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La bellezza nel cervello
Graziano Pesce1
La bellezza nel cervello
Neuroestetica: l’arte di piacere, il piacere dell’arte
La bellezza nelle cose esiste
nella mente di colui che la contempla
Hume
Una mostra d’arte a lungo attesa. I visitatori, un po’ concitati, attendono all’ingresso. La
prima sala. Alcuni osservano un dipinto del 1530, il Martirio di San Pietro Martire di Tiziano Vecellio. È una copia del capolavoro andato distrutto in un incendio del 1867. Il quadro è
sapientemente illuminato. Ciascun visitatore si dispone secondo la prospettiva che gli pare
più favorevole per la fruizione estetica. Lo sguardo percorre il dipinto secondo linee che paiono casuali, ma che non lo sono per nulla, sebbene l’osservatore non ne sia consapevole. In
qualche caso dal centro verso un lato, in qualche altro caso dall’alto in basso, da destra a sinistra o viceversa… Qualcuno sussurra al suo accompagnatore o tra sé e sé: “Che bello!
Che meraviglia…”.
Al cospetto del capolavoro, i giudizi di gusto sono proferiti da persone diverse, con formazioni culturali e interessi differenti. Un visitatore, i cui tratti somatici denunciano un’origine orientale, annuisce compiaciuto. Tutti sembrano convenire sulla bellezza dell’opera,
tutti sono assorti nella contemplazione.
Opera d'arte in prospettiva
L’opera è un oggetto d’arte, statico nella sua datità, apparentemente immobile nel suo
mero essere presente. Le forme, i colori, i giochi d’ombra e di luce si manifestano a una coscienza che li “intenziona”, dà loro significato all’interno di un complesso orizzonte che
coinvolge l’emotività, l’humus culturale, le aspettative e altre non ben distinguibili variabili
di chi guarda il dipinto.
La corporeità dell’osservatore si pone in una prospettiva rispetto all’oggetto che ammira.
Già il naturale disporsi in una posizione piuttosto che in un’altra dipende da vari fattori, ma
non è casuale (illuminazione, presenza di altri visitatori, capacità di messa a fuoco
dell’immagine, motivazioni inconsce…).
1 Docente di Filosofia e Storia Liceo Scientifico “G. Ferraris”, pubblicista, già redattore e collaboratore della rivista di
bioetica KOS.
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L’atto della contemplazione è irriducibile alla semplice presenza di un oggetto bello e
non è mai disgiunto dal chi e dal come l’opera è osservata. Se è così, com'è possibile ammettere l’universalità del bello? Come può essere che, data l’infinita variabilità degli osservatori e delle loro predisposizioni, vi sia un comune accordo circa il bello come valore riconosciuto e condiviso?
“Che bel viso… che bella torta… che bella fontana….”. “Bello” è uno dei termini più
frequenti e fraintesi.
La bellezza in quanto tale, quasi in senso platonico, si è valorizzata in ogni tempo, anche
se tutte le epoche hanno espresso criteri diversi per giudicare il bello. I filosofi, gli studiosi
di estetica si domandano da secoli che cosa suscita questo sentimento universale.
La scienza del Bello: la Neuroestetica
Come in altre occasioni, propongo una questione che mi sta a cuore: che cosa ne pensano
i neuroscienziati? Che cosa ci insegna la scienza a proposito della totalizzante esperienza del
bello? Forse, come pensano alcuni, l’estetica non può essere oggetto d'indagine scientifica e
sperimentale, perché il bello affonda le proprie radici nell’ineffabile, nel mistero alto dello
spirito umano che l’arido metodo sperimentale non potrà mai sondare. Molti neuroscienziati
non sono d’accordo. L’armonia meravigliosa che si genera all’ascolto di una cantata di Bach
rimarrà per sempre imperscrutabile. Può darsi. Ciò non significa che non si debba, comunque, tentare di capire se il mistero è tale o se non sia piuttosto solo il nobile frutto di un’evoluzione cerebrale durata milioni di anni. Oggi lo si fa con gli strumenti della scienza.
Con quest'obiettivo ambizioso e un po’ irriverente è nata la Neuroestetica, una branca
specialistica delle neuroscienze2. Il suo fondatore, Semir Zeki, neurobiologo dello University College of London, è convinto che un giorno sapremo perché, al cospetto della Pietà di
Michelangelo, siamo pervasi dalla meraviglia che suscita il Bello. Soprattutto capiremo perché tutti noi (o quasi), pur così diversi per temperamento e cultura, ne rimaniamo affascinati.
Fin dal Rinascimento si sono studiate le opere d’arte e poi, soprattutto in Germania nel
Seicento e nel Settecento, la storia dell’arte ha acquisito dignità di disciplina universitaria 3.
In origine gli studiosi si sono concentrati sull’analisi delle opere, degli stili, delle tecniche e dei materiali. Con il XX secolo si è prodotto un mutamento di vasta e radicale portata.
Quello a cui accennavo in precedenza: non importa tanto e solo l’opera come oggetto, quanto l’osservatore, le sue reazioni emotive, cerebrali e biochimiche. Nella medesima prospettiva è nata la Neuroestetica. Come dice lo stesso Zeki, l’obiettivo della Neuroestetica è quello
di compiere una “ricerca filosofica con strumenti scientifici” 4.
