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Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel

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Le conseguenze del reato. Verso un protagonismo della vittima nel
Editoriale
Processo penale
Le conseguenze del reato.
Verso un protagonismo della
vittima nel processo penale?
di Sergio Lorusso - Ordinario di diritto processuale penale nell’Università di Foggia
Innovazioni normative interne e sovranazionali esaltano il ruolo della vittima del reato nelle dinamiche del
processo penale, prospettando - in nome della sicurezza pubblica - il possibile sovvertimento di relazioni consolidate proprie di una concezione liberale della giustizia che pone al centro dell’ordinamento i diritti e le garanzie individuali dell’imputato. La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2012/29/UE, in particolare, prescrive agli Stati membri obblighi di adeguamento che, se attuati fino in fondo, sono in grado di promuovere da semplice comparsa a protagonista della scena processuale la vittima, finora ospite poco gradito della contesa tra accusa e difesa.
La ratifica della Convenzione di Lanzarote
e il nuovo ruolo della vittima
Se è vero che le modifiche di carattere processuale
introdotte dalla l. 1 ottobre 2012, n. 172, con cui il
nostro Paese ha ratificato la Convenzione di Lanzarote risultano di minor portata rispetto ai mutamenti di tenore sostanziale, è altrettanto vero che le prime incidono su un tema sempre più sensibile, foriero di possibili nuovi equilibri sulla scena processuale, come cospicue tracce normative di respiro sovranazionale palesemente rivelano.
Centrale, da quest’ultimo punto di vista, l’azione
continua e inarrestabile dell’Unione europea, la cui
spinta a riconsiderare i gangli del processo penale
leggendone le dinamiche con gli occhi della vittima, naturalmente speculari a quelli dell’imputato il
cui sguardo si è posato - con residuali e circoscritte
variazioni sul tema - sull’agone processuale per circa
mezzo secolo quale faro predominante, se non unico, del legislatore, complici una Carta fondamentale ‘rivoluzionaria’ da rendere effettiva e un codice di
rito figlio, come il fratello maggiore dedicato al reato ed alle pene, di uno Stato autoritario.
È dell’ottobre scorso la direttiva adottata dal Parlamento europeo e dal Consiglio recante “Norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione
delle vittime di reato” (2012/29/UE), che prende il
posto della Decisione quadro 2001/220/GAI, caposaldo della normativa sovranazionale in materia di
tutela della vittima, con il chiaro scopo di rafforzare
la protezione di tale figura “dal processo” e “nel processo”, individuando delle regole minime cui ogni
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Stato dovrà conformarsi. Il tutto nel rispetto della
c.d. tabella di marcia di Budapest contenuta nella risoluzione del 10 giugno 2011 tesa al consolidamento dei diritti e della tutela delle vittime, particolarmente nei procedimenti penali.
Fondamentale, in primo luogo, lo strumento adoperato: una direttiva, come tale vincolante per gli Stati cui è rivolta quanto al «risultato da raggiungere,
salva restando la competenza degli organi nazionali
in merito alla forma e ai mezzi» adottati (art. 288,
comma 3, TFUE). La direttiva, insomma, prescrive
un obbligo di risultato, ma non ha efficacia diretta
all’interno di ciascun ordinamento. E tuttavia, in
quanto fonte comunitaria, genera un obbligo di interpretazione conforme per i giudici nazionali e fa
sorgere la responsabilità dello Stato inadempiente
per i danni provocati ai singoli a causa di una manifesta violazione dei diritti in essa sanciti, assumendo
così una rilevanza indiretta ma pregnante nell’ordinamento interno.
È una virata a trecentosessanta gradi quella richiesta
a gran voce dagli organismi istituzionali europei, rispetto alla cui attuazione viene spontaneo chiedersi
se davvero l’Italia sia pronta o se, invece, preferirà
adottare la consueta tattica attendista pur di evitare
il paventato naufragio. La direttiva, infatti, se recepita dal nostro Paese si tradurrebbe in linee di politica criminale alquanto ‘eversive’ rispetto a quelle
attualmente dominanti, tali da ribaltare i tradizionali assetti triadici del processo penale, imperniati sulla dialettica ‘pubblico ministero-imputato-giudice’.
Innegabile la portata della spinta di derivazione so-
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vranazionale, inevitabile l’argine promanante dal
legislatore interno plausibile preda di un cronico
gattopardismo normativo.
Un ospite inatteso, oggi rivalutato
Resta la domanda principale: cosa fare di un ospite
inatteso - fatalmente mal sopportato dai padroni di
casa e dai loro amabili commensali - potenzialmente destinato a divenire d’emblée il catalizzatore dell’intera scena processuale?
Dalla lettura della direttiva 2012/29/UE e dalla decantazione dei suoi punti più salienti, emergono le
linee guida sottese ai desiderata europei.
Muta, in primo luogo, l’approccio stesso al concetto
di vittima, la sua collocazione nello scenario criminale complessivo: il reato, difatti, viene considerato
non soltanto come un fatto socialmente dannoso
ma - expressis verbis - anche come una violazione dei
diritti individuali della vittima (considerando n. 9),
questi ultimi contrapposti senza giri di parola ai consolidati diritti individuali dell’imputato.
