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- Maurizio Ferrarotti
MAURIZIO FERRAROTTI MEXIA L’ULTIMA BIRRA E ANDIAMO A CASA (forse) La birra e la sua storia secondo un affezionato consumatore 2 …in una distorta stratosfera. 3 Per Guido ‘Straker’ Pautasso, che ha avuto l’idea in una deprimente serata di fine agosto. E per tutti quelli che non ci sono più: Daniela, Piero, Sergino, Ferruccio, Gianni, Ron, Bon, Phil… Bruno... 4 L’orzo e il luppolo fra crescere, oh Signore in abbondanza e della qualità migliore. D’estate a lungo il tempo sia clemente in modo che assetata sia la gente; riesca bene sempre la fermentazione della birra che si trova in produzione. Fa che il birraio, per la sua sostanza non abbia grane con la Guardia di Finanza. La tua benedizione sul di lui fervore e un poco di fortuna concedigli, Signore e in fine fa che i clienti siano pronti a pagare birra senza sconti. Schranka 5 UNA BIRRA NON BASTA Una volta non basta di Jacqueline Susann: lessi questo libro a quindici anni, poco prima di bere la prima birrozza della mia vita. Fu mia sorella Danii a ordinarlo all’Euroclub. In quel tempo io ero un gracile capelluto timidissimo famelico consumatore di fantascienza, principalmente d’autori classici quali Isaac Asimov, Jack Williamson e Ray Bradbury, ma avevo appena scoperto Philip K. Dick. Sdraiato sul letto a gambe incrociate, i piedi nudi stracotti da interminabili partite a pallone giocate nelle strade del quartiere ispirandomi agli idoli del momento (Zico, D’Amico, Keegan, Woodcock), leggevo e rileggevo senza requie Millemondinverno 1975, supplemento a Urania n. 684 che includeva ben tre sconvolgenti romanzi completi dell’immenso scrittore americano: Cronache del dopobomba, La città sostituita e L’uomo dei giochi a premi, quest’ultimo recentemente ristampato da Fanucci Editore col titolo Tempo fuori squadra – traduzione pressoché fedele dell’originale Time out of joint. C’era già stato un libro di Jackie Susann in casa nostra: La macchina dell’amore, in edizione tascabile della Garzanti. Ma io l’avevo soltanto intravisto. Di tanto in tanto mio padre alleggeriva le librerie risparmiando, è ovvio, i classici a detrimento della “spazzatura battuta a macchina” – capirai, per ogni libro epurato n’acquistava due! Così mi era rimasta una fortissima curiosità per questa scrittrice di storie definite “a tinte forti”. Mi premeva sapere se vi fosse in questo mondo qualcuno capace di comporre un’opera più sporcacciona di Emmanuelle, di cui papà possedeva una rarissima copia fuorilegge: la risposta, naturalmente, è sì. Dopotutto io non conoscevo ancora Terry Southern, né Anaïs Nin… neppure Jackie Collins e Harold Robbins (due fangosissimi imbrattacarte ingrassati da immeritato successo, e al diavolo l’invidia), se è per quello. Candy (Candy) per me era uno smanceroso cartoon giapponese; come quasi tutti gli ultrà in erba, io sballavo per Lupin III. In ogni modo, non tutti i volumi in eccedenza finivano nei cassonetti della nettezza urbana: alcuni, diciamo le vaccate de luxe, scendevano giù in cantina a ingiallire tra scarti di maioliche e portabagagli risalenti all’epoca del boom economico. Passato circa un lustro che l’ebbi letto (per ben due volte, sarà stata la tempesta ormonale puberale), Una volta non basta fu infilato da papà in un sacchetto di plastica del PAM insieme con altri libracci e io non m’interessai minimamente al suo destino – intrippato 6 com’ero da un’antologia di tre romanzi del prodigioso maestro di stile Roger Zelazny. Il Signore dei Sogni… Gli occhi di Eileen Shallot, velati e amorfi come quelli di una statua, lo cercarono ancora. “La vostra è una situazione davvero unica” commentò Render. “non c’è mai stato un neuropartecipazionista affetto da cecità congenita, per evidenti ragioni. Dovrei considerare tutti gli aspetti della situazione prima di potervi consigliare. Ora mangiamo, però. Muoio di fame.” “Benissimo. Ma il fatto che sia cieca non significa che non abbia mai visto.” Render non le chiese cosa voleva dire con queste parole, perché ora davanti a lui stavano delle costolette di prima scelta e una bottiglia di Chambertin. Tuttavia, quando Eileen alzò da sotto il tavolo la mano sinistra, trovò il tempo di notare che non portava anelli. Una decina d’anni fa, sceso in apnea nelle profondità del condominio per riportare alla superficie due pintoni di Nebbiolo, fui preso dall’impulso di aprire una vecchia credenza: ooh la la! L’ultimo best seller di Jacqueline Susann – morta di cancro poco tempo dopo averlo scritto – era lì dentro, in discrete condizioni, compartendo la sua salnitrosa prigione con venerandi Oscar settimanali della Mondadori e raccolte di fumetti horror dello Zio Tibia. Decisi di concedergli un momento di luce solare e aria fresca; e, fatalmente, finii per rileggerlo. Modernariato, [mo-der-na-rià-to] s.m. Insieme di oggetti di produzione artigianale o industriale, di un certo valore estetico, prodotti nel sec. XX; commercio e collezionismo di tali oggetti. Venerdì 22 agosto 20**, h 04.00 p.m., Central European Time. A dire la verità l’oggetto in questione, Una volta non basta, è piuttosto bruttino a vedersi. Svanitane in un buco nero quantico la sovraccoperta, si presenta ora al mio sguardo arrossato (ieri sera ho fatto bisboccia in un locale del Quadrilatero, maledetti compleanni!) in tutta la sua discinta insignificanza color mattone da case popolari in periferia, titolo e cognome dell’autrice impressi in carminio sul dorso, “finito di stampare il 12 gennaio 1979 dalla Aldo Garzanti Editore s.p.a. Milano”. Quanto al valore letterario, giudicato col classicissimo senno di poi… Be’, al giorno d’oggi vengono date alle stampe e sbolognate alle masse cose infinitamente peggiori: i libri di Emilio Fede e Bruno Vespa e Giampiero 7 Mughini, per esempio; Federico Moccia; le biografie da supermercato dei cosiddetti tronisti di Maria “la Sanguinaria” De Filippi; e soprattutto tutte quelle sciroccate pestilenziali nonché sponsorizzatissime autrici (autrici?) di chick-lit. Messa a confronto con Melissa P., tanto per fare un nome a caso, Jacqueline Susann pare Edith Warthon. Forse un giorno Melissa ci beneficherà (ehm) di un romanzo intitolato La valle delle spazzole; ma per allora io sarò già scappato su Titano a pescare trote etanizzate dal lago Ontario bevendo birra criovulcanica. Il personaggio centrale di Once is not enough (questo il titolo originale dell’opera), è January Wayne, bellissima e ricca fanciulla americana col complesso di Elettra. Non è il luogo, qui, per entrare nei dettagli della scabrosa trama: se v’interessa, andate a cercarvi il corrispondente articolo su Wikipedia. Io, per me, voglio soltanto farvi leggere questo passaggio, per me fondamentale: “Ma so bene cosa brucia veramente a Keith (il suo fidanzato hippy fotografo, N.d.A.): il fatto che io guadagno trentacinquemila dollari l’anno più la gratifica natalizia mentre lui ne incassa tremilacinquecento compresa l’indennità di disoccupazione. Per lui io sono il tipico esemplare del Sistema. Sono talmente confusa. Vedi, ho cercato di adeguarmi. Ho frequentato i suoi amici. Ho bevuto birra invece dei martini. Mi sono messa i blue jeans invece di normali pantaloni. Ma non c’è una legge che mi imponga di fare una vita da barboni. Io tiro fuori quattrocento dollari al mese per il mio appartamento. È in un bel quartiere, in un bel palazzo, con custode e addetti all’ascensore. Tutte le mattine arrivo in ufficio prima delle otto e a volte ci resto fino a mezzanotte. Mi sono guadagnata il diritto ad avere una casa piacevole a cui tornare. Perché dovrei rinunciarvi e lavorare per qualche giornalucolo underground e farmi pagare cinquanta dollari a pezzo?” Chi parla è la migliore amica di January, Linda Riggs, caporedattrice rampante dell’immaginaria rivista Gloss, ex bruttina prodigio della scuola di Miss Haddon trasformata in levigata strafica da ferrei regimi e chirurgia plastica. Qualche capitolo più in là costei si autodefinisce orgogliosamente “la miglior bocchinara di New York”, e racconta alla stupenda bamboccia di usare lo sperma dei suoi numerosi amanti come maschera di bellezza, arrivando perfino a servire loro un lavoretto di mano (in inglese, handjob, ma molti/molte di voi lo sanno già) “e prima che arrivino all’esplosione io sono pronta lì con un bicchiere, poi lo verso in una bottiglia e piazzo il tutto in frigorifero”. Veramente un personaggio edificante questa Linda, ancorché abbastanza credibile… 8 Ma sto divagando. Torniamo alle lamentazioni sul fidanzato fricchettone. Una frase in particolare mi colpì in mezzo alla fronte alla prima lettura: Ho bevuto birra invece dei martini. Mumble. Ne dedussi che nelle classi alte dell’America pre-Watergate la birra fosse considerata una bevanda da beatnik cenciosi e da operai; da questa sponda del grande oceano, invece, era celebrata da meravigliose fanciulle vichinghe ammiccanti dal tubo catodico o dai cartelloni pubblicitari. Neanche la forma più perniciosa di Alzheimer potrà cancellarmi dalla memoria l’immagine quasi iconica in bianco e nero di Solvi Stubing con la tenuta da marinaretto: “Chiamami Peroni, sarò la tua birra.” Alla salute! Ma io ero ancora vergine: sia dal punto di vista sessuale, sia da quello etilico. Le bevande alcoliche in toto m’incutevano un timore arcano, primordiale; a quindici anni io mi sbronzavo di cedrata, orzata e appiccicoso sciroppo d’amarena diluito in acqua del rubinetto. Quanto alle ragazze, le odiavo a morte (non tutte, però, come racconterò più avanti) e per contrappasso la maggior parte di loro mi considerava, senza mezzi termini, una tazza del cesso su due gambe vaccine. Per di più non mi ero mai neanche fatto una sega. Ero neutrosexual. Finalmente, nella torrida estate del 1981, mi risolsi a perdere entrambe le virtù. Guarda la troietta tedesca come si struscia contro quel tamarro bolognese con l’orecchino da pirata e la permanente. Ieri sera da me non ha voluto neanche farsi baciare sulle guanciotte. Zio fanale, ma faccio così ribrezzo? Cos’è, ho i denti marci? L’alito cattivo? Il nasone alla Bob Rock? ’Fanculo. Mo’ me ne scappo da questa purulenta discoteca all’aperto. Non sopporto più ’sto lento del cazzo, Please don’t go. Almeno mi mettessero Shandi qualche dannata volta: certo non sarà la più bella canzone dei Kiss, ma è diecimila molte meglio di ’sta lagna per cani morti. K.C. & The Sunshine Pizz. Stasera ho ben duemila lire in tasca, wow! È la volta buona che mi bevo una birra. ’Fanculo all’Emilia Romagna. Mi addentro in questo buco di paese e varco un’altra volta la soglia del bar tabacchi dove solitamente do inizio a ogni mia inutile serata vacanziera sparandomi quattro-cinque partite di fila al bigliardino spacciandomela da pinball wizard; chiedo e ottengo senza storie (ho sedici anni e rotti ma ne dimostro almeno due di più, e poi sono cliente ormai, anche per le cicche) una Peroni in bottiglia, “no grazie non ho bisogno del bicchiere”, e ne 9 ingollo una prima, cauta sorsata. Bleah. E questa sarebbe la bevanda alcolica più antica del mondo? Cristo, che brutti gusti abbiamo noi umani! Seconda sorsata, ancor più guardinga della prima. Be’, insomma, sembra di bere Orzoro frammisto a ghiaccio estratto dai poli di Marte brulicante di microbi con le antenne e le pistole a raggi, ma non è poi così male… bella fresca. Mi sa che appena finita questa me ne faccio un’altra. Così è questa l’ubriachezza. Ogni cosa deformata come nel tunnel degli specchi al luna-park, compresi i pensieri. Che spasso. Averlo fatto prima, cazzarola! Sempre a farmi paranoie su paranoie per qualsiasi scoreggia. A proposito, adesso ne tiro una bella. Prrrr. Tu che cazzo c’hai da guardare? Problemi, perplessità? Ah, sei crucco. Non capire, nein? Mo’ te ne becchi un’altra più forte. Prrrrrrrrrr. E col saluto romano se vedemo, Rommel. Approdo in campeggio alla tenda famigliare neanche io so come. I miei non ci sono, torneranno tardi da Ravenna con tutta la banda. La testa mi gira come un frullatore Girmi. “Porca puttana troia, sono proprio ubriaco” biascico, tentando di accendermi una sigaretta, malfermo sulle zampette di pollo. “Sbronzo in questa maledetta pineta marittima infestata di zanzare.” “Se vuoi ti faccio un caffè” bisbiglia qualcuno dalla semioscurità della veranda di fronte, la tenda di quei bresciani che non riescono mai, dico mai a pronunciare una frase senza includervi un vocabolo sconcio o una bestemmia. Dei villani di prima categoria… “Un bel caffè forte.” “Come?” “Sssh, non urlare, diocristo, che è tardi.” Dev’essere la figlia di quegli ignoranti, Marcella mi sembra che si chiami. È tracagnotta, ma ben dotata e sempre tutta sculettante nel suo bikini color carta da zucchero; ora però avrei bisogno di un paio d’occhiali ai raggi infrarossi per apprezzarne le tette. “Lo vuoi questo caffè o no? Sei ridotto uno straccio. Se i tuoi ti vedono così ti scomunicano.” Senti chi parla: la figlia di Belzebù. O di Rasputin, dato l’accento. “Sì… va bene. Grazie.” Getto la sigaretta a terra senza neppure averla accesa. Se la fumeranno le formiche sottoterra. Eh eh, ne avranno per un anno intero. Qualche minuto o secolo dopo mi ritrovo disteso su un materasso ad aria; Marcella, o per meglio dire la sua formosa silhouette (probabilmente era destino che il mio sverginamento dovesse avvenire in condizione precarie di visibilità e stato mentale) incombe su di me. Ho l’inguine allo scoperto. “Ehi, ma…” protesto debolmente. E il caffè? Non ne sento il gusto in 10 bocca. “Ma sei nuda?” Una mano pienotta mi piomba sulla bocca. “Zitto.” L’altra, sottrattami alla visione precaria dalla schiena inarcata della squinzia, me lo afferra; in un istante, mi accorgo di averlo duro come mai è stato. “E stai giù tranquillo. Anche i miei torneranno tardi, mooolto tardi. Penso a tutto io.” Effettivamente. Poco prima di abbandonarmi alla prima scopata della mia vita, non posso fare a meno di chiedermi: “Sarà mica che anche questa qui lo usa come cera di cupra?” Per i posteri morbosi, come collutorio… Com’è naturale, negli anni immediatamente successivi al mio farraginoso ingresso nella “società degli uomini” mi si aprirono nuovissimi frizzanti orizzonti. Divenni giovane ancorché saltuario cliente di diverse birrerie torinesi (una su tutte, la Rosselli, situata nell’omonimo corso e tuttora funzionante) e assaggiai altre bevande, tra le quali: – – – Moretti. Birra artigianale rinomata in tutto il mondo fatta con acqua pura e grano mietuto nei dintorni di Udine, dove Luigi Moretti fondò la sua fabbrica nel 1859. Luminosa, rinfrescante e, soprattutto, molto economica. E io ai tempi non è che navigassi nel grano… pardon, nell’oro. Budweiser. È una lager 100% naturale prodotta con una mistura di riso e orzo che ha un contenuto alcolico del 5%. Negli Stati Uniti è un’istituzione, nettamente la marca più popolare. La lager beer è un beveraggio leggero e spumeggiante che prende il suo nome dal tedesco lagern, che significa “immagazzinare”. Nel 600 i monaci scoprirono che la loro birra d’estate si manteneva meglio se conservata in fresche grotte di montagna, e che si addolciva rimanendovi per un tempo. La pratica di invecchiare la birra si sviluppò da quella scoperta. E bravi i nostri Fratelli birraioli. Abbaye Bonne Espérance. I belgi sono grandi produttori di birra, tanto per la qualità quanto per la varietà e quantità di bevande che elaborano. Quantunque a volte si dedichino a produrre birre ad alta gradazione e con un carattere corposo, quasi vicino al vino. Come la Abbaye Bonne Esperance, una ale (definizione generica per le birre a fermentazione alta) di abbazia dal piacevole aroma di miele, colore ambrato e gusto luppolato con sfumature agrumate e di lievito. Una birra da intenditori, ma certe mazzate mi dava! 11 – Kwak. Altra birra belga, è una doppio malto ad alta gradazione, 8%. Viene servita in un bicchiere detto “del cocchiere”, sottile e slanciato, posto in un apposito supporto di legno, la cui impugnatura evita di scaldare la birra con le manacce. Questa qui invece mi cagionava certe sbronze piene d’energia cinetica, e se eravamo tutti sulla stessa onda alcolica ne scaturivano dei partitoni notturni da fare invidia alla stessa Coppa dei Campioni. Altro che epo. Educazione etilica e rock’n’roll procedevano di pari passo. Quella sessuale zoppicava vistosamente, ma perlomeno (finalmente…) stavo smettendo di provare avversione verso le rappresentanti del sesso femminile; tanto che su una fiancata dell’armadietto ove riponevo i libri di scuola e gli arnesi per la scrittura avevo appiccicato gli adesivi di Ciao 2001 dei Van Halen e di Sade Adu fianco a fianco. Yin e Yang. Sade era indiscutibilmente uno schianto di femmina, stracolma di classe, ma dopo che ebbi visto Valerie Kaprisky in Breathless (All’ultimo respiro) iniziarono a filarmi le brunette caucasiche con gli occhi neri profondi e i labbroni. In sostanza, sebbene siano passati tre decenni da allora, non ho cambiato gusti. Musicalmente, oltre alla pirotecnica band californiana che aveva ormai soppiantato i Kiss in cima alle mie preferenze heavy, mi ero innamorato dei Faces, il gruppo di Rod Stewart e Ron Wood prima che quest’ultimo si unisse ai Rolling Stones e Rod “The Mod” si consegnasse anima e ciuffo a un sound smaccatamente più commerciale. Il loro ruspante, essenziale, rock rhythm’n’blues aveva avuto una considerevole influenza sul punkrock (Steve Jones dei Sex Pistols era un loro fervido fan) nonché sul glam & alternative rock americano degli anni Ottanta. Se ne percepisce un’eco perfino nelle ballate melodrammatiche dei Pearl Jam. Nemmeno l’ultima generazione di rockettari anglosassoni e scandinavi è rimasta immune al fascino emanato da quei suoni ruvidi e spontanei: i giovani australiani Jet sono pratica un affezionatissimo clone delle Facce, con nuances di Who Rolling Stones e Sweet. Oltre a ciò, Rod Steward & The Faces erano passati alla storia per la loro alcohol camaraderie, lo smodato consumo collettivo di beveraggi alcolici prima durante e dopo i concerti – un critico musicale chiamò il loro genere booze rock, baldoria rock. I puristi non li volevano ascoltare neppure coi tappi da Reparto Presse della Fiat Mirafiori ben ficcati nelle orecchie, li consideravano un gruppaccio trasandato. E di recente navigando nel mare magnum internettiano mi sono imbattuto nella scheda a essi dedicata da 12 uno stimato musicologo italiano in cui il loro rock è definito “populista”. “Considera tutti i critici d’arte come inutili e pericolosi” è scritto nel Manifesto dei Futuristi. Diciamo un buon 90%. Nel restante 10% vi sono dei personaggi che senza ombra di dubbio mettono passione e competenza nel proprio lavoro, ma si tirano il moccio da far spavento, più che scrivere sfoggiano lessico. Come un altro recensore assai stimato che, a proposito dell’esordio dei Radiohead, scrive in una delle tante enciclopedie dedicate al rock: “Creep è uno psicodramma in amniocentesi grunge che macera l’alternanza tra strofe lente e arpeggiate e il ritornello a forte combustione introdotto con un indovinato effetto di chitarra.” E ancora, passando a commentare The Bends: “I Radiohead sanno fare della catarsi rock un umanesimo da stadio, dalle risonanze elettrolitiche di High and Dry e Fake Plastic Trees allo stato pre-embolia di The Bends fino alle modalità saltanti e antistatiche di Just che proiettano l’intersezione sfalsata delle chitarre in una distorta stratosfera.” The Bends mi piace molto: è un disco metafonetico, ormonatico, positronico. Suona come A nod is as good as a wink… to a blind horse dei Faces triturato e messo in un frullatore con due blister di Prozac. Nell’epoca in cui buona parte dei miei coetanei tentava disperatamente d’assomigliare a Robert Smith (un altro considerevole segmento a Nino D’Angelo, il resto si spartiva fra Tony Hadley, Nikki Sixx e Carmelo Zappulla) io mi ero fatto perfino acconciare i capelli in un facsimile della chioma a carciofo radioattivo di Ron Wood. Ma ogni santo pomeriggio e sera dovevo combattere una dura battaglia con Danii e suoi Duran Duran per il possesso del giradischi Falkland-Malvinas. E non sempre ne uscivo vincitore. Meno male che i miei m’avevano comprato il walkman, così potevo spararmi nelle orecchie tutto A nod is as good as a wink… sul 56 la mattina presto andando a scuola, e nei giorni in cui avevamo lezione al pomeriggio andare a zonzo per il centro all’ora di pranzo canticchiando Maybe I’m Amazed con una bottiglia di Heineken in mano, gelida come una notte sulla Luna. E scolarmene felicemente un’altra all’uscita da un tediosissimo sermone sui diodi Zener mimando i raspanti accordi iniziali di Borstal Boys. Una birra non basta. Le vele erano bianche sotto un sole che era un pulsante rosso che il servitore raggiunse velocemente e sfiorò. Cadde la notte. 