2 S. Zeki ha fondato l’Istituto di Neuroestetica, soprattutto attivo a Berkeley in California, nel 2001.
3 La prima cattedra di storia dell’arte fu istituita a Gottingen alla fine del XVIII secolo. La storia inizia da Le Vite di
Giorgio Vasari (1550) anticipata dai Commentari di Lorenzo Ghiberti (1450).
4 Un libro da leggere è S. Zeki, Splendori e miserie del cervello, Edizioni Codice, 2010. Si tratta di un testo dichiaratamente provocatorio. Le neuroscienze possono capire perché ci piace l’arte. Per ora non sappiamo tutto, ma un giorno
comprenderemo a fondo il mistero del bello. L’interesse del testo risiede nel fatto che l’Autore, dimostrando una
profonda conoscenza della letteratura e della musica di cui parla, pone in relazione, secondo un approccio scientifico, le
conoscenze sulla citoarchitettura del cervello con le opere di Wagner, Th. Mann e altri.
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In numeri precedenti di “Prismi”, mi sono soffermato sulle tecniche che consentono di
indagare l’intensità dell’attività neurale (sulla base delle variazioni del flusso sanguigno)
che è sempre “correlata” con il grado di “emozione” che il soggetto afferma di provare.
L’esperienza estetica
L’esperienza emozionale è sempre soggettiva, personale e incomunicabile (si parla, infatti, di qualia che indicano ciò che si prova “in prima persona”). Come tale, i qualia non sono
condivisibili. Il vissuto più intimo che io provo di fronte ad un’opera d’arte non può essere
compreso da un altro soggetto. Si tratta di un’esperienza esclusivamente “mia”. Quando
esclamo: “Che bello!” al cospetto di un dipinto, chi mi ascolta può condividere intellettualmente la mia meraviglia, ma certo non potrà mai sperimentare le mie più profonde sensazioni, così come non “percepisce” il colore, le forme, i chiaroscuri come io li percepisco.
L’esperienza estetica non è condivisibile.
Che cosa, dunque, può essere oggetto d'indagine scientifica? Solo e unicamente le reazioni biochimiche e neurali del nostro sistema nervoso centrale che, pur presentando differenze a livello microfunzionale, accomunano tutti gli uomini. Siamo simili, ma non certo
identici. I neuroscienziati sanno oggi indicare l’origine anatomo-funzionale delle percezioni
elementari che sono “universali”: molte aree cerebrali si attivano in modo analogo in tutti
gli esseri umani. Da un lato questo aspetto garantisce appunto un condiviso apprezzamento
del bello. Se così non fosse, l’artista non potrebbe comunicare nulla con la propria opera.
Dall’altro lato, le differenze culturali e genetiche fanno sì che ciascuno reagisca in modo
differente e non prevedibile alla fruizione dell’opera.
Questo spiega perché universalmente possiamo giudicare “bella” un’opera d’arte, ma,
nello stesso tempo, fruiamo della medesima in modo non comunicabile e del tutto personale.
In qualche modo, si salva da un lato una certa universalità, mentre dall’altro permane
un’irriducibile soggettività.
I diversi giudizi di gusto sono, comunque, profondamente condizionati dalla formazione
culturale, dal contesto e da innumerevoli altre variabili. La realtà di cui facciamo esperienza
muta incessantemente il nostro cervello e il nostro cervello cambia la percezione che abbiamo della realtà. Per i neuroscienziati tale plasticità dipende dalle esperienze individuali che
plasmano i circuiti neurali fino a farci reagire in modi diversi, anche se, di fronte al bello, le
reazioni tendono a conformarsi. Perciò studiare e osservare molte opere d’arte nel corso della vita ci rende sempre meglio predisposti ad apprezzarne il valore estetico.
L'universalità del Bello
La scienza, nella mutevolezza delle espressioni artistiche e delle epoche, cerca l’“invariante”, vale a dire ciò che accomuna gli uomini nella fruizione estetica. Sorgono diverse e
intriganti domande, quelle tradizionali della filosofia che diventano oggi punto di partenza
delle scienze. Che cosa succede a livello neurale nel nostro cervello, quando contempliamo
la Gioconda? Quali circuiti si attivano quando osserviamo gli affreschi di Giotto? Perché
proprio la Cappella Sistina di Michelangelo è universalmente considerata bella? Quali forme, quali colori, quali chiaroscuri attivano risposte emozionali forti (con i relativi “correlati
neurali”)? E perché proprio quelle e non altre? Perché solo determinate disposizioni geometriche, formali o cromatiche suscitano un’eccitazione emotiva con conseguente alterazione
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del battito cardiaco, del ritmo respiratorio, della sudorazione delle mani. Il caso più noto ed
estremo è rappresentato dalla sindrome di Stendhal di cui alcuni soffrono al cospetto di
grandi capolavori: vertigini, allucinazioni, tachicardia e, talvolta, svenimento 5.
Nella maggior parte dei casi sono reazioni emotive controllabili, ma sempre registrabili e
anche avvertibili, quando la contemplazione del bello o del “sublime” (ad esempio un paesaggio o un fenomeno naturale meraviglioso) “intercettano” profondamente il nostro vissuto. Per gli studiosi di neuroestetica, le ragioni vanno ricercate nella dimensione puramente
biologica e anatomica del nostro organismo. Ogni espressione artistica, di qualsivoglia genere, è il prodotto dei nostri circuiti nervosi.
