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l`infermiere: vittima o sopravvissuto - counselling
Università degli Studi “Gabriele d’Annunzio”
Chieti – Pescara
FACOLTA’ DI MEDICINA E CHIRURGIA
Corso di Laurea in
INFERMIERISTICA
L’INFERMIERE: VITTIMA O SOPRAVVISSUTO
UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTI
Il Laureando
Il Relatore
Clara Cappelli
Dr.ssa Nadia De Camillis
Anno Accademico
2007 – 2008
I
II
Ringrazio Cinzia, Roberta, Luigi, l’ Ufficio Infermieristico e tutto
il personale infermieristico degli Ospedali di Mirandola e Finale
Emilia.
III
“Comunichiamo quello che
sentiamo,
solo quello che sentiamo
e quello che sentiamo non
può essere nascosto.
Per questo dobbiamo stare
in ogni momento
In contatto con i nostri
sentimenti”
Ramòn Cortés
IV
INDICE
CAPITOLO 1 – INTRODUZIONE
CAPITOLO 2 – SCOPO
CAPITOLO 3 - BACKGROUND
pag. VI
pag. VII
pag. VIII
3.1. La storia dell’infermiere: dall’abnegazione alla
consapevolezza delle emozioni
3.2. Perché si sceglie il lavoro di cura: aspetti psicologici
CAPITOLO 4 - L’INFERMIERE: “VITTIMA O SOPRAVVISSUTO” –
UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTI
pag. XVII
4.1.
Le emozioni e i sentimenti
4.1.1. Le emozioni
4.1.2. I sentimenti
4.1.3. La differenza tra emozioni e sentimenti
4.2. Perché l’infermiere diventa “vittima” delle proprie
emozioni?
4.2.1. Emotivamente in “gabbia”
4.2.2. Burn-out
4.2.3. Aspetti legislativi
4.3. Perché l’infermiere diventa “sopravvissuto”
4.3.1. Autostima e sviluppo delle capacità personali
4.3.2. Intelligenza emotiva
4.3.3. Empatia
4.3.4. Comunicazione ed ascolto
4.3.5. Counseling: un aiuto all’infermiere
4.3.6. Strategie di Coping
4.3.7. Formazione
CAPITOLO 5 - MATERIALI E METODI
pag. LXXIII
5.1. Disegno
5.2. Setting
5.3. Popolazione
5.4. Ricerca e risultati
5.5. Discussione e conclusione
6. BIBLIOGRAFIA
7. ALLEGATI
pag. LXXXIX
pag. XCIV
V
CAPITOLO 1 - INTRODUZIONE
Questo lavoro di ricerca è nato dal desiderio di “comprendere” un importante e trascurato
aspetto della professione infermieristica. Spesso si tende al miglioramento delle abilità
professionali e tecniche, dando grande spazio alla razionalità e si privilegia la
alfabetizzazione logico-formale rispetto a quella affettivo-sentimentale.1 La vita dei
sentimenti, degli stati d’animo degli affetti è vista e vissuta come un ostacolo rispetto alla
logica cognitiva, un potenziale pericolo da arginare, incanalare e circoscrivere. Molti sono
i percorsi formativi che si occupano di aiutare l’ infermiere ad affrontare il paziente in
condizioni critiche e la sua famiglia, ma poco o nulla si è fatto per preparare gli operatori
ad affrontare i propri disagi emotivi. La vita emotiva degli operatori è stata presa in
considerazione solo negli anni Ottanta, quando apparvero in Italia le prime ricerche sul
burn-out, evidenziando così il “rischio” emotivo delle professioni sanitarie.2 Preso atto di
queste uniche certezze e spinta dal contatto con i miei colleghi, le loro paure, la loro
rabbia e le loro difficoltà, ho avuto il desiderio di capire meglio. Mi sono così interrogata
chiedendomi, “ma siamo vittime?”, vittime di noi stessi e dei nostri vissuti. La censura
emotiva ci impedisce di entrare in rapporto con l’esposizione quotidiana alla sofferenza,
generata dall’incontro e dalla vulnerabilità dell’altro, viene sentita come un peso eccessivo
ed intollerabile. Nei servizi è stato perciò assunto un modello di professionalità neutra ed
impersonale.3Questo clima di neutralità è condiviso dagli operatori, che mettono così tra
parentesi il loro coinvolgimento, considerandolo un handicap. Ma a fronte di tutto ciò
siamo in grado di “risorgere” emotivamente e considerarci dei “sopravvissuti”. A mio
parere sì, a patto che ci venga consentita una formazione adeguata, utile al riconoscimento
e all’elaborazione delle nostre emozioni, al rafforzamento dell’autostima e allo sviluppo di
una buona intelligenza emotiva. Per potere dimostrare se siamo “vittime” o “sopravvissuti”
ho elaborato un questionario per favorire momenti di riflessione e di discussione tra gli
operatori, per dar loro la possibilità di “guardarsi” dentro e di andare al di là della logica
puramente cognitiva.
1
Vanna Iori. “Strumenti” Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale “In lista per vivere” e
altre narrazioni autobiografiche tra famiglie e servizi. Guerini studio N° 9 Dicembre 2003
2
C.Cherniss. La Sindrome del Burn-out: lo stress lavorativo degli operatori dei servizi socio-sanitari.
Torino, Centro scientifico torinese, 1983 (2° ed. 1992)
3
Pisana Collodi. Il burn-out:una lettura a spirale, in G. Badolato (a cura), Le donne nelle professioni
d’aiuto. Una ricerca sul burn-out femminile, Torino,Borla,1993 p.47
VI
CAPITOLO 2 - SCOPO DELLA TESI
Indagare il coinvolgimento emotivo degli infermieri nella relazione di
cura
END POINT PRIMARI
- Definire l’infermiere come vittima delle proprie emozioni
- Definire l’infermiere come sopravvissuto alle proprie emozioni
VII
CAPITOLO 3 - BACKGROUND
L’infermiere come professionista è stato indubbiamente preparato, più all’ azione che alla
riflessione4. Intorno agli anni Novanta , anni della svolta, grazie ad una serie di
provvedimenti normativi, viene sancita l’autonomia e la responsabilità dell’infermiere5.
Questi traguardi hanno dato visibilità alla figura infermieristica. La volontà è stata quella di
definire
la base cognitiva, intesa come l’insieme di conoscenze scientifiche, abilità
tecniche e metodologie razionali che allontanassero questa figura da una connotazione di
“mestiere” , avvicinandola invece a quella di professionista della salute. L’introduzione
dell’ Evidence Based Nursing come processo di autoapprendimento ha consentito il
diffondersi di una conoscenza basata sulla ricerca.”L’utilizzo della ricerca può essere
considerato come l’attuazione sistemica nel campo dell’ assistenza di un’ innovazione,
scientificamente fondata e basata sulla ricerca, accompagnata da un processo di
valutazione dei risultati conseguito a seguito del cambiamento” ( Buckwalter 1992).La
ricerca può favorire la conoscenza di fenomeni importanti, tra questi, la vita emotiva
dell’infermiere. E’ con l’apparire del termine “burn-out”,che viene configurata una
condizione di stress lavorativo riscontrabile con maggior frequenza tra i soggetti impegnati
in attività assistenziali: si tratta quindi di una patologia professionale particolarmente
rilevante per l’ area socio-sanitaria6. In un lavoro di cura, fondato sulla relazione tra le
persone e destinato a una persona per il suo benessere complessivo, è forte più che mai,
l’esigenza della cura di sé. Fare ciò che serve all’altro per il suo benessere , come
movimento che serve anche a sé.7
Oggi il lavoro di cura è un doppio movimento: infatti un buon rapporto con la propria vita,
con se stessi, pur nella fatica e nella sofferenza della ricerca, è condizione senza la quale
non si dà luogo a sopravvivenza umana e professionale dinanzi al dolore estremo.8 Chi
svolge un lavoro di cura affronta la necessità di continuare “a sentire”, nel senso che è
impossibile svolgere un lavoro con un alto contenuto di cura senza essere coinvolti sul
4
Professioni Infermieristiche: Aspetti Psico-sociali del Burn-out; 2005
D.ssa Angela Morsiani: Laurea in Scienze Infermieristiche Università di Modena e Reggio E.: C’è
differenza tra badante e un infermiere; 2001 : p.23
6
S.Tabolli, A.Ionni, C.Renzi,C.Di Pietro, P. Puddu: Soddisfazione lavorativa,Burn-out e stress del
personale infermieristico: indagine su due ospedali di Roma; Suppl.Psicologia; 2006: p.49-52
7
G. Colombo, E. Cocever, L. Bianchi: Il Lavoro di Cura: come si impara, come si insegna; Carocci e
Faber: 2001
8
G. Colombo, E. Cocever, L’ Bianchi:Il Lavoro di Cura: come si impara, come si insegna; Carocci e
Faber: Demetrio 2001 p. 20-21
5
VIII
piano emotivo. Ciò che ingombra non è il sentire emotivo; ingombra il fatto che l’emotività
sia invasiva verso di sé. Siamo coinvolti in un lavoro emozionale ma si è ancora un po’
analfabeti rispetto al linguaggio delle emozioni. E’ una delle più forti ragioni per cui è
ormai chiaro che le persone che curano non vanno lasciate sole.
IX
3.1. LA STORIA DELL’INFERMIERE:
DALL’ABNEGAZIONE ALLA
CONSAPEVOLEZZA DELLE EMOZIONI
Il principio di solidarietà è parte integrante della cultura dell’uomo sin dagli albori della
sua comparsa sulla terra. Si parla di assistenza al povero e al malato come condizione
indifferenziata di soddisfazione dei bisogni di base per l’assenza di conoscenze scientifiche
in grado di descrivere, spiegare e prevedere l’evoluzione della malattia. L’assistenza
all’uomo trova la sua ragion d’essere, la sua concretizzazione culturale nel principio di
aiuto, solidarietà, come valore civile di qualsiasi gruppo umano9. L’uomo è da sempre “un
animale sociale” che ha, tra gli scopi essenziali della vita, quello di unirsi formando gruppi
e comunità, più o meno strutturati. E’ perciò dalla comunanza che nascono valori come
l’unione e l’aiuto reciproco e si dà luogo allo sviluppo del concetto di azione assistenziale.
In tale contesto si sviluppa il pensiero di assistenza. E’ rappresentata concettualmente da
quell’insieme di azioni, offerte da persone esterne, che permettono il superamento di
momenti difficoltosi che si presentano nel corso della vita degli individui. Questo aiuto
viene elargito nei momenti fisiologici della nostra vita dal momento della nascita, durante
la crescita, nella vecchiaia e nella morte, ma anche nei momenti patologici della nostra
esistenza, come ad esempio la malattia. E’ importante differenziare i momenti fisiologici
da quelli patologici. Tale differenziazione dà luogo alla diversità tra assistenza generale e
assistenza sanitaria. È da questo concetto che nasce la necessità di creare figure in grado di
fornire un’assistenza, non più fine a se stessa, ma regolata da un sapere, come quello della
disciplina infermieristica. La definizione di un simile pensiero per lungo tempo rimane
incompiuta, è una figura, quella dell’infermiere dal profilo “incerto” non del tutto
legittimata.10 L’ assistenza è inizialmente
affidata a prostitute, ex detenuti, perché
occuparsi dei malati era ritenuto un lavoro “sporco”, “sgradevole”, adatto solo
a
9
Dr.ssa G. Morsiani. 1° Lezione Laurea in scienze Infermieristiche: Che differenza c’è tra una badante e
un infermiere. Università di Modena e Reggio E.; p.1
10
B.Longoni, G.Peducci: Noi ci siamo: guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza; 1997 p.14
X
determinate categorie di persone i ”reietti” della società. Le condizioni igienico- sanitarie
in cui versava la popolazione erano le peggiori, l’instaurarsi di malattie e pestilenze era
all’ordine del giorno. Con il trascorrere dei secoli e alle radici delle professioni sanitarie
sono nate anche associazioni filantropiche guidate da donne, soprattutto nobili e borghesi
che vogliono recuperare un ruolo sociale di utilità. Un notevole contributo viene dato dalle
istituzioni religiose , l’importanza dei centri monastici cresce notevolmente, diventano veri
e propri centri di sviluppo e trasmissione del sapere. Nascono così molti ordini religiosi,
femminili e maschili, che vedono nell’ assistenza al malato un buon modo per dar valore ai
voti religiosi, ma che rallentano la legittimazione dell’attività assistenziale intesa come
assistenza infermieristica, così da accentuare ancora di più l’idea che definisce la figura
infermieristica come figura “debole”.11”(…) in campo (…) assistenziale il personale
sanitario è in gran parte religioso. La formazione, la retribuzione, le competenze di questi
operatori sfuggono strutturalmente a qualsiasi controllo. Si può comunque presumere che
si tratti di persone con forti motivazioni alla dedizione e al sacrificio, disposte ad
occuparsi dei malati, degli anziani, degli handicappati e degli orfani con tutta la buona
volontà e l’entusiasmo che possono derivare da una scelta di spendere la propria vita per
il prossimo sofferente. Questo impegno personale e religioso può supplire a carenze di
competenze e comunque garantisce che ciò che viene messo a disposizione degli utenti (…)
è un aiuto morale “12. Altro elemento che non è stato d’aiuto all’instaurarsi di una
coscienza infermieristica e che ne ha permesso uno scarso riconoscimento, è il significato
simbolico riservato al termine di “cura”, spesso associato, se non identificato, con
l’universo femminile. Il femminile è stato a lungo, e per certi versi lo è ancora, soggetto a
una pesante svalorizzazione, che trova legittimazione nei dualismi che strutturano
l’impianto del paradigma di pensiero prevalente in Occidente. Infatti la cultura Occidentale
è ricca di dualismi concettualmente e radicalmente oppositivi: ragione/emozione,
mente/corpo, materia/spirito ecc. E’ su questi dualismi che grava una sensibile asimmetria,
poiché solo ad uno dei poli è riconosciuto un valore ( ragione, mente, spirito ecc.), mentre
l’ altro è svalutato, addirittura fatto portatore di un valore negativo. Il problema è che la
polarità negativa è identificata con il femminile , e con il femminile è identificato il lavoro
di cura. Inoltre la donna è vista come madre, come colei che ha la vocazione materna,
11
B.Longoni C.Peducci: Noi ci siamo: guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza: 1997 p 14
Olivetti Manoukian, Franca: Stato dei servizi. Un’ analisi psicosociologica dei servizi sociosanitari; Il
Mulino, Bologna 1988, p. 16
12
XI
perciò il risultato è di incatenare le donne nella concetto di offerta che si realizza solo
tacitando il proprio sé per dedicarsi all’altro.13 Molte similitudini si possono fare con la
concezione di lavoro infermieristico che si aveva sino a non molto tempo fa, quando l’
infermiera era vista come colei che doveva donarsi completamente all’altro in una sorta di
spinta vocazionale. A rafforzare questa concezione è stato il fiorire di innumerevoli scuole
a gestione religiosa, che avevano come presupposto di portare avanti il loro ideale di
devozione. Su tali convinzioni che vedevano il “curare” come sinonimo di accettazione,
completa sottomissione, totale abnegazione di sé, è ovvio che l’emotività del curante
veniva messa in secondo piano se non addirittura annullata. L’ infermiera è messa a dura
prova nel rapporto con l’altrui sofferenza: deve sapersi mantenere emotivamente distante,
per essere a completa disposizione di chi soffre, non può permettersi momenti di
riflessione per sé, di ascolto della propria interiorità. E’ il ruolo che ricopre che glielo
impedisce come da sempre le è stato insegnato, è ormai un idea radicata su anni di
pregiudizi del ruolo di chi cura, secondo la Kuhse ” la malattia è il nemico, l’infermiera è
il soldato (…) le virtù richieste sono dunque affidabilità, lealtà (…) e sacrificio di sé “. Ad
accentuare un simile concetto è stata anche la nascita del mansionario nel 1974 che ha dato
forza ai criteri di esecutività, di accettazione del proprio ruolo di inferiorità nei confronti
del medico, ma anche nei confronti di se stessa come figura marginale e come tale
assoggettata anche alle proprie emozioni. Chi, in un tale contesto ideologico, avrebbe
potuto, solo lontanamente, pensare alla propria vita interiore? all’infermiera era chiesto
solo di obbedire a un elenco molto sterile e tecnico di atti e regole ben stabilite, che le
impedivano ogni “fantasia lavorativa” pena l’esercizio abusivo della professione medica.
Ma l’infermiera non può restare sempre “bloccata” in questa immagine di sé, ad aiutarla ad
emergere da questa condizione di “subordinazione” emotiva e professionale c’è
innanzitutto l’ abrogazione del mansionario e della definizione di professione ausiliaria
rispetto a quella del medico. Viene riconosciuta all’infermiere una propria autonomia e un
proprio ambito di competenza su cui poter decidere, pianificare e valutare l’attività svolta.
In particolare si dà nuova importanza alla formazione con la nascita degli ECM. Questa
spinta formativa non ha fatto altro che centrare l’interesse anche su problematiche diverse
da quelle puramente tecnico-professionali. Cominciano a nascere corsi che si occupano di
aiutare l’infermiere ad affrontare se stesso, le proprie emozioni e l’elaborazione dei propri
13
Luigina Mortari: La pratica dell’aver cura , Bruno Mondatori 2006, p. 19-20
XII
vissuti. Questi percorsi formativi aiutano gli infermieri alla consapevolezza di se stessi
come persone inserite in un processo complesso e dai risvolti umani ed emotivi importanti
come quello di cura. E’ un argomento nuovo e di grande importanza che però non ha
ancora trovato i giusti consensi, soprattutto perché è l’infermiere stesso che ancora fatica
ad avere coscienza di se stesso come individuo capace di lasciarsi coinvolgere
emotivamente . Siamo di nuovo ancorati alla vecchia concezione di subordinati e
fatichiamo ad affermarci sia come professionisti che come soggetti inseriti in contesto
molto intricato, in cui ci viene chiesto sempre molto in termini di umanità e sensibilità. Ma
un grande passo è già stato fatto in particolare perché finalmente se ne parla, cosa che non
accadeva prima, si è sempre considerato motivo quasi di vergogna che, chi svolge il nostro
lavoro, possa avere momenti di sconforto e di debolezza, possa insomma, avere dei
sentimenti.
3.2 PERCHE’ SI SCEGLIE IL LAVORO DI CURA:
ASPETTI PSICOLOGICI
Vanna Iori (2003) ha ipotizzato che la scelta del lavoro di cura racchiuda in sé motivazioni
di stampo sado-masochistiche, contenenti elementi predatori, mascherati da motivazioni
ideali. Può apparire come una frase forte, che però crea spunti di riflessione piuttosto acuti.
E’possibile che qualcuno scelga il lavoro di cura, che per certi versi è permeato da elementi
quasi romantici che richiamano al materno, al familiare, per continuare a rivivere
situazioni “quasi perverse” grazie al contatto con la sofferenza altrui. “ E’ rischioso
affrontare il lavoro di assistenza alla persona con un bagaglio di sofferenza personale
troppo grosso “14. Bisogna, inanzitutto, partire dal concetto di cura. Tutti hanno necessità
vitale di ricevere cura e di avere cura, perché l’esistenza nella sua essenza è cura di
14
B. Longoni, C. Perucci: “Noi ci siamo, guida psicosociale per gli operatori dell’assistenza”; 1993 p. 177
XIII
esistere: “Senza relazioni di cura la vita umana cesserebbe di fiorire. Senza relazioni di
cura nutrite con attenzione, la vita umana non potrebbe realizzarsi nella sua
pienezza”15.La cura in ambito sanitario, in particolare nel nursing prende il termine più
appropriato di relazione d’aiuto e Carl Rogers definisce la relazione d’aiuto: “Una
relazione in cui una dei protagonisti ha lo scopo di promuovere nell’altro la crescita, lo
sviluppo, la maturità e il raggiungimento di un modo di agire più adeguato ed integrato
(…); una situazione in cui uno dei partecipanti cerca di favorire, in una o ambedue le
parti, una valorizzazione maggiore delle risorse personali del soggetto e una maggiore
possibilità di espressione”16.La relazione professionale d’aiuto è un rapporto dinamico che
si basa sull’interazione tra due o più persone delle quali una delle due si trova in una
situazione di difficoltà. Chi porge aiuto racchiude in sé interessi e competenze che per
entrambe le persone coinvolte hanno anche dei risvolti emozionali. Chi aiuta necessita di
un’adeguata preparazione sia dal punto di vista tecnico-cognitivo sia psicologico
relazionale. Terminate queste premesse è opportuno continuare a spiegare il perché si è
portati verso una scelta così dispendiosa in termini emotivi come quella dell’infermiere.
Non è mai per caso che si valuta l’idea di optare per un lavoro di cura, c’è sempre una
motivazione che ci spinge. Sappiamo bene di avere delle risorse, dell’energia, dei
sentimenti da investire in un rapporto d’aiuto, oltre ovviamente alle capacità fisiche di
offrire le nostre prestazioni. Allora ci si chiede da dove possa venire tanta volontà.
Certamente dai nostri valori, da ciò in cui crediamo, dall’importanza che ha la vita per noi
e dal ruolo che rivestono le persone nell’ ambito dell’esistenza. E perché scegliere un
utenza così particolare, formata da persone sofferenti, anziane o disabili? Tutto ciò ha
senz’altro radici profonde che vanno ricercate nella nostra storia personale, nelle vicende
familiari, negli incontri che abbiamo fatto e che hanno rappresentato per noi qualcosa
d’importante e significativo. Spesso non è solo una motivazione iniziale di stampo
puramente umanitario a spingerci nella scelta ma anche una motivazione, se vogliamo più
razionale o addirittura casuale. Tali obbiettivi però sono destinati a trasformarsi
in
qualcosa di più profondo che trasforma la logicità in un rapporto di tipo
affettivo/relazionale. Non basta certo una motivazione puramente razionale per riuscire ad
affrontare un lavoro emotivamente così impegnativo. Dobbiamo inoltre renderci conto che
15
Groenhout, 2004, p.24.
G.Artioli, R.Montanari, A.Saffioti: “Counseling e professione infermieristica : teoria,tecnica,casi”;
2004 p.57
16
XIV
essere utili agli altri ha il suo “tornaconto” si viene a creare una situazione di reciprocità. “
In particolare, ciò che può essere a questo livello fondamentale, per un’interpretazione
ingenua e semplicistica, è il livello di consapevolezza relativamente ad un ovvio
coinvolgimento e ad un “tornaconto” nell’azione messa in atto. Lungi dal rivelare una
posizione egoistica, coloro che sono in grado di dichiarare che l’azione messa in atto
risponde anche a dei bisogni propri mostrano una percezione più completa del proprio
agire. (…) si potrà essere tanto più solidali con gli altri, nei termini della reciprocità
sopra descritta, quanto più si darà spazio alle esigenze intime e profonde proprie, che
necessariamente saranno attivate. (…).La posizione di reciprocità vede compresente il
proprio e l’altrui bisogno e spiega l’ambivalenza sempre presente in campo relazionale.