13 Figura 1. Una birra non basta... 14 DIECIMILA ANNI DI SBRONZE La birra è quasi certamente la più vecchia bevanda alcolica del mondo. I Babilonesi e gli Egizi la fabbricavano più di 6000 anni fa. Gli Egei presero la ricetta dagli Egizi. La fabbricazione della birra si diffuse poi in tutto il Mediterraneo. Anche i Britanni, come no, facevano birra e ale: il 5000 a.C. è la data cui risalgono i reperti di birra “fossile” ritrovati nelle isole Orcadi e quelli a Stonehenge. Nell’antica Cina, la birra era importante nei culti religiosi, funerali e altri rituali delle dinastie Xia, Shang e Zhou (2100-256 a.C.), ma dopo la dinastia Han essa perse la sua prominenza a vantaggio del huangjiu, il “vino giallo”: la produzione della birra non fu reintrodotta in Cina fino alla fine del XIX secolo, quando la Russia costruì una fabbrica ad Harbin, nel sud-est del paese. In Giappone, fatto culturalmente singolare, la birra era sconosciuta fino a due secoli fa: furono gli Olandesi ad aprirvi le prime birrerie per i marinai che sfacchinavano sulla rotta mercantile fra la Terra del Sol Levante e l’Impero Olandese. Ora i giapponesi trincano birra a torrenti, la fabbricano e la esportano in tutto il globo. Ne ho assaggiate alcune marche e non sono malvage: la Asahi, per citarne una. Fermo restando che c’è chi ritiene il sakè una birra. Il festino, o la festina, come dicono certi miei amici vicentini (specialisti nell’organizzazione di baccanali memorabili: le loro Feste del Recioto sono storia consacrata del Triveneto), è innato nella razza umana. Molto prima dell’invenzione delle bevande fermentate, che secondo uno studio condotto da un team di brillanti archeologi dell’Università di Manchester risalirebbe al 9000 a.C., l’uomo utilizzava le piante allucinogene per provocare una sorta d’ebbrezza conviviale; alcune pitture del Paleolitico superiore rappresenterebbero, a parere d’alcuni interpreti, delle visioni provocate dall’uso di queste piante. Un giorno o l’altro qualche esuberante archeologo britannico ritroverà in Siberia una bottiglia di birra pressoché intatta con l’etichetta stampata in una lingua sconosciuta incastonata in uno strato geologico risalente a duecentomila e rotti anni fa, testimonianza dell’esistenza di una remota civiltà altamente sviluppata, cancellata forse da un terribile conflitto nucleare. Mi hanno sempre affascinato le storie post-atomiche; il secondo romanzo dell’antologia di Zelazny, La pista dell’orrore, è una delle più belle mai scritte. Hell Tanner, ex membro di una gang motociclistica, parte da Los Angeles per Boston per portarvi una 15 cassa di siero contro le malattie da radiazioni. Lungo la strada affronterà i pericoli di un mondo sconvolto dai postumi della Terza Guerra Mondiale: venti turbinosi che rendono problematico qualsiasi spostamento, tempeste, crateri radioattivi, animali mutati dalle esplosioni in mostri terrificanti, esseri umani regrediti alla barbarie. E da biker violento e sprezzante si trasformerà in indomito salvatore dell’umanità. Hell ricordò la sua iniziazione. Aveva sedici anni. Avevano fatto passare il secchio, e lui era rimasto in piedi, eretto e fiero, vestito del suo giubbotto nuovo coperto di borchie, e per quanto un po’ ubriaco non aveva barcollato. A uno a uno, tutti avevano pisciato nel secchio. Poi glielo avevano rovesciato in testa. Quello era stato il battesimo, e lui era diventato un Angel. Aveva tenuto addosso gli stessi vestiti per un anno intero, e dopo altri due anni, quando lui ne aveva diciannove, era diventato il numero uno, il capo. Li aveva guidati nelle scorrerie, e tutti conoscevano il suo nome, e si scansavano quando lo vedevano arrivare. Lui era Hell, e la sua banda era padrona della Costa dei Barbari. Andavano dove volevano e facevano quello che volevano. Poi lui era finito nei guai, e i giorni neri erano scesi sulla Costa. La città era perpetuamente iniziata, come lui, dagli escrementi del cielo. Dal futuro ipotetico al passato remoto. Nell’antica Mesopotamia vi era già una diversificazione in tipologie di birra prodotte: esistevano birre chiare, scure, rosse, dolci, aromatiche. A Babilonia se ne producevano addirittura venti qualità, ma le più apprezzate erano quattro, e dai nomi decisamente klingoniani: bi-se-bar, una birra d’orzo, bi-gig, una birra scura normale, bi-gig-dug-ga, una birra scura di eccelsa qualità, e bi-kal, la migliore. Secondo i popoli mesopotamici e non solo, la società divina riproduceva alcune prerogative di quella umana. Nel poema babilonese della creazione (Enûma elish), allorquando gli dèi cercano un campione coraggioso da mandare a combattere contro la dea Tiamat che intende annientarli, il dio Anshar si incarica di riunirli in un convito: Davanti ad Anshar essi penetrarono, furono riempiti di gioia, si abbracciarono fra di loro, si assisero in consiglio, presero la parola, si sedettero al festino, mangiarono cereali, si dissetarono con birra forte, e di dolce cervogia riempirono le loro coppe. A furia di bere birra avevano il corpo sazio, si sentivano fiacchi, il loro cuore era colmo di gioia; allora di Marduk, il loro vendicatore, fissarono il destino. 16 Nell’Egitto antico la birra si preparava mettendo a fermentare al caldo, in acqua e grano schiacciato, pagnotte d’orzo o di grano mal cotte per salvare gli enzimi della fermentazione; il liquido denso veniva filtrato e in seguito lasciato depositare entro giare di terracotta. Gli Egizi fabbricavano birra chiara, zythum, rossa, curmy, e la mistica sà; inoltre consumavano birra “siriana”, anche se non è ancora ben chiaro se importata o fabbricata. Le anfore per la birra erano decorate con ghirlande. Spostiamoci in avanti con la nostra ebbra macchina del tempo fino all’alto Medioevo europeo. In quest’epoca assistiamo all’affermazione del vino come bevanda quotidiana oltre che di pregio. La birra, ancora ignara del luppolo (il primo atto ufficiale in cui si menziona questa sostanza amara estratta dai fiori di una pianta rampicante appartenente alla famiglia delle Cannabacee, un’ordinanza emanata dal prevosto di Parigi per disciplinare la vendita di birra, risale al 1435), era la bevanda dei germani, “barbara e pagana”, in contrasto con la sacralità cristiana del vino. Figuratevi: così, tanto per contenere la sovrappopolazione, i Germani talvolta si sfidavano a colpi di spada in un rituale dedicato al dio Thyr, la Wappentanz, al termine della quale i sopravvissuti si storcevano come dei fegatelli! Eppure, com’è universalmente risaputo, i monaci non la disdegnavano, tanto da produrne in abbondanti quantità a uso proprio e delle migliaia di pellegrini che essi ospitavano nei monasteri. Il celeberrimo monastero di San Gallo aveva nientemeno che tre diverse fabbriche di birra: una per la birra più leggera destinata ai pellegrini (sic), una per quella di media gradazione, chiara e scura, che consumavano i monaci e i famigli del monastero, e una, infine, per le birre de luxe, da offrire agli ospiti di riguardo. L’intero periodo medievale è contrassegnato da una profonda diffidenza nei confronti dell’acqua come bevanda, poiché possibile portatrice di malattie anche mortali. Qui, siate indulgenti, ma mi scappa da ridere… c’è una coppia spagnola di mia conoscenza la cui peraltro ospitale dimora è off-limits per l’acqua minerale: lui trinca solo vino, birra e superalcolici, lei Coca Cola light e limonata (consuma alcolici solamente quando esce a spettegolare con le amiche del cuore: scotch con un cubetto di ghiaccio). Cosicché quand’ero loro ospite e mi offrivo per andare a fare la spesa al supermercato compravo l’acqua solo per me; naturale per di più, poiché in Spagna le acque minerali frizzanti sono imbevibili. In particolar modo la Vichy Catalan: è come bersi uno sgorgo imbottigliato di Old Faithful, il famoso geyser di Yellowstone. Tuttavia gli spagnoli prediligono un’altra robetta niente male quanto a contenuto gassoso: la Casera. E la utilizzano 17 addirittura per allungare il vin ordinaire – certi Rioja scuri e spessi come inchiostro di china serviti nei menù del giorno a 10 €. Paese che vai, costumanze barbare che trovi. In medias res. Nell’Europa continentale del XVI secolo, la birra di luppolo era già un prodotto semi-industriale, preparato in fabbrica da artigiani forniti di titoli. Nelle isole britanniche la birra di fabbricazione domestica sopravvisse fino al XVIII secolo: bastian cuntrari inveterati, gli inglesi. In certe regioni come l’Alsazia, nonostante il suo status culturale d’inferiorità nei confronti del vino, era la bevanda popolare delle città e delle osterie. Ciononostante nella seconda metà del XVIII secolo l’alto prezzo del vino permise alla birra di irrigare finanche le gole assetate dei contadini. E i consumi pro capite, quantunque in maniera disomogenea secondo le aree geografiche e le congiunture economiche, crebbero vertiginosamente sino a oggi. Vinum est donatio Dei, cervisia traditio humana. In passato i contadini della Norvegia producevano, nei loro casolari, due tipi di birra: una più leggera, da consumare durante i lavori nei mesi estivi, e una più forte, per le feste natalizie, i matrimoni, le nascite e addirittura i funerali. Era molto diffusa la credenza che le figlie d’Eva, specialmente durante alcuni giorni del mese, esercitassero un’influenza negativa sul lievito. Esso inoltre era ritenuto particolarmente “suscettibile” allo sbattimento delle porte e alle vibrazioni del pavimento. Sempre nel buon tempo passato europeo, se un giovanotto aveva deciso di conquistare i favori di una pulzella, doveva dar prova al di colei padre di poter montare un cavallo in stato d’ebbrezza. Con la birra s’irroravano i campi all’inizio prima dell’aratura dopo il gelo invernale; lo stesso rituale era ripetuto al momento del raccolto, della trebbiatura e infine della nuova semina. “Una birra forte, un tabacco profumato e una femmina, questo è piacere.” Goethe dixit. Dal suo epistolario si apprende che la birra prodotta a Lipsia (“la piccola Parigi”) era di povera qualità: perciò la si acquistava da fuori e la si beveva allungata con acqua. Da buon alemanno, Goethe era un birraiolo: dapprima aficionado alle equilibrate birre di Francoforte, poi si assuefece a quelle amare di Merseburgo, apprezzò la Gose – una birra a fermentazione spontanea che ancor oggi viene prodotta in Belgio con il nome di “Gueuze”, bevuta anche questa – cui si aggiungeva una fettina di limone, e assaggiò perfino la Bavaroise, una sciccheria che era servita 18 calda (sic!) in tazzine al caffè Beyer. E come tacere sui sovrani, le roi le vent! A quart of ale is a dish for a king, sosteneva Shakespeare. Un litro di birra è degno di un re. Infatti, una leggenda teutonica attribuisce a Gambrinus, mitico re germanico, proprio l’invenzione della bevanda nazionale intorno all’anno 750, benché è provato che in quella regione essa fosse già ben conosciuta e consumata abbondantemente. Re Alfredo d’Inghilterra, passato alla storia per aver definitivamente sconfitto i Danesi nell’anno 814 dopo secoli di battaglie, fu un famoso collezionista nonché provetto produttore di birra. Alla corte di Carlo VI non mancava mai la birra a tavola. Federico II il Grande fu un grande sostenitore dell’arte birraia. Riccardo d’Inghilterra usava donare agli altri re fusti di birra. A Bismarck regalavano barili come se piovesse – cosa che a lui faceva immenso piacere, essendo tutt’altro che astemio; certamente la birra stimolava le sue capacità creative in ambito politico internazionale, come lo stratagemma adottato con il Telegramma di Ems ebbe a dimostrare. E con un ultimo colpo al motore tachionico veniamo finalmente all’Italia. Nell’anno 83 d.C. Agricola, governatore della Britannia, tornò a Roma portandosi dietro tre mastri birrai da Glevum (l’odierna Gloucester) e aprì ciò che potremmo definire il primo pub della Penisola. Le prime fabbriche di birra risalgono a un momento storico notevolmente posteriore, gli inizi dell’Ottocento; si può affermare che la birra nel nostro paese nacque al Nord, in Piemonte e in Lombardia ma anche nel Veneto. Nel 1789 tal Baldassarre Setter ottenne un privilegio per produrre birra in quel di Nizza Monferrato. Nel 1828 Franz Saverio Wührer aprì una fabbrica di birra a Brescia, e nel 1846 a Biella nacque la Menabrea. Un considerevole incremento della produzione si ebbe con l’avvento della conservazione a bassa temperatura. Ma la vera esplosione dell’industria birraia avvenne durante il primo decennio del Novecento: si affermarono nomi ancora oggi in auge come il sopraccennato Wührer, Forst, Poretti, Peroni, Wunster, Dreher, Moretti. Pure, le aziende italiane si ritrovarono poi fare i conti con le pesanti imposizioni fiscali durante il fascismo e il secondo conflitto mondiale; finita la guerra, l’industria birraia italiana dovette ricominciare da capo. Le fabbriche italiane impiegarono due decenni abbondanti per raggiungere il livello tecnologico delle concorrenti europee. Dal 1976 a oggi il consumo di birra in Italia è più che raddoppiato. È in corso una vera e propria rivoluzione culturale birraiola. In certo modo, 19 tutti i bevitori che come me sono nati negli anni Sessanta sono figli delle birrerie che proliferarono come funghi al principio degli Ottanta. Oggi a Torino la “bionda” si spilla perfino nella più oscura bettola di periferia. Nondimeno, sotto il profilo qualitativo e culturale, c’è ancora parecchio cammino da percorrere. Abbiamo surrogati di pub irlandesi che non sanno spillare la Guinness, locali per fighetti nei quali la birra è spillata da fusti aperti da troppi giorni e quindi ossidata ma tanto non importa, il posto è trendy!, birra servita in bicchieri di plastica (per motivi d’ordine pubblico, d’accordo, ma è una bestialità) o nei bicchieri sbagliati. Ciononostante il consumatore medio italiano va raffinandosi, sa quello che vuole, e sempre più di frequente sceglie i locali per bere basandosi su criteri qualitativi piuttosto che seguire bovinamente la moda del momento. Coerentemente l’industria italiana si è dovuta adeguare agli standard mondiali. In questi ultimi tempi il livello dei prodotti è aumentato in modo ragguardevole, con riscontri più che lusinghieri. Nel 2008 Evan Rail del New York Times, uno dei più noti autori di guide specializzate d’America, dopo aver vagato a lungo per le birrerie del Nord Italia ha incoronato la birra artigianale italiana come la migliore del mondo. Nella sua spumosa pagella spiccano ben tre birre piemontesi: la Elixir del Birrificio Baladin di Piozzo, demisec contraddistinta dall’uso di lievito di whisky in rifermentazione, la Daü del Troll di Vernante (ambo le località si trovano in provincia di Cuneo) e la Sticher del Grado Plato di Chieri, ispirata alla rara Sticke di Düsseldorf. Ah oh ehi, i suma sempre i mej! Era il 15 agosto 1995 quando nella birreria della famiglia Khoury a Taybeh, Cisgiordania, il solo villaggio palestinese interamente cristiano, venne spillata la prima omografa Taybeh, unica birra prodotta in Palestina. I Khoury sono originari dello stesso villaggio ma, come molti cristiani, emigrarono perché il processo di pace non decollava andando a stabilirsi a Boston, dove avviarono un fiorente commercio di vini e alcolici. Quando, nel 1993, furono firmati gli accordi di Oslo, credendo che sarebbe iniziata una nuova era, essi liquidarono i beni statunitensi incassando 1,2 milioni di dollari, tornarono a casa e li reinvestirono nella “fabbricazione di una birra palestinese”, con la benedizione di Arafat. David Khoury, al presente primo cittadino di Taybeh, tirò su la fabbrica acquistando i tini d’acciaio negli Stati Uniti e i malti in Francia e Belgio. La Taybeh produce 600 mila litri l’anno e gode di un quasi-monopolio a Ramallah. Per contro, dopo la costruzione della barriera israeliana, vendere alla vicina Gerusalemme è 20 diventato impossibile. Gli israeliani obbligano i distributori palestinesi a passare da un unico posto di blocco; per passarlo occorrono più di tre ore e spesso essi devono tornare indietro. Intanto gli israeliani distribuiscono le loro Maccabee e Goldstar dappertutto, passando da tutti i varchi. L’eterna questione mediorientale arreca danno finanche ai piaceri della birra. Da qualche anno, ogni primo fine settimana di ottobre, si celebra a Taybeh una sorta di Oktoberfest. Danze, musiche, prodotti dell’artigianato locale, spiedini e falafel, innaffiati di cervogia e di qualche insulto politico per rammentare l’obiettivo di “liberare la Palestina”. Con migliaia di cristiani e arabi – provenienti da Gerusalemme, Ramallah e dai Territori occupati – che si mescolano allegramente. Salute e insciallah. Venerdì 12 settembre 20**, h 02.10 p.m., CET. Biblioteca Ermenegildo “Gigin” Bernaulo. Fra qualche minuto, per staccare un po’ dalla tastiera, riprenderò in mano Please Kill Me – il punk americano nelle parole dei suoi protagonisti. Prima però voglio raccontarvi la storia di uno dei più smoderati bevitori – di birra e in generale di ogni beveraggio alcolico – mai esistiti su questa terra: Oliver Reed. Nato a Wimbledon, Londra, nel 1938, Robert Oliver Reed cominciò a far notare la sua corpulenta presenza in svariate produzioni cinematografiche inglesi dei tardi anni Cinquanta, senza avere alle gagliarde spalle alcun tirocinio d’attore, neanche teatrale: era un talento naturale. Nel 1969 i produttori di “007”Albert R. Broccoli e Harry Saltzman presero in esame la candidatura di Oliver Reed come possibile sostituto di Sean Connery, ma Reed non ottenne mai quella parte, probabilmente per la sua fisicità troppo rugbistica. Ciononostante le sue quotazioni crebbero ulteriormente; nella prima metà degli anni Settanta Oliver Reed fu un memorabile Athos in I Tre Moschettieri, recitò in Tommy, film basato sull’omonima rockopera degli Who (Reed era un grande amico di Keith Moon, il geniale e lunatico batterista della storica band inglese) e nel 1979 apparve in The Brood (La covata) di David Cronenberg, nel ruolo di un anticonformista psicoterapeuta inventore della “psicoplasmica”. Dai primi anni Ottanta la stella di Reed cominciò ad affievolirsi nonostante egli seguitasse a offrire pregevoli prove d’attore, come nell’immaginifico remake di Terry Gilliam Il barone di Munchausen. Il suo ultimo ruolo fu l’anziano rivenditore di schiavi Proximo ne Il Gladiatore, contrapposto all’astro in ascesa Russel Crowe: un ideale passaggio del testimone attoriale fra due personalità fortissime, per certi aspetti piuttosto simili. Oliver Reed morì a 61 anni di 21 un improvviso attacco di cuore durante una pausa nelle riprese del film a La Valletta, capitale dell’isola di Malta. Il Gladiatore uscì nel 2000 riscotendo enorme successo in tutto il pianeta e Reed ricevette diverse nomination postume per l’ennesima eccellente performance. Dire che Oliver Reed beveva come una spugna è un pallido eufemismo. Oltrepassare i propri limiti in materia di consumo d’alcol rientrava nelle abitudini sociali di molte squadre di rugby negli anni Sessanta e Settanta, e al riguardo esistono svariati aneddoti sull’attore inglese e i suoi amici; il più celebre racconta che Reed bevve ben 106 pinte di birra durante l’addio al celibato previo al suo secondo matrimonio. Steve McQueen, un altro che non scherzava quanto a eccessi d’ogni genere, raccontò che nel 1973 dovette volare in Inghilterra per discutere un progetto con Reed. I due, entrati subito in sintonia non solamente artistica, si spazzolarono tutti i pub di Londra, ma un certo punto Reed era talmente pieno che vomitò addosso a McQueen! Che la raccontò così: “Lo staff si precipitò attorno e mi trovò dei vestiti nuovi, ma non poterono darmi altre scarpe, così passai il resto della notte puzzando del vomito di Oliver Reed.” Nell’ultimo scorcio della sua vita la sua passione per le bevande alcoliche assunse tinte recisamente meno epiche. Reed era invitato in certi spettacoli televisivi specificamente per bere; quelli del programma The Word si spinsero addirittura a mettere delle bottiglie nel suo camerino affinché egli potesse essere filmato di nascosto mentre si ubriacava. Ciò la dice davvero lunga sulla moderna “etica” dei media. Al tempo della sua morte Oliver Reed era ormai gravemente intossicato. La sua ultima sbronza su questa terra fu colossale: tre bottiglie di rum Captain Morgan, otto bottiglie di birra e innumerevoli doppi di whisky Famous Grove. Oltre a questo batté a braccio di ferro cinque marinai della Royal Navy molto più giovani in un locale che da allora in suo onore si chiama Ollie’s Last Pub: tipico di lui, real-life macho fino alla fine. 22 Figura 2. Miller Lite per lei, Moretti per me da Zeke’s, Miami. 