Chimica dell'arte e genialità
La visione di un oggetto artistico è il frutto di una complessa stimolazione visiva, neurale, biochimica e, dunque, emozionale. L’opera d’arte è l’oggettivazione di tale complessità
neurologica e biochimica e, proprio di fronte ad essa, l’osservatore vive una stimolazione
sul proprio sistema percettivo e neurobiochimico tale da suscitargli un’emozione che può
essere più o meno intensa in rapporto al vissuto, alle memorie culturali, alle risonanze emotive personali. “Non vi è da stupirsi” – scrive Zeki – “le opere d’arte sono unicamente frutto
del cervello umano”. Proprio per questo, in modo un po’ inaspettato, è imprescindibile il
contributo dei saperi umanistici.
Il punto di partenza di Zeki è biunivoco. Se comprendo come sono realizzate le opere
d’arte, capisco elementi fondamentali dell’organizzazione cerebrale. Se indago i meccanismi neurali del sistema nervoso, mi spiego meglio il “segreto” che anima l’oggetto artistico.
Lo studio dell’opera d’arte, delle sue forme, dei colori è imprescindibile. Zeki arriva ad affermare che sono i neuroscienziati che hanno tutto da imparare dagli artisti e non viceversa.
L’atto creativo è il punto da cui muove l’indagine che si concentra, di conseguenza, sul sistema nervoso dell’artista e dell’osservatore. Le reazioni non possono mai essere identiche,
ma hanno un qualche tratto di universalità dovuto alla somiglianza dei nostri sistemi percettivi, neurali e, più genericamente citoarchitettonici e funzionali (struttura del cervello e funzioni delle diverse aree). Le esperienze personali, culturali e il patrimonio genetico individuale determinano il resto. A me piace un’opera, a un altro no.
In qualche caso l’oggetto d’arte assume un valore universale, diventa un classico. È talmente possente che comunica significati a quasi tutti gli uomini delle varie epoche, al di là
dei valori di riferimento di ciascuno.
Perché alcuni artisti sanno suscitare il senso del Bello universalmente? La “genialità”
dell’artista consiste nel provocare reazioni intense, percettive ed emozionali, pur senza sapere nulla di neuroscienze. Michelangelo, Raffaello, Cézanne sapevano, in qualche modo, stimolare quelle aree cerebrali che suscitano un senso di piacere e di ricompensa6.
5 Si veda per un’approfondita analisi di tale patologia, G. Magherini, La sindrome di Stendhal. Il malessere del viaggiatore di fronte alla grandezza dell'arte, Ponte delle Grazie, 2003.
6 Bartels e Zeki hanno dimostrato che l’amore romantico e l’amore materno sono profondamente accomunati dal fatto
che si originano dalla stimolazione delle stesse aree cerebrali che sono connesse con il piacere e la gratificazione. Analogamente l’arte suscita nell’osservatore una sensazione di benessere ed euforia. Al cospetto di un capolavoro, così
come nello stato di innamoramento, alcune aree del cervello si attivano e altre si disattivano. Questo è, tra l’altro, il motivo per cui l’innamorato non sa giudicare lucidamente l’amata e tende a non coglierne i difetti (A. Bertels & S. Zeki,
The neural correlates of maternal and romantic love, NeuroImage, 2004, 21 1155-56). L’articolo è facilmente reperebile in formato PDF su internet.
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“Vedere” l'arte
Che cosa ci insegnano le neuroscienze a proposito dell’arte? Un esempio. Si è sempre
pensato erroneamente che la visione fosse un atto unitario che ci consentisse di cogliere la
forma, i volumi, i colori tutti insieme, secondo una concezione olistica. La fisiologia e l’anatomia cerebrale dimostrano il contrario. Differenti aree del cervello sono preposte alla ricezione dei diversi segnali (del colore, delle linee, dei volumi, del movimento) che solo in seguito vengono integrati in un’unica immagine che ci “appare” come unitaria, ma che tale
non è. Addirittura i diversi “percetti” (i segnali provenienti dell’opera d’arte) sono talvolta
elaborati in tempi diversi, anche se con differenze calcolabili in millisecondi. Si potrà sempre obiettare: “A me non importa, a me interessa unicamente il fatto che la contemplazione
estetica mi fa trascendere la dimensione delle prosaica quotidianità, mi conduce verso ineffabili dimensioni spirituali”.
I neuroestetici lo ammettono. Essi desiderano, tuttavia, comprendere come ciò possa avvenire attraverso la biochimica del cervello, senza la quale non si darebbe esperienza
dell’arte. La realtà che ci circonda è, per i neuroscienziati, il mondo che noi vediamo e ogni
fruizione è innanzitutto “visione”. Nello stesso tempo quanto proviene dall’esterno assume
sempre una forte valenza culturale, in quanto connesso al contesto e alla nostra storia personale. I due poli sono strettamente interconnessi. Il processo fisiologico del segnale visivo e
come esso raggiunge le diverse aree del cervello è ormai noto 7. Si conoscono i meccanismi
per i quali gli stimoli luminosi si trasformano in segnali elettrici e come, trasmessi nelle vie
ottiche e poi elaborati nelle varie aree cerebrali, raggiungono la corteccia cerebrale. Come
questo, tuttavia, si traduca effettivamente nel complesso atto del “vedere”, ancora non si sa
in modo esaustivo 8.