È un’affermazione, quella del considerando n. 9, che
investe il nocciolo duro della concezione liberale
del processo e della giustizia penale, tutta incentrata
sulla contrapposizione tra autorità e libertà e, dunque, sull’argine normativo da erigere e contrapporre
all’intrusione nella sfera privata dell’individuo, che
si trovi - suo malgrado - ad essere coinvolto in un
processo penale, della sfera pubblica, del potere costituito. Le conquiste dell’Illuminismo, cui l’Italia
ha fornito un impagabile e indiscutibile contributo
con illustri pensatori del calibro di Cesare Beccaria
(1738-1794) e di Francesco Mario Pagano (17481799), non vengono qui rinnegate, ma certamente
‘relativizzate’ perché indotte a fare i conti con le esigenze della vittima del reato le cui aspettative riflettono - a livello individuale - le istanze di sicurezza
pubblica della collettività.
Queste ultime, inutile negarlo, hanno costituito il
leitmotiv della legislazione (più o meno frettolosamente) varata nel primo scorcio del nuovo millennio: dalla l. 24 luglio 2008, n. 125, alla l. 15 luglio
2009, n. 94, dalla l. 17 dicembre 2010, n. 217, fino
ai più recenti pacchetti sicurezza presentati alle Camere e decreti legge in attesa di conversione con
l’intento dichiarato di restituire una vita tranquilla
ai cittadini aggrediti da forme di criminalità sempre
più insidiose e insistenti.
Ed ecco allora prender piede e svilupparsi una nuova concatenazione necessaria: ‘reato-sicurezza pubblica-tutela della vittima del reato’, che si affianca
(per sovrastarla?) alla consueta dinamica obbligata
‘reato-processo penale-tutela dell’imputato’. Siamo
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di fronte a relazioni pericolose ma tra loro compatibili, o invece l’una esclude l’altra, suscitando l’immissione dell’inedito stilema inevitabili crisi di rigetto nell’organismo giudiziale abituato ai blandi e
rassicuranti ritmi dell’italico garantismo processuale?
Non esiste una formula magica in grado di svelare
l’arcano, facendo luce sul futuro prossimo venturo
della nostra giustizia penale. È certo, tuttavia, che la
succitata innovativa connessione è tutt’altro che invisibile agli occhi dell’osservatore attento, acuto e
smaliziato e si manifesta come potenzialmente gravida di conseguenze in punto di opzioni di politica
criminale, svelando un’innata attitudine espansiva sul piano degli effetti - dall’area processuale a quella
(sempre più intimamente legata alla prima) sostanziale.
Tutt’altro che remoto, dunque, è il rischio di sovvertire i consolidati rapporti di cui vive e si alimenta il
processo penale, gli equilibri faticosamente raggiunti tra attori, protagonisti e semplici comparse che si
muovono sulla scena processuale seguendo una linea sottile ma costante di rafforzamento dei diritti
conferiti all’imputato, nella sua qualità di ‘vittima’
del congegno giudiziario: una linea che sembra aver
raggiunto la sua acme poco più di un decennio fa,
con il varo della l. 1 marzo 2001, n. 63, attuativa
delle garanzie del cd. ‘giusto processo’ cristallizzate
nell’art. 111 Cost. novellato, per poi ripiegare su posizioni sempre garantiste ma attente, al contempo,
agli altri interessi coinvolti nella contesa processuale.
Le conseguenze del reato
Il reato, dunque, per Consiglio e Parlamento europeo presenta una duplice valenza effettuale, che si
dispiega a livello sociale e individuale: rappresenta
un fatto socialmente dannoso ma anche una violazione dei diritti individuali della vittima in quanto
tale. Fa un certo effetto vedere accostata la locuzione ‘diritti individuali’, da sempre appannaggio dell’imputato, a colei che di quest’ultimo è la ‘controparte naturale’, la vittima.
Siamo di fronte di fronte ad un’affermazione dalla
portata rivoluzionaria?
Forse sì, ma solo in parte.
La visione sottesa al considerando n. 9 della direttiva
2012/29/UE, difatti, altro non è che il riflesso (rectius, la summa) di un mutamento di prospettiva generalizzato - sociale e politico, ancor prima che giuridico - nel modo di percepire (e di far operare) la
giustizia penale, in atto ormai da quasi vent’anni
nella collettività, che ineluttabilmente sposta il ba-
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ricentro del processo in direzione (e dalla parte) della vittima.
Gran parte della legislazione sulla sicurezza pubblica
prima citata ne offre una chiara e difficilmente contestabile testimonianza, anche quando non si preoccupa
di tutelare expressis verbis il titolare dei beni lesi o messi in pericolo dalla condotta penalmente rilevante.