Infatti, se il riferimento solo a sé è sintomo di posizione egocentrica, l’altruismo “puro” è
anch’esso sospetto, perché tende a nascondere l’altra faccia della medaglia: l’individuo è
portato ad attribuire ad “alter” bisogni suoi e a non vedere i propri.17 Può essere
rischioso affrontare un lavoro di cura quando si è particolarmente provati dal punto di
vista emotivo e umano, perché si è portati ad orientare l’azione più verso se stessi, e nel
tentativo salvifico di aiutare gli altri a risolvere i loro problemi si vuole, in realtà, superare i
propri. Quello che viene definito come un’ atteggiamento di “Oblatività coatta”
(compulsive careging) definita in accordo con Bowlby, 198018 come un prendersi cura
intensamente e spesso eccessivamente, del benessere degli altri, con le problematiche
emotive che essa comporta. L’istanza motivazionale a prendersi cura degli altri nell’ipotesi
di Bowlby (1980) è legata ad esperienze infantili di dolore, che vengono affrontate
occupandosi del dolore altrui, piuttosto che elaborando la propria sofferenza , oppure all’
esperienza infantile di richiesta di cura da parte del genitore, incapace o impossibilitato di
fornire lui cura al bambino. In una interessante indagine condotta da Phillips (1997)19 la
tendenza ad occuparsi degli altri è stata per l’appunto messa in relazione ad esperienze
infantili di dolore. Un’altra domanda interessante da porsi unita ad una riflessione è come
mai il lavoro di cura è spesso prerogativa del sesso femminile? Le donne sono gli attori
privilegiati dello scenario della cura gratuita nel loro tempo privato familiare; svolgono
lavoro di cura nei servizi nel loro tempo pubblico retribuito; chiedono servizi di cura per i
17
Bramanti, Donatella : Soggettività e senso nell’agire volontario, 1989,p.160-162
Bowlby J. Attachment and loss, Vol. III Loss sadness and depression. London: Hogard Press; 1973
( Tr. It. Attaccamento e perdita, Vol. III. La perdita, Torino Boringhieri;1983)
19
Phillips P. A comparison of the reported early experiencies of a group of student nurses with those of
a group of people outside the helping profession, 1997; 25: p.412-420.
18
XV
loro familiari ( Colombo, 1995 ). E’ naturale pensare alla donna come colei che si occupa
della cura e biologicamente legata ad essa in quanto madre, essa è naturalmente più
coinvolta emotivamente. Il motore che spinge una donna alla scelta del lavoro di cura è
spesso dovuto alla continuità tra lavoro sociale e lavoro familiare, da ciò deriva il rischio di
un grosso coinvolgimento personale, per cui la fusione tra lavoro e vita privata può
diventare pericoloso perché viene persa di vista la realtà che richiede la scissione dei due
ruoli. Altresì la donna senza famiglia, il più delle volte, sceglie il lavoro di cura perché è
geneticamente predisposta ad occuparsi di qualcuno ed è questa motivazione che la spinge
a canalizzare questo desiderio di famiglia e di maternità nell’espressione della cura. Cosa
spinga poi il sesso maschile a tale scelta può non essere facilmente intuibile. Ancorati
come siamo ai falsi pregiudizi, secondo cui l’uomo rappresenta l’ideale di persona forte,
autosufficiente e virile, tutto ciò si troverebbe in netto contrasto con il lavoro di cura,
inteso sin qui come professione “tutta al femminile”. Senza alcun dubbio, al di là delle
considerazioni pregiudiziali, le motivazioni che spingono l’uomo a tale scelta d’impegno,
sono senz’altro da ricercarsi negli stessi valori che hanno spinto le donne e di cui si è
parlato all’inizio: riconoscere la vita dell’altro come un valore e dare importanza alla
propria storia personale ricca di vissuti e di incontri significativi. La soggettività
individuale, la storia del singolo, i suoi progetti esistenziali si intrecciano inevitabilmente
con quelli professionali motivandone il più delle volte scelte e stili20. I vissuti esperienziali,
presenti in ogni persona con caratteristiche soggettive e oggettive, insieme a fatti spiegati
dalle scienze umane, ne condizionano la vita. Le esperienze dell’angoscia, della precarietà,
del dolore,del tempo, dell’incertezza, dello smarrimento, della tristezza, della gioia, della
paura, della solitudine… sono le esperienze più profondamente soggettive e
contemporaneamente le più universali. Si situano ad un livello di conoscenza “vissuta” che
precede ogni spiegazione razionale.
L’ Erlebnis (il vissuto esperienziale) si configura quindi come “chiave di lettura” basilare
per superare i limiti dell’oggettivismo nell’indagine dei fatti e delle scelte umane,
consentendone una comprensione dall’interno, in quanto vissuti (Husserl, 1981, pp.41).
Comprendere la connotazione emotiva che è presente in ogni esperienza di vita è
necessario per intuire quale sia il progetto e la scelta professionale che si è fatti.
20
V. Iori Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale, 2003 p. 209
XVI
CAPITOLO 4. L’INFERMIERE: “ VITTIMA O SOPRAVVISSUTO”
UN NO AL BURN-OUT DEI SENTIMENTI.
L’ infermiere all’ interno del suo ruolo, come già abbiamo detto, è sottoposto ad un carico
emotivo gravoso e affaticante. Il lavoro di cura o specificamente la relazione d’aiuto
richiedono un enorme dispendio d’energie emotive e risorse personali. Se viene meno la
nostra capacità d’elaborazione e se i sentimenti, piuttosto che la razionalità, prendono il
sopravvento, ecco che siamo di fronte, a quello che viene definito un infermiere “vittima”.
Il coinvolgimento emotivo eccessivo può diventare una trappola invece che una risorsa, se
mal gestito, può travolgerci sino all’inevitabile insorgenza del burn-out. Le “nobili”
motivazioni, che inizialmente ci hanno portato a scegliere un lavoro di cura, vengono meno
e la demotivazione, unita allo scoraggiamento che le accompagna, prendono il posto delle
buone intenzioni. Dobbiamo riuscire con la formazione a vincere ed eliminare la possibilità
che queste situazioni possano insorgere. Certo è la formazione l’unico mezzo che ci è
disponibile, unito alla volontà della consapevolezza. Bisogna impegnarsi affinché questo
accada. La formazione è conoscenza e la conoscenza porta alla crescita dell’individuo
come entità. L’individuo si riconosce e anche l’infermiere nel suo ruolo impara che è una
figura rilevante all’interno dell’organizzazione sanitaria. E’ per questo che ha il diritto di
essere formato, il dovere di informarsi e di crescere, di diventare appunto “sopravvissuto”,
libero di provare emozioni e sentimenti che non lo coinvolgano negativamente, ma che lo
aiutino ad essere migliore per sè stesso come professionista della cura, ma anche per gli
utenti che affronta quotidianamente.
XVII
4.1. LE EMOZIONI E I SENTIMENTI
Ora ci accingiamo a descrivere in modo più dettagliato qual è il significato delle emozioni
e dei sentimenti. Essi sono parte integrante della vita dell’uomo come essere sociale.
Inevitabilmente, all’interno di una relazione tra due o più persone, emergono emozioni e si
sviluppano sentimenti. Sono importanti per vivere e qualcuno li ha definiti “il sale della
vita”. Senza di essi saremmo individui a metà perciò incompleti. Sono indispensabili per
dare motivo e valore alla nostra esistenza. E quale situazione è più idonea per collocare le
emozioni se non quella rappresentata dalle relazioni d’aiuto? In questo contesto che vede
coinvolte diverse figure, l’infermiera, il paziente, i suoi familiari e l’equipe’ è naturale
emergano situazioni dal forte impatto emozionale. Le dinamiche in esso contenute sono
molteplici e consentono in modo inequivocabile l’instaurarsi di situazioni ricche di
emozioni coinvolgenti e spesso destabilizzanti.
4.1.1. LE EMOZIONI
Le emozioni sono una caratteristica presente in tutti gli esseri viventi che implica una
reazione cognitiva e fisica, prevalentemente improvvisa, ad uno stimolo. Quindi, sono
intese come uno stato affettivo di tipo fuggevole.21
I primi studi sulle emozioni sono stati fatti da filosofi o naturalisti. Già Cartesio, nel 1649,
distinse altre qualità umane contrapposte alla razionalità, e cominciò a parlare di emozioni,
“ Le emozioni hanno la funzione di incitare l’anima a volere le cose a cui esse
predispongono il corpo; (…) esistono sei passioni primitive, le altre emozioni sono una
mistura di queste”.22 Per lui sono qualcosa che ci mette in contatto con una serie di
automatismi e di comportamenti più semplici di quelli che - secondo il suo dualismo sono diretti da un’anima capace di risposte di tipo cognitivo, ossia di tipo più elevato
rispetto alle emozioni. Quindi Cartesio introdusse la separazione tra la ragione e
l’emozione. Tuttavia solo nell’ottocento con Charles Darwin, le emozioni acquistano un
rilievo scientifico delineando un modo nuovo di interpretare il cosiddetto rapporto mentecorpo. Egli manifestò il suo pensiero all’interno di un ampio ed accurato trattato dal titolo
21
22
Estratto da internet: http://it.wikipedia.org/wiki/Emozione. Da wikipedia l’enciclopedia libera
S. Obinu: “Cartesio, le passioni dell’anima”, 2003, p.478
XVIII
“ L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali”. L’interpretazione scientifica di
Darwin si basa sulla teoria dell’adattamento, egli sostenne che le emozioni rappresentano
la prima risposta di un individuo all’ambiente circostante, permettendo una pronta ed
efficace risposta dell’organismo in circostanze critiche e assumendo quindi un’importante
significato “adattivo” (concetto utilizzato in campo evoluzionistico) legato alla
sopravvivenza.23
Ritenne che molte delle espressioni facciali avessero un significato
“adattivo”, utile ad esprimere , senza bisogno di parole, lo stato d’animo del soggetto : ad
esempio mostrandosi impaurito poteva segnalare una situazioni di pericolo, utile alla
salvaguardia di se stesso e del clan di appartenenza. Darwin, grazie ad alcuni studi
effettuati su diverse popolazioni indigene, nel tentativo di stabilire se le emozioni fossero
innate o acquisite, arrivò alla conclusione che esisteva una base comune nelle espressioni
caratteristiche di ogni emozione nei vari popoli e che pertanto bisognava ritenere innata
questa capacità. Con le sue intuizioni è stato il primo a creare le basi del concetto di
emozioni, a dar loro un significato e un’ interpretazione in termini di utilità e di
comunicazione.24 A suffragare gli studi di Darwin ci fu anche lo psicologo canadese Paul
Ekman che, insieme a Friesen ed Ellswort si prefissero di studiare: felicità, rabbia, paura,
tristezza e sorpresa, in particolare su alcune popolazioni della Papua Nuova Guinea.
Insieme scoprirono che una caratteristica importante delle emozioni primarie è data dal
fatto che vengono espresse da ogni essere umano in ogni luogo, di qualsiasi cultura ed
etnia, attraverso modalità simili. Da ciò possiamo notare l’importanza che ha il linguaggio
non verbale, che generalmente ha una valenza maggiore di quello verbale, rafforza la
comunicazione, ed è in grado di anticipare quello verbale. Altri ricercatori si sono occupati
di emozioni. James nel 1884, facendo riferimento ai processi neurofisiologici, ha definito
l’emozione come “il sentire” elaborando la “Teoria periferica”, secondo cui un evento
emotivamente coinvolgente darebbe origine ad una serie di reazioni viscerali e
neurovegetative che percepite dal soggetto sarebbero all’origine dell’esperienza emotiva.
Ecco che l’evento emotigeno non è più semplicemente percepito ma anche emotivamente
sentito.25 Al contrario James e Lange producono una “teoria somatica”, secondo cui “ i
cambiamenti corporei seguono direttamente la percezione del fatto eccitatorio, e che il
sentimento dei cambiamenti stessi al loro manifestarsi è l’emozione”. Cannon nel 1927 ha
23
C. Darwin, “Expression of the emotion in man and animals”, 1872
A. Ragaglini, “Psicologia e scienze dell’educazione”,1998, p. 302-303.
25
W. James, “ What is an emotion?”, 1884,9, p.188-205
24
XIX
proposto una “Teoria centrale delle emozioni”.Tale teoria collocherebbe i centri di
regolazione e controllo delle emozioni, non nelle vie periferiche, ma bensì, nella regione
talamica, i cui segnali nervosi, sono in grado sia di indurre le manifestazioni espressivomotorie, sia di determinare le componenti soggettive tramite le connessioni con la
corteccia cerebrale.26 Cannon coniò il termine di “reazione d’allarme” indicata come la
complessa reazione viscerale che avviene in concomitanza alle esperienze emotive e
soprattutto nelle situazioni pericolose per la sopravvivenza e l’integrità dell’organismo,
finalizzata a preparare le migliori condizioni per al lotta o per la fuga.27 Sono apparse in
seguito la “Teoria cognitivo attivazionale” di Schachter del 196228, secondo cui
l’emozione è il risultato dell’interazione fra due componenti: una fisiologica ed una
psicologica, tale concezione individua nell’elaborazione cognitiva un aspetto importante
dell’ esperienza emozionale. Una definizione condivisa dalla maggior parte degli studiosi è
che l’emozione, sia quando viene attivata dall’esterno da stimoli sensoriali, ad esempio il
piacere legato al gusto di un buon pasto, sia quando si manifesta come risposta ad un
evento, ad esempio l’incontro inaspettato con un vecchio amico, sia quando viene attivata
dall’interno attraverso ricordi o processi cognitivi, si presenta sempre come una forza
organizzatrice e propulsiva per pensieri ed azioni successive.
I ricercatori concordano sul fatto che i fenomeni emozionali siano il legame centrale tra
una persona, i suoi bisogni interiori ed il suo mondo esterno. Da alcuni studi recenti fatti da
Robert Plutchik29 le emozioni vengono identificate come otto emozioni primarie, divise in
quattro copie:
-
la rabbia e la paura;
- la tristezza e la gioia;
- la sorpresa e l’attesa;
- il disgusto e l’accettazione;
26
W. B. Cannon, “ The James-Lange theory of emotion: a critical examination and an alternative
theory”, American Jounal of Psicology,1927, 39, p.106-126
27
W.B. Cannon, “Bodily chances in pain, hunger, fear and rage”, 1911
28
S.Schacheter, J.Singer “Cognitive, social and physiological determinants of emotional state”,
Psychological Review, 1962, 69, p.379-399.
29
R. Plutchik “ The nature of emotion”, American Scientist, 2001.
XX
Secondo alcuni autori, dalla combinazione delle emozioni primarie derivano le secondarie
o complesse:
-
l’allegria;
-
la vergogna;
-
l’ansia;
-
la rassegnazione;
-
la gelosia;
-
la speranza;
-
il perdono;
-
l’offesa;la nostalgia;
-
il rimorso;
-
la delusione;
Terminata l’analisi della storia delle emozioni e delle teorie ad esse correlate, ci
accingiamo a ribadire, quanto le emozioni diano colore e sapore all’esistenza, anche se in
una civiltà come la nostra, fondata sulla ragione e il tecnicismo, spesso sono considerate
con sospetto e timore. Non potrebbe essere altrimenti, perché se la ragione permette
all’uomo il dominio su se stesso e sulle cose, le emozioni rappresentano l’esatto contrario,
ci fanno agire d’impeto e sono incontrollabili. Eppure, sono le emozioni a motivare molti
agiti e, se sono positive, ci aiutano a superare il contatto quotidiano con la sofferenza, se
sono negative diventano spunto di riflessione, per se stessi e i componenti dell’equipe.
Possiamo inoltre aggiungere che sono state internazionalmente riconosciute, nelle varie
fasi lavorative dell’infermiere, sei fra le emozioni conosciute : felicità, rabbia, tristezza,
paura, disgusto e sorpresa. Ora di seguito andremo ad analizzarle brevemente.
LA FELICITA’
L’etimologia della parola fa derivare felicità da: felicitas, deriv. felix-icis “felice”, la cui
radice ”fe-“ significa abbondanza, ricchezza e prosperità. La nozione di felicità, intesa
come condizione ( più o meno stabile) di soddisfazione totale, occupa un posto di rilievo
nelle dottrine morali dell’antichità classica, tanto che qualcuno le ha definite come dottrine
etiche eudemonistiche (dal greco eudaimonia) solitamente tradotto come felicità. Epicureo,
XXI
in una lettera sulla felicità a Meneceo, lo ravvisa sul fatto che non c’è età per conoscere la
felicità: non si è mai né vecchi né giovani per occuparsi del benessere dell’anima. La
“Felicità” in quanto “Soddisfazione per la propria vita” rappresenta l’aspetto soggettivo più
importante e significativo della Qualità della Vita. La “Felicità” è un problema che l’
umanità si è posta da molto tempo e come è noto, si trova presente in larga misura in quasi
tutte le formulazioni filosofiche (Donati,1984).29 Dal punto di vista di psicologi, psichiatri
e medici il problema della felicità, che nell’ accezione comune ha una dimensione
squisitamente personale e spirituale, può essere inglobato utilmente nel più ampio concetto
di Qualità della Vita , si può considerare che ne rappresenti l’essenza soggettiva. In sintesi
si può affermare che la maggioranza degli Autori, pur con accenti diversi, accettano,
contrapposto alla Quantità, il concetto di Qualità della Vita con una dimensione
sociologica e una psicologica. Qualità determinata cioè da fattori oggettivi e da fattori
soggettivi, però intrinsecamente interdipendenti o dialetticamente connessi. Secondo
Argyle il maggior studioso di questa emozione, la felicità è rappresenta da un senso
generale di appagamento, Argyle e Martin (1991) definiscono la felicità come uno stato di
gioia e uno stato di soddisfazione. Il primo è un’emozione, il secondo una cognizione,
risultato di riflessione e giudizi di valore.30 La felicità è anche legata al numero e
all’intensità delle emozioni positive che la persona sperimenta e, in ultimo, come evento e
processo emotivo improvviso e piuttosto intenso è meglio designata come gioia. ( D’Urso e
Trentin, 1992). Ma chi è l’individuo felice? Secondo Argyle e Lu (1990) la persona
estroversa è più felice perché ha più rapporti sociali, fa amicizie più facilmente, partecipa
ad un maggior numero di attività pubbliche e collettive dove trova maggiori motivi di
interesse e divertimento. Inoltre la persona felice è anche una persona che sta bene con se
stessa e che ha fiducia nelle sue capacità e percepisce una fondamentale congruenza tra ciò
che è e ciò che vorrebbe essere. Gli stati d’animo positivi possono influire in modo
considerevole sia sul comportamento sia sui processi di pensiero rendendoli maggiormente
adeguati e funzionali alle situazioni di vita dell’individuo. Inoltre, per quanto riguarda gli
aspetti cognitivi, il buon umore ha effetti positivi anche sulle capacità di apprendimento (
Ellis, Thomas e Rodriguez, 1984; Ellis, Thomas McFarland e Lane, 1985).Vi è però da
osservare che l’attitudine alla felicità, alla soddisfazione e all’ottimismo, cioè ad uno stile
29
P. Donati: “Risposte alla crisi dello stato sociale”. Milano: Franco Angeli. 1984.
M. Argyle e M. Martin:”The Psycological causes of happines”. In F. Strack, M. Argyle e N. Schwartz
(Eds).Subjective well-being . p 77-100. Oxford: Pergamon Press.
30
XXII
cognitivo che porta a questi stati psichici, è nella storia di un individuo una caratteristica
assai stabile in età adulta. Secondo le teorie contemporanee ( tra cui Giuliana Proietti) la
felicità è provare ciò che esiste di bello nella vita. Non è un’emozione oggettiva ma una
capacità individuale, non è casuale come un evento del destino ma è una capacità da
scoprire ed imparare. Bisogna imparare ad essere felici.
LA RABBIA
“Come tutte le emozioni, la rabbia non è mai giusta, o sbagliata: c è, e bisogna prenderne
atto, comprenderla, e gestirla al meglio. Chi riesce a mettere la sordina alla rabbia, non
sempre ne ricava benessere, perché si tratta di un segnale molto importante: che qualcuno
o qualcosa sta calpestando il nostro Io ( Dott. Luigi Mastronardi psicologo e filosofo)”
La rabbia è un’ emozione specifica che nasce da un senso di frustrazione, impotenza e
oppressione che si manifesta attraverso aggressività rivolta verso gli altri, se stessi o verso
oggetti. In quanto insita nella reazione primordiale di lotta e di fuga, la rabbia è radicata nei
fondamentali meccanismi della sopravvivenza; essa, come il dolore e la gioia, è una delle
emozioni più precoci.31 Si manifesta quando si ritiene siano stati calpestati i propri diritti o
violati i propri valori. La rabbia quindi è una reazione che consegue ad un determinato
stimolo e si manifesta attraverso l’impellente necessità di attaccare l’oggetto frustrante.
Quando siamo arrabbiati avvertiamo un disagio e una tensione crescente che sentiamo di
dover “scaricare” al più presto per trovare uno stato di benessere, una sorta di acme
raggiunto che deve necessariamente regredire al fine di poter trovare equilibrio. E’ da
considerarsi fondamentalmente un’ emozione distruttiva “Ogni emozione che causa danni
a noi stessi o agli altri è un’emozione distruttiva (…) la rabbia rende ciechi (…)sono le
emozioni distruttive, quelle che limitano al libertà dell’ uomo”32 L’eccessivo sfogo delle
proprie emozioni e il mancato controllo della rabbia può arrecare conseguenze negative a
se stessi e agli altri: prendere tutto come un attacco personale, sentirsi messi in discussione
solo per la scortesia di un familiare, di un paziente o di collega è l’inizio dell’iter che
percorriamo ogni qualvolta si innesca il meccanismo della “rabbia”. “ Ben più gravi sono
gli effetti prodotti in noi dall’ira e dal dolore, con cui reagiamo alle cose, che non quelli
31
Estratto da internet: http://www.medicinalive.com/ psicologia e medicina della mente, 2008.
D.Goleman, T.Gyatso (Dalai Lama):”Emozioni Distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente:
rabbia, desiderio e illusione”, Mondatori, Milano; 2003.
32
XXIII
prodotti dalle cose stesse, per le quali ci adiriamo o ci addoloriamo ( Marco Aurelio,
imperatore romano, 121-180 )”. Una delle tante spiegazioni che si danno alla rabbia è
riferita ad un passato lontano, a fantasmi che appartengono alla nostra infanzia. Secondo la
maggior parte degli studi effettuati al riguardo, i casi più frequenti di mancato
autocontrollo sono stati identificati in soggetti che hanno avuto genitori critici, intolleranti
e svalutanti. La soluzione non è sicuramente accusare mamma e papà, ma nel recuperare il
bambino che è in noi e fargli fare pace con la nostra parte adulta. Il primo passo per cercare
di allearsi con la propria rabbia è ascoltarla bene, e cercare di capire chiaramente il suo
messaggio: dove ci sentiamo colpiti, cosa vorremmo. Una volta definita, con calma, la
posizione che noi riteniamo più adeguata, possiamo affermarla con assertività.
LA TRISTEZZA
Anche la tristezza fa parte delle emozioni primarie, associata generalmente a situazioni di
perdita (simbolica o reale), non solo riferita ad un lutto per la morte di una persona cara,
ma legata anche alla perdita di un ruolo, di un valore morale, alla lontananza improvvisa di
una figura d’ attaccamento importante , un genitore, un fratello ecc. Secondo Izard e
Terrine, uno degli effetti della tristezza è il rallentamento dei movimenti come pure
dell’attività mentale. L’antecedente della tristezza è sempre riscontrabile in situazioni che
comprendono una situazione di separazione e di perdita. La tristezza quindi è un’emozione
negativa, suscitata da un evento spiacevole, dall’incapacità di far fronte alla minaccia o al
pericolo esterno, nonché dalla percezione della propria impotenza. L’espressione “triste”,
caratterizzata da espressione mesta, volto abbassato, rima labiale rivolta in giù e spalle
ricurve, è più fugace
rispetto al sentimento di tristezza. Sebbene l’espressione
caratteristica di questa emozione possa comparire anche per pochi secondi, il sentimento
tende a durare più a lungo.33 La comunicazione della tristezza nella sua forma passiva e
silenziosa, rispetto ad altre emozioni, quali felicità, paura e disgusto segnala uno “stato
nullo di attività relazionale”34, in questo caso la mancanza di attività è essa stessa una
modalità relazionale, allo stesso modo in cui lo sono gli atti di dirigersi, rifiutare e opporsi.