23 NAUSEA, OCCHI INIETTATI DI SANGUE Non abbiamo niente di meglio da fare / che guardare la tivù e farci un paio di birre. Black Flag, TV Party. Primavera 1988. Io freschissimo di congedo dal servizio militare, bramoso di denaro, di ragazze, d’alcol. Torino non era più grigia e scorbutica come l’avevo lasciata. Buck Rogers Macario si stava risvegliando dal suo lungo sonno metalmeccanico. Nuovi modi di dire comportarsi e vestire, nuova musica, nuovi ritrovi, nuovi cocktail da bere. E nuove droghe. “Ho sentito che nei pressi della Mole Antonelliana hanno aperto un nuovo disco bar” mi comunicò al telefono un pomeriggio Alex, colui che ritengo responsabile di avermi iniziato alla fede granata. “Ah sì? E come si chiama?” “Protex Blue. Sembra che al venerdì sera sia stracolmo di gnocca.” “Allora fisso che venerdì ci andiamo.” Con il cuore in mano, quello non era il vero nome del locale. Fra poco comprenderete perché ho ritenuto necessario cambiarlo. Il mio approccio col Protex Blue fu pessimo. Baldanzoso, suonai il campanello; la porta si spalancò con un cigolio di cardini bisognosi d’olio lubrificante e nell’uscio comparve un personaggio minuto dai tratti vagamente orientaleggianti: la sua faccina di tolla mi era tutt’altro che nuova. Era una classica figura di figlio di papà impegnato politicamente (o per meglio dire, impegnato a trarre vantaggio personale dalle proprie esperienze in ambito politico, come tutti quanti al porco mondo) che al liceo scientifico mi era sempre stato sulle scatole, più che altro per essere il miglior amico di Stefania B., una biondina carinissima fanatica di Bruce “The Boss” Springsteen (di cui a me piaceva solo una canzone, Born to run, poiché dannatamente simile a X Offender dei Blondie) che al secondo anno mi aveva rifilato un due di picche silenzioso: ossia, aveva olimpicamente ignorato una lettera in cui io le dichiaravo tutto il mio amore: “Stanotte ti ho sognata” e puttanate del genere. E poi le donne stanno ancora a domandarsi, fra una puntata di Sex & The City e l’altra, perché gli uomini si siano ficcati il romanticismo nel buco del culo. “Teffera?” chiese costui, con quel suo peculiare difetto di pronuncia sulle esse. O non mi aveva riconosciuto o faceva finta. 24 “Tessera? Quale tessera?” replicai, con occhi da agnellino. “AICS. Per entrare qui ci vuole la teffera AICS.” “Io ce l’ho” disse Alex, spalleggiandomi. Io allargai le braccia al tempo che ammisi: “A me invece è scaduta. Posso rinnovarla qui, no?” “Ma certamente. Prego.” Okudera si fece da parte per lasciarci passare. Repressi a dura pena lo sgurz di chiedergli notizie della biondina, essendo comunque già ampiamente a conoscenza che si era sposata col campione di pallavolo del liceo.“Eccolo qui, sempre col quel fetusissimo pullover grigiastro infeltrito”, pensai guardandolo in tralice mentre compilavo il modulo apposito coi miei dati personali. “Per di più padrone, o perlomeno socio di un circolo. Certo che il mondo è proprio uno scherzo!” Dal banco delle tessere mediante una doppia rampa di scale si scendeva al locale vero e proprio: pareti lattescenti, luci soffuse, tavolini ovunque. La musica era prevalentemente negroide, ma il posto non sembrava fatto per ballare. Tuttavia quando il DJ mise su Dance Little Sister di Terence Trent D’Arby la stragrande maggioranza degli avventori si scosse dall’atavico bogianenismo e discostando bruscamente tavoli e sedie improvvisò una piccola pista da ballo dove scatenarsi. Il tutto sotto lo sguardo recisamente contrariato di Mr. Pullover Grigio. Tié. I miei gusti musicali si stavano evolvendo. Sotto naja mi ero rimpinzato di Stooges, Metallica, Aerosmith, Zodiac Mindwarp & The Love Reaction, Cult, New York Dolls, Joy Division, Alice Cooper, Celibate Rifles e Died Pretty – Free Dirt era il disco che ascoltavo più volentieri quand’ero stonato di qualsiasi cosa, apprezzavo moltissimo la disinibizione con cui quel gruppo australiano passava da tenebrosi ammodernamenti dei Doors a canzoni nettamente più ottimistiche effondenti una stupenda sensazione d’immensità solatia. Ora mi sorprendevo a battere il piedino ascoltando Terence Trent D’Arby, Sly & The Family Stone e Prince. Portavo i capelli più corti in un facsimile del taglio di Gigi Lentini ai suoi scintillanti esordi nel Torino FC, pantaloni attillati di velluto, stivali di finto pitone, pullover a girocollo e giubbotti di pelle. Bevevo sempre più birra e superalcolici. Al Protex Blue spillavano la Tennent’s Super. Prodotta a Edimburgo dalla Tennent Caledonian, questa bevanda di color giallo intenso con riflessi ramati può essere considerata come l’antesignana di tutte le strong lager scozzesi. Dolciastra all’inizio in bocca, poi fa sentire tutta la sua forza alcolica. E come. Uscivamo dal locale sempre storti, ridendo come degli imbecilli per la recidiva dabbenaggine dei baristi. 25 Eh sì. Già dal nostro primo ingresso avevamo percepito con la nostra sensibilità stradaiola come costoro, un folletto dagli occhi perennemente arrossati e una tizia tutta riccioli e spigoli, non fossero ciò che si dice dei prodigi d’attenzione: cosa piuttosto penalizzante, dovendo essi occuparsi altresì della cassa. D’altro canto noi eravamo basilarmente regolari: vale a dire, pagavamo ogni nostro giro alla consegna dei boccali. Una sera però quegli alternativi erano talmente stressati dalla ressa che già alla primera ronda non ci diedero retta e neppure alla seconda, come dicendo “non ora, siamo troppo indaffarati, pagateci dopo.” Allora Alex saltò su: “Cazzarola, ma se gli fanno tanto cagare i miei sudatissimi deca, gli pago soltanto una birra e basta. Che ne dite, eroi?” Bravi ragazzi o no, fummo tutti d’accordo. La manovra uscì così liscia che stentavamo a crederci. Quei due avevano veramente la testa nella nebulosa di Andromeda. Finimmo per approfittarne. Sarò bastardo, ma la spassavo un mondo alle spalle da passero di Mr. Pullover Grigio. In tre arrivammo a stabilire il record di quattro spumeggianti birre medie scolate pro capite senza sganciare una lira, appiccicandoci una ronda di tequila sunrise, che però pagammo – a mo’ di copertura, non fosse la volta buona che quei babbei trendisti se la intagliavano. Poi sghignazzanti, irriverenti, sbronzi, uscimmo dal Protex Blue per andare alla conquista di una notte ancora giovane. Forse può suonare come un’esagerazione da scrittore affermare che la mia città cambiò nel tempo che io stetti via per “servire la patria”; alcuni bei locali esistevano già prima – il Big, il Dottor Sax, il Metro, lo Studio 2. Nondimeno fu dal 1987 in avanti che a Torino avvenne l’esplosione del nightclubbing, finanche per il consistente incremento dell’offerta. Oggi la chiamano movida e nelle serate di fine settimana è un’impresa attraccare al molo di qualsiasi bar del centro per ordinare da bere, ma nei primi anni Ottanta la gente usciva di sera assai meno che adesso e i ritrovi per giovani si contavano a dura pena sulle dita di due mani. Discoteche per tamarri comprese. Il locale che tutti i quarantenni e ultra torinesi ricordano con più piacere è senz’altro lo Studio 2. Non voglio dilungarmi in una commossa ricordanza di un posto in cui ho passato alcuni tra i momenti più divertenti della mia vita: ci ha già pensato alcuni anni fa un altro concittadino novelliere, per quanto da un punto di vista esistenziale alquanto differente dal mio. (Lui vi organizzava serate per rampolli di buona famiglia, io li detestavo ma vi 26 andavo lo stesso e una sera me lo ritrovai lì piantato nell’uscio a dirmi con fare strafottente che non potevo entrare: al che io lo affrontai a muso duro ma un buttafuori si mise in mezzo. Più tardi mi procurai l’invito ed entrai. Non gli serbo neppure una briciola rafferma di rancore: eravamo giovani stupidi e pieni di sperma, com’è usanza dire dall’altra parte dell’oceano.) Preferibilmente desidero concentrarmi sulle conseguenze psicofisiche che la frequentazione di quella gloriosa discoteca causava su di me. Una su tutte: gli armageddonici doposbronza del sabato e della domenica mattina – talvolta di metà settimana, allorquando mi veniva la malsana fregola di imbucarmi alla soirée degli studenti Isef. E il mattino dopo al lavoro tutti a guardarmi di storto. Soprattutto il capoufficio. Allo Studio si spillava una birra chiara di pessima qualità. In alternativa potevi intossicarti con i “solventi” (squisiti cocktail preparati con liquori stappati dal Neolitico inferiore) o la Ceres Strong Ale. In realtà una lager, questa birra danese dai toni amarognoli pronunciati dichiara in etichetta il 7,7% d’alcol, ma in base allo stato in cui ti riduceva (larvale) avresti detto che ne contenesse almeno il doppio. È anche vero che se ne ingollava a fiumi e che spesso si entrava in discoteca già carburati (magari dopo aver fatto tappa all’attiguo Charisma Pub, altro locale leggendario che non c’è più), ma se il giorno seguente uno stimato neurochirurgo ebreo mi avesse scoperchiato la scatola cranica avrebbe trovato Dalla biblioteca entropica di Claes Oldenburg e Coosje van Bruggen in luogo del cervello. Chiunque conosca quest’opera d’arte si farà un’idea, nonché quattro risate. La mia serata tipo allo Studio 2 era la seguente: svariate mosse strategiche per entrare senza pagare il biglietto; salita al bar del piano di sopra e prima Ceres sorseggiata aspettando l’ascesa al tempio di Roberto, un pazzoide scatenato di Avigliana con cui ne avrei bevute altre sette; discesa all’altro bar per bere qualche giro di brodaglia alla spina con la brigata e magari, se c’era il mood giusto, quattro salti in pista; di nuovo su e di nuovo giù, per altre tre-quattro volte; chiusura del locale coi buttafuori a ripetere come un mantra l’invito a guadagnare l’uscita e i parrocchiani a fare orecchie da mercante; summit fra ubriachi bolliti sul marciapiede circa l’eventualità di mettere qualcosa sotto i denti o persino di darsi la botta finale in qualche after-hours. Baccaglio di ragazze? Un optional. Almeno per me. E il giorno dopo... nausea, testa in frantumi, occhi iniettati di sangue, naso otturato, gola secca, polmoni in fiamme, estremità di piombo, epitelio mummificato come Ötzi, l’Uomo di Similaun. 27 Maybe I’m Amazed. Il fato, fottuta canaglia, mi fece rincontrare Stefania B. al campo di concentramento nazi-metallurgico poco prima della grande fuga per “mettermi in proprio”: un giorno, sopraffatto dalla noia, aprii un bollettino aziendale e me la trovai fotografata in tailleur pantalone grigio e boccoli sciolti sulle spalle. Lavorava alla Divisione della Gioia di C.so Vercelli. Coincidenza, sincronicità, il mondo è piccolo, pensatela un po’ come vi pare. Fattasi ormai donna e in carriera, un po’ segnata in viso ma forse per questo più bella che mai, Stefania si era separata dal suo biondissimo e gagliardo pallavolista e si era messa insieme con un nostro ex compagno di classe nuotatore (è fissata con gli sportivi, la ragazza) che ai tempi del liceo in una normale conversazione spiccicava monosillabi ma quando era chiamato alla lavagna per essere interrogato mitragliava date, cognizioni e logaritmi come un kalashnikov antropomorfo. Stefania organizzò una rimpatriata in una pizzeria cui da masochista patentato quale sono volli partecipare. Al dolce, alticcio come un meteorite, confessai a quei postsecchioni tutta la mia smodata passione per Iggy Pop. Mr. Monosillabo, Domenico “Mecu” Spitz della Piscina Comunale, commentò con una punta di sarcasmo: “Ci credo che ti piaccia, ha il tuo stesso fisico.” La locuzione più lunga che lo stronzetto malcagato aveva mai pronunciato, cui reagii mandandogli un bacio in punta di dita canzonatorio. Ma non so cosa mi trattenne dal volargli al collo. Le insondabili regole dell’attrazione e gli squassanti tormenti dell’amore non corrisposto: c’è chi ci ha scritto su fior di libri. E di canzoni. Come Pere Pubill Calaf, 74 anni, gitano di Mataró, Barcellona, conosciuto in tutto il mondo (meno che da noi, i soliti sciovinisti ignoranti) come Peret, l’inventore della “rumba catalana”. Dopo una lunga e dura gavetta nei club per turisti della Costa Brava e nei tablaos madrileni, la sua carriera spiccò il volo nel 1963 con La noche del hawaiano, e non si fermò più. Nel 1968 vinse il Midem di Cannes con una versione adrenalinica di un valzer del maestro Monreal, Una lágrima, poi disco dell’anno in Spagna; nello stesso periodo fu invitato dal leggendario Tom Jones al suo programma per la televisione britannica. Nondimeno il suo più grande smash fu Borriquito (asinello), due anni più tardi: “Borriquito como tú, tururú, que no sabes ni la u, tururú.” Walk On The Wild Side ante litteram. I continentali immuni ai sovvertimenti sociali e sonori degli anni Sessanta andavano in sollucchero per codesto zingaro che, in giacca di leopardo e pantaloni scampanati di lino, muoveva i fianchi come Elvis e cantava 28 come James Brown suonando la sua chitarra con la tecnica del ventilador, quella che per intenderci caratterizza uno dei più indigeribili tormentoni mai sentiti su questo squinternato corpo celeste: Volare dei Gipsy Kings. In quel momento il Peret aveva veramente il mondo in mano: gli mancava soltanto di registrare un concept album su una stella della rumba catalana rapita dagli alieni e restituita alla Terra in forma di tzigano telecinetico coi capelli platinati e la chitarra neutronica. Oppure prendere carta e penna (o più opportunamente ingaggiare un ghost writer) e buttar giù un deviante resoconto delle proprie esperienze cinematografiche – un titolo su tutti, Si Fulano fuese Mengano, Anno Domini 1971: traduzione, se Tizio fosse Caio! Diversamente, all’alba degli anni Ottanta Peret soffrì una profonda crisi mistico-religiosa al volante della propria auto (☺) e in un plis plas si fece pastore della Chiesa Evangelica di Filadelfia abbandonando la canzone, l’alcol, il tabacco, il gazpacho e quant’altro. Pressappoco nello stesso momento si scioglievano gli Only Ones di Peter Perrett, in una burrasca di droghe violenti disaccordi e incidenti stradali. Gli Only Ones furono una band inglese settantasettina con una distintiva influenza velvettiana. Un’anomalia, perché in un’epoca di incitamenti alla ribellione e anfetaminiche celebrazioni della sboccata lo sfuggente Perrett, lui sì perossidato e impellicciato come una zoccola, rantolava di tremendi doposbornia, compulsioni croniche e infatuazioni senza speranza annegate in spremute di barbiturici ed eroina mentre la chitarra solista di John Perry volava alta come un falco pellegrino. Vaticinio di angst pop. Ebbero un moderato hit con la rutilante Another Girl, Another Planet, ma avrebbero meritato maggior fortuna. Classico gruppo rivalutato col tempo. Torniamo a Peret. Nel 1991 il chitarrista zingaro dalle basette impossibili annunciò il suo ritorno alla musica e l’anno dopo partecipò alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Barcellona. Nel 2000 pubblicò El rey de la rumba, dove canta insieme a David Byrne (nientemeno!), Jarabe de Palo, Amparanoia, Manu Chao… Non sarebbe stato male dare una voce anche a Peter Perrett, magari per rifare la sua canzone più bella in stile ventilatore: La chavala del planeta rumbero. Non suona fenomenale? Maybe avrei potuto ritentarci con Stefania. Niente lettere stavolta: l’avrei invitata a un caffè e le avrei cantato una bellissima cibernetica canzone dei Cars dal loro album più ostico, Panorama: Don’t tell me no. Non dirmi di no. “È la mia festa, puoi venire. È la mia festa, divertiti. È il mio sogno, 29 fatti una risata. È la mia vita, prendine metà. Non dirmi di no, non dirmi di no, no, no.” Ma quando non ce n’è, non ce n’è e basta. Bisogna farsene una ragione. E non è un cazzo facile. Nel 1992 la Danimarca vinse a sorpresa i campionati europei di calcio. Poco dopo centinaia di italiani si catapultarono a Copenaghen per piantare il piccone giocandosela con la solidarietà calcistica. Ci andai anch’io con la mia nuova banda, anche se non vi passammo più di tre giorni: pareva di stare ad Alassio. Prendemmo un traghetto per la penisola dello Jutland che poi attraversammo a quattro ruote fino ad Ålborg, una cittadina parecchio ospitale e piena di vita. Nessuno di noi fece l’amore. Quanto lirismo… Le occasioni non mancarono, ma in vacanza bisogna essere un po’ burini per far sesso e noi facevamo parte della Lega dei Gentiluomini (dei Babbioni per qualcuno, ma me lo venga a dire in faccia che poi gli spacco la sua). In compenso, sbevazzammo come dei soldati dell’Armata Rossa in licenza: soprattutto Carlsberg corretta con un centellino di Gammel Dansk, un bitter fabbricato con un numero spropositato d’erbe e spezie tra le quali il cinnamomo, l’anice, la noce moscata, la genziana, il lauro e l’angelica. In ogni modo le danesi sono di una bellezza che non appartiene a questo mondo. La Carlsberg, intesa come fabbrica, è uno dei colossi mondiali della birra. Fu proprio nei suoi laboratori che fu isolato e coltivato un ceppo puro di Saccharomyces carlsbergensis. La leggenda narra che nel 1875 tal Emil Christian Hansen, di ritorno dalla Germania, trasportò il fermento delle birre lager versandovi di tanto in tanto dell’acqua per mantenerlo in vita fino a Copenaghen. Oggi del florido gruppo Carlsberg fanno parte anche la Tuborg di Copenaghen e, in parte, la Ceres di Århus. Al presente bevo Carlsberg di rado, benché volentieri: per quanto sia leggera, è sempre più gustosa di certe idrolitine spillate nei locali di tendenza o della famigerata Beck’s, “la birra tedesca più venduta in Italia”, un fenomeno frutto sia di un’ammirevole quanto perniciosa campagna di marketing sia dell’atavica predisposizione italica alla sudditanza culturale. (Mi ci metto anch’io nel mucchio, ne ho bevuta e continuo a berne a casse! La Ceres Strong Ale, all’opposto, non la voglio più vedere neanche dipinta.) Occhi iniettati di sangue… Gli X, storici portabandiera del beach-punk di Los Angeles, parteciparono 30 alla colonna sonora di Breathless con il brano omonimo, scritto e portato al successo dal grandissimo Jerry Lee Lewis nel 1958. Lo potete ascoltare mentre scorrono i titoli di coda. Questo gruppo straordinario, formatosi nel 1978, esordì a 33 giri due anni