
irragionevolmente discriminatoria ratione subiecti (sottrazione sicuramente “giustiziabile”, che richiama il
“nucleo forte” dell’art. 3, co. 1°, Cost.), o all’opposto, ad una norma in cui la tipicità, e il relativo coefficiente di
determinatezza, risultino ispessite mediante peculiari elementi delimitativi (oggettivi o soggettivi). (…) Altre
volte, invece, la perdurante imprecisione della distinzione può prestarsi ad ambiguità e ad esiti contraddittori,
specie se le norme che sottraggono (come tali “giustiziabili”) possono concernere – come afferma la Corte – non
solo soggetti ma anche condotte: basti por mente proprio all’ipotesi – che traspare in filigrana nelle motivazioni
– dei reati di false comunicazioni sociali (artt. 2621-2622 c.c.) e, in particolare, alle soglie di rilevanza
percentuali introdotte con la riforma del 2002, ossia ad elementi che – se da un lato “delimitano” la fattispecie
sul piano oggettivo, tipizzando la falsità penalmente rilevante – dall’altro, e al contempo, indubbiamente
“sottraggono” una classe di condotte all’applicazione della norma stessa; esprimendo, di fatto, una scelta di
selezione frutto della medesima decisione politica che il legislatore compie, con diverso procedimento, quando
apparentemente sovrappone due norme, facendo in realtà leva sulla prevalenza della lex specialis»;
66
Per importanti spunti di riflessione, cfr., sul punto, L. VENTURA, Osservazione a margine di alcune
pronuncie di inammissibilità, in AA. VV., Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale, Milano
1988, 715 ss.; P. NICOSIA, Discrezionalità legislativa e sindacato di costituzionalità in materia di proporzione
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Nella sua assolutezza, per giunta, questo orientamento non convince neppure se
si considera che, in tal modo, la Corte dovrebbe dichiarare insindacabili anche le norme
abrogatrici che si pongano in frontale contrasto con i vari parametri costituzionali, solamente
perché da una eventuale pronuncia ablatoria deriverebbe la reviviscenza della norma
abrogata67.
È evidente, dunque, che il discorso sul rispetto della discrezionalità del
legislatore vada affrontato da un punto di vista sostanziale e non solo formale. Difatti,
ragionando in senso contrario, si deve ammettere che, sia che si tratti di additiva in malam
partem, sia che si distingua tra leggi di deroga o di norme penali più favorevoli, in ogni caso,
è sempre una sentenza che innesca il moto di reazione del sistema, e dunque, per tali ragioni,
è sempre la Corte, e non il Parlamento, a compiere la scelta punitiva68.
Perciò, la questione va riaffrontata.
Innanzitutto è innegabile che le diverse soluzioni operate dalla Consulta
potrebbero essere tranquillamente equiparate69, non risultando abbastanza persuasiva
l’affermazione secondo cui, nel caso di incostituzionalità di norme abrogatrici, la reviviscenza
della norma abrogata sarebbe in grado di limitare la discrezionalità del legislatore in materia
penale, poiché, in queste ipotesi, la reazione dell’ordinamento non potrebbe essere valutata
una volta per tutte, dovendosi accertare caso per caso, mediante l’attività interpretativa, la
risposta dell’ordinamento alla pronuncia caducatoria70; del resto, anche qualora si verificasse
la reviviscenza della norma abrogata, resterebbe salva comunque la possibilità per il
legislatore di intervenire tempestivamente, riappropiandosi del monopolio sulle scelte di
incriminazione71.
e adeguatezza allo scopo di sanzioni penali: un caso di “self-restraint” della Corte costituzionale, in Foro it.,
1/2003, 64 ss; A. MORELLI, L’illegittimità conseguenziale delle leggi. Certezza delle regole ed effettività della
tutela, Soveria Mannelli 2008, 79 ss.
67
Cfr. G. MARINUCCI, op. cit., 4161.
68
Cfr. G. MARINUCCI-E. DOLCINI, op. cit., 89 s.; E. R. BELFIORE, op. cit., 149.
69
In tal senso, cfr. A. BONOMI, op. cit., 149 ss. L’A. propone due soluzioni: creare una zona d’ombra anche in
riferimento alle norme penali di favore, ovvero eliminare la zona d’ombra creata relativamente alle richieste di
additive in malam partem. In ogni caso lo stesso A. patrocina la seconda tesi; M. BRANCA, op. cit., 918,
secondo cui «non ogni pronuncia indirettamente legislativa è preclusa alla Corte, ma solo quelle comportanti,
invece della semplice modificazione dell’ordinamento susseguente alla soppressione di una norma, l’indicazione
vincolante del modo in cui il sistema va modificato»; L. CARLASSARE, Le decisioni d’inammissibilità e di
manifesta infondatezza della Corte costituzionale, in Strumenti e tecniche di giudizio della Corte costituzionale,
cit., 56 ss.