“ Nel comportamento emotivo c’è una continua, mutevole oscillazione tra il lasciarsi
33
34
A. Garrese: “I volti della tristezza: un’analisi psicologica” edito da Liguori
N. H. Frijda: “Emozioni” cit. p.44
XXIV
andare e il contenersi; il reagire e l’agire di propria iniziativa, l’assumere il controllo ed
essere controllati, in risposta agli eventi esterni come anche alle variazioni interne nelle
proprie inclinazioni”35 La tendenza all’azione caratteristica della tristezza comprende, ad
esempio, il sentirsi impotenti che denota l’incapacità di sfruttare le opportunità positive
presentate dall’evento o di affrontare quelle negative; l’ ipoattivazione ( il sentirsi apatici,
senza alcun interesse ). La tristezza con la rabbia, la paura e la felicità, sono emozioni
fondamentali. L’aggettivo “fondamentale” sottolinea il fatto che “nell’uomo queste quattro
risposte emozionali mediano in maniera efficace il rapporto tra organismo e ambiente
permettendo un continuo confronto tra le esigenze biologiche e le esigenze sociali
dell’individuo”36 La tristezza tende a suscitare l’aiuto e il conforto degli altri. Un volto
triste fa nascere in noi, il desiderio di aiutarlo. “ L’espressione della tristezza è un richiamo
automatico per l’empatia e relazioni amichevoli”37 La tristezza sembra un’emozione
socialmente desiderabile, necessaria, specialmente quando si tratta di una grave perdita.
Nel lutto, le espressioni pubbliche di dolore e di tristezza sono previste o addirittura
incoraggiate.38 Pensiamo ad un reparto di degenza ospedaliera dove tutto ciò accade quasi
ogni giorno. Sono diverse le modalità per esprimere la tristezza. Alcuni la manifestano in
modo realistico accettando la perdita ed elaborando il lutto, ma altri, facendo appunto
riferimento a ciò che dice Parkers, rivelano in modo piuttosto visibile il loro dolore
esternando emozioni che vanno al di là della semplice tristezza, che implica rassegnazione
ed apatia, ma mostrando momenti di autentica disperazione unita a vere e proprie
esplosioni di rabbia, perché non si accetta la realtà, specie se la perdita è stata improvvisa e
non si è avuto il tempo per prepararsi ad essa.
LA PAURA
La paura è una delle emozioni primarie importanti per la sopravvivenza. E’ un campanello
d’allarme, una reazione di fronte ad un pericolo. Per l’uomo la paura riveste un valore
ambivalente, oscilla tra istinto ed elaborazione culturale e si colloca nel cuore della nostra
vita psichica divenendo un determinante fattore di crescita o d’involuzione. “Ci serve per
strutturare il nostro mondo e la nostra vita. Chi dice di non avere paura è semplicemente
35
A. Garrese: “ I volti della tristezza: un’analisi psicologica” edito da Liguori. p. 86.
D. Galati “ Le emozioni primarie” Bollati, Boringhieri, Torino 1993, p.41.
37
C.E. Izard “ The Psycology of emotion” cit. p.198.
38
C. M. Parkers, “ Il lutto. Studio sul cordolio negli adulti “ Feltrinelli, Milano 1981.
36
XXV
un incosciente, perché corre moltissimi rischi”(A. Oliviero Ferraris, 2002). Quando
appare, produce una serie di modificazioni corporee che predispongono alla fuga o
all’aggressione. Alterazioni fisiologiche e psicologiche, quali la tachicardia, la produzione
di adrenalina, l’aumento della pressione arteriosa, rendono l’individuo più vigile e pronto a
un intervento, all’azione.39 Secondo Joseph Toynbee “ Una civiltà si sviluppa in risposta
alle difficoltà che pone all’ambiente e alle sfide che l’uomo affronta per superarle: la
paura è uno degli incentivi a cautelarsi, e insieme a mobilitare le forze necessarie per
vincere la partita”. La paura viene confusa erroneamente con l’ansia e l’angoscia, in
quanto le manifestazioni fisiologiche le accomunano, ma mentre queste due emozioni sono
di carattere puramente soggettivo, la paura è provocata da un pericolo oggettivo. La paura
ha diversi gradi di intensità a seconda del soggetto: persone che vivono intensi stati di
paura hanno sovente atteggiamenti irrazionali e/o pericolosi. I diversi gradi di intensità
possono essere:
-
Terrore: rappresentato da un evidente stato di paura, durante il quale un individuo
diventa confuso e viene attanagliato da un senso di elevato pericolo. Questo porta il
soggetto a non riconoscere più il “giusto” e lo “sbagliato”, portandolo quindi a
commettere azioni al di fuori di qualsiasi logica, ma dettate solo dall’istinto.
-
Paranoia: psicosi di paura, relativa alla percezione di essere perseguitati.
-
Panico: è la forma più grave di paura, in cui l’individuo prende coscienza di essere
a rischio di vita imminente ( spesso è causato da una fobia a qualcosa o qualcuno).
La paura peggiore è quella della morte, in quanto è da essa che ha origine la paura stessa,
dalla consapevolezza che siamo persone finite e che un giorno moriremo. E’ un elemento
irrisolvibile che crea tutte le altre paure.(A. Oliviero Ferraris, 2002). Pensiamo a quante
volte nella carriera di un infermiere si presenta l’incontro con la morte, e a ciò che essa
rappresenta in termini di coinvolgimento emotivo. Occorre familiarizzare col tema della
morte ed intendere la morte come un aspetto della vita, vale a dire: non considerare la
morte solo come “oggetto di studio”, ma considerarla come “presenza”, come “processo” e
non solo come un evento. L’evento è qualcosa che capita comunque; il processo è qualcosa
a cui ci si prepara.40 Ecco che la paura, se viene compresa e accettata, può cambiare il
proprio valore, può diventare in un certo senso più sostenibile.
39
40
V.Slepoj: “Capire i Sentimenti: Per conoscere meglio se stessi e gli altri”,1996.p99
O. Bassetti, R.Lesca “ L’Infermiere di fronte alla sofferenza ed alla morte”
XXVI
IL DISGUSTO
Il disgusto è uno stato affettivo negativo evocato da stimoli repellenti. Le teorie
sull’origine biologico-evolutiva di quest’emozione sostengono che il disgusto può essersi
evoluto come una risposta d’accompagnamento al rifiuto di cibo pericoloso per la salute.41
Perciò a differenza delle altre emozioni il disgusto a per stimolo scatenante non un essere
vivente, ma qualcosa di inanimato rappresentato essenzialmente dal cibo. Il disgusto è
considerato un’emozione fondamentale, è riconosciuto universalmente nelle sue
manifestazioni e secondo l’interpretazione corrente ha la funzione di proteggere dal rischio
di entrare in contatto e specialmente di ingerire sostanze potenzialmente dannose. “Si
prova disgusto principalmente di fronte a stimoli sensoriali: vedere, toccare o essere
colpiti dall’odore di qualcosa che ispira repulsione, spinge ad allontanare dal proprio
campo percettivo l’oggetto disgustoso, distogliendo lo sguardo, scotendo le dita o
sputandolo se lo si è già messo in bocca” ( Garotti, 1992). Rozin e Fellon (1987), gli
psicologi che più recentemente hanno studiato l’emozione del disgusto, ritengono che
l’oggetto che scatena questa emozione sia quasi sempre di origine animale; può essere
un’animale vivo e integro ( come ad esempio uno scarafaggio), la parte di un essere
vivente ( come un arto amputato) o pezzi di origine animale ( come il sangue o le budella ).
Inoltre, nonostante si sia rilevato che gli oggetti che ispirano disgusto variano da cultura a
cultura più che da individuo a individuo, ne esistono alcuni, come feci, urine o muco, che
unificano tutti gli abitanti della terra in una repulsione unanime. Purtroppo si possono
cogliere da queste righe, alcune analogie con quella che può essere la sensazione di
disgusto che può essere innescata a contatto con il malato. La professione infermieristica,
da buona parte dell’opinione pubblica viene considerata spiacevole poiché si articola
intorno ad alcune manovre, che vengono considerate
sgradevoli. In particolare
ci
sentiamo dire “…io non farei mai il vostro lavoro…” frase accompagnata da sguardi di
vero e proprio disgusto. Un professionista della cura è abituato a sostituire il disgusto con
la compassione, a capire la situazione di bisogno in cui si trova colui che gli viene affidato.
Ad un infermiere in tali situazioni, sono richieste grande forza d’animo e capacità
41
Prof. D.Grossi Dipartimento di Psicologia Seconda Università di Napoli “Neuropsicologia delle
emozioni”
XXVII
empatiche che spesso impara grazie all’esperienza e che non gli vengono certo impartite
durante il periodo scolastico.
LA SORPRESA
La sorpresa è senza dubbio l’emozione più breve. Lo stimolo fa scattare immediatamente
la risposta. Se abbiamo il tempo di pensare, cioè di valutare a livello cognitivo l’evento,
allora non è più sorpresa. Inoltre la sorpresa è vissuta in modo soggettivo, dipende molto
dal nostro modo di valutare l’evento e dalla nostra disposizione d’animo. Così che di fronte
ad una stessa situazione potremmo arrabbiarci o sorridere. Poiché l’esperienza della
sorpresa è breve, seguita quasi sempre da un’altra emozione, il volto mostra una miscela
delle due emozioni. Così possiamo osservare sopracciglia alzate, che segnalano la sorpresa,
raggentilite dal sorriso che è senza dubbio un segnale di emozione positiva. Oppure le
sopracciglia rialzate della sorpresa possono apparire insieme con la bocca che invece è
stirata indietro, chiaro segnale della paura.42
4.1.2. I SENTIMENTI
La radice della parola sentimento, derivante dal latino medievale, è ancora riconoscibile
con il significato di “sentire”, inteso con un significato diverso da quello conosciuto
odiernamente. Leonardo da Vinci credeva che i muscoli ricevessero il sentimento dai
nervi, o Leopardi che chiamava i sentimenti principali la facoltà del vedere e dell’udire:
erano considerati sentimenti quelli che per noi oggi sono i sensi o le capacità di percepire
sensazioni a livello fisico, mediante gli organi di senso. Oggi il significato di sentimenti
non è più riferito ad una sensazione fisica, ma bensì ad uno stato d’animo, sono le
emozioni che danno origine ai sentimenti.”I sentimenti si producono unicamente quando
un sistema di sopravvivenza è presente in un cervello che ha anche la capacità di essere
cosciente. Nella misura in cui la coscienza è uno sviluppo tardivo dell’evoluzione, i
42
J.A.Russel, J. M.F.Dols, Erickson „Psicologia delle espressioni facciali“
XXVIII
sentimenti sono arrivati dopo le emozioni (…) la capacità di provare sentimenti è
direttamente legata alla capacità di avere una coscienza di sé e il resto del mondo”43.
Kant (1724-1804) fu il primo a collocare il sentimento, accanto alla ragione e alla volontà,
tra le categorie fondanti la qualità umana. Al sentimento in particolare, attribuisce la
facoltà di giudicare un oggetto in base al piacere o dispiacere che suscita: una qualità del
tutto soggettiva, non generalizzabile. I sentimenti sono l’espressione di ciò che ci circonda
e che agisce direttamente o indirettamente su di noi. La maggior parte dei sentimenti è
controllata dal nostro subconscio e perciò ogni elemento esterno ci affligge anche
internamente, cioè una catena logica viene innescata dal nostro subconscio maturando così
risposte logiche non esprimibili con parole ma che si sviluppano all’interno della nostra
mente come concetti. I sentimenti sono qui, in noi, e lì, fuori di noi, e con i sentimenti
dobbiamo confrontarci per conoscere chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo
andando.44 “La facoltà intellettuale del comprendere si dimostra incapace di formulare la
natura del sentire in un linguaggio intellettuale, poiché il pensare appartiene a una
categoria incommensurabile con il sentire (…). A questa circostanza si deve il fatto che
nessuna definizione intellettuale sarà mai in grado di riprodurre, sia pure
approssimativamente,ciò che è specifico del sentimento”45.
4.1.3. LA DIFFERENZA TRA EMOZIONI E SENTIMENTI
La differenza fondamentale è nella durata. Emozioni e sentimenti sono contigui: non è
facile delimitarne i confini. E, tuttavia, si suole distinguere l’emozione dal sentimento per
le sue caratteristiche di breve durata e maggior intensità. Tante e varie emozioni vanno a
comporre un sentimento, ma non lo si può considerare come la semplice somma delle
emozioni, ma la risultante, in perenne evoluzione, di diversi stati d’animo che
interagiscono fra di loro, filtrati di volta in volta dal controllo critico, intellettivo, che
elabora i sentimenti.46 L’emozione come abbiamo già precedentemente chiarito , è fugace,
immediata e improvvisa, solo in seguito, quando entra a far parte di noi, diventa
sentimento. I sentimenti sono stabili, profondi, scaturiscono dal legame tra gli individui e
43
J. Le Doux: “Il cervello Emotivo. Alle origini delle emozioni” Baldini e Castoldi – Milano-; 1999, p.
129.
44
V. Slepoj. “Capire i sentimenti. Per conoscere meglio se stessi e gli altri. “ 1996, p.11.
45
C.G.Jung, “Tipi psicologici” ( Op. vol. 6). Boringhieri, Torino 1969-1993, p.482.
46
V. Slepoj: “Capire i sentimenti: per conoscere meglio se stessi e gli altri” 1996, p.17
XXIX
dai vissuti comuni. Le emozioni possono essere comprate e vendute, attraverso il
divertimento, l’eccitazione la novità il piacere ecc., i sentimenti debbono invece essere
costruiti, e successivamente, difesi.47 Il sentimento ha durata nel tempo perché è guidato
dai nostri valori, dagli scopi che vogliamo raggiungere nella vita. I sentimenti muovono le
persone a scelte e itinerari di vita, emerge la loro facoltà intenzionale, che pesca le proprie
energie nel mondo dei valori esistenziali. Intuitivamente si avverte ciò che è positivo o
negativo per l’individuo e la collettività, sulla base di un sentire che è connesso al piacere e
al dolore, alle radici stesse, corporee e biologiche della vita.
Il sentimento, infatti, oltre che dalle emozioni, è motivato anche da un preciso
orientamento cognitivo sui valori che si attribuiscono all’oggetto, alla persona, alla
situazione per i quali si prova un determinato sentimento. L’emozione va racchiusa nella
sfera irrazionale nell’agito di un individuo, mentre al sentimento viene riconosciuta la
facoltà
di attribuire valore ad un oggetto, una situazione, un evento è perciò da
considerarsi incluso negli agiti della sfera razionale. I sentimenti sono componenti
intelligenti delle vita cognitiva, che possono guidare a una più profonda comprensione
delle cose. Perché la vita della mente, e con essa l’intero nostro modo d’essere nel mondo,
si nutre di sentimenti.
4.2. PERCHE’ L’INFERMIERE DIVENTA “VITTIMA” DELLE
PROPRIE EMOZIONI?
L’infermiere, all’interno del proprio operato, può facilmente diventare “vittima” quando si
lascia coinvolgere in modo inappropriato dal punto di vista emotivo. Si allontana da sé
stesso, non sa gestire ed elaborare le emozioni. Si lascia travolgere dagli eventi quotidiani.
Diventa per molti aspetti una sorta di individuo “incudine”, sulla sua figura si abbattono
innumerevoli eventi. Nel suo lavoro sono presenti molti attori: il paziente, i familiari e i
colleghi, ognuno con il suo bagaglio di problemi, aspettative ed esigenze. Il professionista
della salute si sente spesso solo di fronte a tante sollecitazioni, tende a richiudersi in un
isolamento emozionale che inevitabilmente si ripercuote su ciò che lo circonda, ma in
particolare su se stesso. Cosa ancor più preoccupante è che spesso, tali vissuti, vengono
47
V. Masini: Art. Tratto da “ Gli attentati ai sentimenti“ Counseling psicologico w.w.w.incanta.it
XXX
portati all’interno dei rapporti personali come gli affetti e le amicizie, che invece di
rappresentare un momento di distacco e di evasione, diventano l’occasione di sfogo dei
disagi acquisiti durante la giornata.
4.2.1. EMOTIVAMENTE IN “GABBIA”
La “gabbia” come figura metaforica ci riconduce bene all’idea di limite, un limite che
l’infermiere mette a se stesso se non è in grado di stabilire una giusta distanza emotiva, ma
soprattutto un giusto grado di autoconsapevolezza nei riguardi di ciò che lo circonda. Un
ambiente ricco di vissuti, a forte impatto emozionale, se sottostimati, possono trasformarsi
in una vera e propria prigione destabilizzante e oppressiva che indurisce ed allontana,
favorendo
l’instaurarsi
del
burn-out
emotivo.
Laddove
l’infermiere
attiva
un
coinvolgimento soggettivamente significativo con il paziente per incrementare il lavoro di
cura si può parlare di interpretazione vocazionale della professione infermieristica.48
Situazioni come queste sono difficili da sostenere e in un’ indagine , non pubblicata,
condotta da Benner e Wrubel49 risulta che tra le maggiori preoccupazioni del personale
infermieristico vi sia l’ipercoinvolgimento emotivo, con il rischio di danneggiare il proprio
equilibrio interno. Mettersi in gioco anche sul piano emotivo è utile affinché si crei una
relazione significativa ma ciò non significa sentire dentro di sé il dolore dell’altro, sarebbe
un’esperienza insostenibile, soprattutto perché le persone di cui avere cura sono tante. Così
diceva Amleto all’amico Orazio “ Tu sei sempre stato uno che tutto sopportando nulla
subisce: e con pari animo accoglie i favori e gli schiaffi della fortuna (…) Mostrami un
uomo che non sia schiavo delle passioni e me lo porterò chiuso nell’intimo del cuore”.,
dando valore alla padronanza di sé, ossia la capacità di resistere alle tempeste emotive
causate, in ambito sanitario, dal contatto quotidiano con il dolore e la sofferenza.
L’infermiere rischia di diventare oggetto di veri e propri “sequestri” emozionali, perché è
giusto occuparsi dei bisogni dell’utente, ma anche ascoltare le proprie esigenze, i propri
48
P. Bowden: “ Caring. Gender-Sensitive Ethics” Routledge, London. P.110.
P. Benner, J. Wrubel The Primacy of Caring. Stress and Coping in Health and Illness, AddisonWesley Publishing Co. ,Menlo Park (Calif.) p.373.
49
XXXI
bisogni e desideri. La capacità di prendersi cura
richiede un faticoso lavoro di
elaborazione dei propri vissuti emotivi, fin nelle pieghe più oscure di essi, per imparare
non solo a tollerare il carico emotivo del lavoro di cura, ma anche a utilizzare i propri
sentimenti per meglio comprendere l’esperienza e trovare direzioni di senso del proprio
agire50. Winnicott ritiene che la possibilità di imparare ad avere cura di sé sia
proporzionale al tasso di “ buona cura” ricevuta nei primi anni di vita51. Sentirsi
“manipolati” con cura permette al bambino di godere la continuità del proprio essere.
Quando invece si provoca un disagio corporeo, s’interrompe la percezione del piacere di
essere e si possono procurare esperienze di dolore che rimangono impresse nella carne.
Poiché l’essere umano è un’unità inscindibile di corpo e mente, un buon accudimento del
corpo facilita un buon sviluppo cognitivo ed emozionale. Sono tante le emozioni che
accompagnano il lavoro di cura, emozioni e sentimenti soppressi e sottovalutati che fine
fanno? Questa negazione o rimozione non ammette spazio ai sentimenti, non dà voce alle
emozioni, non attribuisce significato a una parte importante dei compiti professionali e,
soprattutto, alle proprie risorse emotive. Può essere molto pericoloso, per il lavoro di cura,
essere investiti da sentimenti soffocati o ignorati o mal governati, piuttosto che assumerne
consapevolezza. Non riconoscerli e non nominarli può far credere di tenerli sotto controllo,
ma porta certamente a manifestarli in forme non sempre corrette o compatibili con le
funzioni professionali e, soprattutto, con le proprie risorse emotive.52 Il rischio di un
“analfabetismo emotivo”, negato o rimosso con più o meno arroganza, impone i suoi limiti
e le sue gravi insufficienze proprio in quei contesti in cui sarebbe necessario comprendere
le emozioni dell’altro e saper esprimere le proprie, per non restare paralizzati da
incomprensibili problemi di comunicazione,
o per non liquidarli ai danni
dell’interlocutore.53 Nella relazione di cura la gestione dei sentimenti diventa una delle
cose più necessarie, l’operatore va supportato. Abbandonato a se stesso, è spesso privo di
risorse per fronteggiare da solo il rischio dovuto ad un’ emotività mal trattata .
50
L. Mortari: “La pratica dell’aver cura” 2006, p.70
Winnicot, Donald W. “I Bambini e le loro madri” , Raffaello, Cortina, Milano, 1987,p.5.
52
V.Iori: “Emozioni e Sentimenti nel lavoro educativo e sociale”, 2003, p.207.
53
C. Calmieri, “La cura educativa. Riflessioni ed esperienze tra le pieghe dell’educare” 2000.
51
XXXII
4.2.2. IL BURN-OUT
DEFINIZIONE E STORIA DEL TERMINE
Il termine “burn-out” fu coniato per la prima volta nel 1974 da Herbert J. Freudenberger in
un articolo pubblicato sul Journal of Social Issues dal titolo “ Staff e burn-out”, in cui
veniva descritto l’esaurimento fisico ed emotivo sperimentato dagli operatori di una
istituzione psichiatrica. Qualche anno più tardi Freudenberger definì il burn-out uno “ stato
di fatica o di frustrazione nato dalla devozione ad una causa, da uno stile di vita, da una
relazione che ha mancato di produrre la ricompensa attesa”. Nel 1976 Christina Maslach
descrisse il burn-out come “la perdita d’interesse per la gente con cui si lavora” ovvero la
tendenza a trattare i pazienti in modo distaccato e meccanico quando le richieste di lavoro
diventano eccessive. L’anno successivo – in una relazione presentata al Convegno della
Associazione Psicologi Americani ed in un articolo dal titolo “ The Burn-out sindrome in
the day care settino”- l’Autrice definì il “burn-out” come una condizione in cui, dopo mesi
o anni d’impegno generoso, gli operatori si “bruciano”, manifestando un atteggiamento di
nervosismo, di irrequietezza o di apatia ed indifferenza fino al cinismo. Il burn-out
cominciò così a delinearsi come una risposta emotiva ad uno stress cronico caratterizzato
da tre componenti: “esaurimento emotivo”, “mancata realizzazione personale”, e
“depersonalizzazione”. Cherniss, pur condividendo l’idea che il burn-out fosse lo stato di
esaurimento emotivo relativo ad un sovraccarico e una malattia da eccesso d’impegno,
ritenne che tale definizione fosse parziale e insoddisfacente. Egli definì il burn-out come
“una ritirata psicologica dal lavoro in risposta ad un eccessivo stress o insoddisfazione con
perdita dell’entusiasmo, dell’interesse e del senso di responsabilità. Il burn-out sarebbe, in
definitiva, un processo transazionale che consiste in stress lavorativo, esaurimento
dell’operatore e accomodamento psicologico. Un operatore precedentemente impegnato si
disimpegna dal proprio lavoro in risposta allo stress e alla tensione sperimentata. Cherniss
XXXIII
quindi propone un modello di burn-out a tre fasi: lo stress, la risposta emotiva e la
conclusione difensiva.54 Molti altri si sono occupati di definire il burn-out, ma nel 1982
Perlman e Hartman, dopo aver esaminato tutta la letteratura inerente il burn-out dal 1974
al 1980, giunsero a darne una definizione che tenta una sintesi delle precedenti: esso è una
risposta ad uno stress emotivo cronico caratterizzato da tre componenti: esaurimento
emotivo o fisico, ridotta produttività sul lavoro, spersonalizzazione. Nella traduzione
italiana del termine si parla di operatore “cortocircuitato”, “usurato”, o più spesso fuso o
bruciato – esprime con una metafora efficace l’esaurimento dell’operatore e il suo
cedimento psicofisico, all’interno dell’attività lavorativa quotidiana. Prostrazione e
svuotamento, che si esprimono sì a livello fisico, ma in particolare, ci interessano i risvolti
emotivi legati al contatto ripetuto con la sofferenza.