dopo con Los Angeles, prodotto dall’ex tastierista dei Doors Ray Manzarek. Molti giudicano L.A. il capolavoro del punk californiano, benché sia arduo tranciare giudizi con antagonisti quali Damaged dei Black Flag, Fresh Fruit For Rotten Vegetables dei Dead Kennedys, Group Sex dei Circle Jerks, G.I. dei Germs e Adolescents. Nondimeno L.A. stravince, non fosse per altro motivo che contiene la più bella canzone sul doposbronza mai scritta da una rock band: Nausea. Musicalmente Nausea suona come Soul Kitchen dei Doors funestata dai Black Sabbath e dagli Stooges. Fu vagamente ispirata da una bettola punk conosciuta come il Plunger Pit che era situata dietro una libreria per adulti nel Santa Monica Boulevard. Il beverone della casa era gin con soda alla fragola – un miscuglio criminale che provocava dei postumi apocalittici. La camaleontica front-woman Exene Cervenka ce li racconta così: Oggi starai male, oh così male. Sorreggerai la tua fronte sul lavandino dicendo oh Cristo oh Gesù Cristo la mia testa sta facendo crack come una banca. Stasera ti addormenterai nei tuoi panni frusti come una barretta di cioccolato incartocciata per pranzo. Questo è tutto ciò che hai da gustare… miseria e saliva. Miseria e saliva. Parli disarmonicamente. Non riesci a ricordare quello che dici. Dacci un taglio. Ti senti ritardata. Prendi le forbici e taglia via la testa. Nausea, occhi iniettati di sangue vai con la nausea, occhi arrossati vai con la nausea, occhi infiammati vai a dormire. Difficile non riconoscervisi. Io mi ci riconosco al 100%. La cosa certa è che se il mio lavandino e la tazza guadagnassero per miracolo il dono della favella, mi vomiterebbero addosso una quantità d’insulti diecimila volte superiore alla quantità di succhi gastrici che ho vomitato dentro ambo gli impianti igienici nel corso degli ultimi venticinque anni. Eppure non mi considero uno di stomaco debole. È che molto spesso ho passato il limite. E continuo a farlo, seppure con un quanto di coscienza in più. Oliver Reed da lassù farebbe uno sciocco sorriso consapevole: “Yes, man, sai il fatto tuo. Ma non sei più un giovanotto. Forse è meglio che ti dia una regolata, se non vuoi venire quassù a farmi compagnia prima del tempo.” In una di quelle disastrose mattinate post-Studio 2, aprii gli occhi e gemei oh Cristo o Gesù Cristo almeno sette volte. Rivolsi uno sguardo di polpo 31 alla sveglia: le nove e venticinque. Ero rientrato da quattro ore scarse, ma d’altronde l’eccesso d’alcol mi ha sempre fatto dormire poco. Poco dopo giunse la prima nausea. Guizzai via dal letto e, tappandomi la bocca con una mano, corsi verso il bagno. Era occupato, cristiddio. Retrocedetti in camera soffocando un’imprecazione e il secondo conato. «Dove diamine sbocco adesso? Porca troia, farò la fine di Jimi Hendrix!» La terza nonché decisiva nausea scatenò una fuoriuscita torrenziale di succhi gastrici misti a birra chiara e scura – Guinness del Charisma Pub! – e residui della cena che fu accolta provvidenzialmente da uno shopper di Rock’n’Folk, il mio negozio di dischi preferito. Dopodiché m’infilai di nuovo sotto le coperte e caddi istantaneamente in un coma profondo fino all’ora di pranzo, rimovendo totalmente dalla mia memoria il ricordo del sacchetto. Passati due giorni, di ritorno da un’altra giornata allucinogena nel campo di concentramento di Viale Puglia 35, trovai mia madre piantata al centro della cameretta. “Maurizio, cosa accidenti è quello?” mi chiese in tono inquisitorio neanche n’ebbi oltrepassata la soglia, puntando l’indice verso lo shopper R’n’F appeso a un appendiabiti da muro, mezzo pieno del mio rigurgito che cinquantasette ore di giacenza avevano fermentato in una nuova innovativa marca di lager stout. 32 Figura 3. Tasso alcolico 3.5. 33 MALCOM O’MOLONEY Intorno alla monumentale fonte di Murrieta, sita nella strada recante il medesimo nome, in realtà appellativo nobiliario di un illustre marchese e bottegaio riojano del secolo XIX, aveva proliferato recentemente un buon numero di birrerie decorate a imitazione d’idealizzate taverne irlandesi. In poco tempo si era conformata tutta una zona di stabilimenti omogenei che permetteva di scegliere tra un ampio ventaglio di possibilità itineranti, o lunghi e sedentari giri di bevute, per degustare alcune pinte o mezze pinte di molteplici birre d’importazione. In alcuni posti vi era addirittura uno spillatore di Guinness, in luogo della marca succedanea di turno. Sfortunatamente, in nessuno esisteva una cannella della varietà Draught Guinness, dotata di un corpo particolarmente intenso e una spuma tanto densa da poter disegnarci sopra il tradizionale trifoglio irlandese, lo shamrock, mediante il preciso movimento del bicchiere da 0,568 litri sotto il sottile e opaco getto di birra. Javier Alonso, Sueños y cadáveres. La zona descritta dall’Autore si trova a Logroño, capoluogo della regione spagnola della Rioja, dov’egli è nato e cresciuto ed esercita la professione di “scrittore provinciale” (parole sue). Pronunciando la parola “Rioja” mi scatta subito l’associazione cerebro-palatale con alcuni dei migliori vini rossi prodotti nella piel del toro, molti dei quali ho avuto il privilegio di assaggiare. Tuttavia qui si sta dissertando di birra e affini, e riguardo alla Guinness il buon Javier non potrebbe aver dipinto meglio il quadro… scuro della situazione. Finanche a Torino le “birrerie decorate a imitazione d’idealizzate taverne irlandesi” si sono moltiplicate a dismisura, sull’onda dell’accresciuto interesse turistico per quell’amabile isola celtica: ma non sempre vi trovi la Guinness, e meno ancora la Draught. Se va di lusso ti propinano la Beamish, che non è proprio la stessa cosa, altrimenti qualche intruglio imbevibile fabbricato da cinesi ridotti in schiavitù nei sottoscala di Porta Palazzo. Di aver scoperto la Guinness e le meraviglie della verde Irlanda devo ringraziare i Pogues, specialmente il loro alcolizzato (ex) leader Shane McGowan. Sempre in quella memorabile primavera del 1988, un bel pomeriggio montai su un Intercity e me ne andai da solo a Milano per assistere a un triplice concerto della madonna: Steve Ray Vaughan, Pogues e Los Lobos! La kermesse ebbe luogo al Palatrussardi. Io mi andai a piazzare in una 34 delle due tribune laterali. Il compianto Steve Ray Vaughan sfoggiò tutta la sua titanica tecnica strumentale – se qualcuno non lo sapesse, quelle fluide parti solistiche di chitarra in China Girl di David Bowie sono opera sua. A prescindere che di quella canzone io preferisco di gran lunga la versione tragica che ne offre Iggy Pop in The Idiot. Comunque sia Steve Ray lasciò il palco tra gli applausi del non foltissimo pubblico e vi salirono i Pogues recando tutto il loro composito strumentario. Per allora io mi ero già scolato due belle medie nere e mi accingevo ad attaccare la terza. “Figa, Pogues deriva da pogue mahone, che in gaelico significa baciami il culo” si sentì in dovere di chiosare una rossa occhialuta e mingherlina seduta alla mia destra. Shane McGowan non era ancora quell’ubriacone lacero e gracchiante che avrei compatito sedici anni dopo al Torino Traffic Festival e il concerto fu molto divertente. Fiesta, l’epitome del loro stile scomposto e festaiolo, scatenò le danze in tutto il palazzetto. Dei Los Lobos ascoltai soltanto due canzoni, poi volai come l’Enterprise a prendere l’ultima corsa della metropolitana per la stazione ferroviaria di Milano Centrale. Ero già appagato così. Rividi i Pogues altre due volte, sempre a Milano ma al Rolling Stone e a Torino in Piazza D’Armi sotto un tendone. In quest’ultima occasione io i miei amici e vari altri spettatori ebbri ci lanciammo in un “trenino” come neanche in quelle feste di Capodanno con la compilation di Jorge Ben suonata a volume spaccatimpani che fanno la prosperità dei rivenditori d’armi automatiche. Poche settimane dopo c’imbarcammo in quattro a Le Havre per la terra di San Patrizio. Thousand are sailing across the Western Ocean. In quel viaggio io diedi il meglio (o il peggio) di me stesso. Cominciammo a bere Guinness e Jack Daniel’s nel bar ristorante del ferry-boat fin dal tardo pomeriggio. Verso le nove di sera salì in pedana un tipico gruppo da pub e noi eravamo già ciucchi come delle biglie. Come se non bastasse stringemmo amicizia con un fulminato d’irlandese segaligno (Liam, mi sembra si chiamasse: un classico) e dopo innumerevoli rondas d’ogni bevanda esistente su questa terra e perfino un brindisi all’I.R.A. e a Bobby Sands finimmo a cantare tutti in coro House of the Rising Sun come dei coyote con la raucedine. Poi ci disperdemmo partendo ognuno per la propria tangente etilica. Io andai fuori a tentare di ripigliarmi con l’aria salmastra e qualche sigaretta, ma il beccheggio del naviglio peggiorò repentinamente la condizione. Allora rientrai andandomi a raggomitolare su una poltroncina in ultima fila nel 35 salone di poppa, fornito di schermo gigante, togliendomi le scarpe. Passati cinque minuti ebbi il primo, violentissimo conato. Mi alzai di scatto e corsi verso i servizi. Ormai a un nanosecondo dallo sbocco, mi cacciai nel bagno delle donne, traumatizzando probabilmente a vita quelle due povere ragazze francesi che andavano passandosi uno zampirone. Ricordo come fosse ora il loro grido simultaneo di terrore allorché, scalzo e con il volto alterato dal disgusto, sfrecciai tra loro come Oscar Pistorius per andare a depositare fra una tazza e le bianche mattonelle circostanti. Poi biascicai delle scuse in idioma gallico che le due fattone controbatterono con insulti irriferibili e tossendo carcinomatosamente riparai nel bagno dei maschi per sciacquarmi la bocca e la faccia. Ritornato alla poltroncina provai a dormire, ma il mio stomaco era ancora irritato. Di lì a poco il secondo round di chimo, assai meno impetuoso del primo ma non meno corrosivo, andò a concimare un lotto in penombra in fondo al salone. Doppio rintocco e finalmente sprofondai in un sonno senza sogni. Intorno alle dieci del mattino fui destato da un sonoro Scheiße! (“Merda!”) emesso alle mie spalle, seguito da altre presumibili parolacce in tedesco. Circospetto, infilai lo sguardo arrossato e il naso intasato di muco nello spazio tra i sedili. Un accampamento di punkabbestia stava bestemmiando all’indirizzo nel mio vomito rappreso tra moquette, parete e il lato piedi di un sacco a pelo color verde militare. Accanto a me Enrico ridacchiò e disse sottovoce: “Cazzarola, Mauri, gli hai palumato addosso mentre dormivano!” Io, in un moto di cinismo reazionario senza pari, mi strinsi nelle spalle. “Embé? Tanto ci sono abituati.” Ancora adesso non so se veramente vomitai addosso ai quei punk estremi teutonici o piuttosto essi per colpa del buio e/o della bomba che avevano addosso non distinsero la mia opera d’arte ready-made stendendovi sopra le loro membra ossute. La prima versione è ormai leggenda consolidata tra i miei amici più cari. E così sia. Secondo la mitologia irlandese, le genti dell’isola verde guadagnarono per sempre il diritto a consumare e produrre birra sconfiggendo i Fomoriani nella seconda battaglia di Magh Tuireadh. I Fomoriani, Fomorii Fo-Moir o Fomorach in gaelico, erano un popolo violento e deforme la cui sede era Tory Island. Frequentemente figurati con una sola mano, piede od occhio, erano gli dei malvagi del mito irlandese, benché il nome sembra significhi 36 “cavernicoli sottomarini”. Una definizione calzante per come mi sentivo io quando toccammo terra celtica: col viso dal pallore cadaverico, lo sguardo stralunato e la tremarella alle gambe, parevo proprio un discendente dei Fomoriani. Sembra che nel 1610 nella sola città di Dublino, abitata allora da 4000 famiglie, esistessero quasi 1200 birrerie. Non so dirvi quanti pub fossero censiti nel 1991; certo è che ne visitammo in abbondanza, specialmente nella zona di Temple Bar. Cominciavamo a sbevazzare già a colazione e finivamo giusto un attimo prima della pedante scampanata che annunciava agli avventori la chiusura del pub. Il rituale di versamento della Guinness mi rapiva, e mi rapisce, ogni volta. Il barista mantiene il boccale inclinato a 45°, sotto la spina, che si spinge in avanti in modo che lo spesso liquido scuro vada a innaffiare il retro del boccale. Una volta riempito per tre quarti, il bicchiere è lasciato decantare affinché il liquido più pesante vada a depositarsi sul fondo, lasciando in superficie la schiuma cremosa e più leggera. Passati due minuti circa si completa il riempimento, ma questa volta il rubinetto è spinto all’indietro, di modo che the pint of plain si colmi solo d’inchiostro. E dopo è tutta vita. Da buoni animali notturni, non potevamo accontentarci di un turbinio di birre e doppi, un juke-box coi vecchi pezzi dei Thin Lizzy e l’immancabile concerto di sean nos (motivi tradizionali irlandesi). Ma quando una sera provammo a entrare in un locale storico di Dublino, McGonagles, la cui programmazione musicale da noi letta nel tardo pomeriggio su un flyer prometteva scintille (sound del 1977 e derivati), fummo rimbalzati come palline da squash per “non avere il look adatto”. Figuratevi: due skinhead, un modernista e uno sbirro infiltrato nella mala irlandese di Hell’s Kitchen (il sottoscritto, che prima di partire si era sparato Stato di grazia in Vhs fino alla nausea. Adoro Sean Penn, Ed Harris e Gary Oldman. Ma anche Robin Wright…). Più adatti di così! Ciò nondimeno i due buttafuori dallo spiccato accento brogue ebbero il cavalleresco dettaglio d’informarci che la soirée sucessiva sarebbe stata più appropriata alle nostre tendenze: baggy e shoegazer… ah ah ah ah. In qualunque modo ci ripresentammo e fu divertente, per me un’autentica epifania musicale. Divenni un fan di quella roba psico-rock-danzereccia edonistica: EMF, Carter USM, Jesus Jones, Soup Dragons, Ride, My Bloody Valentine, The Wonder Stuff, Curve, Stone Roses, Happy Mondays… e Black Grape. Gli Happy Mondays non furono soltanto esponenti celeberrimi del “Madchester” 37 che scosse la Gran Bretagna negli anni Novanta, ma furono anche rappresentativi delle sue origini sociali. Formati nel 1981 dal delinquente e tossicodipendente Shaun Ryder, gli Happy Mondays rappresentavano l’alienazione dei giovani sottoproletari delle zone industriali (come appunto Manchester) durante il periodo conservatore di Lady Margaret Thatcher. Man mano che le discoteche rimpiazzavano i pub come luogo di perdizione per i giovani, il techno di Detroit soppiantava il vecchio rhythm and blues dei pub, e parallelamente l’ecstasy detronizzava l’alcol. (…) Ryder tornera` a galla alla testa dei Black Grape nel 1995, formazione con due rapper (Ryder e Paul Leveridge), la chitarra bruciante di Paul Wagstaff e un’orchestrina di fiati e tastiere. Il ballabile poliedrico (funk, hip-hop, jungle, house, reggae e heavy metal) di It’s Great When You’re Straight (Radioactive, 1995) sfodera l’impeto scanzonato dei Red Hot Chili Peppers e la coralità epica dei Clash, dallo shuffle indiavolato di Reverend Black Grape alla giostra raga-psichedelica di In The Name Of The Father, dalla filastrocca decadente e spaziale di Kelly’s Heroes al rap con organo soul di Little Bob. Album senza pretese, che continua semplicemente la vena “folle” di Madchester, ma che segna anche un ritorno alla grande per Ryder. Piero Scaruffi, Storia della musica rock. Andavo avanti a birra, whisky e tramezzini al salmone. Secondo un mito irlandese, il salmone Fintan mangiò le Nocciole della Conoscenza prima di nuotare fino a una pozza nel fiume Boyne. Là fu pescato dal druido Finegas e dato a Fionn Mac Cumhail da cucinare. Fionn, uno dei più celebrati eroi della mitologia irlandese, si scottò il pollice con la carne del pesce girando lo spiedo, se lo succhiò e in quel modo acquisì la saggezza. Non per niente, dopo tutto quel salmone al mio ritorno a Torino cominciai a scrivere racconti. Al terzo o quarto giorno di bed & breakfast mi si produsse una fobia per i chambermaids, che alle dieci inesorabili venivano a battere alla porta per rassettare la camera. “No, thanks, I want to sleep”, mugolavo sempre in risposta, rumore bianco nella testa rintanata sotto il cuscino. Una mattina l’amico Steve si spacciò per uno di loro imitandone la tiritera in maniera maccheronica e al mio ormai cronicizzato lamento ribatté in piemontese: “Sun mi, gadan! Bogia, ch’a l’è tard!” (“Sono io, fessacchiotto! Muoviti, che è tardi!”) Che simpatico. Se invece di un aspirante scrittore di finzione speculativa fossi stato un chitarrista dissoluto come Larry Wallis dei Pink Fairies, avrei colto le possibilità fottitorie della situazione piuttosto che lagnarmi – nel 1973 quest’ingiustamente trascurato gruppo proto-punk londinese scrisse un brano travolgente proprio sulle cameriere d’albergo, 38 Chambermaid per l’appunto: “Non m’importa se sembra un cane / purché faccia un ottimo lavoro/job/blowjob/bocchino.” Della serie, siamo in tour ragazzi, basta che respirino! Ma del senno di poi sono stracolmi gli otri. Oltre a questo le cameriere irlandesi sono in prevalenza delle cinghialotte rubiconde. Perlomeno lo erano tutte coloro che venivano a scassarmi i marroni glassati. D’altronde non tutti i giorni ci è concesso di giacere con Nicole Kidman. E ogni scopata lasciata è persa. Decidemmo la tappa susseguente a Dublino puntando un dito a caso sulla costa occidentale dell’Irlanda: Limerick. La National 7 ci condusse laggiù attraverso meravigliosi panorami di smeraldo. Limerick è una tranquilla cittadina situata alla foce del fiume Shannon. Forse troppo tranquilla per i nostri gusti vitaioli, ma n’approfittammo per smaltire le rimanenti tossine sabaude in circolo. Fu certamente una delle vacanze più rigeneranti che io abbia mai fatto. Un giorno ce ne andammo in gita al King John’s Castle, intitolato a John Lackland (Giovanni Senzaterra), re d’Inghilterra dal 1199 al 1216, noto soprattutto per aver concesso la Magna Charta – il primo documento fondamentale per la concessione dei diritti ai cittadini – e per i terribili sbalzi d’umore. Ehm, in verità nel castello neanche vi entrammo: ci fermammo in un pub nei pressi a macinare qualcosa e sbevazzare. Notai che di fronte allo stesso era parcheggiato un autobus turistico. Ci sedemmo a un tavolo e ordinammo le usuali quattro pinte. Accanto, un tizio sulla cinquantina abbondante, secco come un lupo, coi capelli neri ancora folti e lunghi fino alle spalle e i basettoni, stava spiegando a una signora: “Sì, sono io il conducente di quel pullman là fuori. Mi chiamo Malcom. Malcom O’Moloney.” Ne aveva addosso una da cinegiornale. “Sissignore, O’Moloney. Tipico cognome di Limerick. O’Moloney.” Conducente d’autobus turistici. Davvero? Per la miseria, era più sbronzo di un soldato mongolo dell’Orda d’Oro nel corso di una gozzoviglia per l’ennesima conquista! Noi ce la ridevamo sotto i baffi sorseggiando le nostre Guinness, ma nel momento in cui la signora riuscì a sganciarsene gli occhi azzurro slavato di Mr. O’Moloney cercarono e trovarono un altro soggetto cui attaccare bottone: me. Io all’epoca ero piuttosto sospettoso e suscettibile. Il tempo e le traversie mi hanno blandito alquanto. Fosse ora, stringerei la mano a Malcom, gli offrirei un Tullamore Dew – poiché tale era il suo scopo, farsi offrire da bere, forse aveva finito i soldi –, starei a sentire pazientemente per un po’ i suoi vaniloqui onomastici e come dicono gli spagnoli, aquí paz y después 39 gloria. Per contro allora quand’egli mi mise sorridendo una mano sulla spalla io gli restituii un’occhiataccia che lo respinse quasi all’istante nel suo cantuccio. Eppure non nutro alcun senso di colpa postumo per il mio comportamento scostante, dacché con ogni probabilità salvai la pelle ai passeggeri di quel torpedone. E allo stesso Malcom O’Moloney. La nostra breve vacanza si spense nobilmente a Wexford, un’altra ridente piccola città incastonata nella costa sud-ovest dell’isola