“Guardare” non è “vedere”: la “visione” è molto di più. Il nostro occhio non funziona
come una macchina fotografica che, semplicemente, imprime sulla pellicola un’immagine
della realtà. Il cervello è sempre “creativo”. Reinterpreta i segnali visivi che riceve
dall’organo della vista sotto forma di impulsi elettrici. Come scrive il noto storico dell’arte
E. Gombrich, “non esiste un occhio innocente” 9.
7 Per comprendere i meccanismi della vista e le implicazioni sulla nostra esperienza visiva del mondo è di grande interesse il testo O. Sacks, L’occhio della mente, Biblioteca Adelphi, 2011. Il celebre neurobiologo inglese ci fa comprendere questa nostra capacità, illustrando casi stupefacenti anche in riferimento a possibili patologiche. Già Plinio aveva affermato in Naturalis Historia, che l’organo della vista non è l’occhio, ma la mente.
8 Sulle varie teorie circa la “percezione” si veda L. Maffei, A. Fiorentini, Arte e cervello, Saggi Zanichelli, 2° ed., pagg.
1-17, con particolare riferimento al costruttivismo e alla Gestalt. Si tratta di due interpretazioni antitetiche. I teorici della
del costruttivismo sono convinti che le immagini siano “costruite” dall’elaborazione cerebrale di volta in volta. Per i seguaci della Gestalt (i cui teorici sono innanzitutto Koffka, Werttheimer e Köhler) esisterebbero, invece, degli schemi innati che organizzano la percezione in modo aprioristico secondo principi di organizzazione percettiva che possono essere studiati.
9 E. Gombrich (1909-2001), in stretta collaborazione con E. Kris (1900-1957), psicanalista e storico dell’Arte, ha sviluppato approfonditi studi sulla percezione nella convinzione che sia determinante, nella fruizione estetica, l’atto
dell’osservatore che si pone difronte all’opera.
Sono testi fondamentali per comprendere il contributo dell’Autore: E. Gombrich, Art, perception, and reality (1970), tr.
Luca Fontana, Arte, percezione e realtà, Torino, Einaudi, 1992; E. Gombrich, Art and illusion. A study in the psychology
of pictorial representation (1957), tr. Renzo Federici, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione
pittorica, Torino, Einaudi, 1965.
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Visione e interpretazione
Alla base della “visione” vi è una sorta di perturbazione atomica che si genera a causa di
particelle di luce, i fotoni, che alterano la struttura molecolare dei recettori della retina. Si
scatena una complessa reazione che trasforma i fotoni in informazione (questi ultimi causano la chiusura dei canali ionici dei fotoricettori in modo da iperpolarizzare la cellula). Questo processo, oggi conosciuto nei dettagli, rappresenta solo l’inizio della vera e propria visione. Se ci si limitasse al puro fenomeno biochimico ed elettrico, il vedere non renderebbe
mai possibile la ricchezza interpretativa che arricchisce la fruizione estetica.
Scrive J. Lehrer, neuroscienziato e collaboratore di Kandel:
Se la vista consistesse unicamente nei fotoricettori della retina, le tele di Cézanne non
sarebbero altro che un ammasso di colori indistinti, i suoi paesaggi provenzali ci sembrerebbero alternanze insensate di verde oliva e giallo ocra e le sue nature morte sarebbero tutto colore e niente frutta. Il mondo sarebbe informe. Invece nel nostro evoluto sistema, la mappa della luce del bulbo oculare viene trasformata ripetutamente finché,
alcuni millisecondi dopo, la descrizione della tela accede alla nostra coscienza. In mezzo al turbinio cromatico noi vediamo la mela 10.
La percezione visiva è sempre basata su una classificazione concettuale e sull’interpretazione delle informazioni visive11. In qualche modo il cervello confronta continuamente
l’immagine dell’opera d’arte rielaborata dal cervello con le immagini memorizzate in precedenza. Attraverso tale complesso lavorìo neurale emergono sempre nuove reinterpretazioni
che sono il frutto di quanto si contempla con quanto risiede nelle memorie profonde e inconsce. Quando osserviamo un’opera d’arte (come qualunque altro oggetto), non attiviamo
esclusivamente un solo canale sensoriale, ma la visione è sempre il frutto di una stretta interazione tra tutti i sistemi sensoriali. I sensi cooperano per dare luogo a una complessa percezione del mondo 12.
Le opere d’arte sono sempre ambigue, si prestano a essere variamente interpretate e,
anzi, gli stessi artisti hanno sempre giocato sulle “illusioni” percettive per stimolare la ricchezza delle interpretazioni a cui il cervello di ognuno sa dare vita 13.
10 J. Lehrer, Proust era un neuroscienziato, Codice Edizioni, Torino, 2008, p. 92. Testo do grande interesse per il tema,
poiché tratta di molti pittori, letterati e artisti che hanno intuito alcuni fondamenti delle attuali neuroscienze e li hanno
tradotti nelle loro opere. Pagine straordinarie sono quelle relative alle intuizioni di M. Proust a proposito della memoria
e dei sensi (Ibidem, p. 67-83).
11 Lo stesso grande epistemologo K. Popper, amico di Gombrich, era dell’opinione che non si può costruire un sapere
scientifico per semplice accumulo di dati scientifici. Sono necessari modelli ipotetici, basati sulle inferenze coscienti degli scienziati.