FATTORI
PSICOLOGICI
PREDISPONENTI
(CARATTERISTICHE
DI
PERSONALITA’)
L’ approccio clinico al burn-out non può prescindere, come vedremo, dall’ analisi puntuale
della personalità del soggetto, del suo modo di essere e di rapportarsi a se stesso e agli altri,
del suo stile di vita.55 Si intende per personalità “L’ espressione sempre più compiuta
dell’individuo nelle sue componenti morfologiche e fisiologiche, intellettive, cognitive,
volitive, affettive e sociali, componenti che sono irripetibili nelle loro caratteristiche
soggettive.” ( R. Zonta, 1998 ). Il problema va ricercato anche nella molteplicità e
mutevolezza della richieste e degli stimoli che ci provengono dall’esterno, cui non sempre
si riesce a rispondere in termini positivi. E’ la capacità di adattamento individuale che
viene ad essere sollecitata di continuo. E il burn-out può esprimere senz’altro, in molte
circostanze, questa difficoltà a un continuo adattamento e riadattamento. Si ritiene infatti
che in un contesto, come quello delle helping profession, carico di tensioni e fonti di stress:
anche quando si lavora nelle migliori condizioni possibili, la natura stessa del lavoro
comporta un carico emotivo che può favorire l’insorgenza di una condizione di disagio
psicologico. Nel burn-out esiste la difficoltà di misurarsi con le proprie emozioni e quindi
54
M.L. Bellini,G. Marasso, D. Amadori, W. Orrù, L. Grassi, P.G. Casali, P. Bruzzi: “Psicooncologia”
p.1042-1044.
55
F. Pellegrino:” Oltre lo Stress: burn-out o logorio professionale?”, 2006, p.1.
XXXIV
il non riconoscimento del problema con conseguente sentimento di rassegnazione rispetto
alla vita. E’ questo un modo o meglio un tipo di difesa che consente di attenuare la
sofferenza: spesso si sente dire dagli operatori “così è la vita”, uno slogan questo che
insinua, a lungo andare, in queste persone l’idea che il modo in cui vanno le cose in questo
tipo di lavoro è il modo in cui vanno le cose in tutti i lavori! Non c’è soluzione! Occorre
provare ad ascoltarsi, a guardarsi dentro, a recuperare dentro di sé la motivazione e la
propria capacità di alimentare i desideri. Di fronte alle macerie dei propri ideali è quasi
“normale” sentire il peso del fallimento.56 Tra i fattori predisponesti, di cui occuperemo in
particolare, sono i fattori personali o individuali.
Alcuni tratti di personalità sembrano aumentare la vulnerabilità al burn-out emotivo. In
uno studio condotto da McCraine nel 198857, emersero alcune caratteristiche che rendono
l’individuo più fragile e soggetto all’insorgenza del burn-out :
-
bassa autostima
-
senso d’inadeguatezza
-
disforia
-
preoccupazione eccessiva
-
passività
-
ansietà sociale
-
isolamento dagli altri.
Anche C. Maslach ha provato a definire un tipo di personalità a rischio di burn-out:
Persona debole e non assertiva nel trattare con la gente; è un soggetto sottomesso,
ansioso, teme il coinvolgimento, ha difficoltà nel definire i limiti nell’ambito della
relazione d’aiuto. Questa persona è spesso incapace di esercitare un controllo sulla
situazione e si rassegna passivamente alle richieste che essa gli pone anziché limitarle alla
propria capacità di dare (…).58 Contesti che richiedono oltre ad iniziativa personale,
fiducia in se stessi, impegno, forte assunzione di responsabilità, creatività ma soprattutto la
gestione di situazioni a forte impatto emotivo, rappresentano situazioni in cui il vissuto
soggettivo ( percezione del lavoro e sofferenza che ne consegue) assume una particolare
56
M.Bernardi, A. Condolf: “Psicologia per l’operatore sociale”, 1998, p.76.
E.W. McCraine, J.M. Brandsma: “ Personality Antecedents of Burnout among Middleaged
Physicians”, Journal of Human Stress, 1988, p. 30-36.
58
C.Maslach: “ La Sindrome del Burnout, il prezzo dell’aiuto agli altri” Cittadella editrice, 1992.
57
XXXV
rilevanza. Alcuni soggetti tendono ad attribuire al lavoro significati personali, legati alle
dinamiche di personalità, che possono compromettere l’efficacia
individuale. Karen
59
Horney ha tracciato alcune modalità di base di tipo disadattivo descrivendole
dettagliatamente. Vi sono i tipi espansivi, soggetti che ipervalutano l’attività professionale,
non accettano critiche e non accettano il lavoro altrui, tendendo a sottovalutare le difficoltà
e, se narcisisti , mostrano un rifiuto pregiudizievole nell’ammettere che esistono limiti alle
loro possibilità, non riescono a sentirsi uguali agli altri, sono incapaci di compiere sforzi
affettivi, hanno una bassa tolleranza alle frustrazioni e possono cedere di fronte alle prime
difficoltà. L’arrogante-rivendicativo che appare dominato dalla passione per il lavoro,
tuttavia è inconcludente, sterile, può apparire un lavoratore prodigioso ma nella realtà dei
fatti non riesce ad apportare seri contributi personali. Nelle situazioni serie non regge, si
lascia dominare dal panico. Al contrario delle figure espansive, vi è il tipo remissivo mira
in basso, potrebbe rendere molto ma sul lavoro appare dominato da un ossessionante
sentimento d’impotenza e futilità, tende a soddisfare le esigenze di tutti e a disperdere le
energie. C’è poi il tipo rinunciatario , colui che si accontenta di poco, il suo più grande
ostacolo è costituito dall’inerzia, ma è un’inerzia generale, che pervade gli aspetti globali
della vita; si tratta di persone difficili da stimolare e da motivare. Tali caratteristiche di
personalità comportano uno spreco di energie umane, limitano l’approccio interpersonale e
creano situazioni complesse nei gruppi di lavoro.
Un altro fattore che incide profondamente sulla vulnerabilità al burn-out è lo stile di
attribuzione causale: gli individui infatti possono tendere ad attribuire le cause dei propri
successi o insuccessi, e degli eventi in genere, prevalentemente a fattori esterni o interni.
L’attribuzione delle cause di eventi, risultati e successi personali ad altri, alle circostanze o
al caso ( locus of control esterno), piuttosto che alle proprie abilità, ai propri sforzi e
all’impegno personale (locus of control interno), si rivela maggiormente correlata
all’insorgenza di burn-out ( Maslach, Schaufeli e Leiter 2001).
59
K.Horney: “ Nevrosi e sviluppo della personalità”, Casa editrice Astrolabio-Ubaldini, Roma,1981.
XXXVI
4.2.3 ACCENNI LEGISLATIVI
La legislazione italiana, sino a non molto tempo fa, non aveva previsto articoli che
disciplinavano i cosiddetti “ danni emozionali” come avviene ad esempio negli Stati Uniti.
Accenni sono all’interno della Costituzione italiana ad esempio nell’Art. 32 e in
osservanza all’ Art. 2087 del Codice Civile, rispetto agli obblighi del datore di lavoro, c’è
quello di assicurare livelli organizzativi adeguati e garanti della tutela psicofisica del
prestatore d’opera. Altri organi e in primis l’ INAIL,60 – possono inviare ispettori presso le
aziende e chiedere l’intervento di esperti per la codifica delle condizioni lavorative,
esaminare e valutare le responsabilità dell’azienda e le patologie evidenziate dal
dipendente.61Questo organismo fornisce, in base ad un testo unico, secondo il D.P.R 30
giugno 1965 n.1124, un’indennità o una rendita ai lavoratori che abbiano subito un
infortunio o abbiano contratto una malattia professionale.Va inoltre rilevato che
il
Consiglio di Amministrazione dell’ INAIL nella Delibera. 473 del 26 luglio 2001, ha
messo per oggetto le “ Malattie psichiche e psicosomatiche da stress e disagio lavorativo”
dando probabilmente spazio al burn-out come malattia professionale. Non esistono però
veri e propri interventi istituzionalizzati per prevenire ed intervenire direttamente sui
fenomeni di stress emozionale. Questo chiaramente non significa che certi fenomeni non
esistono, ma che non si manifestano nell’immediato. Con la legge 626/94 e il servizio di
Prevenzione e Protezione, e con l’ Unità Operativa di Medicina Preventiva e Sorveglianza
Sanitaria si sta cercando di aumentare il benessere nei luoghi di lavoro e di eliminare i
fattori di rischio. Questa attenzione nel caso del personale infermieristico è soprattutto
legata a danni derivanti dalla manipolazione gravitazionale e posturale dei pazienti, che
per quanto sia importante per il benessere fisico è irrilevante per il benessere psicologico e
non è l’unico fattore di rischio professionale. L’approccio al burn-out comincia a trovare la
sua giusta collocazione, come evidenzia il Piano Sanitario Nazionale 2006-2008,
60
INAIL, Direzione Generale, Disturbi psichici da costrittività organizzativa sul lavoro. Rischio tutelato e
diagnosi di malattia professionale. Modalità di trattazione delle pratiche. Circolare 71 del17/12/2003.
61
F. Pellegrino: “Il burn-out come malattia professionale”, 2004, 45 (2): p.93-98.
XXXVII
nell’ambito delle patologie derivanti da rischi psicosociali connessi all’organizzazione del
lavoro, ponendosi come malattia professionale emergente.62,63. Un ulteriore segnale di
cambiamento si ha con l’uscita nel Decreto Legislativo 9 Aprile 2008, n. 81. “ Attuazione
dell’ articolo 1 della legge 3 Agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della
sicurezza nei luoghi di lavoro” in cui si precisa – Sezione II “Valutazione dei rischi” Art.
28. Oggetto della valutazione dei rischi : La valutazione di cui all’articolo 17, comma 1,
lettera a) precisa che anche nella scelta delle attrezzature di lavoro e delle sostanze o dei
preparati chimici impiegati, nonché nella sistemazione dei luoghi di lavoro, deve
riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli
riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati
allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre
2004.64 Tali mutamenti legislativi sono un chiaro segnale di un aumentata sensibilità verso
simili problemi e di una rinnovata consapevolezza della loro reale esistenza.
62
Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Elenco delle malattie per le quali è obbligatoria la denuncia,
Decreto 27 Aprile 2004 ( GU 134, 10/06/2004).
63
Ministero della Salute, Piano Sanitario Nazionale 2006-2008, DPR 7 Aprile 2006 (GU 139, 17/04/2006).
64
Supplemento ordinario alla “Gazzetta Ufficiale” n. 101 del 30 aprile 2008.
XXXVIII
4.3. PERCHE’ L’INFERMIERE DIVENTA “SOPRAVVISSUTO”
Può l’infermiere uscire dalla condizione di “vittima” ? Sicuramente questa possibilità
esiste. La formazione è senza dubbio l’arma migliore che ha a disposizione. Attraverso la
conoscenza e la percezione, il disagio emotivo può essere combattuto. Conoscenza,
percezione e successiva elaborazione sono tre condizioni indispensabili al fine della
“sopravvivenza” emotiva. La constatazione del burn-out emotivo deve anche essere letta
come un segnale di insofferenza che spinge al cambiamento, come l’occasione per
fermarsi, cogliere le ragioni del disagio e riorganizzare la propria vita e l’atteggiamento
complessivo nei confronti dell’attività lavorativa65. Diventare consapevoli delle difficoltà e
sapere che abbiamo i mezzi per affrontarle è senza dubbio di conforto e incoraggiamento
come il miglioramento di caratteristiche fondamentali quali: l’autostima, l’intelligenza
emotiva le capacità empatiche, comunicative e di ascolto. Riuscire a sensibilizzare le
istituzioni ospedaliere e coloro che si occupano di attività sanitarie, ma soprattutto renderli
consapevoli dell’esistenza del problema sarebbe un passo nuovo e importante. Un
operatore “rinnovato nell’animo”, che sa di essere persona, avrà un approccio migliore con
tutto ciò che lo coinvolge e di conseguenza anche con il fruitore finale del suo ritrovato
benessere, il paziente. Questo feed-back positivo gioverà ad entrambi, attenuando o
addirittura eliminando l’insorgenza della sofferenza emotiva.
4.3.1. AUTOSTIMA E SVILUPPO DELLE CAPACITA’ PERSONALI
Accade di percepirsi stanchi di tutto e di tutti, si vorrebbe abdicare all’esistenza prima
ancora di qualsiasi valutazione su di essa. La lassitudine è quel sentire in cui trova
espressione il rifiuto di esistere, di assumersi l’impegno di dare forma al proprio tempo. Si
65
F.Pellegrino: “Oltre lo stress :Burn-out o logorio professionale?”, 2006, p.9.
XXXIX
esperisce il sentimento della lassitudine quando ci si sente stanchi di sopportare il peso non
di un solo aspetto della vita, ma della vita intera.66E’ quindi di primaria importanza
coltivare il desiderio di esistere, di esserci nella propria qualità unica e singolare. Imparare
ad avere cura di sé è imparare la passione per la ricerca di quell’ “arte del vivere” che è
essenziale per trovare per la propria esistenza la migliore forma possibile. Diventa perciò
indispensabile coltivare la passione per la cura del sé ossia costruire quegli strumenti
cognitivi ed emotivi necessari a tracciare con autonomia e con passione il cammino
dell’esistenza. Avere cura di sé significa assumersi il compito di dare forma alla propria
esistenza, scartando le occupazioni che farebbero scivolare il tempo della vita
nell’insensatezza.67 E’ importante imparare a conoscere se stessi, perché “ senza sapere chi
siamo non potremmo conoscere l’arte che ci rende migliori (…) La saggezza consiste nel
conoscere sé stessi(…) e conoscere sé stessi significa conoscere la propria anima” (
Platone, Alcibiade primo, 127e). Diventa pertanto di grande importanza e rappresenta una
necessità umana fondamentale lo sviluppo di una buona autostima. L’ autostima è
l’immagine che ognuno ha di sé, che si costruisce sin dall’infanzia che è la risultante di
vari fattori. Rappresenta dunque una valutazione del concetto di sé, una reazione emotiva
che le persone sperimentano quando osservano e valutano se stesse, collegata alle credenze
personali circa le abilità, le capacità, i rapporti sociali, e i risultati futuri. Essa comprende
dunque un aspetto cognitivo ( le opinioni che ognuno ha di sé), un aspetto emotivo ( cosa la
persona prova nei propri confronti), e un aspetto comportamentale ( come la persona si
comporta nei suoi riguardi)68. Essa è un processo, un modo di relazionarsi con la realtà e
rappresenta anche un filtro attraverso il quale la si interpreta. L’autostima ha notevoli
ripercussioni su molti ambiti della vita, su come ci si presenta e si interagisce, sulla scelta e
sulla realizzazione degli obbiettivi, sulle reazioni agli eventi positivi o negativi. Essa è
dunque di fondamentale importanza per la salute psicologica ed è strettamente connessa
ad altri concetti quali l’autoefficacia, l’assertività, il senso di colpa. Molti fattori sono
implicati nel processo di formazione dell’autostima, fattori interni che riguardano gli
schemi cognitivi della persona, la sua visione della realtà e di se stessa, e fattori esterni
dovuti all’ambiente che ci circonda e dai contatti con le altre persone. L’autostima è
dunque un concetto dinamico, continua a modificarsi nel tempo, ad alimentarsi attraverso
66
E.Lèvinas : “ Dall’ esistenza all’esistente”, trad. it., Marietti, Genova , 1997. p.19.
L.Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 11-13.
68
M. Strocchi: “Autostima- Se non ami te stesso, chi ti amerà?”, 2003.
67
XL
le esperienze di vita, i feedback ricevuti e il modo in cui tutto viene vissuto e percepito.
L’individuo infatti sviluppa un’idea di sé sulla base di come viene trattato o giudicato dagli
altri che fanno da “specchio”: l’immagine che rimandano, diventa pian piano ciò che
l’individuo pensa di se stesso.69 Altra definizione dell’autostima è quella portata dal James,
autostima vista come il rapporto tra il Sé Percepito di una persona e il suo Sé Ideale : il Sé
Percepito equivale al concetto di sé, alla conoscenza di quelle abilità, caratteristiche e
qualità che sono presenti o assenti; mentre il Sé Ideale è l’immagine della persona che si
vorrebbe essere. Secondo James una persona sperimenterà una bassa autostima se il Sé
Percepito non riesce a raggiungere il livello del Sé ideale. L’ampiezza della discrepanza tra
come ci si vede e come si vorrebbe essere è infatti un segno importante del grado in cui si è
soddisfatti di se stessi. Purtroppo la diffusa cultura
di “analfabetismo affettivo”
contribuisce a rendere gli operatori della salute meno consapevoli dei propri bisogni,
incapaci di esplicitarli, di tradurli in richiesta e quindi anche di raggiungere quella
consapevolezza necessaria per progettare se stessi. Per produrre il recupero di
progettualità, a partire da una condizione svantaggiosa, occorre sostenere l’infermiere a
riconoscere il proprio valore, potenziando la sua capacità di autostima.
L’ essenza dell’autostima quindi è fidarsi della propria mente e sapere di meritare la
felicità. Se ci fidiamo della nostra mente e del nostro giudizio, è più probabile che
operiamo come un essere pensante. Esercitando le nostre capacità di pensare, mettiamo la
giusta consapevolezza in quello che facciamo e la nostra vita funziona meglio. Tutto ciò
rafforza la fiducia nella nostra mente, se tale fiducia venisse meno ci renderebbe più
passivi, meno consapevoli e perciò meno perseveranti di fronte alle difficoltà. Il lavoro
della stima di sé non sta solo nel fatto che ci permette di sentirci meglio, ma che ci
permette di vivere meglio, di reagire alle sfide e alle opportunità in modo più appropriato e
di sfruttare a pieno le nostre risorse. Il livello di autostima ha profonde conseguenze su
ogni aspetto della nostra vita: ad esempio sul modo di operare nel lavoro, di rapportarci
con i colleghi e con i pazienti. Una “sana” stima di sé porta alla razionalità, al realismo,
all’intuito, alla creatività, all’indipendenza, alla flessibilità, alla capacità di gestire i
cambiamenti, al desiderio di ammettere e correggere gli errori, alla benevolenza e alla
cooperazione.70 Date tali premesse si evince come sia importante, ai fini di una buona
autostima, sviluppare altre caratteristiche quali l’assertività e l’autoefficacia percepita, una
69
70
D.Francescano, E.Giusti: “Empowerment e Clinica” Edizioni Kappa, 1999.
N.Branden: “ I Sei Pilastri dell’Autostima" 1994,p.21
XLI
buona capacità creativa e la resilienza. In termini più pratici, questi concetti,, che
sottendono le potenzialità espressive della persona matura, connotano l’operatore, di un
pervasivo senso di responsabilità che lo porta ad essere identificato sempre di più come
lavoratore
della
conoscenza,
persona
che
gestisce
informazioni,
idee,
abilità
(L.Edvinsson).
L’ASSERTIVITA’
E’ un termine che proviene dal latino, asserere, che significa asserire, cioè affermare con
convinzione e tenacia. Per definire il comportamento assertivo, lo si può immaginare come
il punto centrale di un continuum che presenta, alle due estremità, il comportamento
aggressivo e quello passivo.71 Come comportamento passivo s’intende quello di una
persona che mette da parte le proprie esigenze, i propri diritti, subisce le situazioni senza
apparenti reazioni. Il comportamento aggressivo appartiene alla persona che cerca di fare
in modo che le proprie esigenze ed i propri diritti vengano soddisfatti ad ogni costo, senza
tenere in considerazione le opinioni e le necessità altrui. Il comportamento assertivo
appartiene a colui che considera importanti le proprie esigenze, i propri diritti, bisogni e
desideri e cerca di soddisfarli. Riconosce le proprie e le altrui libertà, non si fa
condizionare da pregiudizi e da influenze ambientali. L’assertività è dunque la capacità
d’identificare ed esprimere i propri bisogni e i propri diritti, le proprie sensazioni positive o
negative, comunicare in modo aperto, onesto, diretto, senza violare i diritti ed i limiti altrui.
Comportarsi in maniera assertiva vuol dire apprezzarsi per ciò che si è, riconoscendo anche
i propri limiti, avere stima di se stessi, assumersi la responsabilità delle proprie scelte di
vita.72 Per sviluppare un giusto processo assertivo serve accrescere alcuni principi quali: la
consapevolezza, l’attenzione, l’autostima, la reciprocità e la fiducia.
- La consapevolezza
è l’elemento fondamentale per creare quel meraviglioso processo
che è la comunicazione assertiva. La consapevolezza sottende al principio che ognuno
comunica ciò che sa e ciò che è.
71
72
E.Giusti: “Training dell’assertività – mai dire sì quando si vorrebbe dire no!” Sovera Edizioni , 1992.
B. Celani : “Counseling Psicologico e Autostima” art. http://psicologia.piùchepuoi.it (2009).
XLII
- L’attenzione è intesa come essere attenti nella comunicazione; in questo caso l’attenzione
può essere anche indirizzata sui propri comportamenti nella relazione, o dell’osservazione
dell’altro o dell’ambiente più allargato.
- L’autostima permette di avere fiducia in noi stessi, d’essere efficaci nelle relazioni
interpersonali . Corrisponde alla misura con la quale una persona si accetta e si approva.
-La reciprocità, la capacità di concentrarsi comunicando le propri idee agli altri, ci
permetterà di realizzare i nostri progetti condividendoli con gli altri, sviluppando
riconoscimento e sentimenti di accettazione reciproca.
- La fiducia pone le basi per sviluppare un progetto con un’altra persona e attivare quei
sentimenti di reciprocità e accettazione esposti prima.73
In sintesi, si può dire che l’assertività, tenendo presenti i propri obiettivi ed interessi, è la
manifestazione più immediata e diretta di emozioni, sentimenti, esigenze e convinzioni
personali. (Giannantonio- Boldorini, 2007).