70
Sul punto cfr., fra i tanti, F. SORRENTINO, L’abrogazione nel quadro dell’unità dell’ordinamento giuridico,
in Riv. trim. dir. pubbl., 1972, 3 ss.; A. FRANCO, Considerazioni sulla dichiarazione d’incostituzionalità di
disposizioni espressamente abrogatrici, in Giur. cost., 1974, 3463 ss; A. CERRI, Prolegomeni ad un corso sulle
fonti, Torino 2005, 112 ss.
71
Cfr. A. CERRI, Corso di giustizia costituzionale, cit., 252.
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5. Ai confini della discrezionalità legislativa. Riflessioni conclusive
Ripercorsa brevemente la giurisprudenza costituzionale sul tema, è finalmente
possibile trarre qualche conclusione.
Si è già chiarito che dalla sentenza n. 108 del 1981 in poi72 la Corte scinde
stabilmente tra questioni processuali e questioni sostanziali. Se in relazione al primo profilo il
giudice delle leggi ha ormai illuminato le zone d’ombra della giustizia costituzionale, sussiste
ancora, per la seconda ipotesi, un forte atteggiamento di self-restraint73.
In particolare, l’escamotage adottato con la sentenza n. 148 del 1983 ha
consentito di risolvere definitivamente la questione dell’irrilevanza “istituzionale” delle
norme penali di favore, conciliando due principi in realtà inconciliabili, quello della
irretroattività della legge penale e quello dell’assenza di zone franche dell’ordinamento
sottratte alla giustizia costituzionale74. Diversamente, interpretando in maniera rigida il
principio di legalità, la Consulta ha più volte limitato il proprio controllo di costituzionalità,
da un lato precludendosi l’adozione di pronuncie additive in malam partem, dall’altro, dalla
sent. n. 394 del 2006 in poi, riconoscendo non sindacabili le norme penali più favorevoli che
abroghino una preesistente fattispecie, abolendo in tutto o in parte un reato.
A noi sembra che il discorso sulla discrezionalità del legislatore in materia
penale vada riaffrontato sotto una diversa luce, chiarendo, cioè, quando la funzione esercitata
dalla Corte costituzionale sia realmente in grado di interferire nella scelta dei fatti da
sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, scelta che deve essere rimessa al «soggettoParlamento, in quanto espressivo dell’intera collettività nazionale»75.
Non è certo questa la sede adatta per affrontare il tema complesso del principio della
riserva di legge in materia penale, potendoci limitare solo a qualche breve affermazione76.
Ci sembra di poter ritenere acquisito un punto fermo, e cioè che, sia nel caso di
reviviscenza di norme penali abrogate, sia nel caso di riespansione di leggi comuni o generali,
in ogni caso la risposta punitiva, pro futuro, dipende dalla sentenza della Corte costituzionale,
in grado di innescare le diverse reazioni ordinamentali di volta in volta accertabili dalla
72
Cfr. M. D’AMICO, op. cit., 12; M. D’AMICO-F. BIONDI, op. cit., 2575.
Sull’impiego dei termini “zone d’ombra” e “zone franche” dell’ordinamento, cfr. A. RUGGERI,
Presentazione del seminario, in AA. VV., Le zone d’ombra della giustizia costituzionale, cit., 3 ss.
74
Cfr. A. RUGGERI-A. SPADARO, op. cit., 191.
75
Cfr. sent. n. 487 del 1989, punto 3. del Cons. in dir.
76
Sul punto, per tutti, cfr. G. FIANDACA-E. MUSCO, op. cit., 47 ss.; cfr., inoltre, per una rassegna della
giurisprudenza costituzionale sul principio di legalità, G. VASSALLI, op. cit., 1021 ss.
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giurisprudenza ordinaria mediante l’attività interpretativa. Ragionando in tali termini, tuttavia,
si dovrebbe escludere ogni intervento della Consulta nella materia penale77.
È evidente, dunque, che ad essere veramente importante non è soltanto l’atto da cui
discende la riposta punitiva dello Stato, dovendosi invece badare di più alla sostanza.