In tale scenario, tuttora in evoluzione, il rischio che
la vittima del reato venga processualmente strumentalizzata e ‘piegata’ senza scrupoli al conseguimento
di obiettivi ‘altri’ - lato sensu politici e/o di consenso
- che poco hanno a che fare con la sua tutela quale
soggetto portatore di diritti, interessi e aspettative di
natura giudiziale, è davvero dietro l’angolo (1).
Occorre guardarsi, allora, dall’’abuso della vittima’,
potenzialmente in grado di condurre ad una proliferazione di fattispecie penali sostanziali incentrate
sulla sua figura intesa quale portatrice di un vero e
proprio diritto soggettivo alla sicurezza, tale da legittimare politiche punitive severe - di grande efficacia
simbolica - in grado spesso di offrire rassicurazioni
contingenti alla cd. ‘società della paura’ (2) ma poco idonee a centrare l’obiettivo primario della difesa
sociale, ad erigere quello steccato adatto a difendere
il cittadino globalizzato dalle molteplici aggressioni
alla sua sfera personale con cui deve quotidianamente misurarsi.
Le ricadute sul piano processuale non sono certamente meno tangibili ed eclatanti, se si pensa a come l’impatto emotivo del reato sulla vittima e sui
suoi prossimi congiunti, veicolato ed amplificato dai
media e dal loro effetto sull’opinione pubblica, condiziona spesso pesantemente la macchina processuale e le sue concrete scansioni, imponendo - seppur in
via subliminale - di trovare fin da subito un colpevole, di assicurarlo alla giustizia, di considerarlo destinatario di una ‘pena anticipata’ - sub specie custodia cautelare, meglio se in carcere - e di sottrarlo,
temporaneamente ma con effetti di fatto dirompenti pari a quelli della decisione finale e spesso non più
removibili, al circuito familiare e professionale, con
buona pace dei principi e delle regole del (giusto)
processo accusatorio sbandierate a ogni piè sospinto.
In un quadro così tratteggiato emerge e si afferma
una nuova e indiscussa centralità, quella della fase
procedimentale, essendo le indagini preliminari in
grado di produrre in tempi brevi e con modalità
sommarie il ‘mostro’ da ‘sbattere in prima pagina’,
sintesi fattuale di un processo penale piegato alle
esigenze della difesa sociale e snaturato della sua essenza garantista e repressiva per rivestire i panni di
una (impropria) macchina oscura e preventiva, in
cui a pagare è la completezza dell’accertamento.
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Accade sempre più spesso, anche nel nostro Paese.
Accade nei pur legittimi processi intentati per disastri di massa come quelli della ThyssenKrupp o dell’Ilva, il cui tam tam mediatico si coniuga perfettamente con l’esasperazione della pluralità di vittime
e/o dei loro congiunti che cercano, sul terreno penale, una risposta a sciagure ambientali troppo spesso
ampiamente annunciate, ma ignorate dalla politica
e dalle istituzioni deputate al governo della cosa
pubblica e, quindi, agli opportuni interventi sul territorio a tutela dell’ambiente.
Accade parimenti nei processi per figure di reato
classiche - è il caso dell’omicidio nelle sue più
aberranti declinazioni - non di rado propulsori di
un incredibile circuito mediatico destinato a divenire autoreferenziale con la nascita persino di veri
e propri ‘crime reality show’. Si pensi al caso di Avetrana o al delitto di Perugia, vicende giudiziarie la
cui rappresentazione mediatica è in grado di fare
impallidire, qualitativamente e quantitativamente, le omologhe trasmissioni d’oltreoceano, trasferendo senza pudore e con la massima nonchalance il
‘luogo’ del processo in tv e relegando il processo quello ‘vero’ - e i suoi esiti, con i suoi tempi e i suoi
modi più meditati e riflessivi alle minime di cronaca.
Accade nei reati dei colletti bianchi, espressione di
un consolidato quanto inestricabile intreccio tra politica e affari, una Tangentopoli perenne che neanche i sommovimenti politico-istituzionali sono stati
in grado di sradicare ed in cui i confini tra reo e vittima risultano spesso labili e sfuggenti (3). L’arcipelago corruttivo tiene in scacco l’Azienda Italia, le
sue vittime indifferenziate sono tutti i cittadini, unitamente alle chanches produttive e di crescita del
Paese. Lo zibaldone mediatico, tuttavia, confonde a volte scientemente - nei resoconti giornalistici le
gravi anomalie di gestione della cosa pubblica con il
gossip relativo al connubio ‘politici-imprenditori-ladroni’, alimentando così scontati qualunquismi e
Note:
(1) «Tutelare la vittima diviene allora la cornice pubblica di una politica punitiva che assume quale baricentro il controllo sociale di
specifiche categorie di persone», afferma S. Allegrezza, La riscoperta della vittima nella giustizia penale europea, in AA. VV.,
Lo scudo e la spada, Torino, 2012, 5.
(2) V., in proposito, Z. Bauman, Paura liquida, ed. it., Roma-Bari,
2008, 3 s.; J. Simon, Il governo della paura, ed. it., Milano, 2008,
17 s.; T. Tozorov, La paura dei barbari, ed. it., Milano, 2009, 9 s.