L’ AUTOEFFICACIA PERCEPITA
Il concetto di autoefficacia (self-efficacy) si deve a Bandura e può essere definito come la
convinzione personale di poter eseguire con successo i comportamenti richiesti in una data
situazione o di produrre determinati conseguimenti. L’ autoefficacia percepita influenza gli
obbiettivi che il soggetto si pone ed è a sua volta influenzata dalle prestazioni e dalle
interpretazioni passate e presenti. La nozione di autoefficacia si fonda sulla stima che
l’individuo a delle sue abilità di riuscire in un determinato compito e si forma anche in
base a previe esperienze di successo e all’osservazione di comportamenti altrui (esperienza
vicaria). Una valutazione ragionevolmente accurata delle proprie capacità svolge un ruolo
importante nel funzionamento di successo. Anzi, i giudizi di efficacia più funzionali sono
probabilmente quelli che eccedono leggermente ciò che si è in grado di fare. Tali
autovalutazioni conducono le persone ad intraprendere compiti realisticamente stimolanti e
forniscono la motivazione per il progressivo auto-sviluppo delle proprie capacità.74
73
74
D. Di Lauro: “L’Assertività- comunicare in modo chiaro ed efficace”, 2008, p.11-16.
E. Giusti, A. Testi: “L’Autoefficacia-vincere quasi sempre con le 3 A” 2006.
XLIII
Bandura ritiene, infatti, che un’irrealistica stima dell’auto-efficacia conduce spesso al
successo, mentre il deprezzamento delle proprie abilità da parte del soggetto predice l’esito
negativo.75
LA CREATIVITA’
Il verbo italiano creare, al quale sostantivo creatività rimanda, deriva dal creare latino, che
condivide con “crescere” la radice KAR. In sancito, KAR-TR è colui che fa (dal niente), il
creatore. Tra le moltissime definizioni di creatività che sono state coniate si segnala, per la
sua semplicità e precisione, quella fornita dal matematico Henri Poincarè: “ Creatività è
unire elementi esistenti con connessioni nuove, che siano utili”. 76 Nuovo e utile illustrano
adeguatamente l’essenza dell’atto creativo: un superamento delle regole esistenti (il nuovo)
che istituisca una ulteriore regola condivisa (l’utile). Caratteristiche della personalità
creativa sono curiosità, bisogno d’ordine e di successo ( ma non inteso in termini
economici), indipendenza, spirito critico, insoddisfazione, autodisciplina. La creatività non
è esclusivo appannaggio di pochi fortunati individui, ma è una qualità presente in ogni
essere umano, a prescindere da quale sia la sua cultura, il suo lavoro. La creatività si
definisce la capacità di attivare funzioni in grado di ottenere l’adattamento alla realtà: sotto
la pressione della frustrazione si tratta di inventare scenari in cui la gratificazione sia
ottenuta nella fantasia o di inventare azioni e concatenazioni di azioni che riguardino
oggetti umani o inanimati.77 La Klein è dello stesso avviso per cui a mettere in moto i
processi creativi sarebbe dunque una mancanza, una sofferenza a cui rimediare per tornare
ad una situazione di equilibrio che sia stata alterata. Per Winnicott, invece, lo stimolo a
creare e le modalità stesse in cui la creazione è concepita non traggono origine da una
situazione di frustrazione né di angoscia per un oggetto danneggiato da riparare, ma
appaiono come il prodotto di una motivazione autonoma, una delle tendenze in cui la
filogenesi ha dotato gli esseri umani, che trova nelle prime relazioni che accompagnano lo
75
A. Bandura: “L’autoefficacia. Teoria e applicazioni” 2000.
Da Wikipedia, l’enciclopedia libera.
77
http//www.lucazucconi.it “Psicologia Oggi” Aprile 2007.
76
XLIV
sviluppo l’occasione per manifestarsi.78 Le caratteristiche peculiari della persona creativa
sono le capacità di un incontro autentico con la realtà, il possesso di una notevole forza
psicologica sufficiente ad una distaccata immedesimazione con la stessa ( sa guardare a se
stesso nelle situazioni reali come se vedesse una terza persona), rivivendola e
assorbendone le forze di vita grazie ad una particolare sensibilità, altro tratto caratteristico
dei creativi, ma inconscia il più delle volte. Vivere per la persona creativa è espandere al
massimo tutte le capacità dell’Io nella loro massima valorizzazione.Questo è vero in modo
particolare per quei creativi con massima apertura alle esperienze della vita, che
possiedono molta sicurezza interiore e una struttura cognitiva molto plastica sia per quanto
riguarda i concetti, le percezioni sia per le ipotesi. Tollera le ambiguità e le informazioni
contrastanti e mai adotta posizioni cristallizzate. Grazie ad una personalità forte e alla
capacità di giudizio indipendente approda alla libertà intellettuale non comune che
consente accostamenti inusuali di idee.79
LA RESILIENZA
La resilienza assume diverse significati in base al contesto in cui è inserita. In psicologia
viene vista come la capacità dell’uomo di affrontare e superare le avversità della vita.
Andrea Canevaro definisce la resilienza come “la capacità non tanto di resistere alle
deformazioni, quanto di capire come possano essere ripristinate le proprie condizioni di
conoscenza ampia, scoprendo uno spazio al di là di quello delle invasioni, scoprendo una
dimensione che renda possibile la propria struttura”.80 La resilienza è la capacità di far
fronte in maniera positiva ad eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria
vita dinanzi alle difficoltà. E’ la capacità di ricostruirsi restando sensibili alle opportunità
78
A.Gennaro, G. Bucalo: “ La Personalità creativa”, 2006, p. 8-10.
R. Ferraresi: “La Persona Creativa- Chi è?”, htt//www.arteit, 2009.
80
A. Canevaro, A. Malaguti, A. Mozzo, C. Venier ( a cura di), “ Bambini che sopravvivono alla guerra”,
2001.
79
XLV
positive che la vita offre, senza perdere la propria umanità. Persone resilienti sono coloro
che immerse in circostanze avverse riescono, nonostante tutto e talvolta contro ogni
previsione, a fronteggiare con efficacia le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria
esistenza e a raggiungere mete importanti. Si può concepire la resilienza come una
funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto con l’esperienza, i vissuti e,
soprattutto, con il modificarsi dei meccanismi mentali che la sottendono. Non è solo
sopravvivere a tutti i costi, ma avere la capacità di usare l’esperienza nata da situazioni
difficili per costruire il futuro. Le caratteristiche della resilienza sono sette:
-
“insight” o introspezione: la capacità di esaminare sé stesso, farsi le domande
difficili e rispondersi con sincerità.
-
Indipendenza: la capacità di mantenersi a una certa distanza, fisica e emozionale,
dai problemi, ma senza isolarsi.
-
Interazione: la capacità per stabilire rapporti intimi e soddisfacenti con altre
persone.
-
Iniziativa: la capacità di affrontare i problemi, capirli e riuscire a controllarli.
-
Creatività: la capacità per creare ordine, bellezza e obbiettivi partendo dal caos e
dal disordine.
-
Allegria: disposizione dello spirito all’allegria, ci permette di allontanarci dal punto
focale della tensione, relativizzare e positivizzare gli avvenimenti che ci
colpiscono.
-
Morale: si riferisce a tutti i valori accettati da una società in un’epoca determinata e
che ogni persona interiorizza nel corso della sua vita.81
81
A. Fiorentini: “ La Resilienza” htt://www.italy-news.net, 2009.
XLVI
In quest’ottica il trauma, rappresenta una sfida che mobilità le proprie risorse interne, oltre
che quelle socioculturali dell’ambiente circostante: non ci si può esimere dall’accettare tale
sfida, perché la vittoria rappresenta il raggiungimento di un equilibrio nuovo e superiore,
rispetto a quello da cui si era partiti.
4.3.2. INTELLIGENZA EMOTIVA
DEFINIZIONE DEL TERMINE INTELLIGENZA
Spearman (1971) ritiene che esista un’intelligenza generale, che comprende varie
prestazioni di pensiero, ragionamento, abilità verbali e numeriche, e una serie più o meno
numerosa di fattori specifici, legati all’esecuzione di compiti particolari (come ad esempio
l’abilità ortografica). Una delle definizioni più esaurienti d’intelligenza ci è data da Piaget
(1947-1970), secondo il quale una delle funzioni chiave dell’intelligenza è generare la
previsione, cioè produrre l’anticipazione del cambiamento e quindi l’azione costruttiva per
realizzarlo o annullarlo. L’intelligenza è comunque il risultato di abilità strettamente
cognitive, quali capacità logiche, di ragionamento, memoria, combinate a tratti di
personalità e altri aspetti non intellettivi quali la concentrazione, la perseveranza, l’ansia,
l’entusiasmo, il controllo degli impulsi e la consapevolezza dei fini che influiscono sulle
prestazioni; tali tratti sono in gran parte indipendenti da qualsiasi abilità intellettiva
specifica. Per questa ragione essi sono più propriamente indicati come fattori non
intellettivi dell’intelligenza. E’ così possibile parlare di: intelligenza verbale, intelligenza
sociale e intelligenza emotiva, con la quale ci si riferisce al riconoscimento delle emozioni
altrui e al controllo delle proprie.82
82
N. Rossi: “Psicologia clinica per le professioni sanitarie” , 2004, p. 78-79.
XLVII
L’INTELLIGENZA EMOTIVA
Molto spesso capita di avere a che fare con persone capaci e intelligenti, ma che allo stesso
tempo si possono mostrare arroganti e incapaci nel relazionarsi in maniera cortese ed
educata con gli altri. Questi soggetti sono privi di quella che in psicologia è chiamata
intelligenza emotiva. L’intelligenza emotiva può essere definita l’intelligenza del cuore .E’
responsabile della nostra autostima, della consapevolezza dei nostri sentimenti, pensieri,
emozioni; presiede alla nostra sensibilità, all’adattabilità sociale, all’empatia, alla
possibilità di autocontrollo. Essere dotati d’intelligenza emotiva significa riconoscere i
sentimenti, così da esprimerli in modo appropriato ed efficace.83 Nel 1994 Daniel Goleman
pubblicava “L’intelligenza emotiva”, in questo testo metteva in guardia da una situazione
di analfabetismo emotivo che si andava profilando negli esseri umani. Goleman non fece
altro che concettualizzare e divulgare in modo comprensibile le ricerche neurofisiologiche
di Salovey e Mayer nel 1990, i quali avevano evidenziato le basi anatomico-funzionali che
indicherebbero l’intelligenza emotiva come meta-abilità. Meta-abilità significa che,
mediante la gestione dell’esperienza emotiva, essa consente di servirsi di altre capacità
superiori. Questa capacità è centrale nel processo di adattamento quotidiano ed è alla base
della salute psichica.84 L’intelligenza emotiva è costituita da cinque abilità , a loro volta
generatrici di capacità operative che aiutano a comprendere più praticamente l’importanza
della presenza o dell’assenza di ciascuna delle cinque abilità principali:
1. Conoscenza delle proprie emozioni. L’autoconsapevolezza - in altre parole la
capacità di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta – è la
chiave di volta dell’intelligenza emotiva. Distinguere e denominare le proprie
emozioni in determinate situazioni; riconoscere i segnali fisiologici che indicano il
sopraggiungere di un’emozione, comprenderne le cause. La capacità di monitorare
istante per istante i sentimenti è fondamentale per la comprensione psicologica di sé
stessi, mentre l’incapacità di farlo ci lascia alla loro mercè. Le persone molto sicure
dei propri sentimenti riescono a gestire molto meglio la propria vita.
83
84
L. Mastronardi Art.“ Psicologia pratica – La rabbia e i suoi effetti” http://www.viveremeglio.org. 2008.
C.Miliacca Art.”Emozioni e Psicosomatica” http://www.videoconf.it/ emozioni o psicosomatica. 2008.
XLVIII
2. Controllo delle emozioni. La capacità di controllare i sentimenti in modo che essi
siano appropriati si fonda sull’autoconsapevolezza. Il controllo degli impulsi e
delle emozioni, dell’aggressività rivolta verso gli altri, e soprattutto verso sé stessi
evita la perenne battaglia contro sentimenti tormentosi. E’ indispensabile imparare
a calmarsi, liberarsi dall’ansia, dalla tristezza o dall’irritabilità.
3. Motivazione di se stessi. La capacità di dominare le emozioni per raggiungere un
obiettivo è una dote essenziale per concentrare l’attenzione, per trovare
motivazione e controllo di sé, come pure ai fini della creatività. Il controllo
emozionale – la capacità di ritardare la gratificazione e di reprimere gli impulsi- è
alla base di qualsiasi realizzazione. E’ indispensabile incanalare ed armonizzare le
emozioni dirigendole verso il raggiungimento di un obiettivo; reagire attivamente
agli insuccessi e alle frustrazioni.
4. Riconoscimento delle emozioni altrui. L’empatia, un’altra capacità basata sulla
consapevolezza delle proprie emozioni, è fondamentale nelle relazioni con gli altri.
Riconoscere gli indizi emozionali degli altri; essere sensibili alle emozioni ed alla
prospettiva altrui. Le persone empatiche sono più sensibili ai sottili segnali sociali
che indicano o i desideri altrui. Questo le rende più adatte a professioni come quelle
dedite all’assistenza.
5. Gestione delle relazioni. L’arte delle relazioni consiste nella capacità di dominare
le emozioni altrui. Negoziare i conflitti tendendo alla risoluzione delle situazioni;
comunicare efficacemente con gli altri. Coloro che eccellono in queste abilità
riescono bene in tutti i campi nei quali è necessario interagire in modo disinvolto
con gli altri.85
E’ naturale che le persone hanno capacità differenti all’interno delle cinque abilità
principali, è probabile che qualcuno non riesca a controllare benissimo la sua ansia ma che
riesca a comprendere e consolare i turbamenti altrui. Saper utilizzare in modo funzionale
nella vita quotidiana queste abilità produce effetti di benessere e successo. Le dimensioni
emotive e affettive non sono dunque di “ostacolo” alla professionalità, ma sono autentica
competenza professionale, risorsa per favorire i cambiamenti nelle pratiche sociali e nella
85
D .Goleman: “Intelligenza Emotiva”, 1996, p.64-65.
XLIX
progettazione dei servizi, per orientarsi nella professione con quell’intelligenza del cuore
che rende significativo il legame tra vita emotiva e vita intellettiva.86
4.3.3. EMPATIA
Abbiamo visto quanto la capacità empatica sia componente importante dell’intelligenza
emotiva, il relazionarsi con gli altri, ma soprattutto comprendere e sentire le loro emozioni,
dare un “peso” un “valore” ai loro sentimenti. All’interno della professione infermieristica,
tale risorsa è importante per interagire con il malato, ma lo diventa anche nel rapporto
con i colleghi. La condivisione dei momenti difficili della giornata, dei disagi interiori
richiede buone capacità di immedesimazione, è un fondersi con l’esperienza altrui che dà
forza e ci impedisce di pensare che siamo soli o inadeguati alla professione. Spesso nella
cura dell’altro si ha paura di essere feriti e così, a volte, ci si trincera, si alzano barriere per
proteggersi dall’incontro e ci si allontana dalla verità. La relazione “io-tu” diviene quindi
luminosa od oscura e lascia entrare o contrasta la solitudine e la con-divisione.(V.Iori
2008). Assumerci la capacità di sentire la realtà dell’altro determina quanto sia importante
l’empatia. Empatia come co-sentire che consente ad un soggetto di avvertire l’altro nel suo
essere proprio. Quando si è capaci di empatia accade che l’esperienza di altri, quindi ciò
che non abbiamo vissuto e che non vivremo mai, diventi elemento della nostra esperienza.
Ma l’empatia non va concepita come il confondersi totalmente con l’altro “ la proiezione
della propria personalità sulla personalità di un’altra persona per comprenderla meglio;
l’identificazione intellettuale di sé stessi con un altro”87, ma con l’opera della Stein, si
esclude qualsiasi forma di identificazione confusiva con l’altro. Essa definisce l’empatia la
capacità di cogliere l’esperienza vissuta estranea, e concepisce l’ atto di cogliere come un
proiettarsi sull’altro ma come accoglienza dell’esperienza estranea. L’altro rimane
estraneo e da me distinto. Empatizzare non significa proiettarsi nell’esperienza altrui, ma
86
87
V. ori, M.Rampazi “ Nuove fragilità e lavoro di cura”, 2008, p.33.
N. Noddings: “Starting at home. Caring and Social Policy” University of California Press, 2002, p.13.
L
insieme: co-sentire.88 L’empatia perciò non è unipatia (L.Mortari, 2006), deve essere
presente la distinzione tra me, e l’esperienza dell’altro, che io accolgo ma che non
rappresenta comunque un vissuto originario. Dobbiamo perciò essere coscienti che non
siamo gli attori dell’esperienza originaria dell’altro, anche se abbiamo ben vivo quale sia
l’essenza del suo vissuto. Il nostro può essere visto come un sentire pensoso.89 Ci si deve
però allontanare da pensieri di onnipotenza, ci deve essere tolta l’illusione di una
comprensione perfetta del sentire altrui, i pensieri efficaci richiedono sempre una certa
capacità di autocritica. Costruire una relazione in cui dell’altro è salvaguardata la
trascendenza significa rinunciare ad ogni forma di potenza e situarsi “in una passività più
passiva di ogni passività”90, deve esserci volontà per un ascolto autentico che lasci libero
spazio all’unicità dell’altro. Come si accennava all’inizio, all’interno del nostro lavoro è
importante interagire con i colleghi di lavoro per consentirci di elaborare i vissuti e creare
quella che viene definita un’amicizia professionale. In questo tipo di relazione amicale i
soggetti coinvolti attivano una comunicazione complessa che si nutre delle esperienze
empatiche di entrambi, cosicché ciascuno, oltre a far risuonare dentro di sè l’esperienza
dell’amico, si attiva per rendere empatizzabile la propria esperienza all’altro; ciò permette
una contemporanea bifocalizzazione dell’attività cognitiva, in quanto impegnata sia ad
esplicitare il proprio vissuto ma anche a comprendere quello altrui91. Diventa perciò
importante che all’interno delle nostre realtà lavorative si creino e coltivino relazioni di
amicizia professionale che facilitino il confronto delle emozioni reciproche.
4.3.4. COMUNICAZIONE ED ASCOLTO
Comunicazione ed ascolto sono intimamente legati fra loro ed acquistano significato
quando è presente anche un coinvolgimento empatico. Al di là dei tecnicismi che richiede
la nostra professione è utile fermarsi a riflettere, allargare le nostre conoscenze ed imparare
88
E. Stein.: “Il problema dell’empatia”, 1998, p.71-84.
L.Mortari: “La pratica dell’aver cura” , 2006, p. 120.
90
E. Lèvinas : “Altrimenti che essere o Al di là dell’ essenza”, 1991, p.20.
91
L. Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 121.
89
LI
a comunicare in modo efficace i disagi, i sentimenti, le emozioni che sono componente
costante della nostra attività quotidiana. La comunicazione è niente se separata dalla
capacità di ascoltare e di empatizzare, si parla infatti in questo caso di “ascolto empatico”.
Saper comunicare in modo adeguato può diventare molto difficile e dare adito a situazioni
destabilizzanti di forte incomprensione, un incrocio di pensieri spesso pregiudizievoli che
danno poi luogo ad azioni scorrette. Tali situazioni possono essere evitate se ad intervenire
è la capacità empatica, e per essere empatici bisogna inanzitutto imparare ad ascoltare.
Stare vicino all’altro con tutto sé stesso, un sé che abbiamo imparato ad accettare perché
solo con questa consapevolezza, che è autoconsapevolezza, siamo in grado di accogliere
l’altro. L’ altro inteso come il compagno di lavoro, che condivide ogni giorno con noi i
suoi dubbi, i dolori, le incomprensioni, i conflitti che vengono a generarsi nel confronto
con la sofferenza. Viene definito anche come il bisogno di “fare rete”92, rendere
condivisibile un sapere, quel sapere che viene dall’esperienza, dando luogo ad una serie di
scambi informali che rappresentano quei vissuti che sono sostegno essenziale alle fatiche
quotidiane.
LA COMUNICAZIONE
La comunicazione è un processo mediante il quale vengono trasmessi messaggi da un
soggetto ad altri. Essa si avvale di linguaggi, che per l’uomo sono rappresentati da una
serie di codici linguistici molto complessi. Dunque il processo del comunicare è
il
passaggio di un messaggio da un’Emittente ad un Ricevente: il Ricevente lancia dei
messaggi di risposta all’Emittente attraverso il feed-back, cioè quel segnale di ritorno che
permette di comprendere quando l’attività comunicativa è arrivata a destinazione e
consente di prevedere il seguito che la comunicazione avrà. E’ quindi un processo circolare
che funziona sulla base di un feed-back reciproco,93 condizionato dal contesto in cui si
esprime e dai canali che si usano. Definita brevemente la struttura della comunicazione, è
possibile ora vederne modalità e proprietà, che vengono dette da Paul Watzlawick,
assiomi.94 Si tratta di principi semplici, evidenti di per se stessi, che tuttavia hanno
fondamentali implicazioni interpersonali.
92
V. Iori: “Emozioni e sentimenti nel lavoro educativo e sociale”, 2003, p. 227.
G. Artioli, R. Montanari, A. Saffioti: “Counseling e Professione Infermieristica”, 2004, p.42.
94
P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D.Jackson: “Pragmatica della comunicazione umana”. pp.41-42
93
LII
Primo assioma è: “Non si può non comunicare”.
Watzlawick afferma che non può esistere qualcosa che sia un non-comportamento; tutti
noi, necessariamente, che lo vogliamo o no, mettiamo in atto dei comportamenti. Quindi:
“…se si accetta che l’intero comportamento in una situazione di interazione ha valore di
messaggio, vale a dire è comunicazione, ne consegue che comunque ci si sforzi, non si può
non comunicare”. La comunicazione è il mezzo che ci fa stare in relazione con gli altri,
mettendo in comune emozioni, sentimenti, pensieri,esperienze, azioni. Ci regoliamo e ci
comportiamo con gli altri in base ai messaggi che ci scambiamo in continuazione e che
influenzano reciprocamente il nostro modo di essere e di agire.95
Secondo assioma: “Si comunica sia con il canale verbale che non verbale”
Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un aspetto di relazione, in modo che il
secondo classifica il primo ed è quindi metacomunicazione. Perciò si intende che una
comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso, impone un
comportamento. Molto spesso è il messaggio di relazione che prende il sopravvento su
quello di contenuto.96 Il canale non verbale è il più potente, attraverso di esso passa il 90%
di ciò che vogliamo comunicare. E’ il canale che esprime con gesti, tono e inflessione della
voce, postura e contatto fisico ed oculare, le nostre emozioni, anche le più profonde, che
non riusciamo ad esprimere a parole.
Terzo assioma: “ La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura delle sequenze di
comunicazione tra i comunicanti”
La “punteggiatura”, cioè l’interpretazione soggettiva che si dà di un messaggio, condiziona
pesantemente, in realtà, il proprio modo di essere, di autodefinirsi e di rapportarsi con gli
altri. Questo assioma indica la necessità di tenere contemporaneamente presente i
comportamenti di tutti i comunicanti. Infatti possiamo dire che ogni comportamento di una
sequenza è lo stimolo per l’evento che segue e, allo stesso tempo, la risposta o il rinforzo
per quello precedente. Così ogni comportamento è causato e causa il comportamento altrui.
95
96
Corso di formazione “Efficacia e cooperazione nella relazione d’aiuto” Padova 10-11 Ottobre 2008.
M.Bernardi, A. Condolf: ”Psicologia per l’operatore sociale”, 1998, p.105.
LIII
Quarto assioma:“ Gli esseri umani comunicano sia con il linguaggio non verbale
(analogico) che con quello verbale (numerico).”
La comunicazione umana si manifesta con forme verbali e non verbali, combinate e
sinergiche, al punto che è difficile distinguere tra gli aspetti verbali e non verbali che si
manifestano nella comunicazione quotidiana e non. La comunicazione verbale è, infatti,
più complessa, ma più flessibile, quella non verbale più immediata, efficace e veloce, ma
talvolta non chiara, perché lascia spazio alle interpretazioni personali. La comunicazione
non verbale è molto più difficilmente controllabile di quella verbale da parte di chi la invia,
mentre è facilmente decodificabile per chi la riceve.
Quinto assioma: “Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari a
seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza”
Si ha una comunicazione simmetrica quando entrambe le parti sono sullo stesso piano,
l’una tende a rispecchiare il comportamento dell’altra, senza che ci sia chi prevale e
domina e chi, invece è sottomesso. Tra i due interlocutori può esserci una collaborazione
equa, ma anche una competizione antagonistica, proprio perché si pongono in una
posizione di parità. Nella relazione complementare, viceversa, una delle due assume una
posizione superiore rispetto all’altra. Tra i due interlocutori può esserci integrazione
reciproca o squilibrio problematico, proprio in quanto ognuno sceglie una collocazione non
paritetica. Entrambi i tipi di comunicazione possono essere funzionali ed efficienti, ma
possono essere anche problematici e disfunzionali, ciò dipende dalla elasticità o rigidità
con cui vengono gestiti.