pochi chilometri a nord di Rosslare, l’approdo-imbarco per il continente europeo. Wexford, che in norvegese significa “la baia delle basse maree”, fu fondata dai Vikinghi al principio del IX secolo d.C. Per aver rifiutato la capitolazione, Oliver Cromwell nel 1649 fece mettere a sacco la città e passare l’intera popolazione per le armi, inclusi i Frati Francescani. Nel 1963 JFK vi venne in visita e fu fatto Freeman, Uomo Libero, la più alta onorificenza che la città poteva conferire. Pochi mesi dopo veniva assassinato a Dallas. A Wexford assistemmo a un concerto della band irlandese del momento, i Saw Doctors. Il loro album d’esordio, di cui ancora posseggo il nastro, s’intitola If this is Rock and Roll, I want my old job back. Se questo è rock’n’roll, rivoglio indietro il mio vecchio lavoro. Semplicemente il più bel titolo d’album della storia del rock. Più mainstream dei Pogues ma non meno frizzanti, i Doctors ci piacquero parecchio. Durante uno dei brani più folk una carampana scalza e florida mi coinvolse in una danza sfrenata per mezza sala. Io mi prestai di buon grado. Steve, Ricu e Daffy ridevano come matti, ma di lì a pochi minuti toccò a me smascellarmi. Una ragazza piuttosto carina si affiancò a Steve e gli chiese: “Do you enjoy the band?” Stefano, amico mio non me ne volere ma non sei mai stato un’aquila reale in inglese, rispose: “No, thank. I don’t smoke.” Aveva inteso che la tizia gli avesse proposto di farsi un joint (una canna) insieme. E i Saw Doctors, vecchi marpioni loro, suonarono That’s what she said last night. Giovedì 25 settembre 20**, h 09.29 a.m., CET. Potenza di Internet. Nel cognome Molony o Moloney, O Maoldhomhnaigh in gaelico irlandese, oggi raramente è riscontrabile il prefisso originale “O”, nonostante sia totalmente gaelico e per questo virtualmente irrintracciabile in Inghilterra. Moloney è un interessante esempio delle stravaganze della nomenclatura irlandese. Alcune famiglie del North Tipperary chiamate Molony non sono O Maoldhomhnaigh, ma O Maolfhachtna, il quale, comunque, è altresì in rari casi anglicizzato in Maloughney e MacLoughney. (“Mi chiamo 40 Malcom O’Moloney.” Il George Best di Limerick compitava il proprio cognome con spiritica devozione. “O’Mo-lo-ney.”) Il buon Malcom può vantare alcuni illustri predecessori nel suo albero genealogico. John O’Moloney (1617-1702) fu straordinario sia per i suoi conseguimenti intellettuali come professore universitario a Parigi sia per la sua forte resistenza alla persecuzione dei cattolici in Irlanda. Il colonnello Sir James Stacpoole Moloney fu uno degli intrepidi soldati che presero parte al disperato attacco a Montreal nel 1786, in cui novantatré dei cento partecipanti furono uccisi. Martin Molony (1847-1929) fu un milionario che si fece da sé negli Stati Uniti. Quanto a Malcom O’Moloney, credo che passerà alla storia come il più alcolizzato conducente d’autobus granturismo mai vissuto in Irlanda. Figura 4. Dublino, 1991. Io sono quello con la T-shirt di Iggy Pop. 41 GARAGARDO KATXI BAT Di recente il professor Stephen Oppenheimer dell’Università di Oxford ha pubblicato un libro, The origin of the British, in cui dimostra che i popoli britannici discendono… dai baschi. È la diramazione più singolare di un’ipotesi già portata avanti da altri accademici europei: in una zona comprendente gli attuali Paesi Baschi, la Cantabria e L’Aquitania esistette uno dei più importanti rifugi durante l’ultima glaciazione. Per ripararsi dal freddo intenso, un gruppo di uomini di Cro-magnon si stabilì in questo Eden. Quando il clima tornò a essere benigno, a partire da 15 mila anni fa, le tribù vasconiche si dispersero per i territori che i loro antenati avevano abbandonato a causa del cambiamento climatico. Anche se non furono le uniche a raggiungere e colonizzare le isole britanniche. Il metodo della ricerca dello scienziato oxfordiano consiste nel confermare tale ipotesi mediante l’analisi dei dati ereditari raccolti dagli scienziati nel corso delle ultime decadi, che sono liberamente accessibili. In particolare, l’analisi dei marcatori genetici presenti nel Dna mitocondriale delle donne dell’Europa Occidentale rivela la loro discendenza da “Vera”, l’Eva basca, proveniente dal rifugio del Cantabrico. Di modo che saremmo tutti un po’ baschi. Ciò spiegherebbe, da un punto di vista squisitamente junghiano, come il sottoscritto sia fatalmente ossessionato da Euskadi. Basandosi su quanto anzidetto si sarebbe portati a considerare che i Paesi Baschi, e di riflesso tutta la penisola iberica, abbiano una tradizione birraia radicata nei secoli, come i loro possibili discendenti d’Albione. Invece non è così. Malgrado ciò, la Spagna è l’unico paese a tradizione vinicola a non avere bassi consumi di birra (poco meno di 70 litri pro capite all’anno!). Non per niente è il paese dove ho sentito, anzi letto per la prima volta – in un’intervista a Lucía Etxebarria, l’autrice di Beatrice e i corpi celesti – l’espressione beber como un cosaco: nella fattispecie, come una cosaca. Lo stile più diffuso al nord come al sud della “pelle del toro” è quello delle pils moderatamente amare, come nel caso dell’arcinota San Miguel, che in realtà è originaria delle Filippine. Se mettessi in fila tutte le San Miguel Especial che ho bevuto in vent’anni di vacanze al di là dei Pirenei (e anche nei Pirenei stessi) arriverei a sfiorare i bastioni di Orione. Ma a me piace un po’ troppo anche la Voll-Damm. Si tratta di una pilsner fabbricata dalla S.A. Damm di Barcellona; gagliarda e piena di corpo, questa birra similteutonica contiene il 7,2% d’alcol per volume. Se non ci stai attento ti sega 42 le gambe. Nella sua prima novella El chico del la bomba José María Sanz detto “Loquillo”, personaggio chiave del rock spagnolo, scrive a proposito dell’intellettuale catalano Antonio Rabinad: “Tortilla de patatas e VollDamm per colazione non sono male per uno che ha passato la barriera dei settanta.” È una colazione da campioni anche per un quarantenne. Euskadi mi ha cambiato l’esistenza. La prima volta che vi ho messo piede, vent’anni e qualche mesetto fa, non avevo idea di che cosa mi aspettasse. A parte l’esistenza di un’organizzazione terroristica separatista chiamata E.T.A. e di due squadre di calcio mietenti successi in Spagna a cavallo fra gli anni Settanta e gli Ottanta, Athletic Bilbao e Real Sociedad, non sapevo un fico seccato al sole della Sicilia di quei territori. Ancora meno che il concetto di “popolo basco” si estendesse alla Navarra, alla Rioja alavesa e oltre i confini spagnoli in tre province francesi sotto un unico lemma: Euskal Herria. Per non parlare della lingua ivi parlata. Poi successe che un amico mi portò a Donostia-San Sebastián e io, dopo essermi sciroppato dal 1986, anno della mia prima vacanza in Spagna, una sfilza di prescindibili località balneari quali Gandia, Peñiscola, Tossa e Lloret de Mar e aver storto la canappia bighellonando per le Ramblas preOlimpiadi del 1992 – piagate di tossici italiani, spacciatori africani, mignotte col sarcoma di Kaposi e travestiti – scoprii infine il mio Paese Celtibero dei Balocchi: cerveza e vino tinto a torrenti, vecchio e nuovo rock’n’roll sparato a volumi inenarrabili in ogni taverna (Kortatu, Fugazi, Ramones… Pogues!), architettura guascone, e certe femmine ciarliere dai lineamenti particolari, quasi estoni. Soltanto che i Lucignoli si chiamavano Gorka, Patxi, Andoni e Julio e il giorno dopo – alle tre del pomeriggio – non mi risvegliai con le orecchie d’asino ma scuoiato come una volpe. (Azeria larrutu, letteralmente “scuoiare la volpe”, è uno dei ben cinque sinonimi coi quali l’euskera denomina i postumi della sbornia.) Gernika, 16 agosto 1994, festa di San Roque. Il ragazzo italiano dai capelli infeltriti con la T-shirt degli Smashing Pumpkins e le Adidas da calcetto, pericolosamente rassomigliante al sottoscritto, prende l’ennesimo sorso di calimocho dalla tinozza plastificata. C’è chi fra la sua comitiva aborrisce con tutta l’anima quella mistura di Coca Cola e vinaccia del paese dietro la collina, ma lui ne va pazzo e che importa se a forza di mandarne giù a litri la lingua gli si è fatta bluastra come se avesse contratto la tremenda febbre catarrale degli ovini causata dall’urbi et orbivirus, tanto alle sette passate 43 del mattino il pesce è già bell’è che venduto e chi ha caricato (in vacanza come a casa propria bisogna tassativamente darsi da fare tra mezzanotte e le tre del mattino, dopodiché è tutto tempo sprecato ammenoché non siate uno spacciatore di cocaina) sarà già alla seconda o terza mano, o forse sarà crollato sulle tettone Danone di Begoña Taldeitali già dopo la prima per eccesso di libagioni; quindi sarà per un’altra notte, Mauri, dài, la festa è appena incominciata e non farti troppe seghe mentali, che quelle fisiche sotto la doccia quando i tuoi compari stanno ancora dormendo la piomba della notte prima bastano e avanzano. Dico, hai ventinove anni! I giovani beoni di Gernika-Lumo, cioè Ibon Ackerman e la sua banda di contrabbandieri – uomini vigorosi dai nasi aquilini e donne indurite con lo schioppo sotto la gonna – non ne vogliono sapere di andare a coricarsi. Baldoria per ogni dove anche se sta sorgendo il sole. Col suo spagnolo zoppicante, Maurizio chiede a un tizio strutturato come un’immane bocca da fuoco del sedicesimo secolo se esista da qualche parte un locale afterhours: costui, paonazzo e ridanciano, gli traccia rapidamente con un dito nell’aria fresca una mappa olografica per giungere a un posto battezzato Metropolis. Non è molto lontano. Eccoci. Il Metropolis è una specie di magazzino saturo di fumo d’erba con uno schermo fissato alla parete opposta al bancone sul quale, non appena ci accingiamo a brindare per la centesima volta, appare quella sciamannata di Lene Lovich cantando Lucky Number, Anno di Grazia 1979. My Lucky Number’s One…Uh-oo-Uh-oo! Mi lascia basito. L’ultima volta che ho ascoltato questa canzone risale al tempo del nostro trionfo al Mundial di calcio spagnolo, e ’sti buontemponi ne possiedono perfino il video… Gora Euskadi! Gora Euskadi. Viva Euskadi. Il basco, euskera o euskara, è uno degli idiomi più ostici e misteriosi al mondo. Le stesse origini del popolo basco sono tuttora oscure. Se è pur vero che i britannici discendono dai baschi, da chi discendono questi ultimi? Quantunque in gioventù abbia divorato quantità di fantarcheologia, non ho mai preso per oro colato tutte quelle congetture su Atlantide, Mu, i dischi volanti e i disegni di Nazca. Ciò nonostante certe affinità fanno riflettere, e parecchio. Nell’entroterra basco non è infrequente incontrare donne i cui lineamenti somigliano al tipo di una scultura aurignaziana ritrovata a Unterwisternitz, in Moravia: fronte bassa, arco sopraccigliare marcato, naso lungo, bocca piccola, mento sporgente, testa allungata e sottile. La cultura aurignaziana 44 dell’Alto Paleolitico (32.000-21.000 anni a.C.) è considerata da alcuni archeologi la matrice dell’uomo moderno in Europa: sono attribuiti a essa i primi esempi tangibili di arte astratta nella storia dell’umanità – il nome deriva dall’importante sito archeologico di Aurignac, nel distretto francese dell’Alta Garonna. Sta di fatto che i caratteri di quella scultura somigliano in modo sorprendente anche al tipo delle strane “teste degli avi”, o Moai, di Rapa Nui. Oltre a questo la paleolinguistica riconosce un programma uniforme nel quale affluiscono non solo tutte le lingue parlate di oggi, ma anche quelle ormai estinte; il giapponese è affine all’idioma parlato in Georgia che a sua volta comprende molte radici linguistiche e perfino alcune parole che corrispondono all’euskera (nonostante in tempi recenti alcuni linguisti abbiano confutato la tesi di un’origine caucasica della lingua basca), dal canto suo straordinariamente simile all’idioma dei Lakandoni, una tribù di Indiani che vive nel nord del Guatemala, a tal punto che un missionario di origine basca vi predicava nella propria lingua con grande successo. In ogni modo, l’euskera è una brutta bestia. La cosa divertente è che spesso i baschi non si comprendono da un monte all’altro, essendo la loro lingua divisa in una varietà di dialetti. In tal caso tocca loro ricorrere al batua, l’euskera unificato. Comunque il viaggiatore che mastichi un po’ lo spagnolo castigliano va sul sicuro. Se poi ci tenete a suscitare un’inarcata di sopracciglio, epater le basque, ecco alcune frasi d’uso quotidiano: agur, aio, arrivederci! agur, arrivederci aizan!, aizak!, cameriera! cameriere! arraina, pesce arratsalde on, buonasera azkenean, in fondo ba al da hotelik hemen inguruan?, ci sono degli alberghi qui intorno? ba al dakizu ingeleraz hitz egiten?, parli inglese? badakizu euskaraz?, parli basco? bagarela!, ci siamo, stiamo arrivando bai ote?, veramente? bai, egun on, risposta a egun on, letteralmente buongiorno anche a te bai, sì barazkiak, verdura barkatu, scusami 45 berdin, hala zuri ere, ugualmente, anche a te bizi gara!, siamo vivi! botila ardo bat, una bottiglia di vino egun on denoi, buongiorno a tutti egun on, buongiorno emak bakia!, lasciami solo! (espressione usata anche dal mitico Man Ray come titolo del suo film e della sua scultura) eskerrik asko, grazie molte! eskuinetara, a destra eup!, ciao, anche apa o aupa o iep! ez dakit euskaraz hitz egiten, io non parlo basco ez dut nahi, non lo voglio ez dut ulertzen, non ho capito ez, no ezkerretara, a sinistra gabon, buonanotte (scuoiare il bufalo invece che la volpe…) garagardo katxi bat, un katxi di birra geldi!, fermati! gero arte, ci vediamo dopo ikusi arte, ci vediamo! jakina!, noski!, sicuro! va bene! kafe ebakia nahi nuke, vorrei un caffè macchiato kafe hutsa nahi nuke, vorrei un caffé espresso kafesnea nahi nuke, vorrei un caffelatte kaixo aspaldiko!, ciao, quanto tempo! kaixo!, ciao! komuna, bagno lasai, tranquillo laster arte, ci vediamo presto mesedez, per favore metalura, acqua minerale (non suona anche a voi come il nome di una squadra di calcio polacca?) neska ederra, bella ragazza nire izena Maurizio da, mi chiamo Maurizio non dago autobus-geltokia?, dov’è la stazione degli autobus? non dago komunak?, dove sono i bagni? non dago tren-geltokia?, dov’è la stazione (ferroviaria)? nongoa zara, da dove vieni?, dove abiti? 46 ogi piska bat, un po’ di pane pozten nau zu ezagutzeak, felice di conoscerti topa!, sono felice! (questa mi fa sbellicare dalle risa, insieme col nome di un paese in provincia di Bilbao: Fika.) ura, acqua xerra patata frji tuekin, bistecca con patate fritte zein da zure izena?, nola duzu izena?, come ti chiami? zer moduz?, come va? zorionak, buone feste! zuzen-zuzenian, sempre dritto La pronuncia non dovrebbe presentare grossi patemi. L’accento grafico non esiste e quello tonico è piuttosto flessibile. Vocali e consonanti si pronunciano come in italiano tranne che nelle seguenti eccezioni: g è sempre dura come in “gatto”. h muta in Euskadi, mentre è aspirata nel territorio basco-francese tx/ts come la “c” di “cena” tz “z” sorda, come in “zezè”, come la “c” di “cena” in Bizkaia z come la “s” di “sole”. Il katxi è un bicchiere di plastica da un litro in cui vengono mesciti birra, calimocho o kalimotxo (50% vino ordinario e 50% Coca Cola, inventato trentasei anni fa a Getxo, in provincia di Bilbao) e qualsivoglia altra pozione alcolica. Considerando lo spirito transumante che anima le feste e le festività basche, il katxi è piuttosto funzionale. Essendo in quattro, la classica cuadrilla da bisboccia, potete prenderne uno a testa e andare a zonzo sereni per un bel pezzo. Salvo che qualcuno – ogni allusione a una certa ragazza che conosco a Bilbao è fortemente voluta – non se ne esca con la malsana idea del Katxi Ketama: si pratica un foro nell’orlo inferiore del katxi e si beve a garganella, come fosse un porrón. Così finirete fradici in ambo i sensi. E se è kalimotxo, pure appiccicosi. S’intende che in Euskadi ogni occasione è buona per tracannare alcolici in quantità industriali. Ma è nelle feste patronali e simili che i vascones ci danno veramente dentro, come il resto della nazione. Nell’immaginario collettivo globale la Spagna è e rimarrà sempre associata al concetto di movida. Poco tempo fa Pedro Almodóvar si è espresso al riguardo: “Per 47 molta gente la movida continua a essere sinonimo di orgia perpetua. E non era esattamente ciò. L’esplosione ufficiale della movida madrilena fu nel 1985, ma per me fu ciò che iniziò nel ’78 e si disfò all’inizio degli Ottanta. Oggi questo termine è usato largamente a sproposito.” Sia come sia, la movida basca è estroversa, colorita, inebriante. Le feste (jaiak) si succedono per tutto l’anno, da primavera a inverno. Perfino il pueblo più insipido dell’entroterra può trasformarsi in un pandemonio per tre-quattro giorni di fila: io e i miei amici amiamo spesso rimembrare una notte di balli e katxis a profusione spesa in un angolo recondito di Bizkaia che risponde al nome ostrogoto di Larrabetzu. Ma qui mi toccherà essere selettivo e parlare delle feste a mio modesto giudizio più importanti, da Carnevale a Ferragosto. È tradizione che si celebri il Carnevale (in basco, Iñauteriak o Iñotek) in alcune località di Euskal Herria durante i giorni anteriori alla Quaresima. Queste celebrazioni che esistono in tutti i paesi europei adottano nei Paesi Baschi diverse forme e personaggi: come i caldereros della Gipuzkoa, strane zingaresche comparse “che vengono dall’Ungheria”. A Zalduondo (Araba) il protagonista della festa è un pupazzo, Markitos, che ogni anno è giudicato, condannato e bruciato. Un altro fantoccio, Cachi (!), provvisto di una bandiera e vestito di verde e arancione, anima la festa di OyónOion, sempre in Araba. Yoaldunak e Mozorros sono invece i pressoché inesprimibili nomi delle maschere che danno vita all’altrettanto indicibile Zanpanzar, il Carnevale della località navarra di Iturren-Zubieta, situata a una trentina di chilometri a nord-ovest di Pamplona-Iruñea lungo la N121A che porta a Irun. Ma il premio per il Carnevale più chiassoso e popolare lo vince la cittadina di Tolosa, in Gipuzkoa. La Navarra, Nafarroa o Nabara in euskera, è un intrigante crocicchio di molteplici Spagne. Gli abitanti della Comunidad Foral de Navarra, com’è ufficialmente conosciuta questa regione in ossequio agli storici diritti di autonomia (i cosiddetti fueros) per lungo tempo esercitati dai navarri e oggi tornati in auge, sentono fortemente gli aspetti simbolici: il colore rosso domina lo stemma regionale e le varie sfaccettature del quotidiano, come le automobili, le motociclette e le uniformi in dotazione alla Policia Foral, ma soprattutto le fantasmagoriche fiestas della regione, quando gran parte degli abitanti indossa i tradizionali calzoni e giubba, con le sciarpe e i pañuelos rossi. Navarra al rosso vivo, alfine. Paesaggi e vini memorabili. E birra a strafottere. 