(3) N. Fiorino-E. Galli, La corruzione in Italia, Bologna, 2013, 7,
sottolineano il «mutamento ‘antropologico’ della società in cui il
cittadino mostra segni di assuefazione al rapporto di insana complicità che spesso si instaura tra la politica, l’amministrazione e le
imprese».
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antipolitica a buon mercato e sviando, ancora una
volta, la macchina giudiziaria dal suo compito di accertare responsabilità penali personali.
Il processo penale sta dunque diventando il luogo in
cui sublimare il protagonismo di un personaggio
(spesso) disperatamente in cerca d’autore, la vittima
del reato?
E se così è, con quali conseguenze?
Esperienze a confronto
Vediamo cosa accade altrove.
Negli ordinamenti in cui una particolare sensibilità
nei confronti delle vittime si è già tradotta concretamente in attribuzioni processuali assai penetranti
non mancano i primi effetti realmente palpabili. È il
caso degli Stati Uniti, dove al riconoscimento per la
vittima del diritto di intervenire nella fase della determinazione della pena (sentencing) ha fatto seguito, negli ultimi anni, un aumento delle richieste di
pena capitale nell’ottica del più classico Law & Order. Maggior rigore e severità, insomma, derivanti
dal maggior coinvolgimento di chi, pure, non vanta
in quel sistema processuale il diritto di esercitare
motu proprio l’azione penale, né è parte.
In Francia il protagonismo della vittima è fenomeno
ormai noto e sviscerato, oggetto alcuni anni fa di un
penetrante quanto provocatorio saggio dal titolo
emblematico (Le temps des victimes), scritto a quattro mani da una psicanalista e da un avvocato, in cui
si sottolinea come nella società democratica la vittima incarni quello che un tempo era il ruolo mitico
dell’eroe, denunciando il pericolo che la forza simbolica carica di emotività della vittima di un reato specie di quelli più eclatanti - è tale da minare alle
radici gli stessi valori fondanti della democrazia, la
cui portata è razionale e come tale condivisa da tutti: la notorietà procurata dallo status di vittima, del
resto, è della medesima natura di quella del criminale, è una delle tante forme di narcisismo potenzialmente destinata, secondo gli autori, a far nascere
una star (4).
È possibile ipotizzare derive di questo genere in Italia?
Apparentemente no, specie se si considera il nostro
substrato normativo, forte di una tradizione giuridica assolutamente contraria alla valorizzazione processuale della vittima ribadita - se non rafforzata dalle opzioni accusatorie recepite (non senza contraddizioni) dal primo codice dell’Italia repubblicana, in cui la persona offesa cede ineluttabilmente il
passo al ‘cugino’ danneggiato dal reato non appena
esercitata l’azione penale. Occorre, però, essere realisti (e lungimiranti), anche perché le norme posso-
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no andare oltre le stesse intenzioni dei conditores, vivendo di vita propria.
La sovrapposizione tra persona offesa e persona danneggiata dal reato ha ascendenze remote - la codificazione francese del XVIII secolo - ed ha portato a
sentire come un estraneo, un intruso, un ospite spesso ineducato, invadente e mal digerito l’’offeso-vittima’ che si affaccia nel processo penale, mirando al
risarcimento del danno subito, così svelando «il volto più sgradevole della vittima» (5), la monetizzazione dell’offesa penale e del relativo dolore. Anche il
difensore della parte civile, nelle aule di giustizia, è
spesso considerato un difensore di serie B, una figura residuale, tanto da venir persino semanticamente
distinto dai suoi colleghi e ridotto nel gergo forense
a semplice ‘patrono’ (6).
E il codice 1988?
Ha insistito sul medesimo registro, interpretando
l’opzione accusatoria come un coro a due voci, quasi un tango, piuttosto che come una danza collettiva
(7). È vero, la vittima ha un ruolo non centrale nelle dinamiche del processo penale di common law,
non può attivare pretese risarcitorie per non alterare la parità tra le parti, ma la sua presenza quale soggetto portatore della richiesta di giustizia è insita nel
codice genetico di tali ordinamenti, in cui l’accusa
nasce come accusa privata, esercitata proprio dal
soggetto sul quale si producono gli effetti pregiudizievoli della condotta criminale.
E così il prosecutor agisce rappresentando anche gli
interessi della vittima che incombe - pur non essendo fisicamente presente - in sistemi retti sulla discrezionalità dell’azione penale, contrassegno che costituisce un retaggio dell’azione privata, come tale disponibile.
In Italia, invece, il mutamento di direzione suggerito all’epoca della riforma da chi, consapevole delle
reali dinamiche del processo accusatorio, aveva suggerito di eliminare la possibilità di esercitare l’azione
Note:
(4) C. Eliacheff-D. Soulez Larivière, Il tempo delle vittime, ed. it.,
Milano, 2008, passim.
(5) Così, efficacemente, E. Amodio Mille e una toga, Milano,
2010, 104, che la ritiene «una parte innaturale e anche tiranna».