Date le premesse possiamo stabilire che perché una comunicazione sia efficace bisogna97:
97
-
Curare e modulare sia il contenuto che la relazione, il canale verbale e non verbale.
-
Parlare chiaramente
-
Esprimere uno stesso concetto in modi diversi secondo l’interlocutore e il contesto
-
Usare in modo efficace anche il silenzio
-
Ascoltare e osservare le reazioni dell’interlocutore per capirne le reazioni
-
Saper utilizzare quanto emerge
Corso di formazione “ Efficacia e cooperazione nelle relazioni d’aiuto” Padova, 10-11 Ottobre, 2008.
LIV
L’ASCOLTO
All’interno della comunicazione non è importante solo dare messaggi, ma è fondamentale
anche saperli ricevere, mettersi nella posizione di colui che ascolta: il ruolo dell’ascoltatore
è la verifica della propria disponibilità a porsi in questa posizione. All’ interno della
relazione, possiamo riconoscere diversi benefici che l’ascolto efficace può portare: si
ottiene la comprensione del messaggio ricevuto, si ascolta un significato che va oltre le
parole, si favorisce l’empatia e il feed-back, si stimola l’altro a continuare l’interazione.98
Per Rogers l’ ascolto ”equivale a percepire non solo le parole ma anche i pensieri, lo stato
d’animo, il significato personale e persino il significato più riposto e inconscio del
messaggio che mi viene trasmesso dall’interlocutore”, l’ascolto diventa perciò, incontro
profondo con l’altro, un sentire solo la sua voce, annullare ciò che ci circonda. Il vero
ascolto diventa valido solo nel silenzio di tutto il resto. L’ascolto autentico, l’accoglienza
emotiva, senza giudizio,dei sentimenti e delle emozioni dell’altro. E’ necessario mettere in
atto, la sospensione del giudizio, per poter accettare l’altro per quello che è. Dobbiamo
imparare a fare in modo che il nostro giudizio, a volte inevitabile, non interferisca più di
tanto nella relazione. Bisogna inoltre costruire un estremo rispetto per l’altro: noi siamo lì
perché il collega ha bisogno, non il contrario e il rispetto per lui, per il suo modo di vivere
gli eventi, va
mantenuto ad ogni costo. Farsi ascoltare diventa necessario quando
l’incontro con la sofferenza diventa quotidiano, è l’incontro- scontro con noi stessi, con ciò
che siamo e che siamo stati, a rendere indispensabile una richiesta d’aiuto. Saper ascoltare
richiede inanzitutto una buona consapevolezza di sé, unita allo sviluppo delle capacità
relazionali. Non si è in grado di ascoltare quando non siamo capaci di ascoltare il nostro
dolore interiore, il nostro passato determina il nostro porci di fronte al presente. La persona
ha dei vissuti dolorosi, ma se impara a riconoscerli e a fare di essi degli strumenti per
riconoscere e comprendere l’altro, può creare un incontro che ha dei risvolti positivi in
termini di emotività. Le esperienze di gioia, dolore, paura, incertezza danno luogo allo
sviluppo di “risorse guaritrici” che possiamo condividere con coloro che collaborano con
noi ogni giorno. Mettersi nei panni dell’altro va visto nel senso di “mettersi con l’altro”:
dobbiamo valorizzare ciò che la persona porta, il suo vissuto, i suoi sforzi, il suo stesso
chiedere aiuto e il suo porsi in discussione.
98
G. Artioli, r. Montanari,A. Saffioti: “Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.43.
LV
IL SILENZIO
In una relazione di reciprocità come quella della comunicazione, oltre all’ascolto, diventa
di grande importanza il silenzio. Il silenzio è ricco di significati e spesso diventa una
esplicita richiesta di aiuto. E’ in grado di spaventarci e ci trova impreparati, il silenzio ci fa
paura, tendiamo a riempirlo in ogni modo. Esso va di pari passo con l’ascolto e ne fa parte,
bisogna consentire a chi ci è di fronte di avere spazio per i suoi pensieri, di poter trovare
tempo e modi per esprimere ciò che sente. La formazione al silenzio ha inizio alla presa di
contatto con se stessi per scoprire ed incontrare la propria interiorità “ Le pause di silenzio,
in un colloquio, hanno una misteriosa solennità: concedono alle frasi dette di riposare dal
loro significato, e a entrambi gli interlocutori di riascoltare in silenzio e di approfondire
nella loro eco, sia che dicano gioia, sia che dicano dolore (…)”
99
. Il silenzio diventa
quindi una forma di rispetto verso l’altro, è uno spazio entro il quale si possono
racchiudere molte domande e preparare altrettante risposte. E’ un tempo per se stessi, ci
mette in contatto con il nostro mondo interno, e ci rende possibile un modo personale e
profondo di vivere il rapporto con noi stessi e gli altri. Il silenzio è paragonabile ad un
rifugio in cui noi troviamo il modo per proteggerci dai disturbi ambientali, è un riparo
sicuro in cui possiamo elaborare i nostri pensieri per poi esternarli con serenità. Così
inteso, il silenzio appare come una dimensione spirituale della persona
condizione per promuovere l’unità e l’utilizzo di tutte le risorse interiori.
99
e come una
100
J. Dugger: “Le tecniche di ascolto”, Franco Angeli, Milano, 1999.
G.Artioli, R.Montanari, A.Saffioti: “ Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.51.
100
LVI
4.3.5. COUNSELING: UN AIUTO ALL’INFERMIERE
Il counseling psicologico è un intervento d’aiuto specifico e specialistico, offerto da un
professionista ad un cliente che si trova in una situazione di conflitto o di difficoltà. I
problemi che presenta possono essere di varia natura e/o collegati alla propria crescita
personale. Grazie a una relazione basata sull’ascolto e sulla facilitazione della
comunicazione, il counselor aiuta il cliente ad approfondire e a riconoscere la sua
situazione, ad affrontare le scelte e i cambiamenti necessari per risolvere il problema e
proseguire nella crescita personale.101Il counseling è tuttora insegnato e utilizzato come
strumento nell’attività di cura, “ (…) le sue finalità appartengono al mandato professionale
dell’infermiere in quanto assistere significa sia “stare con” che “esserci”. Care, “occuparsi
di”, “prendersi cura”, sinonimi e specificazioni di “assistere”, implica vicinanza,
prossimità, alterità, quindi relazionalità, contatto, presenza, non abbandono e non
indifferenza “102. L’attività di cura che offre l’infermiere, sappiamo che comporta
dispendio di forze: l’offrirsi inteso spesso come annullamento del sé, comporta
l’accrescimento di angosce, di domande a cui
vorrebbe dare una risposta. I pensieri
diventano tanti, chiediamo troppo alle nostre capacità emotive. Ormai è noto, molti di noi
non sono pronti ad affrontarsi, perché è con noi stessi che abbiamo a che fare ancor prima
che con gli altri. La cura richiede che si impegnino molte energie fisiche, cognitive e
affettive. Per questa ragione c’è chi vede nella cura il rischio di un’ emorragia d’essere, di
una perdita di sé per un eccessiva attenzione all’altro. La buona cura è quella in cui,per
entrambi i soggetti della relazione, non c’è perdita di sé ma guadagno d’essere, e questo è
possibile solo se chi ha cura si prende anche cura di sé.103 Aristotele insegna “…che non
c’è amicizia dell’altro se non c’ è l’amicizia per sé, perché per poter essere capaci di
volere il bene dell’altro, si deve amare soprattutto sé stessi”. Solamente avendo cura di sé
si può coltivare la propria umanità. Anche chi ha cura è vulnerabile, poiché il
101
V. Calvo: “Il colloquio di counseling”, 2007, p.11.
G. Artioli, R.Montanari, A. Saffioti “Counseling e professione infermieristica”, 2004, p.85.
103
L.Mortari: “ La pratica dell’aver cura”, 2006, p.80.
102
LVII
coinvolgimento emotivo, la partecipazione intensiva alla situazione dell’altro, lo
espongono ad una situazione di analoga vulnerabilità. L’operatore perciò dovrebbe
imparare a chiedere aiuto, esplicitare le sue fragilità, ma spesso, aspetta di giungere a
situazioni estreme. E’ più facile chiedere di essere aiutati per problemi di ordine pratico,
piuttosto che per problemi relazionali o psico-affettivi, accettare di essere bisognosi d’aiuto
è molto difficile, in particolare per chi svolge la nostra professione. La domanda d’aiuto è
sinonimo di debolezza, si teme di essere “etichettati”, particolarmente in questo ambito,
quello psicologico, come persone “folli” e la resistenza alla richiesta di aiuto è alta . Ecco
che il counseling, nel suo significato più puro, dall’etimologia latina di consulo, significa
venire in aiuto, avere cura di.... E’ quasi un “consolare”, uno stare accanto, che diventa
quanto mai adatto ad essere utilizzato come mezzo per sostenere l’infermiere a superare i
suoi dubbi. Di Fabio da una chiara definizione di counseling “Il counseling è un intervento
psicologico finalizzato a migliorare il benessere individuale e ad incrementare le abilità
personali per aumentare il funzionamento adattivo dell’individuo sia a livello personale
che interpersonale, perfezionando e implementando la qualità della sua vita. E’ un
intervento d’elezione per il potenziamento, la riorganizzazione e la mobilitazione delle
risorse personali e per il fronteggiamento, la risoluzione e il superamento di crisi (non
patologiche), siano esse evolutive o accidentali. Pur rimanendo primariamente un
intervento individuale centrato sulle peculiarità del versante comunicativo e della
relazione, può giovarsi di particolari applicazioni in un contesto gruppale e/o di estensioni
all’ambito organizzativo”104 Proprio perché non ha obbiettivi terapeutici, curativi o
ricostruttivi, ma cerca soluzione a problemi di vita e situazioni di normalità, il counseling è
considerato da alcuni come un modo efficace a disposizione di varie figure professionali
per offrire un aiuto a chi lo richiede, nei più diversi ambiti e contesti lavorativi.
CARATTERISTICHE FONDAMENTALI DEL COUNSELING
-
Il counseling è un intervento d’aiuto. Esso
indica “ (…) una molteplicità di
interventi, accomunati dall’intento di offrire, a soggetti che si confrontano con
situazioni conflittuali o con problemi di varia natura, un’occasione di comprendere
104
A. Di Fabio: “Counseling e relazione d’aiuto. Linee guida e strumenti per l’autoverifica”, 2003, p.
41.
LVIII
la propria situazione in modo più chiaro (…)”105. E’ la capacità di porsi in termini
sinceri e genuini verso la persona che richiede aiuto, perciò di avvicinarsi con
onestà.
-
Il counseling si fonda sul concetto d’incontro, comunicazione e relazione tra due o
più persone. Richiede abilità e strategie comunicative. Il counselor deve creare un
clima relazionale centrato sull’ascolto attivo, empatico. Deve mettersi sulla stessa
lunghezza d’onda dell’interlocutore.
- La relazione è finalizzata ad aiutare il cliente“ aiutare le persone ad aiutarsi” ( Di
Fabio, 1999). Come dice Carl Rogers, viene enfatizzato il ruolo attivo della
persona che cerca per prima di farsi aiutare nella ricerca di soluzioni alle proprie
difficoltà. Il counseling mira all’attivazione e alla riorganizzazione delle risorse
esistenti nella persona.
- Il counseling può essere utilizzato per insegnare al cliente ad affrontare diversi
problemi e difficoltà. Ha il compito specifico di abilitare il cliente a prendere una
decisione riguardo a scelte di carattere personale relative a problemi o difficoltà
speciali che lo riguardano direttamente.106
Il counseling quindi serve principalmente a promuovere il benessere della persona, a
renderla capace di assumersi responsabilità in quanto essere autonomo. Guida al processo
di autoesplorazione attraverso il vissuto emozionale,nel qui e ora e permette di acquisire
quella consapevolezza che conduce al contatto chiaro tra il sé e l’ambiente. Consente,
attraverso l’aiuto del counselor, di ricontestualizzare ovvero
offre la possibilità di
sviluppare una diversa visione che cambi il significato dell’evento, aiuta a non vedere il
problema secondo la prospettiva di chi ha ragione o chi
torto, stimolando la
trasformazione delle posizioni irrigidite. Questa viene detta anche riformulazione che
consiste nel ridire, con altre parole, in modo più conciso o più chiaro, ciò che l’altro ha
appena detto, ricercando l’accordo da parte del soggetto (Mucchielli,1983). Il counseling
aiuta a confrontare ciascun soggetto con quegli aspetti della personalità che non vengono
percepiti, favorendo l’ascolto dell’altro e di noi stessi, sviluppando un apprezzamento più
empatico dell’esperienza interna. Per queste sue caratteristiche di immediatezza e
105
P. Valerio: “ La psicologia di counseling.” , 1997, p. 154.
J. Burnett: “What is Counselling?, in Counselling at work” a cura di A.G. Watt, London, Bedford
Square Press., 1977.
106
LIX
semplicità, in quanto è sufficiente anche un solo incontro, il counseling si presta molto
bene, per essere usato come strumento di aiuto all’interno dei servizi sanitari. E’ privo di
quelle connotazioni psicoanalitiche che spaventano, allontanano e creano non poche
resistenze spesso associate alla precarietà della psiche.
4.3.6. STRATEGIE DI COPING
Il processo di coping è principalmente coinvolto nel processo di adattamento a situazioni
stressanti. Secondo Lazarus è “avere la meglio sugli eventi” e cioè in inglese , quello che
viene definito come coping: “ l’ insieme dei tentativi per riuscire a controllare gli eventi
ritenuti pericolosi o superiori alle mie risorse”. Siamo noi quindi a dare coloritura alle
situazioni stressanti, “ non è tanto importante quello che ci accade, quanto il modo in cui
noi lo interpretiamo” (Selye). Diventa rilevante la nostra capacità di valutare un evento
“l’operazione mentale che ci fa dare all’evento un significato soggettivo, personale; è la
mia sensazione che sia in pericolo qualcosa d’importante, ed è anche il calcolo delle mie
risorse per affrontare e diminuire il pericolo” (R. S. Lazarus). Si è portati perciò a
chiedersi se sia a rischio il nostro benessere personale, la nostra emotività, pertanto siamo
istintivamente guidati a proteggerci da queste minacce attuando in modo personale alcune
strategie di coping. Pertanto il concetto di coping, entra in gioco quando una situazione
viene percepita come stressante allo scopo di attivare la persona a cercare di fare qualcosa
per dominare l’evento e per controllare le proprie emozioni. Ma quando l’individuo viene
posto di fronte ad un evento stressante non è solo, ma è inserito nel contesto in cui vive.
Quindi si pone l’attenzione su una visione olistica dei problemi e degli eventi stressanti,
mostrando come questi siano inseriti e radicati nel contesto sociale. Questa posizione ci
riporta al modello sociocontestuale di Berg (1998), che studia il processo attraverso cui gli
individui in connessione con gli altri affrontano gli eventi della vita, costituendo un’unità
sociale che va oltre alle proprietà dei singoli individui. Alla luce di queste considerazioni il
coping può essere pensato come un costrutto multidimensionale e un processo che
coinvolge più livelli: emotivo, comportamentale, valutativo e sociale. Infatti, oltre
LX
all’ambito esclusivamente individuale e personale, il coping interessa anche il gruppo
sociale in cui è inserito: i colleghi, la famiglia, gli amici e quindi l’equipe in cui
l’infermiere lavora. In questa prospettiva, il ruolo degli altri e del contesto sociale assume
valenze specifiche non solo di semplice risorsa od offerta di sostegno, ma come
componente fondamentale che interviene a definire il costituirsi stesso del processo di
coping. Le strategie di coping dette anche di “fronteggiamento” seguono stili individuali,
anche se meno stabili e rigidi rispetto ad esempio ai tratti di personalità, possono essere
distinte almeno quattro strategie riconosciute107 :
•
Coping centrato sulla soluzione del problema, caratterizzato dal tentativo di
affrontare la situazione problematica, cercando le soluzioni più adeguate e facendo
ampio ricorso a risorse ed esperienze personali ( ad esempio “Cerco di trovare
soluzioni efficaci”, “ Opero con i mezzi che ho a disposizione”).
•
Coping centrato sulla richiesta di supporto sociale, caratterizzato dalla tendenza a
ricercare il sostegno, il consiglio e l’aiuto di altre persone per risolvere la situazione
problematica ( ad esempio “Cerco aiuto tra i colleghi” o “ Mi consiglio con un
collega che stimo”).
•
Coping centrato sul disagio emotivo, caratterizzato dalla tendenza a reagire
fortemente a livello emotivo di fronte al problema e dall’incapacità a gestire e
controllare adeguatamente le proprie emozioni ( ad esempio “Ho difficoltà a
controllare le mie emozioni” e “Entro in uno stato di forte agitazione”).
•
Coping centrato sull’evitamento del problema, caratterizzato dalla tendenza a
tentare di eludere la situazione problematica a livello cognitivo o comportamentale
( ad esempio “Evito di pensarci” e “ Delego la soluzione del problema a un mio
diretto superiore”).108
Le strategie di coping, che comprendono la soluzione del problema e la richiesta di
supporto sociale, hanno il tentativo di trasformare l’evento stressante in un compito più
padroneggiabile o addirittura in una sfida professionale. Questi atteggiamenti proteggono
l’infermiere dal burn-out emotivo. Al contrario strategie come la fuga e l’espressione del
107
N.Rossi: “Psicologia clinica per le professioni sanitarie”, 2004, p. 254.
Art. “ La valutazione dello stress e delle strategie di coping di medici e infermieri, attraverso l’Healh
Professions Stress and Coping Scale” ,2006 http://www.giuntios.it/items/showArticolo
108
LXI
disagio di fronte all’evento e, l’evitamento con auto colpevolizzazione, predispongono
all’insorgere del burn-out emotivo. Evitare quindi situazioni difficili da gestire,
rimandandole nel tempo o lasciandole ad altri, si rivela in ultima analisi dannoso per
l’operatore, che vede aumentare i suoi livelli d’ansia e insoddisfazione, tanto da non
riuscire più a gestirsi. L’infermiere si trova a fronteggiare svariate situazioni che mettono a
dura prova la sua capacità di dirigere, più o meno adeguatamente, le strategie di coping
acquisite. Gli eventi più frequenti sono:
•
L’emergenza clinica, relativa a situazioni di elevata emergenza in cui è in pericolo
la vita di un paziente.
•
Relazioni problematiche con pazienti e familiari, si riferisce a situazioni di
contrasto con il paziente e i suoi familiari tanto da rendere difficoltoso e ricco di
ostacoli il regolare svolgimento dell’attività lavorativa.
•
Attacco personale, si riferisce ad attacchi personali da parte dei colleghi, dei
superiori, del paziente o della sua famiglia, ancor peggio se immotivati.
•
Svalutazione personale, riguarda situazioni in cui l’infermiere ha la netta
sensazione che le proprie richieste, i suoi suggerimenti e le necessità di
formazione non vengano ascoltati.
•
Imprevisti organizzativi, relativi a situazioni d’improvvisa difficoltà sul versante
organizzativo che compromettono il normale espletamento delle proprie mansioni
o interferiscono con la propria vita privata.
Le strategie di coping, che quotidianamente vengono messe in atto dall’operatore della
cura, devono essere viste non solo come nemiche, ma anche come fonte di stimolo alla
propria crescita professionale e personale. Esse sono un campanello d’allarme che ci
segnala quando le cose non vanno per cui si rende necessario imparare a gestirle, a
cambiarle per usarle a nostro vantaggio. Il tempo che dobbiamo trascorrere al lavoro deve
essere anche tempo di riflessione affinché si maturi l’esigenza di formazione e di richiesta
d’ aiuto, come ad esempio con il counseling. Particolarmente utile è il contributo che la
teoria psicanalitica fornisce per l’analisi dei meccanismi di difesa e quindi anche i
meccanismi di coping come la negazione, l’evitamento ecc. In questo caso , l’attenzione
non è tanto posta sui significati inconsci dei problemi, ma sui modi affettivi di affrontarli.
LXII
L’analisi di questa cultura affettiva difensiva può essere utile, in quanto resta più ancorata
al presente, anche se i meccanismi difensivi sono nati solitamente nel lontano passato e una
loro individuazione e definizione può essere un obiettivo ragionevole nel lavoro di
counseling. E’ proprio nell’aprirsi al rischio dell’incontro con l’altro e con le situazioni
difficili che si fonda la possibilità trasformativa della psiche, poiché solo attraverso questa
dinamica è possibile la rappresentazione e l’elaborazione del proprio mondo affettivo.
4.3.7. FORMAZIONE
La formazione può essere il nodo centrale per iniziare un’efficace azione preventiva nei
confronti dello stress lavorativo? Azione che si concentrerebbe in particolare su temi come
il coinvolgimento emotivo, dovuto al contatto ripetuto con la sofferenza che dà luogo
all’instaurarsi di una situazione di anaffettività e di indurimento interiore. Questo tipo di
atteggiamento è la risultante inevitabile del nostro lavoro: allontanarsi dal proprio sé, non
riconoscersi come parte emotivamente ed affettivamente attiva, tende ad annullare le
caratteristiche più umane della persona per privilegiare quelle più tecniche. Per
raggiungere una maturità affettiva di questa portata, serve un percorso di crescita interiore
che spinge l’operatore a ripartire da sé per rilanciarsi nel mondo del lavoro sociale di cura
e, in forma più ampia, nel mondo-della-vita (Lebenswelt). Assumere un atteggiamento di
apertura davanti al mondo, alla vita, permette l’attraversamento dell’affettività senza
timori, ma anzi con desiderio, interesse, entusiasmo e con una sana dose di forza d’animo
e coraggio. E’ un’esperienza sensoriale che evoca un senso di pienezza della vita affettiva,
sia a livello personale, sia professionale. Conoscere il proprio sentire è comprendere
sempre meglio la propria persona, rispetto ad uno specifico agire e pensare le cose che
accadono.109 A questo proposito gli studi di Carl Rogers spiegano che quando “una
persona comprende se stessa, il Sé diventa più congruente con l’esperire. La persona
109
V. Iori, M. Rampazi “ Nuove fragilità e lavoro di cura”, 2008,p. 209-210.
LXIII
diventa in tal modo più autentica, più genuina”110 Questo presuppone perciò che anche
chi cura riconosca le proprie emozioni e rinunci al suo ruolo di “esperto”, estraneo a
quanto sta avvenendo all’interno della relazione di cura. E’ forse la dimensione più delicata
e più difficile da apprendere. Con l’introduzione dei crediti formativi in Sanità, si è
percepita un’iniziale sensazione che qualcosa stesse cambiando, per dare slancio a un
settore come quello della formazione, la cui carenza era fortemente sentita. Ma la
formazione si occupa ancora in gran parte della preparazione tecnico-strumentale e
tralascia gli aspetti affettivo - relazionali della nostra professione. E’ quindi necessario
completare la nostra preparazione arricchendola di incontri che insegnino all’infermiere lo
sviluppo dell’ autostima, dell’ intelligenza emotiva, dell’ empatia, del senso del gruppo e
del miglioramento delle strategie di coping. Inoltre va ricordato che dovrebbe essere
responsabilità degli uffici infermieristici, in quanto vicini alla realtà dell’operatore,
organizzare percorsi formativi specifici. E’ altresì comprensibile, che le difficoltà
organizzative e le diverse dinamiche istituzionali disfunzionali si sovrappongono ai
problemi più specifici, derivanti dal contatto con la malattia e dal carico emozionale
proveniente dalla relazione d’aiuto. Ciò però non può essere motivo per giustificare queste
carenze che purtroppo sono reali. I responsabili del benessere del personale non possono
esimersi dal farsi promotori di una riflessione approfondita e di un agire declinato su
questo tema, che non può essere lasciato all’informalità e allo spontaneismo, ma deve
occupare un posto centrale nella professionalità degli operatori e nei percorsi formativi di
base e permanenti.111 Spesso, però, è l’operatore il primo artefice di questa mancanza
d’interesse, in quanto rifiuta di ricorrere alla
formazione affettivo-relazionale: glielo
impedisce la vergogna di esporsi, la non accettazione della propria vulnerabilità e della sua
fragilità. I comportamenti asettici e freddi, tipici del burn-out emotivo, esprimono la
tradizionale modalità “anaffettiva” dei Servizi che bandiscono i vissuti emozionali e ne
vietano ogni interferenza nei codici delle condotte professionali. Conoscere il proprio
sentire è comprendere sempre meglio la propria persona, rispetto ad uno specifico agire e
riflettere sulle cose che accadono. Essere sincero e autentico è difficile, ma deve essere
possibile per l’infermiere quando è pronto a “viversi, vedersi, ascoltarsi come essere vivo
che è nel mondo con gli altri” e a mettere “a disposizione nel rapporto educativo la sua vita
110
C. Rogers “ Un modo di essere. I più recenti pensieri dell’autore su una concezione di vita centratasulla- persona”. 1993, p.102.