48 Le origini della celebre festa di San Fermín, o Sanfermines, risalgono al Medioevo. Fermín era il figlio di un governatore di Pamplona convertitosi al Cristianesimo; egli partì per diffondere la parola di Cristo in Gallia, ma ad Amiens fu imprigionato e poi decapitato. A partire dal 1591 il 7 luglio gli è stato dedicato. Nello stesso giorno, alle dieci del mattino, una statua lignea del XV secolo raffigurante il santo patrono della Nafarroa e di Pamplona-Iruñea viene portata in processione attraverso la città. Se qualcuno sulla terra nutrisse ancora qualche dubbio, San Fermín è una festa chiassosa e ad altissimo tasso alcolico. I combattimenti dei tori si svolgono ogni giorno alle 18.30, dal 7 al 14 luglio. Ogni mattina, i tori sono lasciati liberi dai Coralillos de Santo Domingo e da lì si scatenano caricando attraverso l’omonima piazza. Il percorso che li conduce fino all’arena comprende Calle de los Mercaderes e Calle de la Estafeta, ed è proprio qui che generalmente si concentrano tutti coloro che intendono correre con essi cercando di avvicinarli il più possibile; taluni arrivano perfino a colpirli in testa con dei giornali arrotolati! Una festa che ha parecchio in comune con San Fermín, poiché anch’essa prevede la liberazione di bovini cornuti per le strade della città, è la Fête de Bayonne, l’affascinante capoluogo della provincia basco-francese di Labour (Lapurdi o Laburdi). Essa inizia il primo mercoledì sera del mese di agosto e dura cinque giorni. È il Re Léon, alle ore 22 dal balcone del Municipio, a dare inizio ai bagordi. Il 4 agosto a Vitoria-Gasteiz, alle sei del pomeriggio, il sindaco spara il chupinazo (grosso petardo il cui scoppio annuncia l’inizio ufficiale della cagnara) e un fantoccio nominato Celedón, vestito come i contadini che un tempo scendevano giù in città per far festa, viene fatto discendere da una torre della chiesa di San Miguel fin giù nella piazza della Virgen Blanca, stracolma di festanti… dopodiché è tutto uno spruzzarsi reciprocamente di spumante. La prima volta che andai a Vitoria-Gasteiz per la festa della Virgen Blanca fu nel 1994. Era un classico pomeriggio basco estivo senza sole col cielo color ricotta e io volevo scattare un paio di rullini con la mia nuova Minolta Dynax. Avevo appena parcheggiato la mia Tipo in una kalea vicino al centro quando fui circondato da una masnada di zingarelli assillanti. Il più alto mi arrivava a malapena al mento, ma erano in molti, se ricordo bene una decina, tutti stracciati e maldisposti. Quando trent’anni fa percorrevi in solitudine una strada di periferia e all’improvviso ti si paravano davanti quattro ceffi col caschetto alla Ramones – a prescindere che adorassi quella band – e le magliette sdrucite, già sapevi che di lì a 49 poco la faccia più di merda del gruppo, il capetto, ti avrebbe chiesto di dargli il portafoglio o gli stivali, o tutt’e due. Allora potevi giocartela in qualche maniera. Ma con pischelli di dieci anni, massimo dodici... che cazzo vuoi prevedere? Cadono tutte le regole. Magari di punto in bianco ti spruzzano in faccia del narcotico e ti risvegli in un lurido sottoscala del Casco Viejo senza un rene. O con un palo ficcato nel sedere. Comunque sia riuscii a liberarmi di quei piccoli bastardi a colpi di pseudo kung fu e ceffoni. Ah, la Semana Grande Donostiarra: il mio battesimo del fuoco alcolico in Vasconia. Ero rimasto alla volpe scuoiata. Al terzo giorno di bagordi ne indossavo la pelle con disinvoltura, come una bagasciona d’alto bordo. Di tanto in tanto io e l’amico Vito ci perdevamo di vista. Il nostro punto di riferimento era comunque la taverna Arrai-Txiki, un posto che oggi non esiste più e che allora era gestito da Julio, un fenomeno d’essere umano di cui perfino i conoscenti più intimi disconoscevano le origini (“È un po’ basco-navarro, un po’ andaluso, un po’ nonsoché!”). Da lì ripartivamo a spolverarci tutti i bar della Parte Vieja. Qualche volta ci ricordavamo di mangiare (in una città la cui cucina è tra le migliori di tutta la Spagna) e di stimolare la sintesi di vitamina D nei nostri corpicini pallidi prendendo il sole, quando e se si degnava di apparire tra un piovasco e l’altro, sulle bellissime spiagge donostiarras. Il quarto giorno conobbi la questione politica basca. Io e Vito stavamo bevendo la milionesima birra al Bar Bulevar, presso l’Ayuntamiento. Ero già stato edotto che quello era il Día de la Bandiera – momento critico delle più importanti feste basche in cui gli abertzales (“patrioti”) assaltano l’edificio del Comune, ne strappano la bandiera spagnola, la bruciano e la sostituiscono con l’ikurriña, la bandiera basca. Ma quella sera la polizia autonoma basca, l’Ertzaintza, era schierata in forze e ricacciò indietro i manifestanti separatisti sparando palle di gomma. Noi finimmo presi in mezzo al parapiglia e una pelota saettò fischiando a poco più di un palmo dalla mia testolina allora zazzeruta. Mentre cercavamo scampo dietro a un’automobile parcheggiata, due paninari inglesi, che fino allo scoppio del putiferio stavano facendo classico people watching nel dehors del Bulevar, s’incazzarono di brutto. “You bloody bobbies!” esclamò uno dei due, un biondino pettinato alla Rick Astley. L’altro, sorta di Nick Kamen dell’East End, afferrò una sedia e la scagliò addosso agli sbirri: pochissimo dopo, 50 unendo le rispettive forze, essi lanciarono il tavolino. Nel bene e nel male, gli inglesi sono unici. Il grosso “problema” è che appena finisce la Semana Grande/Aste Nagusia Donostiarra (12-19 agosto) si parte in tromba con quella di Bilbao/Bilbo. Il primo venerdì dopo Ferragosto, dal balcone del Comune, il pregonero (“banditore”) e la chupinera, colei che fa deflagrare il petardo indossando un’uniforme dai toni rossi che rammenta quella delle truppe carliste che assediarono e bombardarono Bilbao nel 1835, danno il via ufficiale a un vero tour de force alcolico, musicale e gastronomico che si concluderà due domeniche dopo con la despedida di Marijaia, il simbolo della festa: una signora grassottella con le braccia levate al cielo in segno di giubilo. Come un Johnny Mnemonico nato e cresciuto in riva al Po, ho centinaia di gigabyte di ricordi bilbaini nella memoria: dovessi scaricarli tutti su queste pagine vi manderei il cervello in crash. Per questo mi limiterò alle mie (e non solo) esperienze con la bevanda più psichedelica che esista al mondo: il patxaran. Il patxaran o pacharán, dal basco baso aran (“prugna selvatica”) è un liquore dal sapore di prugnole d’origini navarre ma comunemente bevuto in tutta la Spagna. Si fa mettendo a bagno le prugnole in anisetta con una piccola quantità di chicchi di caffè e un baccello di vaniglia per diversi mesi. Il risultato è un liquore dolce color rossastro-marrone trasparente, intorno ai 25-30% d’alcol per volume. In Navarra si dice che mangiare le prugnole dopo la macerazione può portare alla pazzia. Io ci credo ciecamente. Ho sperimentato di persona gli effetti psicotropi di questo liquore. Una sera di tanti anni fa che in un locale di Portugalete, un sobborgo di Bilbao, eccedetti nel berlo, mi scatenai in un’imitazione del Gabibbo davanti alla postazione del DJ. Niente, in confronto a ciò che è successo a certi miei seguaci. Uno perse realmente il senno per alcune ore. Ululava le proprie frustrazioni alla luna e alle galassie e sulla strada per il ritorno all’agriturismo di Lezama dov’eravamo alloggiati tutt’a un tratto spalancò la portiera della mia auto e si lanciò fuori. Per fortuna io andavo piano e lui atterrò su un’aiuola. Lì vi rimase a braccia spalancate, come un crocifisso a faccia in giù. Accostò un Ford Transit tutto rappezzato e gli occupanti ne smontarono domandandoci se avessimo bisogno di sostegno e che diavolo fosse successo al nostro collega. Io li tranquillizzai: “Nada, ha solo bevuto troppo patxaran.” Josetxo o Garikoitz, dimensioni e accento da orso dei Pirenei, lapidario: “Vaya, se non è navarro non lo beva!” 51 Scoppiammo a ridere. Ma le escandescenze paciaranesche dell’individuo non finivano lì. Stufatici, lo lasciammo a rantolare chiuso in macchina nel parcheggio dell’agriturismo e salimmo in camera a dormire la sbronza. Il mattino dopo, pallide ombre di noi stessi in una splendida giornata di sole, le verdi colline della Bizkaia tutt’intorno, fummo messi in riga e cazziati da Don Iñaki Bilbao, proprietario dello stabilimento turistico nonché capo della sezione locale della Policia Municipal: “Tenemos que hablar” esordì, freddo come l’inverno russo, cipiglio da Aguirre furore di Dio. Porca troia. Neanche dodici ore che avevamo disfatto le valigie e già ci eravamo fatti riconoscere piantando casino di notte. Purtuttavia io feci un tale sfoggio di diplomazia, lanciando simultaneamente occhiate al curaro in direzione di my friend delirium – ridotto una merda, è ovvio – che alla fine Iñaki si convinse che eravamo delle paste di ragazzi e a poco a poco ci prese in simpatia… anche se per un paio di giorni ci toccò la deportazione in un altro agriturismo di gran lunga meno confortevole del suo. Raquel Menéndez Goyenolea, che mi buttò giù dal letto alle 23.15 di un classico lunedì da sclero per dirmi che mi lasciava, mi fece conoscere un altro beveraggio demoniaco, il licor de manzana. Le sere che uscivamo insieme a Bilbao riuscivamo a berne anche cinque a testa, rigorosamente con ghiaccio perché puro è da coma epatico: le meravigliose scopate che ci facevamo quand’eravamo bombati di quel veleno alla mela verde! Ma il primo amore (ad alta gradazione) non si scorda mai. Così una notte stappai la buta di Etxeko che tenevo sul comodino e cosparsi di liquore i seni della mia amante per poi leccarmelo goccia a goccia. Rico… suave… Throwing Copper dei Live in sottofondo. Lacrimuccia. La sera del 21 agosto 1993 occupammo un bar di Santutxu, il Blues, per assistere alla finale di Supercoppa Italiana Torino-Milan che si giocava a Washington a mo’ di spot promozionale per gli imminenti Mondiali di calcio U.S.A. Cioncammo cerveza e patxaran a secchiate sotto lo sguardo mezzo divertito e mezzo perplesso del gestore e degli habitué, che peraltro conoscevano già le nostre inclinazioni dipsomaniache. Il Toro perse 0-1 ma noi non smettemmo di sbevazzare. Quando il Blues chiuse i battenti rotolammo giù ad Aste Nagusia – Santutxu, uno dei quartieri a più alta densità di popolazione d’Europa, ha la sua origine in un eremo – e tra la borrachera che avevamo addosso e la spaventosa concentrazione d’anime lesse come noi e anche più ci separammo come cosmonavi in fuga da un pianeta il cui sole fosse sul punto di esplodere. Giovanni, detto Giuà l’Attaccapanni, fu ritrovato il mattino dopo riverso in un’aiuola sofferente 52 d’alopecia aerata dinanzi alla saracinesca abbassata del bar: non ricordava nulla della notte scorsa. Certi amabili mattacchioni del quartiere invece ricordavano bene un personaggio rasato a zero e allampanato arrancare tra i chioschi come un predicatore battista in acido strepitando ogni dieci secondi: “Skinhead is no fascist! Vaffanculo!” Quanto a me, no comment. Tempo dopo a Bilbao incontrai un signore barbuto che aveva presenziato alla fase calcistica della nostra baldoria. Disse: “Voi italiani siete dei pazzi scatenati. Il patxaran è un digestivo! Non si beve così, un bicchiere dietro l’altro, come fosse una birra!” Forse noi torinesi discendiamo dai tartari della Mongolia occidentale. Figura 5. Jai Alai, la birra del pelotari (prodotta in India). 53 LE INVASIONI BARBARICHE No, non è giusto che quei cazzoni si prendano tutto il divertimento – con le loro voci rauche e dodici scopate settimanali… bocche cavernose, urla, rutti, imbevuti di Guinness. Steven Berkoff, East: Sylv’s Longing Speech. Come ho già scritto, prediligo le brunette con le labbra turgide. Ma le altre figure di donna disponibili sul terzo pianeta del Sistema non mi lasciano certo indifferente: per esempio, le palliducce con gli occhi blu. Come Robin Tunney. Americana, attrice di grande talento. È la migliore amica di Liz Phair, la più scollacciata cantautrice rock statunitense degli ultimi anni (“Voglio essere la tua regina bocchinara”, canta costei in un brano del suo acclamato esordio discografico, Exile In Guyville). Qualche anno fa Robin ha vinto una Coppa Volpi a Venezia quale migliore attrice protagonista per la splendida interpretazione di una ragazza tourettica nel film Niagara Niagara. In tempi più vicini ha recitato nella serie Prison Break, ma è apparsa anche nell’episodio pilota di Dr. House – Medical Division nel ruolo di Rebecca Adler, una maestrina ebrea affetta da neurocisticercosi: un’infezione caratterizzata dalla presenza nell’encefalo di cisti formate dalla fase larvale (immatura) della buona vecchia immonda Taenia solium, il verme solitario. Roba da non mangiare più salumi e carne cruda a vita. E Marie-Josée Croze. Di questa deliziosa attrice franco-canadese avevo ammirato… il bel culo nudo e le iridi gattesche in una puntata del serialcult The Hunger ben prima che lei vincesse, a buon diritto, la Palma d’Oro a Cannes per la caratterizzazione di Nathalie, la “correttrice di bozze” eroinomane che nel bellissimo Le invasioni barbariche aiuta lo scapestrato ma profondamente umano professor Rémy, “socialista edonista”, a morire con dignità. Bella e brava, insomma, la Croze ha confermato il suo versatile talento in un altro bel film tratto da un libro indimenticabile, Lo scafandro e la farfalla. Rispetto al racconto autobiografico di JeanDominique Bauby, il pittore-regista Julian Schnabel si è preso più di una libertà in sede d’adattamento, ma non importa, il nucleo struggente della storia è rimasto intatto. In una delle scene aggiunte dal proteiforme artista statunitense, Jean-Dominique riapre l’unico occhio funzionante dopo il devastante attacco che ha imprigionato il suo corpo in uno “scafandro da palombaro” e, attraverso una percezione sfumata e irregolare, distingue gli 54 splendidi lineamenti di due donne in camice bianco chine sul suo volto a rinfrancarlo: l’ortofonista Sandrine (Croze) e la fisiatra Brigitte (Olatz Lopez Garmendia, la meravigliosa moglie basca di Schnabel). “Sono in Paradiso”, mormora Jean-Do tra sé. Io sono agnostico. Ma qualora vi fosse qualcosa al di là della vita terrena, un momento da rivivere all’infinito, e io ne fossi giudicato meritevole – ma esiste la meritocrazia nell’universo? –, e per di più mi fosse data la possibilità di scegliere, allora vorrei vivere la mia sempiterna beatitudine in una taverna donostiarra con Marie-Josée, Olatz e Valerie, e mettiamoci anche Vera Farmiga, altra adorabile attrice dal volto di neve artica, e Barbara Goenaga, futura star del cinema iberico nata dalle acque del fiume Urumea, tutte dietro il banco a spillare Draught Guinness e Menabrea per me. Per sempre. Ma non ci starebbe male neppure un fusto perpetuo di Pilsner Urquell o di Heineken. O una bella dunkel weisse tedesca, la Herrnbräu per esempio. Chiedo troppo? I Barbari, da tempo immemorabile presenti intorno ai confini dell’Impero romano, iniziarono a penetrare massicciamente nel suo territorio tra il IV e il V secolo d.C. I Germani passarono il confine del Reno e devastarono a più riprese la Gallia, compiendo talvolta azioni di razzia anche in Spagna e nell’Italia settentrionale e spingendosi finanche in Britannia. Sette secoli dopo, essi continuavano a spingersi oltre le proprie frontiere, ma le loro navi anziché guerrieri affamati di carne e assetati di sangue ora trasportavano birra in tutta Europa salpando dal porto di Amburgo, città che nel 1100 era sede di un importante mercato del luppolo. Nel 1516 la Bavaria promulgò il Reinheitsgebot, un editto nel quale si prescriveva che la birra poteva essere fatta esclusivamente con malto d’orzo, luppolo e acqua. In una delle stesure successive venne inserito anche il lievito, così come le birre di grano ottennero una speciale dispensa. Oggi la Germania, a tutti nota per l’Oktoberfest e una gamma sterminata di stili di birra (altbier, kolsch, weizen, bock, dunkel, monaco…), è in testa alle classifiche mondiali come paese consumatore ed è seconda soltanto agli Stati Uniti come paese produttore. Mercoledì 1 ottobre 20**, h 09.49 a.m., CET. Ho sotto gli occhi cisposi la scheda della leggendaria EKU 28, o Kulminator Urtyp Hell (un nome da band metal core!). Questa doppelbock è una delle birre più forti del 55 mondo (11,6% alc.). La ricordo con simpatia come integratore al malto di quei lunghissimi e atletici prepartita negli anni Ottanta fuori dello Stadio Comunale, ora Olimpico, anche se alla Rai di Roma, per somma ignoranza o affinché non sia confuso col loro Stadio Olimpico caput mundi, spesso lo chiamano Stadio delle Alpi. Un’altra bevanda classica “da stadio” era il vino portoghese Mateus, consumato in quantità da cosacchi anche dai Faces sul palcoscenico per tonificarsi fra una canzone e l’altra. Johnny Rotten li detestava per questo: “Fingevano di essere ubriachi sul palco.” Già. John Lydon detto Rotten. Un giorno qualcuno mi avvertì: “Mauri, ma lo sai che a luglio i Sex Pistols vengono a suonare a Torino al Traffic?” E io mi posi una domanda del menga: “Fantastico, meraviglioso, ma che senso può avere un concerto dei Sex Pistols nel 2008?” Rispondendomi all’istante: “Porcaccia eva se ha senso!!! Basta scrollarsi di dosso ogni forma di preconcetto.” Primo fra tutti, il timore di assistere al definitivo raglio del cigno di quel gruppo rock’n’roll che, benché avendo pubblicato un unico maledetto corrosivo tonitruante devastante contagioso pernicioso sguaiato stonato irriverente in definitiva fottutamente fantastico disco, ha cambiato/rovinato (eh eh eh, è proprio così!) per sempre la tua vita. E non solo la tua, accidenti a loro… “Chi sono i Sex Pistols?” si chiedeva la rivista. Fine anni settanta, ero andato a trovare mia madre e stavo leggendo il giornale. Scorrendo un supplemento domenicale per il popolino, la mia attenzione fu catturata, e la mia vita cambiata, da queste parole insolite in caratteri di scatola “CHI SONO I SEX PISTOLS?”. Volevo saperlo subito anch’io. L’articolo li bistrattava, li denigrava: questo “sedicente gruppo musicale” britannico di mocciosi “punk rocker” che si scagliavano con rabbia contro tutto, vomitavano oscenità e sputavano a loro piacimento, vestivano di stracci, catene, spuntoni e stivali orrendi, facevano cose indicibili ai capelli (e alle loro ragazze) e producevano un frastuono rivoltante scambiandolo… alcune loro canzoni erano state bandite dalle radio… Be’ ne avevo sentito abbastanza. Ero già innamorato cotto. (Il lato ironico, ovviamente, è che la rivista cercava di mettere in guardia la gente dai Pistols e loro simili, e invece finì forse col convertire migliaia di adolescenti al punk.) Andai immediatamente al negozio di dischi d’importazione ed entrai di corsa, domandando col fiatone: “Avete i Sex Pistols?” “Ehi, Joe!” gridò il ragazzo, ridendo. “Un altro che vuole i Sex Pistols!” Li avevano finiti. 