12 Come scrive il noto neuroscienziato A. Damasio: “Non esiste una percezione pura di un oggetto nell’ambito di un
canale sensoriale, per esempio della visione (…). Per percepire un oggetto, visivamente o in altro modo, l’organismo
ha bisogno di segnali sensoriali specializzati e dei segnali che derivano dagli aggiustamenti del corpo necessari affinché si realizzi la percezione” (A. Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Bibl. Scientifica, tr. It. 2000, p. 182).
A proposito della cooperazione di tutti i sensi nella nostra esperienza del mondo si veda l’ampio e documentato articolo
in Mente&cervello, A. Bleicher “Oltre lo sguardo”, n. 93, Anno X, settembre 2012. I sistemi sensoriali (vista, udito, tatto, olfatto, gusto, equilibrio, dolore, tempo, ecc…) sono interconnessi e diffusi in tutto il cervello.
13 Si pensi alla stupefacente quantità di illusioni ottiche che si possono produrre con segni, colori, immagini ambigue.
Vasta è la letteratura in proposito. Sia qui sufficiente segnalare il già citato L. Maffei e A. Fiorentini, Arte e …, op. cit.,
specie pagg. 1-60. In questo testo si possono approfondire tutti gli aspetti legati alla nostra percezione, alle immagini
ambigue, ai “trucchi” usati dagli artisti per generare le svariate interpretazioni che il nostro cervello crea. Per un approfondimento circa i problemi filosofici che la percezione implica, si veda A. Paternoster, Il filosofo e i sensi, Carocci,
2007. Un testo molto stimolante e curioso circa gli “inganni” della nostra mente è S. Della Sala, M. Dewar, Mai fidarsi
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Arte e sistemi neurali
Uno dei testi recenti e più illuminanti in proposito è un dono ai lettori del grande premio
Nobel (in Medicina e Fisiologia nel 2000) E. R. Kandel, L’età dell’inconscio 14. Si tratta di
un’eccezionale disamina delle opere d’arte del XX secolo che, dalla ricchezza creativa della
Vienna degli Anni ’20, hanno saputo rivoluzionare il gusto, anticipando in modo sorprendente e inconsapevole i più attuali esiti delle neuroscienze. Kandel assume una posizione
fondata sul “riduzionismo metodologico” che non comporta un ferreo determinismo, ma che
mira a studiare i meccanismi biologici nelle sue componenti minimali 15. Il neurobiologo e
psicanalista austriaco giunge alla conclusione che gli “universali” della visione, grazie a cui
apprezziamo le opere d’arte, sono “cablati” nelle complesse strutture neurali del nostro
cervello.
In milioni di anni di evoluzione, il nostro sistema nervoso centrale, plasmato anche
dall’esperienza, ha “costruito” schemi, proto-immagini e diagrammi neurali che, attivandosi
o spegnendosi velocissimamente, ci consentono di comparare, ricordare, riconoscere tutte le
più differenti forme della percezione. Come tutto questo poi sia stato prodigiosamente intuito e realizzato in opere d’arte dai grandi artisti della Vienna di inizio XX secolo (Klimt,
Schiele, Kokoscka e altri) è oggetto di pagine davvero coinvolgenti. In quella città si realizzò un’eccezionale congiunzione favorevole: l’incontro di artisti, scienziati, scrittori, psicanalisti che facevano capo a Freud. In quell'ambiente nacquero le Avanguardie e maturarono
innovative riflessioni scientifiche, biologiche, psicanalitiche e artistiche. Si comprese finalmente che l’osservatore completa sempre la creazione artistica del pittore, trasformando
l’immagine bidimensionale su tela in una rappresentazione tridimensionale dello spazio visivo 16.
Oggi è centrale il rapporto tra opera d’arte e osservatore. Un riferimento all’attualità ci
riconduce alla nostra scena iniziale, quella con i visitatori di una non ben definita mostra. Si
trattava dell’esposizione, attualmente in corso a Roma presso le Scuderie del Quirinale, di
alcune opere di Tiziano Vecellio (la mostra è visitabile fino al 16 giugno 2013). All’interno
si trova uno spazio espositivo in cui si illustrano le nuovissime tecniche utilizzate proprio
per illuminare la copia del perduto Martirio di San Pietro Martire con una serie di LED (sistema elettronico wireless) che rendono possibili percezioni molto diverse della stessa immagine. Gli stessi osservatori sono invitati ad attivarle e, successivamente, ad esprimere impressioni sulla propria esperienza estetica. In quel contesto si trovano, inoltre, le spiegazioni
relative all’inscindibile legame tra luce, arte e cervello 17.
della mente, Editori Laterza, 1° ed., 2010.
14 Il titolo completo è E. Kandel, The Age of insight, 2012, tr. It. (a cura di G. Guerrerio) L’età dell’inconscio, Arte,
mente e cervello dalla grande Vienna ai giorni nostri, Raffaello Cortina Editore, 1° ed., 2012.
15 Il «riduzionismo metodologico» (methodological reductionism) è una la strategia scientifica, che è molto utilizzata
dagli scienziati. La pratica consiste nello studiare un organismo complesso, andandolo a frammentare, quanto più possibile, nelle sue parti costituenti. Solo in questo modo si comprendono i meccanismi basilari di ogni processo o fenomeno
biologico. Con tale approccio metodologico, lo stesso Kandel ha compreso il funzionamento della memoria in un particolare tipo di lumaca marina gigante, l’Aplasia. I processi biochimici vanno indagati nell’infinitamente piccolo. Il resoconto straordinario di tale studio si trova in E. R. Kandel, Alla ricerca della memoria. La storia di una nuova scienza
della mente, Codice edizioni, 2010, Torino.