111
V. Iori “Nuove fragilità e lavoro di cura”, 2208. p. 221.
LXIV
verso il comprendere e lo sperimentare l’esistenza altrui” ( Iori, 1988, p. 165). Anche nei
momenti in cui si è accompagnati dal dolore si può trovare uno spazio in cui continuare a
stare bene con se stessi. Nei momenti di difficoltà emotiva, e in una giornata di lavoro ce
ne sono tanti, è utile anche solo confrontarsi con i propri colleghi e trovare momenti di
condivisione. Spesso ascoltare un compagno di lavoro riapre quella condizione di
rispecchiamento in cui l’operatore rimbalza un possibile esito di problematiche e disagi che
sono anche i suoi. Il bisogno di raccontarsi è presente, anche se a volte è poco esplicitato
oppure viene espresso nei momenti informali d’incontro, come la “pausa caffè” o durante il
cambio all’interno degli spogliatoi. “Sarebbe auspicabile promuovere spazi d’incontro in
cui raccontarsi le difficoltà emotive del lavoro, lasciandole uscire, legittimando il vissuto
di rispecchiamento, superando la logica oppositiva/difensiva noi-loro e scoprire il “senso
degli altri”112 Bisognerebbe dare un nuovo significato alla parola equipe, spesso così
lontana, così fredda e distaccata dal contesto più umano della cura. E’ sempre riferita
all’organizzazione del lavoro ma in termini tecnicisti, dovrebbe assumere invece il
significato di reciprocità e di ascolto tra i componenti. Affinché questo possa avere luogo è
necessario che chi - ha - cura acquisisca un buon livello di competenza emotiva, in
particolare verso se stesso: saper riconoscere le proprie tensioni per essere in grado di
agirle nella relazione
evitando sia di rifugiarsi in un’ asettica neutralità sia di farsi
travolgere dal sentire dell’altro. Nei contesti formativi destinati ai professionisti della cura,
dovrebbero essere organizzati laboratori riflessivi in cui dare spazio anche alla
rielaborazione della vita emozionale. In quelli che si definiscono laboratori di riflessività
sulla vita emozionale è importante promuovere attività di pensiero capaci di provocare una
disamina analitica e critica della propria esperienza, affinché i partecipanti individuino la
qualità dei propri vissuti e da lì identifichino la matrice generativa nonché l’intensità e la
direzione della forza performativa che tali vissuti esercitano sull’agire.113In conclusione,
l’ambiente di lavoro può diventare supportivo, anche nelle situazioni di fragilità, quando si
respira un’atmosfera fiduciosa, nutrita di sentimenti coltivati in una cura della vita emotiva.
“Ci si migliora se, nel coltivare se stessi, si coltivano le possibilità di un’universale
amicizia. Incontrarsi e chiamarsi amici”.114 La formazione, come abbiamo sin qui spiegato,
è fondamentale, è l’unico mezzo per risvegliare l’interesse, motivare alla ricerca, al
112
M. Augè: “Il senso degli altri. Attualità dell’antropologia”, 2000.
L. Mortari: “La pratica dell’aver cura”, 2006, p. 90.
114
S. Natoli, “Il libro della cura di sé degli altri del mondo”, 1999.
113
LXV
rinnovamento e alla riflessione, è da sempre una spinta motivazionale di crescita.
All’interno dell’attività formativa possiamo trovare diverse approcci, abbiamo già parlato
del counseling, un modo breve ed immediato per dare sollievo a chi lo richiede,
all’importanza che rivestono strategie di coping adeguate e ora, di seguito, andremo ad
elencare brevemente altre metodologie tra cui i Gruppi Balint, il Role play e l’utilizzo
dell’autobiografia per la cura del sé.
GRUPPI BALINT
Michel Balint nacque a Budapest nel 1896. Formatosi come medico psichiatra e
psicanalista affermò che l’idea di permettere al medico di utilizzare sia la terapia
farmacologia, sia la psicoterapia, in vista dei bisogni del suo malato, era stata per lui una
fonte d’interessi fin dall’epoca dei suoi studi in medicina. Balint coltivò questa idea,
sperimentandola con un gruppo di medici generici già negli anni trenta, nonostante le
diffidenze destate da questi gruppi, che ne ostacolarono lo sviluppo. Poco prima dell’inizio
dell’ultima guerra emigrò a Londra dove, a partire dal 1950, con la moglie Enid, organizzò
una serie di seminari per medici alla clinica Tavistock. Era nato così e si diffondeva, il
“Gruppo Balint”115. L’elemento fondamentale, che caratterizza il Gruppo Balint, è
considerare la centralità della persona. Saper ascoltare diventa così il primo obiettivo da
raggiungere con la formazione balintiana. Come dice Balint “con un terzo occhio” e
“attraverso tutti i pori della pelle”.116 Il gruppo, nella sua conduzione più classica, è
composto da infermieri, medici che con la conduzione di uno psichiatra di formazione
psicanalitica, discutono quei casi della loro pratica professionale che sono stati causa di
difficoltà sul piano emotivo-relazionale con il paziente. La frequenza degli incontri può
essere settimanale o quindicinale e la durata nel tempo dell’esperienza è di almeno un paio
di anni. Il gruppo ottimale è generalmente formato da 10-15 partecipanti che devono sedere
in circolo e parlare avendo ciascuno la possibilità di osservare tutti gli altri. Questa
caratteristica permette di definire il gruppo Balint come “piccolo gruppo” o “ gruppo vis-àvis”. Come valido mezzo di prevenzione del burn-out emotivo, il Gruppo Balint consente
115
M.L. Bellini, G.Marasso ,D.Amadori, W. Orrù, L.Grassi, P.G.Casali,P.Bruzzi:” Manuale di
Psiconcologia”, edito da Masson p.928.
116
SIMP, Società Italiana Medicina Psicosomatica http://nuke.simpitalia.com, Marzo 2009.
LXVI
l’apprendimento emozionale di nuove capacità, perché la comprensione del partecipante
dipende sia dalla capacità conscia d’ascolto, sia dalla recettività inconscia dell’animatore. I
partecipanti sono messi in contatto con esperienze psicologiche ancora informi, poco
strutturate ma intense. Colui che espone il caso clinico, esprime anche il proprio vissuto
emozionale, durante la riunione di gruppo trasmette una molteplicità di segnali e di
comunicazioni, anche non verbali, talvolta contradditori e apparentemente privi di
significato. Questi segnali diventano comprensibili soltanto attraverso la risonanza
emozionale che producono ai partecipanti del gruppo. Questo fenomeno di risonanza è
basato sui processi psichici dell’identificazione proiettiva e della personificazione delle
emozioni, molto presenti nel Gruppo Balint. E’ stato ipotizzato che l’uomo è naturalmente
e
spontaneamente
ricettivo
alla
risonanza
emotiva;
nella
personificazione
e
nell’identificazione proiettiva riconosciamo alcuni processi psichici primordiali, base
comune dell’empatia e dell’intuizione del vissuto altrui. Il Gruppo Balint diventa occasione
per ricevere consigli e indicazioni, si hanno inoltre a disposizione diversi vertici di
osservazione. L’ascolto si diversifica e si arricchisce: diviene anche ascolto di sé e delle
proprie reazioni emotive di fronte alla sofferenza. All’ interno del gruppo si portano alla
luce emozioni ove ciascun individuo può aiutare l’altro a riconoscerle, a esprimerle, a
contenerle e a trasformarle. Oltre ad esplicitarsi la risonanza come fenomeno, è presente
anche il rispecchiamento, attraverso il quale, aspetti si sé spesso inconsapevoli vengono
colti nell’altro. Quando l’incontro rivela anche nostre qualità di solito va tutto bene,
quando riflette qualcosa di noi che non ci piace è più facile che si tenti, con modalità di
tipo proiettivo, di disconoscerla e di collocarla solo nell’altro.117 Il Gruppo Balint non è
solo il mezzo supportivo che si è rivelato di utilità per chi lavora nelle helping-profession
ma presenta vantaggi che presentano costi e tempi limitati, visto il grande impegno di ore
lavorative degli operatori. Una peculiarità non trascurabile è che il sostegno proveniente da
un gruppo di lavoro, viene ritenuto, da chi lo sperimenta, molto ricco di stimoli per
migliorare il proprio rapporto con se stessi e migliora anche la capacità d’interazione con
l’utente.
117
N.Rossi: “Psicologia clinica per le professioni sanitarie”, 2004, p. 266-267.
LXVII
ROLE PLAYING O GIOCHI DI RUOLO
I giochi di ruolo sono tecniche che derivano dalle teorie psicodrammatiche. Sono metodi
basati sulla simulazione di una situazione, di un evento, sulla messa in scena, per il
coinvolgimento dei partecipanti chiamati a immedesimarsi, a vestire panni di altri, a
ipotizzare soluzioni. E’ possibile mettere in scena una tipica situazione presente
quotidianamente all’interno dell’ Unità Operativa, quindi interpretare il ruolo di un’altra
persona o di una parte di se stessi che solitamente non è messa in gioco. Per esempio si può
interpretare un paziente o un familiare considerati insopportabili o un altro collega con il
quale si ha una relazione problematica. Rappresentare una scena o recitare “ nei panni di
qualcun altro” è in realtà un modo per accostarsi a se stessi, per esprimere parti di sé e
riconoscere modalità relazionali
disfunzionali, non consapevoli, messe in atto nella
relazione con l’altro118. Oltre ai partecipanti è presente un formatore che dirige, osserva e
registra quanto avviene e che, con una certa esperienza, può interpretare ruoli particolari,
come ad esempio l’antagonista della situazione. All’ interno del role playing possiamo
considerare quattro fasi principali :
•
Warming up: Questa fase comprende tutte quelle tecniche ( brevi sketch e scenette,
interviste e discussioni) volte a “riscaldare” l’ambiente, a creare, se non ancora
presente, un clima accogliente.
•
Azione: E’ la fase di gioco vera e propria tra gli attori. Può comprendere tecniche
particolari come l’inversione dei ruoli, il doppio ( l’assistente si pone alle spalle
dell’attore e prova a dare voce a ciò che l’attore sembra non riuscire ad esprimere)
che è una funzione di sostegno e accompagnamento.
•
Cooling off: Opposta al Warming up, questa fase serve per uscire dai ruoli e dal
gioco e riprendere le distanze.
•
Analisi del role playing: IL role playing offre opportunità di apprendimento. In
primo luogo legate al momento della messa in scena, della drammatizzazione, grazie al
coinvolgimento che viene stimolato; in secondo luogo legate al momento di commento,
discussione e analisi di ciò che è avvenuto: delle parole, dei gesti, della postura, degli
atteggiamenti, del detto e non-detto. L’esistenza di questa fase dipende dalla presenza di
118
G. Marasso, M. Tomamichel : “ La sofferenza psichica in oncologia. Modalità d’intervento”, p. 153.
LXVIII
diversi fattori: un gruppo che svolga la funzione di contenitore, la capacità e la
motivazione dei partecipanti a mettersi in gioco, a scoprire lasciandosi scoprire, dalla
capacità del formatore di intuire quale deve essere il livello di profondità delle
interpretazioni a cui è opportuno fermarsi. Ogni commento non richiesto e non tollerato dai
partecipanti indurrà delle difese, sarà pertanto dannoso. Il role playing può essere fonte di
cambiamento , ma perché questo si verifichi bisogna riconoscere la presenza di una
disfunzionalità nelle attuali pratiche di comportamento e riuscire a passare a una
progettualità nuova: promuovere il cambiamento, ricostruire
un clima collaborativo,
rilassato e accogliente. In questo modo il role playing agisce sull’aspetto emotivo e
cognitivo.119 “Interpretando diversi ruoli all’interno del gruppo ognuno capirà meglio se
stesso ed i propri ruoli abituali, ne aumenterà le possibilità, trasformando spesso il suo
modo di essere. Questa esperienza privilegiata sfocia su una migliore conoscenza di sé e
degli altri, su una presa di coscienza di ciascuno e del proprio atteggiamento profondo. “
(Schutzenberger, 1975, p. 80 ) Il gioco di ruolo promuove un apprendimento attivo e per
questo molto efficace, “ Apprese in questo modo, queste lezioni non si dimenticano
facilmente” ( Schutzenberger, 1975, p. 70)
120
.Da questa sintetica panoramica emerge
come i gruppi nelle varie configurazioni, siano un mezzo naturale di interazione e di
scambio, in equilibrio dinamico con gli individui che ne fanno parte. Possono diventare
pertanto irrinunciabili strumenti di lavoro in grado di potenziare risorse e creatività.
L’AUTOBIOGRAFIA COME CURA DI SE’
L’autobiografia è un genere letterario che il critico francese Philippe Lejeune ha definito
come “ racconto retrospettivo in prosa che un individuo reale fa della propria esistenza,
quando mette l’accento sulla sua vita individuale, in particolare sulla storia della propria
personalità". C’è un momento, nel corso della vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi
in modo diverso dal solito. Questo bisogno, i cui contorni sfumano, e tale può restare per il
resto dell’esistenza, una presenza incompiuta, ricorsiva, insistente, è ciò che prende il
nome di pensiero autobiografico. Il pensiero autobiografico, anche laddove si volga verso
119
120
S. Ricotta : “Il Role Playing”, 2004 http//www.psicologiadelavoro.com.
A. Improta: “Il Role Playing” laboratorio di ricerca e sviluppo in psicologia, 2006. http//psicolab.net
LXIX
un passato personale doloroso di errori o occasioni perdute, di storie consumate male o
non vissute affatto, è pur sempre un ripatteggiamento con quanto si è stati. Questa
riconciliazione - un’assoluzione talvolta certo difficile - procura all’autore della propria
vita emozioni di quiete. Ciò che è stato poteva forse compiersi altrimenti, la storia avrebbe
potuto conoscere altri finali, ma, comunque sia, ora quella storia è ciò che è. E si tratta di
cercare di amarla poiché la nostra storia di vita è il primo e ultimo amore che ci è dato in
sorte. Per tale motivo il pensiero autobiografico in certo qual modo ci cura; ci fa sentire
meglio attraverso il raccontarci e il raccontare che diventano quasi forme di liberazione e
di ricongiungimento.121La scrittura autobiografica ( pratica che sta iniziando a diffondersi
in alcuni servizi) consente di ritrovarsi, di ridare un senso alla propria identità personale e
professionale, di “ ri-progettarsi” nel progettare la cura. L’autobiografia professionale
accresce la consapevolezza di sé, sgorga da un intuizione che mette a fuoco un vissuto, che
dà parola a una sensazione rimasta indefinita, che depone sulla carta una delusione, una
gioia commossa. “ La verità di ciò che accade nel seno nascosto del tempo è il silenzio
delle vite, che non può essere detto (…): Ma è proprio ciò che non si può dire che bisogna
scrivere”122 Alla parola scritta, si affidano, quei moti dell’anima generalmente taciuti e
allontanati entro rapporti che devono soggiacere alle tecniche.123 Il lavoro dell’aver cura
ha bisogno di riflessività e saggezza, della capacità di elaborare pensieri in dialogo
continuo con l’esistenza. Il vuoto di sapere e di competenze, sulle diverse forme di disagio
professionale, può iniziare ad essere colmato attraverso la scrittura di sé, quella scrittura
intesa come “ luogo interiore di benessere e di cura”, “ esercizio filosofico applicato a se
stessi.” (Demetrio, 1995, p. 10).La rilevanza della narrazione come strumento formativo e
di cura è insita nella capacità di far emergere gli aspetti più significativi dell’esperienza
vissuta. La sua finalità è sviluppare nuovi atteggiamenti nei confronti di se stessi e delle
funzioni svolte, imparando a riflettere sui modi in cui si vive la relazione. Nella formazione
in ambito sanitario, come abbiamo più volte sottolineato, viene data spesso la priorità alle
competenze scientifiche tralasciando quelle umanistiche. Ma, oltre al sapere scientifico, è
importante acquisire e sviluppare anche la capacità di ascolto, di comprensione e di
rispetto. La responsabilità di coloro che lavorano nella cura si acquisisce formandosi anche
attraverso la metodologia della narrazione, dove il soggetto in apprendimento narra di sé;
121
D. Demetrio: “Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé”, 1995, p.10-11.
M. Zambrano:”Verso un sapere dell’anima”,1996, p. 25-26.
123
V.Iori: “Nuove fragilità e lavoro di cura”, 2008,p. 235.
122
LXX
delle proprie motivazioni al lavoro di cura, delle occasioni di apprendimento, delle prime
conoscenze della cura, delle proprie esperienze di curato, quando qualcun altro si è
occupato di lui. Le nostre esperienze di malattia complessivamente racchiudono una tal
densità di componenti cognitive e di vissuti affettivi che richiedono un’adeguata
elaborazione culturale ed esistenziale. Il pensiero narrativo è molto legato al contesto ed
alla situazione particolare da cui si sviluppa. Il riferimento è sempre ad eventi particolari e
concreti che caratterizzano la giornata lavorativa. Nelle attività formative, quindi, la
narrazione non può essere un fatto individuale, ma spesso il racconto del singolo viene
condiviso, analizzato ed interpretato dal gruppo “ Il testo è un ponte che unisce narratore
ad ascoltatore su cui transita esperienza che si offre all’osservazione, alla condivisione,
all’elaborazione e all’interpretazione propria e altrui”124 Si evidenzia dunque il valore del
metodo della narrazione come forza generatrice di un patto per il cambiamento, per una
relazione che possa aiutare sia chi cura che coloro che si offrono come facilitatori del loro
apprendimento in un percorso che parte dalla accettazione e dal riconoscimento dei limiti
per camminare insieme e trovare le vie per superarli. Il dispositivo narrativo consente
dunque di educare alla relazione ed è un potente strumento di sviluppo della competenza
emotiva. I sentimenti ed i pensieri di chi cura possono essere raccolti ed esaminati
attraverso l’utilizzo di diari emozionali con l’obbiettivo di indagare il tipo di sentimenti e
vissuti che si provano, e con la possibilità di riflettere su questi ultimi. (Pittala, Mantyranta,
2004). La pratica diaristica consente di porsi in una posizione percettivo-riflessiva diversa
rispetto a quella abituale, e di riconsiderare, così, aspetti dell’esperienza professionale
solitamente abbandonati alla routine del lavoro quotidiano. Di qui l’idea che riconquistare
zone “invisibili” perché scontate, o vedere aspetti diversi di una medesima esperienza, o
scegliere di soffermarsi analiticamente su un percorso professionale ( per esempio le
dinamiche relazionali tra colleghi, la gestione delle problematiche che possono insorgere
nella gestione dei familiari, i momenti a forte impatto emotivo dell’operatore ecc. ), siano
tutte occasioni formative che trovano nella scrittura giorno-per-giorno un espediente unico
per estensione e profondità. Madrussan sottolinea come l’utilizzo dei diari si configuri
come una vera e propria “sosta riflessiva”, necessaria per dare forma alla propria esistenza.
In tal modo riflettere sull’esperienza significa riflettersi nell’esperienza, cioè significa
rielaborare, amplificare e ricondurre l’accaduto ad una pratica di sé tesa ad attribuire senso
124
Franza, A.Montana: “Dissolvenze.Le immagini della formazione”,1997.
LXXI
e forma alla problematicità dell’io.( Madrussan, 2007). La letteratura presenta numerose
esperienze dell’utilizzo della diaristica nella formazione in ambito sanitario, consentendo
di affermare che tale pratica si presenta ricca di risvolti positivi per l’apprendimento
dall’esperienza. (Garrino, 2007). L’utilizzo della narrazione trova inoltre una sua
applicazione in senso autobiografico all’interno delle esperienze personali nella sezione
che comprende aspetti biografici e personali relativi a “chi sono” ed al “che cosa ho fatto”
per la presentazione e ricostruzione della propria storia professionale, utile anche condurre
il proprio bilancio di competenze. L’utilizzo delle pratiche di tipo narrativo si presta e
supporta anche la creazione di un laboratorio continuo come spazio di analisi e riflessione
sulle pratiche quotidiane, quale strumento di supervisione nei contesti lavorativi. L’utilizzo
di metodologie narrative richiede tempo: i ritmi devono essere lenti per consentire la
libertà di espressione e il tempo di analisi e interpretazione. La complessità dell’utilizzo
della narrazione richiede una progettualità accurata ed una definizione degli obiettivi di
apprendimento finalizzati ai bisogni formativi dei soggetti. E’ importante inoltre, che il
discente percepisca chiaramente che la propria narrazione non venga utilizzata per fini
valutativi di tipo sanzionatorio. Trovarsi davanti ad un foglio bianco con il mandato di
narrare può scatenare delle crisi di rifiuto, deve essere garantita la libertà individuale, senza
forzature ed obblighi. La presenza e il supporto del formatore, che dimostra di accogliere
questa difficoltà iniziale, sdrammatizzando, alleggerendo e fornendo esempi per il ricordo
di situazioni significative, permette di superare il blocco iniziale. Il raccontare e il
raccontarsi consente di orientare lo sguardo su aspetti particolari dell’esperienza e
sviluppare nel soggetto in formazione questa capacità riflessiva su di sé. Il dispositivo
narrativo contribuisce ad educare alla relazione ed è un potente strumento di sviluppo della
competenza emotiva: consente di esplorare prima a livello individuale e poi in gruppo la
dimensione cognitiva e affettiva dell’apprendimento, dell’insegnamento e del lavoro di
cura, portando i partecipanti a riflettere su quali sono le dinamiche e sugli esiti.
Complessivamente consente un ricco ed approfondito lavoro di crescita personale e
professionale.
LXXII
CAPITOLO 5. MATERIALI E METODI
5.1.
DISEGNO
E’ stato effettuato uno studio descrittivo con somministrazione di un questionario,
composto da 12 domande. Questa ricerca è nata con lo scopo di capire quale e quanto sia il
coinvolgimento emotivo, dell’infermiere, “nell’assunzione” quotidiana della sofferenza.
Attraverso le risposte degli operatori si è cercato di comprendere se il disagio emotivo era
tale da renderli vittime di se stessi. Altresì si è individuato se erano in grado attraverso
adeguate strategie di coping e una formazione mirata di divenire sopravvissuti. Questa
indagine ha permesso di capire se il problema del burn-out emotivo esiste, se è percepito
e quanto possa condizionare il rapporto con noi stessi, i nostri colleghi e gli affetti. Sono
stati distribuiti 221 questionari nel mese di Ottobre 2008 presso gli Ospedali di Mirandola
e Finale Emilia della provincia di Modena.