56 Anch’io come John Shirley, scrittore di fantascienza punk autore del brano precedente, me ne innamorai appena ne sentii parlare. Altri, per la maggior parte pallosissimi radicali con barbe cespugliose e pantaloni di velluto a coste, li odiarono subito a morte. Erano quei tizi che picchettavano una mattina su dieci gli ingressi dei licei e degli istituti tecnici, “rimarremo piantati qua davanti fino a mezzogiorno, compagno”, ti dicevano, cosicché tu te n’andavi al centro a bighellonare felice e incosciente, ma il giorno dopo venivi a scoprire con raccapriccio che il picchetto era durato soltanto un’ora e mezza e i sedicenti contestatori si erano presentati puntualissimi e splendidamente preparati per l’interrogazione di algebra… morale della brutta favola, alla fine dell’anno scolastico loro promossi a pieni voti e tu bocciato come un fesso da corsa. Pure, ammettiamo che tra te e lo studio vi era la stessa distanza che fra la Terra e la Stella Polare… però… Per questi futuri parlamentari del PD (o gestori di locali alternativi, come Okudera) il punk era un rigurgito nichilista del fascismo. Ricordo bene un servizio trasmesso da una nota tv privata torinese che stigmatizzava “gli idioti degenerati del nazi-punk-rock”, mostrandoci le fotografie in bianco e nero di un grottesco ersatz piemontese dei Kiss (ma che c’entravano?), capelli alla Franco Causio e smorfie da adolescenti costipati sotto il trucco razziato ai beauty-case delle loro mammine. Il giornalismo disinformato e dozzinale è una piaga vecchia quanto l’umanità. Nessuno spiegò lo spirito di quel tempo meglio di Rat Scabies, vulcanico batterista dei Damned, in un’intervista del 1976: “Oggi il pubblico vuole i suoi propri eroi, non vecchi uomini noiosi. Doveva accadere; la scena musicale era diventata talmente stagnante che doveva cambiare.” E io, post-bambino coi capelli informi e il naso a patata piemu-siculo scimmiato per Doctor Who, mi bevevo quel mutamento come acqua sorgiva corretta con solfato di anfetamina seduto a gambe incrociate di fronte al nostro nuovissimo televisore a colori, i libri di scuola dimenticati sulla scrivania della mia cameretta: Anarchy in the U.K., London Calling, Plan 9 Channel 7, Happy House… E ora, trent’anni e trenta chili dopo, i Sex Pistols venivano a suonare per la prima volta nella mia città. Wow. Trout Mask Replica, Song Cycle, Anthem of The Sun e Sgt. Pepper sono stati tutti nette ridefinizioni della musica popolare, ma White Light/White Heat dei Velvet Underground fa parte di una categoria tutta sua. Anziché infiltrare altri generi (blues acido, arrangiamenti classicheggianti, bluegrass, music hall) nella forma 57 rock i Velvet la espansero riducendola alla sua ossatura: il beat, l’elettrico pulsare dell’anima del rock’n’roll. White Light/White Heat è il paradigma di questa musica. Solamente gli Stooges, i primi Modern Lovers, i Sex Pistols e i Clash gli si sono avvicinati, e nessuno di questi gruppi possedeva quella che si potrebbe definire l’elevata intelligenza spirituale dei Velvet – la loro consapevolezza, da apprendisti presso la bottega dell’arte con la A maiuscola, di quel che stavano facendo. Richard Mortifoglio, What Goes On n. 3, 1982. Forse il bravo Richard M. avrebbe dovuto ascoltarsi con molta attenzione Sandinista prima di buttar giù queste parole. La sua disamina è comunque rilevante poiché rende giustizia alle qualità musicali di Johnny Rotten e C. Noterete che non ho fatto ricorso al corsivo. Ci mancherebbe; quelle dei Sex Pistols sono canzoni!!! Ruvide sgraziate e iconoclaste finché si vuole, ma pur sempre pezzi rock, con un’articolazione e un impatto sonoro che nessun altro su questo sferoide è mai più riuscito a eguagliare – anche per merito della produzione “stratificata” di Chris Thomas e Bill Price, va detto. Nei brani di Never Mind The Bollocks le intro, i break e i middle eight sono assolutamente stupefacenti per una band di cosiddetti teppisti illetterati musicali. Ed è un disco all killer no filler, dodici colpi di frusta e nemmeno una sola caduta di tono. Qualcuno potrebbe obiettare: “Ma che diamine, hanno registrato soltanto quello!” Be’, per quanto mi riguarda, hanno detto più i Pistols in un solo album che i Pink Floyd in quattordici. Fermo restando che mi piace The Piper at the Gates of Dawn: del resto, piace pure a Captain Sensible. Torino, 12 luglio 2008, Parco della Pellerina, h 00.10 a.m. I Sex Pistols, autori di una performance micidiale, ritornano sul palco per un secondo inatteso encore. Johnny Rotten ha annunciato una vecchia canzone: Silver Machine. Io e Vito – my friend delirium! – con la quinta o sesta lattina di birra in mano, incrociamo gli sguardi. “Porca miseria, non sarà mica quella Silver Machine?” Il più grande hit punkadelico degli Hawkwind, la folle ciurma cosmica di Dave Brock. Steve Jones parte a tutto gas con un classico eight-bar rock’n’roll boogie riff, poi si apre una breccia nel tessuto spazio-temporale del palco e ne scaturisce un loop elettronico da vecchio film di fantascienza sovietico… ebbene sì, è proprio Silver Machine degli Hawkwind. Pensa tu che diavolo mi stanno suonando questi! In verità non sono poi così stupefatto: John 58 Lydon ha sempre nominato I Falchi del Vento e i Pink Fairies tra le sue principali influenze. Ergo… che sballo, ragazzi. Ma le sorprese non sono finite… Roadrunner! Suonata esattamente come in The Great Rock’n’roll Swindle; vale a dire, sono passati trentadue anni e Johnny continua a disconoscerne le liriche! Ma questa volta a metà canzone non si è lamentato per questo, l’accento cockney più tagliente del coltello di un teppista dell’East End: “Stop it, it’s fucking awful!” Però alla fine si è incacchiato come un aspide con il solito cretino lancia-bottiglie. Come diceva il saggio Eros Drusiani: “I coglioni sono molto più di due.” Definitivamente: “Chi sono i Sex Pistols?” I Sex Pistols sono e saranno sempre una trascinante, devastante, ruggente, tonante, travolgente, fantastica rock’n’roll band. E mi hanno nuovamente cambiato la vita. Thank you, vecchi satanassi. Se qualcuno pronuncia la parola Gallia a me viene subito in testa Obelix che tracanna otri su otri di birra. E a ruota un fottio di marche storiche francesi: 1664 de Kronenbourg, Adelscott, Amadeus e la Bière du Demon. Quand’ero adolescente quest’ultima birra m’incuteva timore: cosa mai mi sarebbe capitato se l’avessi bevuta? Sarei disceso e rimasto agli inferi per tutto il tempo che il mio organismo avesse impiegato a smaltirla? Mi sarei ritrovato a strillare Sabbath Bloody Sabbath su un palco al posto di Ozzy Osbourne, col baffuto Tony Iommi a spararsela a mancina? Oppure sarei diventato il bambino di Rosemary? In realtà la moda delle “birre diaboliche” si deve a una fabbrica belga, la Moortgart, che in un mare di birre che offrivano in etichetta richiami ad abbazie, santi et similia, scelse con fine ironia di differenziarsi chiamando una sua nuova ale Duvel, ossia “il diavolo”. Oggigiorno l’elenco di birre demoniache è piuttosto nutrito e i grafici pubblicitari non lesinano fantasia nelle etichette: per esempio quella della canadese Maudite (il cui nome è già tutto un programma) mostra il solito diavolo alato in primo piano, ma altresì un’inquietante barca di dannati sullo sfondo della luna piena. Io, per me, la berrei soltanto in compagnia di uno stimato esorcista. Andiamo alla fiera dell’est. I primi abitanti della Boemia, regione storica che con la Moravia forma la Repubblica Ceca, furono i Boi. A essi nel I secolo d.C. si sostituirono i Marcomanni, sottomessi dopo dure battaglie dai Romani. Nei secoli V-VI vi penetrarono tribù slave. Alla fine del VIII l’Impero d’Occidente assorbì e cristianizzò Boemi e Moravi. Dopo alterne vicende nel 1114 i duchi di Boemia divennero coppieri ed elettori del 59 Sacro Romano Impero. Divenuta provincia degli Asburgo al termine della guerra dei Trent’anni (1618-1648) la Boemia riuscì a emanciparsi solo con il crollo dell’Impero, nel 1918: da quel momento e fino al 1922, la sua storia si fuse con quella della Cecoslovacchia e, dopo la scissione da quest’ultima del gennaio 1993, con le vicende della Repubblica Ceca. Torniamo indietro al 1840. In quell’anno Anton Dreher, mettendo a frutto i risultati di alcuni esperimenti condotti in Baviera sui meccanismi della bassa fermentazione, concepì una birra lager che in seguito fu battezzata proprio col nome della città nella quale fu realizzata, Vienna. Due anni più tardi nella città di Pilsen, in Boemia, un tal Josef Grolle cercò di produrre su larga scala una birra simile a quella di Dreher: la prima cottura avvenne nella birreria Prazdroj. Tuttavia il risultato fu differente: la sua birra era leggera, piacevole, amarognola ma soprattutto chiara, come nessun’altra al mondo. Subito battezzata pilsner, riscosse un successo stratosferico che dalla natia Boemia si espanse a macchia d’olio – di birra, si potrebbe dire – per tutto il globo terracqueo. La Pilsner Urquell è l’epitome dello stile pils. Piuttosto secca e altamente digestiva, almeno a Torino soffre la concorrenza della già menzionata e ormai onnipresente Beck’s e della Heineken. Ma è una signora birra e perciò meriterebbe d’essere rilanciata. Da poco ho incluso nel mio periplo notturno un locale gradevole e discreto situato nelle vicinanze della storica Piazza Vittorio che la mesce alla spina: in confronto a certe risciacquature di stoviglie propinate in altri posti, sembra quasi una ale! Una curiosità: San Adalberto, vescovo di Praga e apostolo d’Ungheria, Polonia e Prussia, nel 993 proibì la cottura della birra. È che i preti hanno certe idee… Nel mio cervello l’Olanda è un photo show sinaptico in cui si alternano immagini dai toni oranje di Johan Cruyff, Marco Van Basten, Ruud Gullit, Rutger Hauer, Rebecca Romijn, Sylvie Van der Vaart e una bottiglia da 33 cl. di Heineken. Se faccio clic sulla foto mentale di Cruyff ne erompono a spirale altre cento: la moglie Danny nel 1974 con la camicia legata in vita e i pantaloni a zampa d’elefante, “il gol impossibile” segnato all’Atlético Madrid, un suo classico spunto sull’out sinistro controllando la palla con l’esterno del piede destro, la famosa frase detta ai suoi giocatori prima di vincere la Coppa dei Campioni a Wembley col FC Barcellona: uscite e divertitevi… Johan Cruyff gestaltizza la mia idea di football. Condivido pienamente tutto quanto egli afferma in Mi piace il calcio (ma non quello di oggi), un libretto alla cui lettura coarterei certi allenatori, presidenti e 60 dirigenti italiani (ma non solo) pieni di zuppa irrancidita, nonché centinaia di migliaia di cosiddetti tifosi. ’Fanculo al business teratocapitalistico, il calcio deve tornare a essere un divertimento, i trequartisti devono puntare l’uomo in verticale e le ali volare sulle fasce e crossare in area dal fondo! Ricordo una piacevole serata passata a Casa Olanda durante le Olimpiadi Invernali del 2006, bevendo un boccale dietro l’altro e rimpinzandomi di patatine fritte insaporite con gustose mostarde locali. Sotto il padiglione principale c’era una pista di pattinaggio su cui, bevuto, presi un bel paio di culate prima di assestarmi in uno stile alquanto mediocre ma sicuro. Gli inservienti erano tutti sorridenti e affabili. Alfine, malgrado la Endemol e l’Ajax della stagione 1991-1992 (chi come me tifa Toro proverà una fitta al cuore), gli olandesi mi stanno simpatici. Forse ai più non importerà una beata fava, ma nel lontano 1968 Starstruck, canzone tratta dall’album che io considero il meisterwerk dei Kinks, The Kinks Are the Village Green Preservation Society, non riuscì a entrare nelle classifiche in alcun paese tranne che l’Olanda: con tutto che è una canzone sublime, purissimo genio melodico britannico. Questa è soltanto una tra le numerose dimostrazioni d’apertura mentale degli abitanti delle Nederlands. Oltretutto furono loro ad aprire la prima fabbrica di birra in America, nel lontano 1632: le prime birre americane erano state commercializzate in modo ufficiale nel sud di Manhattan venti anni prima. New York è sempre avanti. La Heineken, commercializzata come pilsener ma in realtà una lager, è la birra più importata in tutto il mondo, la prima a sbarcare negli Stati Uniti dopo il Proibizionismo. È la mia seconda scelta in bottiglia, essendo la Menabrea la prima. Soprattutto in Spagna ne assumo in buone dosi, come fresca e leggera alternativa “serale” a San Miguel e Voll-Damm; benché perlopiù al banco mi tocchi pronunciarla alla castigliana, enequen, poiché in diverse occasioni i camareros mi hanno restituito un inarcamento di sopracciglio. Tempo fa in una discoteca di Suances, una cittadina della costa cantabrica esteriormente ordinaria ma dalla nightlife estiva sorprendente (soprattutto i mercoledì sera) e con una spiaggia, Los Locos, assai rinomata per il surf, chiesi una Heineken alla maniera sassone. Il barista, faccia da indio, gilet di pelle nera e foulard al collo, mi guardò strano e chiese: “Ma da dove vieni?” Io sorrisi. “Sono italiano. E tu?” “Io? Honduras.” Una mutua sensazione di sradicamento… 2000 anni luce da casa. 61 Sorrisi di nuovo. “Muy bien. Allora siamo due stranieri in terra straniera.” Lui si fece una bella risata e mi offrì la birra. Proost! Equivoci sulle pronunce birraie a parte, anche la Cantabria è un bel posto di sbevazzoni. C’è un forte campanilismo con i vicini baschi, ma non entro in merito. I Romani raccontavano di aver incontrato difficoltà a trattare coi Cantabrici. Infine, pochi anni prima della nascita di Cristo, riuscirono a sottometterli, ma dal IV secolo d.C. il territorio, come tutta l’Hispania imperiale, fu invaso a più riprese da varie popolazioni barbariche. Soltanto nel 1978 la Costituzione creò la regione della Cantabria, che fino ad allora era stata considerata un’estensione costiera della Vecchia Castiglia. Santander, il capoluogo, vanta un’intensa vita notturna. D’estate pullula di compatrioti. Una sera davanti a un locale a El Sardinero, la zona chic della città, inquadrammo tre mozas: avevano l’aria un po’ smarrita. Magari sono di Soria ed è la prima volta che vengono qua in vacanza, commentammo. Si approssimarono al bar con prudenza; noi lì in agguato, maschi caproni, coi nostri tintinnanti cubatas de ron. Tutt’a un tratto la più attraente del terzetto disse: “Allora, ragazze mie, entriamo a prenderci da bere?”, con un marcato accento delle Langhe. Mancò un pelo che esplodessimo loro in faccia. La Cantabria costiera è ricca di attrattive naturali e mondane, ma faccio prima a consigliarvi l’acquisto della guida Lonely Planet per la Spagna settentrionale. Ciò che non potete proprio perdervi è il leggiadro Parco Nazionale dei Picos de Europa, che si estende su tre regioni – Cantabria, Asturie, Vecchia Castiglia. È il luogo ideale per ritemprare il corpo, la mente e… il palato, coi suoi squisiti formaggi e le varietà cantabriche di orujo, un liquore che si ottiene dalla distillazione della sansa dell’uva. Per di più il mare non è lontano. Un bel posticino da usare come base per le escursioni nei Picos è Potes: questa cittadina, piuttosto animata in alta stagione, conserva un certo fascino nel centro storico. I bar e le enoteche non mancano, ma essendo a un passo dalle Asturie vi si mescono fiumi di sidro. Ogni sidrería ha installato accanto all’ingresso un marchingegno a pulsante per spillare il sidro nel bicchiere come si deve, ossia tenendo la bottiglia il più alto possibile, risparmiandovi in tal modo le figuracce che si rimediano tentando di imitare il virtuosismo manuale asturiano nella mescita: di lato generalmente è montata una panca di legno, così potete accomodarvi e sorbire il succo di mele fermentato osservando la gente che passa. Magari beccate. 62 I messicani potrebbero essere considerati bárbaros soltanto in un romanzo di fantascienza ucronica in cui gli ellenici fossero approdati in America Centrale diciassette secoli prima di Colombo. Eppure la moda delle birre lager leggere messicane, letteralmente esplosa in Europa al principio degli anni Novanta, possiede tutte le connotazioni di un’invasione barbarica: fulminea, spiazzante, devastante. Nel momento in cui un tale Saddam Hussein saliva prepotentemente alla ribalta delle cronache mondiali minacciando e infine invadendo il Kuwait, Torino conosceva un’improvvisa fioritura di luoghi all’aperto dove bere e sbocconcellare qualcosa. Il più trendy (parola maledetta ma efficiente) era l’Ippopotamo, che si stendeva sull’area dell’ex giardino zoologico. Nelle serate più calde ci si stava da favola. Serbo un’infinità di ricordi di quella stagione. Ecco la Top Three: 1. “L’Ippopotamo sta per chiudendo”. Frase pronunciata da una certa Esther. Eravamo in un altro locale all’aperto, Le Terrazze sul Po, e qualcuno aveva proposto di spostarci all’ex zoo. 2. Il treno di Corona’s che trincai in una sera senza pagarne neanche una fottuta bottiglia, complice un barista malato di rock’n’roll originario di Imperia che era entrato a far parte della nostra eterogenea combriccola. 3. Il sottoscritto, ebbro di spirito e di allegria, sventolando una bandiera granata per tutto il giardino: il Toro aveva appena vinto la Coppa Italia 1993 in una finale agonica. Soltanto all’Ippopotamo la Corona Extra andava via ad autobotti. Esagero, ma mica tanto. Ora il consumo è sensibilmente calato. Fashion, turn to the left, fashion, turn to the right. In ogni caso è una birra leggera, fresca, dissetante: niente più, niente meno. Il rituale della fettina di limone nel catacretico collo della bottiglia fa arricciare il naso ai puristi birraioli, ma per quanto mi riguarda una Corona in particolari occasioni ci sta bene, “fa fine e non impegna”, soprattutto in riva a un oceano sotto la canicola. Un’altra birra messicana di gran fama è la Dos Equis, originariamente fabbricata dal birraio tedesco Wilhelm Hasse nel 1897. Io mi riferisco sempre a essa come la cerveza del restaurante, poiché mi capita di berne, e tanta, soltanto quando mangio messicano. Nella seconda metà degli anni Novanta m’innamorai di un locale, il Centenario, dall’ottima cucina texmex e cocktail preparati con amorevolezza – se desiderate incollarmi al 63 vostro bancone fino alla fine del mondo, fatemi un’ottima tequila sunrise. Non tutti i barman ne sono capaci, purtroppo. In Spagna, fino a una decina d’anni fa, ero assiduo cliente della Cantina Mariachi. Vado pazzo per il mole poblano, le patatas charras e il dulce de caramelo. Al Mariachi di Calle Simon Bolivar, Bilbao, devono avere tuttora le nostre foto segnaletiche attaccate con le puntine dietro la cassa: là dentro ci riducevamo sempre come delle pezze d’alcol. Una volta ero così ben combinato che uscendo battei una capocciata tremenda contro la serranda semiabbassata. Un’altra scolammo un’intera bottiglia di mescal dando spettacolo per il locale come i Muppets: toccandone a me l’ultimo sorso, avrei dovuto ingoiare il gusanito, ma mi rifiutai categoricamente. “Non sai cosa ti perdi”, mi biasimò Luca, il nostro compare piemontese trapiantato in Euskadi, dopodiché lo mandò giù proprio come facevano quei veterani del Vietnam in sedia a rotelle nel film Nato il 4 di luglio. Una leggenda azteca racconta che una dea si era innamorata di un mortale ma non poteva fare l’amore con lui proprio perché non era come lei, allora ella creò un liquore dalle foglie della pianta più arida e sterile, l’agave, lo fece bere al suo innamorato e lui divenne un dio. Pazienza, sto bene anche solo con la saggezza del salmone irlandese. Foto segnaletiche, ho scritto. Qualche tempo dopo la serata del mescal ci ripresentammo alla Cantina Mariachi per un’altra strippata, ma appena entrati fummo stoppati dalla gestrice, espressione severa e pugni serrati: “Chicos, io vi faccio entrare a mangiare, però pretendo che non ripetiate il casino della volta scorsa. Questo è un ristorante, non un bar de barrio.” A sus ordenes, Doña Carmen. 64 Figura 6. Una bella birra da tifosi di calcio in trasferta. 