16 Alois Riegl (1858-1905) è stato il primo critico d’Arte che ha compiuto una sintesi tra l’analisi delle opere e
l’aspetto psicologico e percettivo, connesso agli elementi sociologici che caratterizzano la società nella quale l’opera è
stata creata. Non è esiste arte senza il “coinvolgimento dello spettatore”. Successivamente hanno sviluppato tale
approccio Ernst Kris e Ernst Gombrich. Per ampi approfondimenti su tali Autori, sui loro metodi e sui successivi
sviluppi della Gestalt, si veda E. R. Kandel, L’Età dell’inconscio…, op. cit. pagg. 191-207.
17 Quanto emergerà dai rilievi di almeno 80mila visitatori sarà studiato dai neuroscienziati e sarà oggetto di una successiva pubblicazione.
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Riconoscere forme, colori, linee
La contiguità degli artisti viennesi con gli uomini di scienza acuisce nei primi l’interesse
per la fisiologia, la psicologia e i corpi. Questi loro studi artistici si intrecciano, quindi, con
la ricerca neurofisiologica che tenta di spiegare l’effetto dell’opera sull’osservatore dal punto di vista biochimico.
Con le sue linee, ombre, forme e colori, un quadro è, sotto il profilo scientifico, un complesso e indifferenziato coacervo di stimoli e impulsi che non sono facilmente organizzabili.
L’immagine d’arte presenta sempre ambiguità, contorni incompleti, illusioni di movimento,
forme occultate da altri particolari.
Il cervello si è predisposto, nel corso dell’evoluzione, ad attivare schemi visivi su base
neurale. Si generano così abbozzi di figura, completamenti di linee, ipotesi visuali che sono
costantemente raffrontate con quanto le esperienze precedenti hanno depositato nella memoria. Lo stretto intreccio tra questi schemi percettivi cablati nelle reti neurali e le immagini
acquisite in memoria ci consentono di individuare gli oggetti, di “riconoscere” gli elementi
cromatici o luministici, i chiaroscuri e ogni dettaglio.
Si può fruire di un’opera solo in forza di quanto si è in precedenza depositato nella memoria. Una sorta, insomma, di rivisitazione, assai moderna e scientifica, della straordinaria
intuizione platonica: “Conoscere è sempre un riconoscere”.
Solo con le moderne tecnologie di neuroimaging è possibile trovare un riscontro sperimentale a un fatto che era stato solo intuito da artisti e scienziati del primo Novecento. Si
può oggi studiare la scatola nera del cervello. La decostruzione della forma dà luogo a elementi figurativi primitivi, vale a dire agli elementi basilari che costituiscono la percezione.
Ciò che vediamo è, come detto, sempre molto di più dell’immagine presente sulla retina del
nostro occhio fisico. Nello stesso tempo, molti esperimenti hanno dimostrato che noi “vediamo” ciò che ci aspettiamo di vedere. Le esperienze precoci di apprendimento compiute
nell’età infantile “guidano”, indirizzano i processi percettivi dell’età adulta.
Gli artisti del Modernismo hanno proprio giocato su questa intuizione. I bambini piccoli
associano immediatamente la percezione di una figura ovale con il volto umano. Essi sanno
cogliere lo stato d’animo di una persona, osservando le mani. Sono “intuizioni” fondamentali che, iscritte evolutivamente nel DNA, ci consentono di sopravvivere, distinguendo gli
atti ostili e quelli benevoli. Klimt, Schiele, Kokoschka tralasciano nei loro dipinti molti dettagli e colgono l’essenza delle persone raffigurate con tratti esasperati di volti e mani. Gli
esempi si potrebbero moltiplicare, ma l’idea essenziale è la seguente: gli artisti hanno reso
ciò che più profondamente stimola quegli schemi neurali che si sono radicati nel nostro sistema nervoso centrale ai fini della sopravvivenza.
Bellezza ed evoluzionismo
Le intuizioni degli artisti affondano le loro radici nella biologia. Un bel volto umano attiva aree cerebrali specifiche e genera fiducia e attrazione. Oggi lo si sa con certezza. I modelli della bellezza maschile e femminile non sono solo legati ad aspetti culturali, ma risiedono in inconsce stimoli alla sopravvivenza. È bello ciò che corrobora un’idea di salute,
fertilità e resistenza alle malattie18. La simmetria è, dunque, preferibile all’asimmetria (alcu18 Come ricorda Kandel, la studiosa J. Langlois (Università del Texas) ha dimostrato che sono tendenze già presenti nei
bimbi di tre-sei mesi (E. R. Kandel, L’età dell’inconscio…, op. cit. 372).
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ni studi hanno dimostrato tale preferenza persino negli insetti). Al contrario l’asimmetria, il
deforme e l’insano generano il senso del brutto che pure è stato rappresentato artisticamente.
Tutto questo anche se, forse, il brutto non è esattamente e solo il contrario del bello19. Perché
apprezziamo anche il Brutto formale (quello delle opere d’arte)? Forse solo perché sono eseguite in modo artisticamente apprezzabile? Lo scienziato tende a rispondere che “l’arte, comunque, ci offre la possibilità di esplorare e provare nel nostro immaginario una varietà di
esperienze ed emozioni differenti?” 20.