(6) Ancora E. Amodio Mille e una toga, cit., 101 s., che sottolinea
come si eviti di chiamarlo ‘difensore’ e come potrebbe apparire
«blasfemo usare questa etichetta per designare un professionista che opera nel processo a favore di una parte contrapposta all’imputato». E non basta, a segnarne la distanza, evidenziare la
pur indiscussa «natura anfibia dell’azione civile risarcitoria» (ivi,
103).
(7) Per mutuare la bellissima immagine proposta da E. Grande,
Dances of Justice: Tango and Rumba in Comparative Criminal
Procedure, in Global Jurist, 2009, vol. IX, 4, 1.
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civile nel processo penale, potenziando contestualmente il ruolo della persona offesa e favorendo
un’effettiva parità delle armi tra accusa e difesa, non
ha avuto seguito (8).
Dalla ‘vittima’ alle ‘vittime’ del reato
Oggi, dunque, l’Europa a gran voce reclama l’importanza di dare pari dignità alla vittima, sulla scia della valorizzazione culturale, sociale e politica della
sua figura. Porte aperte alla vittima, prima, durante
e dopo il processo penale.
La vittima. Anzi, le vittime.
Poiché siamo ormai di fronte a diverse categorie di
vittime, cui corrispondono differenti livelli di tutela
che, non di rado, ispirano modelli di giustizia penale diversificati: le vittime minori, le donne vittime
(di reati a sfondo sessuale, ma non solo), le vittime
disabili, le vittime del terrorismo, le vittime della
criminalità organizzata, le vittime della criminalità
economico-finanziaria, le vittime di disastri ambientali. Vittime intrinsecamente deboli, da un lato;
gruppi di vittime, dall’altro.
Alcune di queste categorie sono ormai istituzionalizzate e non a caso trovano preciso riscontro proprio
nel testo della direttiva 2012/29/UE ove, a conferma
dell’autonomia concettuale riconosciuta alla figura
della vittima, si statuisce che i suoi diritti debbano
essere assicurati anche quando l’autore del reato non
sia stato identificato, catturato, perseguito o condannato e che - a tal fine - potrà essere considerato ‘autore del reato’ anche l’imputato e persino l’indagato,
ferma restando la presunzione d’innocenza (considerando n. 12). Si tratta di una svolta significativa.
La portata stessa del concetto di vittima si amplia rispetto alla decisione quadro del 2001, ne esce rimodellato il profilo soggettivo ricomprendendo ora accanto alla persona che ha subito le conseguenze
pregiudizievoli del reato - anche i familiari vittime
indirette del reato, in particolare quelli della persona morta a causa del reato per il pregiudizio da loro
subito (considerando n. 19; art. 2, comma 1, lett. a)).
Il parterre di garanzie apprestate per la vittima è davvero amplissimo e si snoda in una molteplicità di direzioni, prescrivendo - nell’ottica dell’armonizzazione europea - obblighi informativi e di assistenza, di
protezione e diritti partecipativi al procedimento.
Tra i più significativi, quelli di informazione e di
comprensione (considerando n. 21), da cui scaturisce
un rafforzato diritto all’interprete e alla traduzione
gratuita (art. 7) di cui la vittima dovrà essere informata fin dal primo contatto con le autorità; l’individual assesment, cioè a dire un programma di protezione personalizzato della vittima (artt. 18) che le
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consenta di affrontare serenamente il processo e le
conseguenze pregiudizievoli della condotta criminale, rapportato alla singola vicenda e teso ad evitare i
frequenti fenomeni di vittimizzazione secondaria,
d’intimidazione e di ritorsioni.
Non va dimenticato, difatti, che molto spesso alla
sofferenza derivante dal commesso reato se ne aggiunge un’altra, quella della partecipazione al processo penale la cui intrinseca violenza è a tutti nota.
Il processo accusatorio, sotto questo profilo, presenta punte estreme nella genetica rudezza della cross
examination, e in ogni caso il dover riaffrontare nel
processo il proprio ‘carnefice’ è questione psicologicamente al tempo stesso pesante e delicata. Da qui il
ricorso a schemi procedimentali differenziati che
possano favorire l’uscita anticipata dal processo:
composizione extragiudiziale (considerando n. 45);
meccanismi di giustizia riparativa come la mediazione tra vittima ed autore del reato (considerando n.
46); nonché l’esclusione di contatti con l’autore del
reato (art. 19) e - autentico monito per il nostro
Paese - la riduzione delle audizioni della vittima nella fase investigativa al numero strettamente necessario (art. 20).
Qualche annotazione sull’imperfetto
adeguamento a Lanzarote
La direttiva 2012/29/UE ha seguito solo di pochi
giorni la ratifica della Convenzione di Lanzarote,
ma rischia di rendere subito obsoleta e inadeguata la
normativa della l. 172/2012 che, a proposito di tutela del minore vittima di specifici reati concernenti
la sfera sessuale, si limita ad introdurre solo poche e
marginali modifiche alla normativa previgente.