5.2.
SETTING
Ospedale di Mirandola presso le Unità Operative di:
• Medicina Generale;
• Chirurgia;
• Pneumologia;
• Ortopedia;
• Pediatria;
• Lungodegenza post-acuzie;
• Fisiatria;
• Cardiologia;
• Day Hospital Oncologico;
• Ostestricia e Ginecologia;
• Sala Operatoria chirurgica;
• Sala Operatoria ortopedica;
• Endoscopia;
• Pronto Soccorso;
LXXIII
Ospedale di Finale Emilia presso le Unità Operative di:
• Lungodegenza post-acuzie;
• Punto di primo intervento;
• Day Surgery;
5.3.
POPOLAZIONE
I questionari sono stati distribuiti a tutto il personale infermieristico. In totale ne sono stati
consegnati 221 e raccolti 136 (≅ 61%)
5.4.
RICERCA E RISULTATI
Questionari divisi per sesso: Su un campione di 136 infermieri, 23 (17%) erano di sesso
maschile, 113 (83%) di sesso femminile.
Figura 1 - Questionari divisi per sesso
LXXIV
Questionari divisi per anzianità di servizio: Su un campione di 136 infermieri sono stati
suddivisi per anzianità di servizio, frazionati in decadi: da 1 a 10 anni di anzianità 35
infermieri, da 11 a 20 anni 53 infermieri, da 21 a 30 anni 39 infermieri e ≥ a 30 anni 5
infermieri.
Figura 2 - Questionari divisi per anzianità di servizio
Questionari divisi per età: Il campione analizzato è suddiviso per età anagrafica: 13
infermieri con età compresa tra 20 e i 30 anni, 66 con un’età compresa tra i 31 e i 40 anni,
49 con un’età compresa tra i 41 e i 50, infine 8 infermieri con età ≥ ai 50 anni.
Figura 3: Questionario diviso per età
LXXV
1° Domanda del questionario: Cosa ti ha spinto a scegliere una professione come quella
infermieristica?
Nel campione preso in esame 67 infermieri hanno scelto la professione perché hanno un
interesse per le professioni sanitarie, 65 per il desiderio di essere utili a qualcuno, 18
perché garantisce uno stipendio sicuro, 17 perché hanno un familiare o un’amico che
svolge la stessa professione, 8 perché hanno vissuto un dramma familiare, 4 per il fascino
che la professione suscita, in particolare riferito al modo in cui i media ci rappresentano e 1
non ha risposto.
Figura 4: 1° Domanda del questionario: Cosa ti ha spinto a scegliere una professione
come quella infermieristica?
2° Domanda del questionario: Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare la sofferenza
durante gli anni di studio?
Il 52% del campione ha risposto con un sì, il 46% con un no e il 2% poco.
Figura 5: 2° Domanda del questionario: Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare la
sofferenza durante gli anni di studio?
LXXVI
3° Domanda del questionario: Cosa avverti quando vedi una persona soffrire?
Nel campione analizzato 70 infermieri provano compassione, 69 tenerezza, 37
malinconia, 34 inadeguatezza, 30 dolore, 28 rabbia, 21 distacco,12 paura, 5 fastidio e 4
cinismo.
Figura 6: 3° Domanda del questionario: Cosa avverti quando vedi una persona
soffrire?
LXXVII
4° Domanda del questionario: Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante la
quale la tua emotività è stata particolarmente messa alla prova?
Nel campione preso in esame 26 persone non hanno risposto, 8 hanno risposto “non mi sono
mai sentito messo alla prova”, 19 hanno risposto “uso la mia professionalità per non gestire le
mie emozioni”, 17 hanno risposto “sono fortunato! – la vita è breve!”, 17 hanno risposto
“cerco un modo per liberarmene”, 6 hanno risposto “ti condiziona la vita cambiandola”, 30
hanno risposto “mi sento psicologicamente troppo debole”, infine 11 hanno risposto “mi sento
inutile”.
26
8
19
17
17
6
30
11
Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante quale la tua emotività è stata
messa a dura prova?
Figura 7: 4° Domanda del questionario: Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante la quale
la tua emotività è stata particolarmente messa alla prova?
LXXVIII
5°Domanda del questionario: Con quale di queste affermazioni ti trovi più in accordo?
Per il 60% del campione preso in esame la vita e il lavoro sono indipendenti,e per il
40% sono interdipendenti.
Figura 8: 5° Domanda del questionario: Con quale di queste affermazioni ti trovi più in
accordo?
6° Domanda del questionario: Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti di fronte al
dolore e alla sofferenza?
Le strategie di coping più utilizzate dal campione preso in esame, divise per anzianità di
servizio,
Figura 9: 6° Domanda del questionario: Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti di
fronte al dolore e alla sofferenza?
LXXIX
7° Domanda del questionario: Ti sei mai confrontato con i colleghi quando sei
emotivamente in difficoltà?
Nel campione preso in esame il 54% a dichiarato che Qualche volta si è confrontato
con
i colleghi, il 27% Spesso e il 19% Mai.
Figura 10: 7° Domanda del questionario: Ti sei mai confrontato con i colleghi quando
sei emotivamente in difficoltà?
8° Domanda del questionario: Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuo ti esoneri dal
provare emozioni forti?
L’85% del campione preso in esame ha risposto No, il 6% Non so, il 6% Non ha risposto e
il 3% ha risposto Sì.
Figura 11: 8° Domanda del questionario: Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuo
ti esoneri dal provare emozioni forti?
LXXX
9°Domanda del questionario: Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?
Il 34% del campione preso in esame ha paura di potersi indurire emotivamente, il 19% si
sente emotivamente sfinito, per il 15% il contatto diretto con il dolore e la sofferenza gli
pesa, l’11% dichiara di essere diventato insensibile, un altro 11% non ha dato nessuna
risposta e il 10% ritiene di trattare gli utenti come oggetti.
Figura 12: 9° Domanda del questionario: Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?
10° Domanda del questionario:Vorresti avere la possibilità, nei momenti di difficoltà
emotiva, di rivolgerti ad un esperto all’interno del tuo Presidio?
Il 64% del campione preso in esame ha risposto Sì e il 36% ha risposto No.
Figura 13: 10° Domanda del questionario:Vorresti avere la possibilità, nei momenti di
difficoltà emotiva, di rivolgerti ad un esperto all’interno del tuo Presidio?
LXXXI
11° Domanda del questionario: Hai mai sentito parlare di counseling?
Il 51% del campione dichiara di aver sentito parlare di counseling e il 49% dichiara di non
conoscerlo.
Figura 14: 11° Domanda del questionario: Hai mai sentito parlare di counseling?
Completamento 11° Domanda del questionario:
Il 67% del campione ha dichiarato di essere venuto a conoscenza del termine counseling
all’interno di percorsi formativi e il 33% durante il percorso di studi.
Figura 15: Completamento 11° Domanda del questionario: Se sì in quale occasione?
LXXXII
12° Domanda del questionario: Hai mai frequentato un percorso formativo che ti aiutasse a
conoscerti meglio, a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tue emozioni?
Il 75% del campione ha dichiarato di non aver mai frequentato alcun corso che lo aiutasse
ad elaborare le proprie emozioni e il 25% ha dichiarato di aver frequentato un corso che lo
aiutasse ad elaborare le proprie emozioni.
Figura 16: 12° Domanda del questionario:Hai mai frequentato un percorso formativo
che ti aiutasse a conoscerti meglio, a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tue
emozioni?
Completamento della 12° domanda del questionario:
Il 50% del campione ha scelto i gruppi Balint e i role playing, il 12% un
counselor/psicologo permanente, il 10% non sa e il 5% vorrebbe degli incontri individuali
con un counselor/psicologo.
Figura 17: Completamento della 12° domanda del questionario: Se no, cosa preferiresti
ti fosse proposto?
LXXXIII
5.5.
DISCUSSIONE E CONCLUSIONE
La raccolta dati ha permesso di evidenziare situazioni dalle quali emergono elementi di
discussione piuttosto interessanti che confermano quanto il nostro lavoro sia impegnativo
dal punto di vista emotivo. E’ importante mettere in evidenza l’elevata adesione al
questionario, dei 221 distribuiti a tutto il personale infermieristico dei Presidi Ospedalieri
di Mirandola e Finale Emilia, ne sono stati raccolti 136 per cui ben il 61% dei colleghi
hanno aderito all’iniziativa. L’adesione allo studio, che ha avuto una durata di 4 mesi
(Ottobre 2008 - Gennaio 2009), è stata del tutto volontaria e, come già specificato, non ha
voluto privilegiare nessuna Unità Operativa in particolare. La scelta della sperimentazione
ha coinvolto ogni infermiere in servizio nel periodo suddetto, in quanto il coinvolgimento
emotivo di fronte alla sofferenza, riguarda tutti indistintamente. I dati percentuali riferiti
alla partecipazione al questionario e la spontaneità all’adesione ci hanno consentito di
capire quanto il problema dell’emotività venga sentito. Persone con un passato, che
inserisce luci ed ombre sul presente; che nutrono sogni, desideri e aspettative; che si
muovono nel quotidiano, con il loro bagaglio di frustrazioni, delusioni, orgoglio, voglia di
“farcela” e timore di fallire. Infermieri/e che hanno messo a disposizione tutta la loro
esperienza e sensibilità per aiutarci a comprendere che cosa si cela sotto la superficie della
quotidianità e, già dalle prime risposte, affiora la componente emotiva. Alla domanda che
chiedeva del perché si è scelto il lavoro di cura, la maggioranza riferisce di essere stata
spinta dal desiderio di essere utile a qualcuno, molti, quando sono a contatto con la
sofferenza, avvertono compassione, tenerezza, inadeguatezza e malinconia. Un dato
significativo da rilevare è l’elevata presenza di personale di sesso femminile (83% del
campione) che dà sicuramente ragione di queste risposte. La donna ha da sempre una
collocazione di prevalenza nel lavoro di cura, si parla addirittura di “una “divisione
sessuale del lavoro di cura” che attribuisce alle donne la responsabilità delle attività di
cura”. Il personale maschile, se pur irrisorio (17% del campione), ha infatti privilegiato lo
stipendio come motivazione alla scelta della professione perché in genere l’uomo ha più
difficoltà ad esplicitare il proprio disagio interiore, difficilmente abbandona il cliché di
persona forte ed autosufficiente. Nel titolo della tesi viene suddiviso l’infermiere,
nell’approccio alla sofferenza, in “vittima” o “sopravvissuto” e dalle risposte successive si
avverte con chiarezza questa realtà. L’infermiere “vittima” appare in tutta la sua fragilità
LXXXIV
quando gli viene chiesto “Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro, durante la quale
la tua emotività è stata particolarmente messa alla prova?”. Il grafico è rappresentato
appositamente da una serie concentrica di cerchi che vanno da una condizione di massima
freddezza sino ad una di elevato coinvolgimento, con una piccola percentuale che esprime,
seppur in modo lieve, un desiderio di riscatto. Partendo dalla situazione di massima
freddezza troviamo che ben 26 componenti del campione non hanno risposto e 8 non si
sono mai sentiti messi alla prova, un segnale piuttosto preoccupante in quanto non fanno, o
non sono in grado di fare nessuna riflessione di fronte alla sofferenza. E’ un messaggio
chiaro di disagio e di distacco, di allontanamento dal problema che sembra non riguardarli,
preferiscono “non sapere”, “non porsi alcuna domanda”, si trincerano dietro una cortina di
gelo nella speranza che possa proteggerli, senza pensare che invece non fa altro che
renderli ancor più indifesi. Questa negazione o rimozione non ammette spazio ai
sentimenti, non dà voce alle emozioni, non attribuisce significato a una parte importante
dei compiti professionali e soprattutto alle proprie risorse emotive. Sempre rimanendo
nell’ambito di questo schema, un totale di 46 infermieri/e dichiara di utilizzare la propria
professionalità per allontanarsi dalle emozioni o preferisce “frasi fatte” quali “sono
fortunato! La vita è breve!”. Dobbiamo chiederci se in queste affermazioni ci sia solo una
certa superficialità o se invece sono anch’esse una modalità di fuga. Proseguendo
nell’analisi 17 colleghi del campione si lasciano condizionare al punto che il lavoro è in
grado di cambiargli la vita, tanto che 40 di loro ritiene che vita familiare e professione
siano interdipendenti e leggiamo dichiarazioni come: “Spero che ciò che ho visto oggi, non
capiti mai alla mia famiglia”, “Nelle situazioni dolorose ripenso spesso i miei figli”. Si
giunge infine a dati allarmanti in cui 41 infermieri/e riferiscono di sentirsi troppo deboli
per affrontare la sofferenza quotidiana, o addirittura di sentirsi inutili e si esprimono con
frasi come “ Chiudo il “cancello” delle mie emozioni”, “Rifletto sulla sofferenza, e capisco
che è più facile accettare la morte che la sofferenza stessa”. Come non pensare a questo
punto ad un elevato tasso di burn-out emotivo, ad un vero e proprio “analfabetismo
emozionale” a quello che viene definito un “guaritore ferito”. All’interno della stessa
domanda, tra i molti che denunciano una chiara sofferenza interiore, 17 hanno dichiarato di
cercare un modo per liberarsi da certi pensieri ritenuti ingombranti anche se non sanno
ancora come. Vediamo comunque affiorare un fragile tentativo di riscatto, uno stimolo
alla riflessione, un segno di speranza, un’ammissione e una volontà di essere aiutati, uno
LXXXV
sforzo per cercare di crescere e migliorarsi. Purtroppo nell’immaginario comune si è
portati a credere che la scelta di svolgere un lavoro di cura sia tale da renderci immuni al
coinvolgimento, all’empatia e al disagio ma fortunatamente alla domanda “Pensi che l’aver
scelto un lavoro come il tuo ti esoneri dal provare emozioni forti?” l’85% dei colleghi ha
risposto di non sentirsi affatto esonerato dal provare forti emozioni, nonostante abbia
preferito una professione che invece dovrebbe trovarci “pronti” o “abituati” al dolore
altrui. Al di là dei propositi positivi, viene ancora svelato un buon livello di sofferenza che
traspare con chiarezza alla domanda “Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?”.
Parecchi infermieri/e dichiarano (il 34% del campione) che hanno paura di poter indurire il
proprio carattere, accanto ad un 19% del campione che si sente emotivamente sfinito e un
altro 15% che riferisce quanto il contatto diretto con il dolore e la sofferenza crei nel loro
animo una sensazione di peso. Quanta forza e che grado elevato di disperazione si coglie in
simili e alquanto pesanti dichiarazioni; se non è esaurimento emotivo questo..! Il
questionario prosegue con altre interessanti rivelazioni inerenti le strategie di coping messe
in atto dal campione preso in esame. E’ evidente, dall’analisi dell’ istogramma, quanto il
campione si differenzi nella scelta delle strategie di coping da adottare al fine di proteggere
il proprio benessere personale. Gli infermieri/e che hanno un’anzianità lavorativa che va
dall’1 ai 10 anni di attività tendono ad usare un approccio negativo. Privilegiano coping di
evitamento e di distacco, oppure scelgono di non rispondere o di non utilizzare alcuna
strategia difensiva. L’atteggiamento scelto, va senza dubbio imputato al fatto che non
hanno ancora maturato esperienza sufficiente che li possa tutelare dall’essere
eccessivamente coinvolti, sono incapaci di gestire adeguatamente le loro emozioni e non
riescono ad elaborarle. Questo dato
si contrappone decisamente a quel 52% che ha
dichiarato di essere stato formato durante il percorso scolastico ad affrontare le situazioni
di sofferenza. Se ne deduce che probabilmente la formazione è stata inadeguata,
insufficiente e alquanto inefficace. Interessante infatti, è notare l’assoluta inesistenza di
modalità di coping positive quali l’ottimismo o le abilità professionali. Il campione con
anzianità lavorativa ≥ a 30 anni
fa ricorso all’ottimismo, all’ironia e al sorriso per
sdrammatizzare la situazione. Diversamente molti di loro non utilizzano nessuna strategia
in particolare. Questo dato non è da vedersi in modo negativo in quanto, molto
probabilmente, accettano l’evento emotigeno come parte della loro quotidianità.
Preferiscono elaborarlo successivamente, eventualmente facendo ricorso al coping centrato
LXXXVI
sulla richiesta di supporto sociale, infatti il 54% sono disposti a confrontarsi con i colleghi
dopo una giornata o un evento emotivamente pesante. Il campione con anzianità che va
dagli 11 ai 30 anni ha una distribuzione più equa delle strategie, l’unico dato interessante
di chi ha un’anzianità compresa tra i 21 e i 30 anni è che preferisce non ricorrere alle
abilità professionali, si è già allontanato dall’idea che il tecnicismo possa essere sufficiente
a tutelarlo dall’eccessivo coinvolgimento. Appare comunque evidente, dai dati generali,
quanto sia pesante la situazione di burn-out emotivo, il bisogno di aiuto che deve essere
garantito all’operatore, già dai primi anni di attività lavorativa. L’infermiere/a ha il
diritto/dovere di ricercare un valido supporto per potersi ritenere “sopravvissuto”. Il
desiderio di essere aiutati è palesato da un 64% dei colleghi che vorrebbe rivolgersi ad una
esperto in caso di difficoltà emotiva e da più di un 50% che ha sentito parlare di counseling
all’interno di percorsi formativi. Interessante è sapere che purtroppo ben il 75% non ha mai
affrontato un percorso formativo che lo aiutasse ad elaborare le proprie emozioni. Appare
evidente che si favoriscono sempre corsi di formazione che privilegiano la preparazione
tecnico-strumentale. Ai colleghi è stato inoltre chiesto cosa avrebbero preferito gli fosse
proposto, ai fini di sviluppare una maggiore capacità all’elaborazione degli eventi e allo
sviluppo di più adeguate strategie di coping. La maggioranza ha preferito il Gruppo Balint
o il Role Playing oppure un counselor permanente all’interno della struttura. In
conclusione dai dati rilevati appare chiaramente la presenza di tassi elevati di sofferenza
nell’operatore. L’infermiere che è parte in causa ed è direttamente coinvolto
“nell’assunzione quotidiana di sofferenza” diventa l’attore principale del coinvolgimento
emotivo. Questo continuo contatto con il dolore lo indurisce interiormente e lo allontana
dalla scelta che ha fatto, quella di offrire aiuto e cura a chi ne necessita. Da questa ricerca
è quanto mai chiaro che il problema dello stress emotivo esiste e che spesso non è
manifesto, lo si allontana quasi non ci riguardasse. Solo un attenta analisi ha permesso che
la realtà fosse visibile in tutta la sua gravità. Appare evidente quanto il collega che inizia
la nostra professione esca dal periodo di studi privo di una formazione adeguata, che lo
tuteli
per
escludere la possibilità che il burn-out emotivo lo colpisca. La spinta
motivazionale, presente agli inizi dell’attività, non è sufficiente a difenderlo, le sue
aspettative di un ambiente lavorativo diverso, più attento alle difficoltà emotive
dell’operatore vengono ben presto, e in più occasioni disattese. Solo con il passare degli
anni l’esperienza aiuta ad affrontare e ad affinare le strategie di coping. Il percorso però è
LXXXVII
denso di difficoltà e sarebbe utile intervenire prima che trascorrano molti anni in cui non si
è fatto nulla per migliorare se stessi e la propria vita interiore. Questa ricerca ha permesso
di mettere in luce aspetti molto interessanti dell’emotività che vanno oltre le semplici
competenze tecniche. Lo scopo fondamentale era quello di capire se il problema del burnout emotivo esisteva e se era percepito dagli infermieri di qualunque contesto lavorativo.
E’ noto che all’interno di alcuni contesti, come reparti che gestiscono pazienti oncologici o
le unità operative di pronto soccorso, siano maggiori le possibilità di burn-out emotivo ma
credo che ogni operatore sanitario ne sia colpito e, a cambiare, siano semplicemente i
tempi d’insorgenza. Inoltre è davvero triste pensare che per potersi tutelare si debba far
affidamento solo sulla propria esperienza lavorativa, ritenere che sia il tempo trascorso a
contatto con la sofferenza ad insegnarci le corrette strategie di coping e la capacità di
elaborazione. Sarebbe di grande interesse che ricerche come questa riuscissero a
sensibilizzare i responsabili del personale sanitario affinché questo fenomeno possa essere
controllato. Bisognerebbe evitare, attraverso una formazione precoce e costante, che il
burn-out emotivo abbia inizio e riuscire ad arginare il problema prima che si manifesti.
Quest’opera di rinnovamento servirebbe prima di tutto al benessere dell’operatore e di
conseguenza ne beneficerebbe anche chi necessita delle sue cure.
LXXXVIII
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http://www.centrostudidipsicologiaeletteratura.org. (30/01/2009)
XCIII
6. ALLEGATI - QUESTIONARIO
Gentile collega, ti chiedo un attimo del tuo tempo per rispondere a qualche domanda.
Sto facendo una ricerca che ha lo scopo di capire quale e quanto sia il nostro
coinvolgimento emotivo “nell’assunzione” quotidiana di sofferenza.
Mi sono chiesta se siamo in grado di percepire i nostri sentimenti e le nostre emozioni, di
dar loro un valore e, se e quanto condizionano il rapporto con noi stessi, i nostri colleghi e i
nostri affetti.
Alcuni dati per conoscerti:
Eta’:
Sesso:
Anzianita’ lavorativa:
1. Cosa ti ha spinto a scegliere una professione come quella infermieristica?
(segna con una x le tue motivazioni)
•
•
•
•
•
•
2.
Uno stipendio sicuro
Un’esperienza drammatica in famiglia
Un familiare/amico che gia’ svolge questa professione
Il desiderio di essere utile a qualcuno
Un interesse per la pratica sanitaria
Il fascino suscitato dalla professione infermieristica, in particolare riferito al
modo che certa televisione ha di rappresentarci
Sei mai stato/a preparato/a ad affrontare la sofferenza durante gli anni di
studio?
Si
No
XCIV
3.
Cosa avverti quando vedi una persona soffrire?
(segna con una x sino a tre possibilità)
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
•
paura
compassione
distacco
cinismo
dolore
orrore
fastidio
inadeguatezza
malinconia
tenerezza
rabbia
4.
Che riflessioni fai dopo una giornata di lavoro durante la quale la tua
emotività e’ stata particolarmente messa alla prova?
5.
Con quale di queste affermazioni ti trovi più in accordo?
•
•
La vita privata e il lavoro sono interdipendenti
La vita privata e il lavoro sono totalmente indipendenti
6.
Quali strategie di difesa utilizzi per difenderti di fronte al dolore e alla
sofferenza?
7.
Ti sei mai confrontato con i colleghi quando sei emotivamente in difficoltà?
•
•
•
Spesso
Qualche volta
Mai
8. Pensi che l’aver scelto un lavoro come il tuo ti esoneri dal provare emozioni
forti ?
XCV
9. Ti riconosci in alcune di queste affermazioni?
• Mi sento emotivamente sfinito/a dal mio lavoro
• Lavorare a contatto diretto con il dolore e la sofferenza mi pesa
• Ho l’impressione di trattare alcuni utenti come oggetti
• Da quando ho iniziato a lavorare sono diventato insensibile
• Ho paura di potermi “indurire” emotivamente
10. Vorresti avere la possibilità, nei momenti di difficoltà emotiva, di rivolgerti ad
un esperto all’interno del tuo Presidio?
Si
No
11. Hai mai sentito parlare di counseling?
Si
No
Se si in quali occasioni?
12. Hai mai frequentato un percorso formativo che ti aiutasse a conoscerti meglio,
a rafforzare la tua autostima e ad elaborare le tue emozioni?
Si
No
Se no cosa preferiresti ti fosse proposto?
Grazie per la collaborazione
XCVI
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