L’emozione del Bello
Sulla base di tale complessità e ricchezza visiva, due aspetti sono strettamente connessi e
dipendenti dai sistemi neurali interconnessi: la percezione/rielaborazione creativa
dell’oggetto e la risonanza emotiva che ogni esperienza sempre genera in noi.
Non sussiste l’atto della visione, senza emozione. “Vedere” un’opera determina sempre
un’intensa attività biochimica e ormonale che dà origine a quel sentimento di piacere e benessere che sentiamo al cospetto di un’opera bella.
La conclusione d'innumerevoli indagini è espressa in modo chiaro da Kandel:
Sia la percezione dell’arte da parte dello spettatore sia la sua risposta emotiva all’arte
dipendono interamente dall’attività delle cellule nervose in specifiche regioni del
cervello21.
Quest’ultima osservazione lascia emergere il fondamentale ruolo del vissuto emotivo di
chi contempla un’opera. Ogni immagine che si forma nella mente (se osserviamo un’opera o
anche solo se la richiamiamo nel ricordo), genera sempre reazioni emotive che sono il risultato di complessi meccanismi biochimici.
Scrive A. Damasio:
La prospettiva dalla quale ascoltiamo una melodia o tocchiamo un oggetto è la prospettiva del nostro organismo, perché è indotta dai mutamenti che hanno luogo nel nostro
organismo durante l’evento percettivo. Per quanto riguarda il senso di possesso delle
immagini e il senso di azione su di esse, anch’essi sono conseguenza diretta delle macchinazioni che creano la prospettiva (…). In seguito il nostro cervello creativo e istruito
finisce per chiarire le prove in forma d'inferenze successive, e anche di queste ultime
veniamo a conoscenza 22.
Sia nell’esperienza del bello che del brutto, si attivano le medesime aree del cervello e
gli stessi circuiti neurali. Tutto nasce, dunque, dal rapporto dei sistemi sensoriali, dai visceri
(milieu interno), dal sistema nervoso centrale con l’oggetto di cui facciamo esperienza. Il
nostro cervello crea delle mappe delle relazioni tra l’oggetto e il nostro organismo. Quando
facciamo un’esperienza estetica (così come quando tocchiamo o vediamo un oggetto), il pia19 Sulla rappresentazione artistica del Brutto, si veda il bel saggio U. Eco (a cura di), Storia della bruttezza, Bompiani,
2007. Lo stesso Eco, nell’Introduzione, riporta una riflessione di F. Nietzsche che, in Crepuscolo degli idoli, scriveva:
“L’uomo considera bello tutto ciò che gli rimanda la sua immagine… Il brutto viene compreso come sintomo di degenerescenza … Ogni sintomo di esaurimento, di pesantezza, di senilità, di stanchezza, ogni specie di non libertà, come convulsione o paralisi, soprattutto l’odore, il colore, la forma della dissoluzione, della decomposizione… tutto ciò evoca
un’identica reazione, il giudizio di valore ‘brutto’” (Storia della bruttezza, Introduzione, op. cit., p. 15).
20 E. R. Kandel, L’età dell’inconscio…, op. cit. p. 384).
21 E. R. Kandel, L’età dell’inconscio…, op. cit. p. 227.
22 A. Damasio, Emozione e…, op. cit. è. 183.
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cere che si genera dalla visione del bello è il prodotto di una ricca e molteplice quantità di
segnali che producono neurotrasmettitori, neuromodulatori, ormoni che, agendo sul sistema
dopaminergico, ci danno euforia e quel tipico benessere che nasce dalla contemplazione.
Solo in quanto il cervello è immerso in un “milieu chimico”, si spiegano le sensazioni che le
opere d’arte generano in noi 23.
Godiamo di esperienze estetiche perché il nostro cervello è strutturato per sperimentare
emozioni, secondo i sistemi percettivi, emotivi ed empatici che trovano sede in differenti
aree ormai ben indagate dai neuroscienziati. Il tutto si attua in virtù di sistemi cerebrali modulatori, costituiti da un numero non molto ingente di neuroni. Questi ultimi, nell’ordine di
poche migliaia, sono connessi a molte e diverse aree della corteccia che condizionano le
strutture che sono alla base dell’eccitazione, dell’apprendimento, dell’umore. Ai differenti
sistemi di modulazione corrispondono diversi aspetti della vita emotiva.
Come spiega Kandel:
La risposta dei neuroni dopaminergici all’anticipazione del piacere può essere la base
fisiologica del piacere che proviamo quando guardiamo un’opera d’arte. L’arte può
dare origine a sensazioni di benessere, perché predice ricompense biologiche… Ci sono
anche influenze top-down (dai livelli superiori a quelli inferiori) che collegano questa
particolare esperienza ad altre esperienze e ad altri piaceri che abbiamo sperimentato.
Così nell’emozione del piacere, come nella percezione dell’arte e della bellezza, lo stimolo fisico immediato dell’esperienza innesca anche un’inferenza inconscia che fornisce a essa un contesto più ampio 24.