In particolare, viene ampliata la possibilità di ricorso all’incidente probatorio ‘dedicato’, fuori dei casi
di prova non rinviabile, estendendo le fattispecie di
reato enumerate nell’art. 392, comma 1-bis, c.p.p. Si
tratta di un adeguamento legato, da un lato, alla
nuova fattispecie incriminatrice di adescamento di
minori (art. 609-undecies c.p.), introdotta in ossequio a Lanzarote per contrastare un fenomeno purtroppo sempre più diffuso anche grazie all’ausilio degli strumenti informatici, dall’altro, alla correzione
di una ‘svista’ in cui era incorso il legislatore nel
2009, quando aveva inserito solo indirettamente il
Nota:
(8) Il riferimento è a G. D. Pisapia, il cui tentativo di estromettere dal processo penale la parte civile per la sua natura ibrida non
ha avuto fortuna: cfr., in proposito, la puntuale ricostruzione storica e sistematica effettuata da L. Lupária, Quale posizione per la
vittima nel modello processuale italiano?, in AA. VV., Lo scudo e
la spada, cit., 38.
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riferimento alla fattispecie di cui all’art. 600-quater
c.p. (detenzione di materiale pornografico) - in relazione al reato di pornografia minorile (art. 600-ter
c.p.) se concernente materiale pornografico virtuale
(art. 600-quater.1 c.p.) - e non come ipotesi autonoma in cui poter esperire l’incidente probatorio cd.
‘atipico’.
Si rafforza, quindi, l’opzione legislativa che vede
l’incidente probatorio quale strumento elettivo per
l’acquisizione delle dichiarazioni rese dal minore, in
linea peraltro con quanto affermato nella Carta di
Noto, recante Linee-guida per l’esame del minore in
caso di abuso sessuale, il cui art. 15 così recita: «L’incidente probatorio è la sede privilegiata di acquisizione delle dichiarazioni del minore nel corso del
procedimento, sempre che venga condotto in modo
da garantire, nel rispetto della personalità in evoluzione del minore, il diritto alla prova costituzionalmente riconosciuto».
Sempre in tema di incidente probatorio, poi, si è intervenuti sull’art. 398, comma 5-bis, c.p.p. che prevede la possibilità per il giudice di individuare forme
e particolari modalità per la sua effettuazione
«quando le esigenze di tutela delle persone lo rendono necessario ed opportuno», consentendo anche lo
svolgimento dell’udienza in luogo diverso dal tribunale (strutture specializzate di assistenza, abitazione
del minore) e imponendo la documentazione integrale dell’acquisizione della prova con strumenti audiovisivi. Anche in questo caso si tratta di un mero
ampliamento delle fattispecie richiamate, mediante
l’introduzione del nuovo reato di adescamento di
minori (art. 609-undecies c.p.).
Non si è colta l’occasione per ristabilire una piena
corrispondenza tra le ipotesi dell’art. 392, comma 1bis, c.p.p. e quelle dell’art. 398, comma 5-bis, c.p.p.,
ed anzi si è ulteriormente divaricata la forbice tra le
due disposizioni: quest’ultima norma, infatti, non
contiene il riferimento all’art. 572 c.p. (maltrattamenti contro familiari e conviventi) e neanche all’art. 600-quater c.p. (detenzione di materiale pornografico).
Eppure la Corte costituzionale, in più occasioni,
aveva avuto modo di evidenziare l’illegittimità di
una normativa che consentisse di ricorrere all’incidente probatorio ‘dedicato’ per l’audizione del minore senza dare la possibilità di adottare le modalità
protette (9), in linea del resto con gli insegnamenti
rinvenienti dagli organi di giustizia sovranazionali
(10) che, viceversa, anche in questo caso risultano
collocarsi su una linea di tutela più avanzata rispetto a quella tracciata dal nostro legislatore affermando che l’incidente probatorio ‘dedicato’ e le modali-
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tà di audizione protetta non possono essere circoscritte alle sole ipotesi in cui il minore sia vittima di
un reato afferente la sfera sessuale ma debbono essere estese ad ogni altra situazione in cui la vittima del
reato sia minorenne. Resta il baluardo tracciato, ma
solo con riferimento al minore infra-sedicenne, dalla Consulta con la sentenza 9 maggio 2001, n. 114,
che ha ritenuto applicabili le modalità protette dell’incidente probatorio a prescindere dalla tipologia
di reato per cui si procede.
Più cospicuo è l’intervento normativo attuativo di
Lanzarote volto ad introdurre peculiari modalità di
acquisizione delle dichiarazioni del minore nel corso
delle indagini preliminari e che investe gli artt. 351,
362 e 391-bis c.p.p., con apprezzabili motivazioni di
fondo dei cui esiti positivi nella prassi c’è però da dubitare. Il potenziamento delle audizioni in assenza
del giudice, d’altronde, è in netta contraddizione
con la predetta opzione in favore dell’incidente probatorio quale sede privilegiata per l’acquisizione della prova dichiarativa quando la vittima del reato è
un minore e stride con i succitati desiderata della Direttiva 2012/29/UE nella parte in cui richiede agli
Stati membri di ridurre al minimo le audizioni della
vittima, consentendole «solo se strettamente necessarie ai fini dell’indagine penale» (art. 20) per circoscrivere il più possibile i fenomeni di vittimizzazione
secondaria.