In particolare, l’art. 25, comma II, Cost. e l’art. 28, l. 87 del 1953, precludono
alla Corte di sostituirsi al legislatore nella valutazione nel merito delle questioni di
costituzionalità, laddove queste comportino scelte politiche. Tuttavia, siffatto limite ha ragion
d’essere solo nei casi di selezione fra più soluzioni, tutte costituzionalmente corrette, non
giustificandosi l’esistenza di zone d’ombra nei casi di uso distorto78 di tale discrezionalità, nei
quali il giudice delle leggi non dovrebbe fare a meno di intervenire con pronuncie dal
contenuto ablatorio79.
Ridefinito in tale ottica il discorso sulla discrezionalità del legislatore in
materia penale, ne discende a cascata che la decisione della Corte di limitare il proprio
sindacato alle sole norme penali più favorevoli, non ha ragion d’essere in tutti i casi di
esercizio della discrezionalità legislativa contra constitutionem.
Ciò accade, in primo luogo, per gli obblighi costituzionali espressi di
incriminazione. Si pensi, per esempio, alla fattispecie disciplinata dall’art. 608 c.p., evidente
attuazione dell’obbligo espresso di incriminazione di cui all’art. 13, comma IV, Cost. In tale
ipotesi, si tratta chiaramente di una scelta permanente della Carta costituzionale80, sottratta
alla valutazione politica del legislatore. Dunque ci si chiede: potrebbe il Parlamento, ritenendo
non più attuale questa scelta incriminatoria, abrogare l’art. 608 c.p.? Probabilmente no. Per
cui, in questi casi, una eventuale sentenza di incostituzionalità della Corte produrrebbe il
desiderabile effetto di far rivivere la precedente norma surrettiziamente sostituita81.
Invero, l’ipotesi dell’esistenza di obblighi di penalizzazione è sicuramente
quella più significativa, tuttavia, la questione non dovrebbe essere affrontata diversamente nei
77
Cfr. A. BONOMI, op. cit., 154, secondo cui sarebbe veramente il colmo se «la Corte, che pure ha devoluto, sì,
alla sola legge il potere di fissare la sanzione ma al contempo ha consentito pure che la determinazione della
fattispecie possa avvenire anche ad opera della fonte secondaria e che dunque è sembrata intendere la riserva di
legge di cui all’art. 25, comma 2, Cost. come una riserva di modo di disciplina, volesse rifarsi poi all’esclusività
della competenza del legislatore nella materia penale per inferirne una speciale limitazione del proprio potere di
adottare, in questo settore, sentenze di accoglimento parziale»; G. ZAGREBELSKY, La giustizia costituzionale,
cit., 164 ss; A. PIZZORUSSO, Le norme sulla misura delle pene e il controllo della ragionevolezza, in Giur. it.,
1971, IV, 203 ss.; R. BIN, Sub art. 25, in V. CRISAFULLI-L. PALADIN (a cura di), Commentario breve alla
Costituzione, Padova 1990, 183.
78
Cfr. G. CAMPANELLI, Dinamica processuale ed effetti delle pronuncie, in AA. VV., Le zone d’ombra della
giustizia costituzionale, cit., 208; cfr., inoltre, A. BONOMI, op. cit., 154.
79
Cfr. V. ONIDA, Retroattività e controllo di costituzionalità della legge penale sopravvenuta più favorevole,
cit., 287.
80
Cfr. G. MARINUCCI, op. cit., 4166
81
Ibidem.
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casi di violazione di qualunque altro limite, di procedura o di sostanza, imposto all’attività
legislativa82.
Insomma, ciò che veramente conta è che non ci siano zone franche sottratte al
controllo di costituzionalità, risultando inaccettabile la conclusione secondo cui una legge
penale che disponesse un trattamento meno severo sfuggirebbe per sempre al sindacato di
legittimità costituzionale83.
Per tutte le ragioni sin qui esposte, è auspicabile che la Corte, in futuro,
rivalutando attentamente le conseguenze che tale self-restraint può produrre nel sistema,
decida di mutare giurisprudenza – come del resto ha già fatto in passato, per il diverso
problema della rilevanza delle norme penali di favore – estendendo i limiti del proprio
intervento anche alle norme penali più favorevoli abrogatrici.
82
Cfr. V. ONIDA, op. ult. cit., 288 s.
Quasi testualmente V. ONIDA, Retroattività e controllo di costituzionalità della legge penale sopravvenuta
più favorevole, cit., 288.
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