Il piacere della bellezza
A partire da questa prospettiva si comprende come la fruizione estetica possa generare
piacere e senso del bello. Risponde a quel bisogno fondamentale di equilibrio organico
(omeostasi) che si genera dall’impulso universale alla sopravvivenza. Non solamente il piacere del bere e del mangiare risultano essenziali a tale fine, come è facilmente comprensibile. Anche il piacere estetico ha relazione con quell’equilibrio biochimico che garantisce salute e benessere. Questo alle origini. In seguito i suoi significati si sono arricchiti e diversificati in modo ricco e potente 25.
Kandel afferma che “i piacere estetici e sociali di ordine superiore (artistici, musicali,
ma anche altruistici) sono, dunque, in parte innati, come l’apprezzamento della bellezza e
della bruttezza, e in parte acquisiti, come nella nostra risposta alle arti visive e alla musica”
26
. Di fronte ad un’opera d’arte è sempre il nostro cervello che assegna differenti livelli di significato che riguardano le forme, i colori, i movimenti. Questa estrema complessità diversifica potentemente il piacere estetico di ordine superiore da quello che nasce dalla soddisfacimento elementare del bisogno di bere o di mangiare.
23 Sui complessi sistemi e sottosistemi che sono coinvolti in tale tipo di esperienza e sui basilari processi biochimici, si
veda A. Damasio, Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, 2012, pagg. 87-118. Si tratta,
come è ovvio, di un discorso decisamente tecnico, ma condotto con rara maestria divulgativa. Il “sistema del piacere” è
anche indagato in modo accessibile in M. Solms-O. Turnbull, Il cervello e il mondo interno, Introduzione alle neuroscienze dell’esperienza soggettiva, Raffaello Cortina Editore, 2004, pagg. 137-142.
24 E.R. Kandel, L’età dell’inconscio…, op. cit., p. 421. Oggi si sa molto sui processi fisiologici e biochimici che avvengono nel cervello e che generano le sensazioni piacevoli. Si veda al proposito E. R. Kandel, L’età dell’inconscio….,
op. cit., pagg. 415-428.
25 Cfr. Damasio, Il sé viene alla…, op. cit. pagg. 366-370.
26 E. R. Kandel, L’età dell’inconscio…, op. cit., p. 373.
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I meccanismi biochimici, che abbiamo in comune con gli animali, sono poi influenzati
da innumerevoli fattori cognitivi superiori (memorie, influenze culturali, predisposizioni
ereditarie, ecc.) che rendono possibile l’apprezzamento estetico di ordine cosiddetto “spirituale”. Per questo, dunque, nella produzione artistica, diviene centrale anche l’osservatore,
senza il quale non si dà un evento artistico. Si tratta di una sorta rivisitazione dell’Estetica
kantiana in chiave neuroscientifica. È un’ipotesi interpretativa riproposta recentemente anche da parte di alcuni neurofilosofi. Si ritrova l'elemento universale nella citoarchitettura del
cervello e nei sistemi percettivi (simili in tutti noi), mentre la componente esperienziale è
data dal mio rapporto con l’oggetto d’arte. Una forma intersoggettiva di apprezzamento del
bello.
Questo approccio innovativo e creativo, basato su ciò che abbiamo descritto come “visione”, è intuitivamente comune a molti grandissimi artisti. Basti citare Cézanne. A proposito del celebre pittore, scrive in un bel testo J. Lehrer, neuroscienziato e collaboratore di
Kandel:
Cézanne scoprì che le forme visive – la mela in una natura morta o la montagna in un
paesaggio – sono invenzioni mentali che imponiamo inconsciamente alle nostre sensazioni. “La natura, io volevo copiarla”, confessò, “non ci riuscivo. Avevo un bel cercare,
girare, prenderla in tutti i sensi. Irriducibile. Da qualsiasi lato” 27.
Nobiltà delle arti
La Bellezza diventa così universale e lega inscindibilmente e per sempre l’opera
all’osservatore. Il riduzionismo neurobiologico di cui si è detto svilisce la nobiltà delle arti?
Dobbiamo sentirci meno spiritualmente elevati, se comprendiamo che alla base dell’estasi e
della fruizione estetica, vi sono solo processi di natura biochimica ed elettrica che agiscono
a livello sinaptico, cerebrale e viscerale?
Si può continuare a credere che la possente creatività umana sia comunque fonte di meraviglia nel suo incessante generare forme e idee che sempre si rinnovano. La coscienza
sembra trascendere la semplice datità dei sistemi fisiologici e anatomo-funzionali. Sotto
questo aspetto, essa rimane un mistero che i neuroscienziati non hanno ancora svelato e che,
secondo molti, rimarrà per sempre insondabile.
Il miracolo consiste anche nel fatto che trascendiamo sempre ciò che appare come oggettivabile. Per questo, mi piace concludere con una suggestione.
Un uomo è seduto in un meraviglioso giardino nella pace di una natura incontaminata. È
concentrato. Il suo apparato percettivo sta osservando attentamente l’immagine di un cervello. Il “suo” cervello elabora e interpreta quella figura: è davvero una stupenda riproduzione
a colori di sé stesso. Ammira la simmetria, la sapiente armonia degli emisferi, dei ripiegamenti, delle scissure. Con un breve sospiro, quasi come con un lieve monologo interiore,
quell’uomo estasiato, tra sé e sé, pensa: “Che bello, che meraviglia!”.
27 J. Lehrer, Proust era un neuroscienziato, op. cit. p. 91.
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