Se l’innovazione nasce anche dall’esigenza di contrastare alcune pratiche ‘scorrette’ dell’accusa, rese
possibili dalla possibilità per il pubblico ministero (e
per la polizia giudiziaria) di sentire personalmente e
inaudita altera parte il minore senza il supporto di un
esperto che potesse suggerire le opportune cautele
da adottare nel caso di specie in considerazione dell’età, non pochi interrogativi sorgono sulla concreta
operatività della nuova disciplina.
Si tratta di un obbligo - considerato l’utilizzo del
verbo all’indicativo: “si avvale”, invece di “può avvalersi” - con la conseguenza paradossale che detta
garanzia risulta più robusta di quelle speculari dettate per l’eventuale incidente probatorio dedicato e
per la fase dibattimentale, ove è prescritta una mera
facoltà, per il presidente, di avvalersi del supporto di
un esperto in psicologia infantile (art. 498, comma
4, c.p.p.). Né il minor grado di tutela in situazioni
Note:
(9) Corte cost., sent. 9 luglio 1998, n. 262, in Giur. cost., 1998,
2051 s., in relazione all’art. 609-quinquies c.p. (corruzione di minorenne).
(10) CGCE, 16 giugno 2005, Grande sez., C-105/03, Pupino, in
questa Rivista, 2005, 1178 s.
Diritto penale e processo 8/2013
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Processo penale
come queste può essere giustificato dall’assunzione
delle dichiarazioni nel contraddittorio delle parti e
alla presenza di un giudice terzo: occorre infatti
chiedersi se un tale contesto, unito - nel caso del dibattimento - alla pubblicità dell’udienza, sia davvero meno traumatico per il minore, tanto più se vittima del reato, perché la norma intende soddisfare
precipuamente i bisogni del testimone debole e non
già istanze difensive o di correttezza e completezza
dell’accertamento. D’altronde, è inutile nascondere
i pericoli e le insidie che l’impatto emotivo e della
scena processuale sulla fragile personalità del minore ancora in formazione celano, per le intuibili ricadute sulla veridicità delle dichiarazioni rese da un
soggetto fortemente suggestionabile.
Va sottolineata, poi, un ulteriore discrasia. Le nuove
previsioni prevedono l’intervento di un esperto di
psicologia o di psichiatria infantile in via non solo
obbligatoria ma anche esclusiva, così differenziandosi anche sotto il profilo soggettivo dall’art. 498,
comma 4, c.p.p. che fa riferimento in via alternativa
al familiare del minore o all’esperto di psicologia infantile. Il tema è delicato, e tutt’altro che piano nonostante la giurisprudenza abbia già ritenuto ammissibile la presenza del familiare del minore nelle fasi
precedenti il confronto dibattimentale: tale supporto al minore potrebbe essere controproducente,
quando si tratta del soggetto che ha ricevuto per primo le sue ‘confidenze’, con l’effetto di inficiare gravemente la genuinità delle dichiarazioni rese dal minore; anch’egli, inoltre, dovrà essere sentito come
persona informata sui fatti e potrebbe, quindi, modellare artatamente le sue dichiarazioni su quanto
affermato dal minore.
C’è da chiedersi poi, stante l’obbligatorietà dell’intervento dell’esperto, cosa accade qualora lo stesso
non sia nominato dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria o nel caso in cui il minore vittima
del reato si rifiuti di rendere dichiarazioni in sua presenza. Stante l’assoluto silenzio sul punto della novella legislativa è facile pensare all’inutilizzabilità ex
art. 191, comma 1, c.p.p., anche se occorre fare i
conti con un incombente ubi lex voluit dixit scandito
dal medesimo legislatore nel regolamentare l’omologo istituto quando a raccogliere le dichiarazioni è il
difensore, con la previsione espressa dell’inutilizzabilità delle dichiarazioni acquisite violando l’art.
391-bis, comma 5-bis, c.p.p. scaturente dall’innesto
normativo (art. 391, comma 6, c.p.p.). Trattasi di
questione non di poco conto, se si considera che il
frutto dell’audizione disposta dal pubblico ministero
o dalla polizia giudiziaria potrà costituire il fondamento di decisioni interlocutorie - specie in materia
Diritto penale e processo 8/2013
cautelare - o addirittura dell’accertamento di responsabilità dell’imputato qualora si scelgano epiloghi differenziati.
Fondamentale, sul piano operativo, la questione
delle modalità di reclutamento dell’esperto su cui la
disposizione omette qualsiasi indicazione, lasciando
agli addetti ai lavori una grave lacuna da colmare:
non prevedere precisi vincoli e linee guida per
un’accurata selezione dei soggetti chiamati a un così
delicato compito può essere l’origine di clamorose
défaillances investigative. Una forzatura appare evocare un’interpretazione analogica del l’art. 73 disp.
att. c.p.p., in tema di consulenti tecnici nominati
dal pubblico ministero, se si considera che l’esperto
in questione è figura profondamente diversa dal
consulente tecnico; e comunque tale lettura non sarebbe risolutiva, stante la discrezionalità della norma che prescrive di avvalersi “di regola” di un soggetto iscritto negli albi dei periti.
Indeterminati i compiti effettivi dell’esperto durante l’audizione del minore vittima del reato, anche se
il tenore della novella lascia intendere che la sua attività debba essere comunque di supporto all’attività
di ascolto svolta in prima persona dagli organi investigativi, escludendo pertanto qualsiasi delega a
svolgere l’intera audizione. In sostanza, l’esperto dovrebbe fornire indicazioni su come formulare le domande e su quale linguaggio adoperare per limitarne
al minimo gli effetti traumatici.
Deleterie prassi, purtroppo, rendono concreto il rischio del perpetuarsi di audizioni delegate, già diffuse in sede dibattimentale, le cui conseguenze negative - se estese anche in sede investigativa - sarebbero
amplificate dall’assenza nel corso delle indagini preliminari dell’obbligo di documentazione integrale
con strumenti audiovisivi dell’attività svolta. Abdicare alla presenza del soggetto dotato di conoscenze
giuridiche nell’espletamento di un atto così delicato
e potenzialmente decisivo per il futuro accertamento significherebbe aprire la porta ad arbitri ben più
pesanti - e peraltro non facilmente dimostrabili - di
quelli consumati nella vigenza della pregressa disciplina.
Un netto argine a possibili abusi da parte degli organi inquirenti, del resto, viene proprio dalla direttiva
2012/29/UE, che all’art. 24, comma 1, lett. a) impone agli Stati membri di provvedere affinché «nell’ambito delle indagini penali tutte le audizioni del
minore vittima del reato possano essere oggetto di
registrazione audiovisiva e tali registrazioni possano
essere utilizzate come prova nei procedimenti penali».
Ancora una volta, quindi, emerge un cospicuo diffe-
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Processo penale
renziale tra la normativa interna e la normativa sovranazionale, un solco reso più profondo da retrive e
censurabili pronunce dei giudici di merito e di legittimità che hanno ritenuto utilizzabili le dichiarazioni rese dal minore al perito in assenza dell’autorità
giudiziaria, invocando la necessità di evitare al minore il turbamento psichico del minore potenzialmente derivante dall’audizione diretta. Confondendo, così, pericolosamente due piani che dovrebbero
rimanere distinti: quello della tutela della personalità del minore sottoposto ad audizione e quello delle
garanzie di un corretto svolgimento dell’attività giurisdizionale secondo i canoni del ‘giusto processo’.
Non è certo questa la strada indicata dall’Europa,
che già prima della direttiva dello scorso ottobre ha
sottolineato l’imprescindibilità di un’audizione non
solo protetta, ma anche garantita (11). Con la conseguenza che ogni atto avente una potenziale valenza probatoria deve essere formato con le più ampie
garanzie possibili, non soltanto per il soggetto che vi
si sottopone, ma anche per la persona su cui ricadranno gli effetti pregiudizievoli. Un legislatore accorto a entrambe tali esigenze avrebbe dovuto imporre la registrazione audiovisiva dei colloqui svolti
nella fase delle indagini preliminari: la rinnovata disciplina, viceversa, evoca foschi scenari di stampo
inquisitorio, nei quali del fragile e potenziale testi-
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mone si può fare ciò che si vuole, a tutto danno suo
e dell’indagato (12).
Non bisognerebbe mai dimenticare (e non certo per
mero istinto di conservazione dell’esistente), in definitiva, che oggetto del processo penale è l’accertamento del fatto e dell’eventuale responsabilità dell’imputato, nel nostro ordinamento presunto innocente fino alla condanna definitiva. La giustizia penale - come ogni buon navigatore - non può che
aver di mira un unico faro, costituito in secoli di tradizione illuminista e liberale dall’imputato con il
corredo dei suoi diritti. Altrettanto legittimo, naturalmente, guardare in prospettiva non unilaterale alle (molteplici) conseguenze del reato: sempre che,
tuttavia, non si perda la bussola, indispensabile - oggi come ieri - per navigare senza patemi nel mare magnum del processo penale.
Note:
(11) Cfr. C.e.d.u., 10 maggio 2007, A.H. c. Finlandia, in Cass.
pen., 2007, 3938 s.
(12) Le medesime considerazioni valgono per il difensore, qualora intenda avvalersi dello strumento dell’audizione in sede investigativa ai sensi dell’art. 391-bis, comma 5-bis, c.p.p., che impone la presenza dell’esperto in psicologia o psichiatria infantile
e la documentazione nelle forme di cui all’art. 391-ter c.p.p., ma
non prescrive la videoregistrazione.
Diritto penale e processo 8/2013
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