65 MARS STOUT BEER Poche storie, la birra fa bene: e come potrebbe essere altrimenti, essendo essa derivata da infusione e decozione d’orzo, grano e cereali. Una recente ricerca effettuata dal CNR su marche italiane ha dimostrato che la birra contiene microcomponenti con azione antiossidante, ovverosia i nostri ardimentosi soldatini anti-arteriosclerosi e infarto. La scoperta delle virtù terapeutiche della nostra amatissima bevanda non è roba d’oggi. Nel XVII secolo il predicatore tedesco Colerus nel suo libro Oeconomia ruralis et domestica riconosceva alla birra di Zerbst notevoli virtù curative, quale per esempio la capacità di espellere i calcoli renali. Nel 1743 una dissertazione a cura di tal Paolo G. Homeyer s’interessava della qualità della birra da somministrare agli ammalati, spiegando come certe birre siano più adatte di altre. Alla fine, noi siamo ciò che beviamo. Di conseguenza meglio si beve meglio è. Disgraziatamente ci troviamo a vivere in una brutta epoca. Una delle sue maledizioni è il pompaggio mediatico. La nuova tendenza dei mass media italiani è deplorare indiscriminatamente il consumo d’alcol. Da forte ma coscienzioso bevitore dai passati eccessi, mi rendo perfettamente conto delle problematiche legate all’abuso di bevande alcoliche; ma non si può fare di tutta l’erba un fascio, zoomando su boccali di birra e cocktail con commento moraleggiante in off manco tutti i birraioli fossero potenziali investitori di bambini e pensionati sulle strisce pedonali. Magari qualche servizio dopo lo stesso tiggì ti esalta squadriglie di smandrappate mezze nude e strafatte di cocaina che ballano sui tavoli al Billionaire, ma quella è “bella vita”, e allora… allora, vaffanculo. Noi bevitori consapevoli scontiamo le grullerie delle marmaglie ineducate al buon bere e in generale al buon vivere non solamente con tonnellate d’ipocrisia catodica, ma anche con la proliferazione neoplasica di zone a traffico limitato, telecamere, autovelox, blitz anti-movida, e trombonate come le tabelle per il calcolo del tasso alcolico in base al peso, al sesso, al cibo e all’alcol ingeriti, nate già approssimative e invise a buona parte dei gestori. In questa maniera le Amministrazioni cittadine si puliscono la coscienza e nel contempo fanno cassa. Ma il proibizionismo non ha mai pagato, specialmente coi giovani, perché quando si è giovani si fa tutto ciò che i grandi ti dicono di non fare. I ragazzi tazzeranno di meno, forse, ma prenderanno più droghe, pressoché certo: i pusher sono tutti lì a fregarsi le 66 mani sporche di mannitolo. Urge educazione preventiva, non repressione. Ma per i nostri prezzolati e pluririfatti gerontocrati l’empatia è un malanno ai legamenti. Bere birra tutti i giorni fa bene. Ma è anche opportuno conoscere il parere anche di chi la pensa in modo difforme, più di tutto se è autorevole. Scrive il prof. Giuseppe Remuzzi: Che succede al cervello di uno che beve? Tante cose diverse, secondo quanto si beve e quanto celermente. L’alcol agisce a livello della trasmissione dell’impulso nervoso tra un neurone e l’altro (i medici definiscono “sinapsi” le giunzioni di collegamento attraverso cui passano i segnali elettrici) e delle sostanze che regolano la trasmissione di questi impulsi come la dopamina, le catecolamine, la serotonina. E’ la liberazione di dopamina nel sistema limbico – la parte del cervello coinvolta nel comportamento e nelle emozioni – che dà euforia e loquacità. L’alcol rende più facili i rapporti con le altre persone, si è meno inibiti, si arriva a provare un senso di onnipotenza, ma se le concentrazioni di alcol nel cervello aumentano c’è un effetto sedativo. Inoltre succede che la pressione del sangue scenda, si perde la capacità di controllare la temperatura del corpo, c’è difficoltà di respiro e si arriva al coma. Misurando i livelli di alcol nel sangue di chi ha quei sintomi si può constatare come essi superino i 300 milligrammi in 100 millilitri di sangue: per livelli di alcol ancora più alti, più di 400 milligrammi per 100 millilitri di sangue, si può morire. Basta poco alcol, se uno ne assume tutti i giorni, perché nel fegato si accumulino grassi (“steatosi”, verificabile con l’ecografia). Una volta gli si dava poca importanza. Ora si è visto che l’accumulo di grasso nel fegato predispone ad altre malattie, primariamente una forma di infiammazione somigliante all’epatite che poi talvolta evolve in cirrosi e cancro. Non si sa bene perché in alcune persone si passi rapidamente dal fegato grasso alle malattie più gravi, anche per modiche quantità di alcol, e perché in altre questa evoluzione sia più lenta o non si verifichi affatto. L’obesità è un fattore di rischio che potenzia di molto gli effetti dell’alcol. Perché è proprio il fegato a risentire maggiormente dei nostri eccessi? Birra, vino e liquori contengono etanolo, e l’etanolo si trasforma nel nostro organismo grazie a enzimi che risiedono e agiscono soprattutto nel fegato: alcol deidrogenasi e citocromo P450. Durante il processo di trasformazione dell’etanolo si verificano nel fegato una serie di reazioni chimiche che portano alla sintesi di grassi. Il modo migliore per difendersi dall’accumulo di grassi sarebbe quello di ossidarli e il fegato certamente ne è in grado, ma l’etanolo riduce il processo di ossidazione degli acidi grassi e così priva l’organo del sistema più efficace per difendersi dalla steatosi. Più di 40-80 grammi di alcol al giorno per gli uomini e 20-40 per 67 le donne nel giro di 10-12 anni portano sicuramente a una malattia del fegato. Nondimeno qualcuno arriverà alla cirrosi pur bevendo molto meno e altri non vi arriveranno affatto benché bevano di 50 grammi al giorno. Questa soggettività dipende da fattori genetici – nella fattispecie, dai geni che governano la sintesi degli enzimi preposti a metabolizzare etanolo e acetaldeide –, flogistici e immunitari. In generale sono gli uomini a patire le conseguenze dell’abuso d’alcolici, perché bevono di più. Ma alle donne l’alcol fa ancora più male. A uguaglianza di quantità d’alcol ingerita, si riscontra più etanolo nel sangue delle donne che in quello degli uomini. Come mai? In primo luogo, la stessa quantità d’alcol si distribuisce in un volume più piccolo, dato che la donna possiede meno acqua corporea che l’uomo; in secondo, lo stomaco della donna non è così attivo come quello dell’uomo nel trasformare l’etanolo; infine, gli ormoni femminili rendono il fegato più vulnerabile agli effetti dell’alcol. Non basta: chi beve parecchio – donne e uomini – di solito si nutre male, e assume meno sostanze antiossidanti (glutatione, Vitamina A e C, per esempio). In questo modo, progressivamente, il nostro organismo perde quel naturale patrimonio che lo difende dai tumori e dall’invecchiamento. Per questo chi beve invecchia precocemente. In conclusione, il bere danneggia il fegato, sempre. Si va da una condizione relativamente benigna, l’accumulo di grassi, a patologie potenzialmente mortali come la cirrosi e il cancro. Ma l’abuso di sostanze alcoliche è pernicioso per l’organismo in svariati altri modi; vi sono ancora molte questioni insolute. Nel momento in cui ne sapremo di più forse comprenderemo altresì perché certuni col bere rischiano di più e altri invece possono permettersi un po’ più di vino e un superalcolico di quando in quando senza che ciò arrechi loro troppo danno. O.K. Allora tocchiamoci gli zebedei ogni santa volta che sorseggiamo una birra, simbolicamente per le amiche donne. Io, per me, sto benissimo, a parte il forzato cambiamento d’itinerario per il ritorno a casa dalle serate di fiesta impostomi dai posti di blocco antisbronza. La scorsa primavera ho rischiato grosso. Di rientro da un compleanno con una Budweiser e un paio di vodka sour in circolo – cosa diavolo pretendono che si beva in codeste occasioni, cedrata Tassoni? – ma totalmente lucido, ho imboccato il percorso minato con leggerezza d’animo. «Tanto stasera gli avvoltoi non ci sono.» Invece c’erano, accidenti a loro. Piantati nel bel mezzo del solito crocevia prospiciente la facoltà di Architettura. Stavano già facendo il controllo a un tale, ma io ero il prossimo. Un carabiniere era già lì pronto ad alzare la paletta; tra me e lui c’era l’auto del malcapitato e un semaforo rosso. “Col cazzo che mi prendi” ho ringhiato a denti serrati sul ritmo funky-wave 68 degli LCD Soundsystem. La mia sola via di fuga era il controviale a destra del corso trasversale e non appena è scattato il verde vi ho svoltato con noncuranza sfangando alla grande il check point. Fiuu! In conseguenza di quest’episodio, qualche luna dopo in locale del centro ho voluto farmi il test. Le istruzioni stampate sull’arnese spacciato per etilometro erano piuttosto risibili, poiché ti si consigliava di soffiare nella cannuccia passati dieci minuti dal tuo ultimo drink o paglia. Ve li figurate i tutori della legge a un controllo? “Scusi, signore, quand’è che ha bevuto il suo ultimo beverone bruciastomaco? Soltanto quattro minuti fa? Ah be’, allora aspettiamo!” See, che l’uovo si frigga in padella col burro. A ogni buon conto, avendo assunto pressoché la stessa quantità e qualità d’alcolici del compleanno, ho soffiato in quella scatoletta gialla di latta per la modica cifra di un euro – il controllo del tasso alcolico è diventato un business, ça va sans dire. Il responso è stato scioccante: 2.35!!! Vale a dire, ubriaco duro, da lasciare la macchina dov’è e tornare a casa in taxi. E io, con tutta l’obiettività del multiverso, non mi sentivo per nulla tale. Porcaccia la miseria. Così si rischia la patente ogni volta che esci fuori a cena o semplicemente per un aperitivo. Giovedì 9 ottobre 20**, h 02.19 p.m., CET. È una splendida giornata di sole. Alla mia sinistra, oltre la vetrata e la siepe già rossiccia d’autunno che cinge la biblioteca, si stende il mio succedaneo di frontón: un’andana pietrosa che termina in un muro sbrecciato alto poco più di due metri e ricoperto di graffiti. Quattordici anni fa, in un grossolano tentativo per sembrare integrato nella realtà basca, entrai fischiettando in un fornito negozio d’articoli sportivi di Santutxu e ne uscii con un set di palas da consumato professionista della pelota, quando piuttosto avrei potuto contentarmi di una normale versione da spiaggia. Passate diverse estati a grondare tossine su qualche battigia atlantica col patema costante di accecare o decapitare qualcuno, mi stufai e confinai le palas in un armadio sotto una catasta d’attaccapanni. Torniamo un attimo all’articolo del professor Remuzzi. «L’alcol rende più facili i rapporti con le altre persone, si è meno inibiti.» Verissimo. Ma in quantità non eccessive facilita anche il funzionamento del circuito neurale delle idee. A inizio 2007, stufo del jogging e della cyclette, mi scervellavo per trovarvi un’alternativa valida. Una sera uscii per bere un paio di birre scure, ne bevvi quattro, e il mattino dopo appena sveglio mi si accese la 69 Osram: “Recupera le palas dai bassifondi del guardaroba e vai a cercarti un muro abbastanza alto.” Inaugurai il frontón in una giornata piacevolmente tiepida e lucente come questa. Al quarto d’ora di timorosi diritti e rovesci fui avvicinato da una signora piuttosto anziana; vestita come Anna Magnani nella scena madre di Roma città aperta, incedeva con le spalle curve, stringendo al petto una rivista di moda. Non sembrava molto in sé, ma le apparenze ingannano. Si fermò e mi chiese: “Sta giocando a pelota, neh?” “Sì, signora” le risposi, seguitando a colpire la pallina da tennis. “È una variante particolare.” Pallamuro alla piemontese. “Mi pareva. Ma perché gioca qui da solo? Dov’è la sua vicina di camera?” Mi venne da sorridere, ma anche da esalare un sospiro di tristezza. “Non ne ho…” Stoppando la palla sulla punta della racchetta. “Che peccato. Comunque sia, è una bella giornata oggi per fare queste cose al parco: nessuno che ti disturba.” Detto ciò, si allontanò borbottando qualcosa tra sé. Tac, bunch, put, tac, bunch, put, tac… swishhhh. Mi era scappata la mano. La piccola sfera gialla spelacchiata sorvolò beffarda la muraglia andando ad atterrare nella strada adiacente. Provai a scavalcare. Quand’ero piccolo zompavo su quei muri come un grillo bionico. Già, venti chili fa. Trenta. Issarmi quasi mi costò una clavicola. Fortuna volle che di lì passasse una gentil madama con cagnuflo riottoso al seguito. Tendendo il braccio per ridarmi la pallina costei volle avvertirmi: “Stia attento lassù, che c’è da farsi male.” “Lo so, signora. Forse non ho più l’età per fare certe cose.” Vecchio rottame o no, da allora i miei colpi sono molto migliorati ed è molto raro ormai che io spedisca la pallina oltre il muro. Ho scritto perfino un blog su questo mio particolare svago e tutto ciò che comporta nel bene e nel male: Pelota basca e teratologia. Coloro che fossero interessati a leggerlo e farsi quattro sane ghignate lo troveranno sul mio sito personale, www.maurizioferrarotti.com. Un po’ di sana autopromozione. Ho cominciato ad apprezzare davvero i piaceri della tavola alla soglia dei trent’anni. Prima passavo la lingua sui piatti o mi rimpinzavo di salame crudo e parmigiano reggiano appena tornato dalle scorribande serotine. Il risultato di siffatto mutamento nelle mie abitudini alimentari è che in sedici anni ho messo su venti chili. Più che ingrassato, mi sono riempito. Gli amici, è ovvio, mi scherzano per questo: “Diamine, Ma’, una volta eri 70 anoressico e ora sembri un cinghiale di Giaveno!” Che esagerati. Però m’altererei molto di più se mi dicessero: “Ehi, Ma’, una volta eri il nipote sabaudo di Iggy Pop e ora sembri il fratello gemello di Vasco Rossi.” O peggio ancora, Antonio Albanese a.k.a. Alex Drastico, un altro cui vengo frequentemente raffrontato anche se, per dirla come Johnny Stecchino, nun me somiglia pe’ nniente. Puntualmente il giorno dopo che qualcuno – in genere è una lei, porcaccia l’oca, ma cos’hanno le donne al posto delle cornee? – mi ha rovinato il drink con ’ste similitudini del kaiser Franz, scendo giù al parco e meno mazzate basche al muro come un forsennato per un’ora. Jakina! Tra il 1993 e il 1995 ci nominammo Avanguardia Gastrica. In autunno e inverno ogni sabato o domenica salpavamo per vere e proprie spedizioni enogastronomiche nelle Langhe o nel Monferrato. Il nostro santuario era il ristorante Vigin Mudest di Alba, dove ci stroncavamo d’antipasti alla piemontese, agnolotti e/o tajarin con grattatina di tartufo bianco, sorbetto, costolette di agnello o brasato e dolci prelibati (il bunet è paradisiaco…), il tutto generosamente annaffiato di Barbera. Ora ci siamo acquietati, ma di quando in quando, direi una volta ogni due mesi, la mangiata festiva ci scappa ancora. E le mandibole tornano a macinare come il Pac-Man. Per quanto concerne Torino e i suoi luoghi di ristoro, prendo a prestito da un giornale questa dichiarazione: “Restano le eccellenze, stentano i locali medi.” Sono tempi duri per la ristorazione di qualità, sia per la crisi, sia perché i tempi e i costumi sono cambiati. È in voga “l’apericena” e io invero non lo osteggio purché l’offerta sia variegata e genuina: in tal senso il Fluido, situato al Parco del Valentino in riva al Po, è il miglior locale di Torino. Prosciutto crudo, insalata di riso e Budweiser come se piovesse è il mio aperitivo lungo del sabato sera col vista sul ponte della Gran Madre. Se poi mi resta fame vado al Retrò, il ristorante di Steve. Markette. Tornando a bomba, cioè alla sacra birra, il Birrificio Torino la produce artigianalmente in moderate quantità nel laboratorio annesso al ristorantebirreria dallo stesso nome. Non è uno dei locali che batto di frequente ma mi garba andarci. Là potete gustare alcune ricette sfiziose, come il maiale cucinato con la Birra Torino, chiara doppio malto a bassa fermentazione, le frittelle di baccalà alla Clara (così il Birrificio Torino denomina la sua birra chiara) e le coscette di pollo marinate in un intingolo di bacche di ginepro, foglie d’alloro spezzettate, sale, pepe e birra Rufus, specialità artigianale di birra rossa a doppio malto. Un altro birrificio d’ottima fama 71 è il Brew Pub BEFed di Settimo Torinese, dove si tracanna birra d’acqua e malto d’orzo e si mangia il galletto al forno. Gnam gnam. Chiunque almeno una volta nella propria vita ha idoleggiato un divo/a del piccolo o grande schermo. O si è fortemente immedesimato in un ruolo da lui/lei interpretato. In quest’ultimo rispetto, potrei citarvi minimo trenta personaggi che mi hanno preso nel cervello: Charlie Crews, protagonista del serial Life, è l’ultimo arrivato. Anch’io come Charlie, un detective che si è fatto dodici anni in galera per un crimine che non ha commesso, ho dovuto combattere a lungo per non perdere il senno; soltanto che la mia prigione era mentale, non fisica. Gli scarabocchi sulle pareti della mia cella rivelavano mancanza d’autostima, difficoltà di comunicazione col prossimo, sensi di colpa generati dalla morte di mia sorella Danii per quel male bastardo figlio di puttana sifilitica il cui nome i media sono ancora riluttanti a pronunciare: cancro, cancro, cancro, CANCROOO! Charlie Crews, al secolo Damian Lewis, si è aggrappato a un libercolo zen trovato in cella per sopravvivere; tornato in libertà n’applica i precetti alla sua nuova vita, sia pure sui generis. Io, Maurizio Ferrarotti, bevo birra gustandone ogni singolo sorso, gioco a pelota, compro e scarico musica a tonnellate, corteggio femmine giovani e mature: poi, c’è Stop allo stress. Ho rinvenuto questo libretto nel bidone cartesiano per la raccolta di carta e cartone del mio palazzo; in origine era allegato a un numero della rivista Viversani & belli. Quest’ultima è uno di quei mensili salutisti nei quali per recuperare la linea dopo i bagordi natalizi ti si consiglia una dieta a base di melone e acqua minerale naturale per dieci giorni e prima di partire per le vacanze estive frullati di guaranà e scolopendra indiana, la quale per di più si dice possieda virtù anti-ictus. In ogni modo, Stop allo stress si è rivelato tutt’altro che una boiata. Scritto con la consulenza di una nota neuropsichiatra bergamasca, è prodigo di suggerimenti su come affrontare gli stressor (così vengono genericamente chiamate tutte le situazioni di stress). Io, per me, prediligo l’auto-shiatsu. Lo shiatsu (parola composta di shi = dito e atsu = pressione), è una tecnica giapponese risalente al VI secolo, quando i monaci buddisti importarono nel paese del Sol Levante i principi della medicina tradizionale cinese che ne costituiscono il fondamento teorico. Consiste nell’esercitare con le dita una moderata pressione in alcuni punti strategici del corpo, risvegliandone la forza di autoguarigione. Nonostante ora nel nostro paese sia molto in 72 voga (recentemente ho visto affissa alla pensilina di una fermata d’autobus una locandina reclamizzante un “salone rumeno di massaggi shiatsu e Tai Chi”!), nessuna istituzione universitaria si è ancora impegnata a studiarne gli effettivi benefici. Italica normalità. Lunedì 13 ottobre 20**, h 11.02 p.m., CET. Metto il pigiama e mi siedo sulla sponda del letto. Fra un attimo proverò a potenziare i benefici dello shiatsu con la visualizzazione: immaginerò di scrivere una recensione di Radio Ethiopia, uno dei miei dischi preferiti. Appoggiare gli indici di entrambe le mani sulla sommità del capo, esattamente al centro della testa. Nel cruciale 1976 Patti Smith cambia produttore discografico, preferendo al colto e raffinato John Cale il più spregiudicato Jack Douglas, l’abile artigiano del suono Aerosmith. Il prodotto di questa collaborazione sarà Radio Ethiopia, uscito alla fine di quell’anno. Le punte dei due indici devono toccarsi. I critici più intransigenti scriveranno che “il Patti Smith Group ha venduto la propria anima sediziosa al rock duro da classifica”, ma in verità Radio Ethiopia rappresenta esattamente il lavoro di gruppo successivo alle prime fasi di Horses. Il Patti Smith Group come entità musicale nasce solo ora con questo disco. Sovrapporre il dito medio al rispettivo dito indice, poi premere con una certa forza, mantenendo la pressione per due-tre secondi. Ain’t it Strange e Poppies sono i brani in cui musica e testo raggiungono una completa unità nel suono. Ask The Angels, Pumping (My Heart) e Pissing in a River riciclano i riff taglienti e metallici dei Blue Öyster Cult per i new wavers. Distant Fingers, per me il pezzo più bello del disco, evoca una meravigliosa sensazione di spazio cosmico grazie all’abilità di Douglas in materia di arrangiamenti – le chitarre suonano come comete dalle code cangianti. Allentare la pressione (dita distanti!) per altri tre secondi, poi premere nuovamente per due-tre secondi. Radio Ethiopia/Abyssinia, il “brano” che suggella il disco, è una tregenda allucinata che ha come precedente più indicativo nel rock un disco doppio malfamato di Lou Reed, Metal Machine Music. Dieci minuti di musica violentemente distorta e dissonante, dedicata alla mente sconvolta di chi ascolta: “Nel cuore del tuo cervello c’è una leva, nel cuore del tuo cervello c’è un interruttore.” 73 Ripetere quattro volte e spalmarsi sul lettuccio come burro d’arachidi. Ci vediamo venerdì prossimo, Charlie. La sonda Phoenix ha scoperto che dalle nubi di Marte cade neve. Uno strumento laser progettato per raccogliere indizi su come l’atmosfera e la superficie marziana interagiscono ha “visto” cadere la fiòca dalle nuvole a circa due chilometri e mezzo d’altezza sopra il luogo d’atterraggio della nave spaziale. I dati mostrano che la neve vaporizza prima di raggiungere il suolo, ma gli scienziati stanno cercando di capire se in talune condizioni essa possa raggiungere il terreno. Ve li immaginate gli astronauti della NASA nelle loro immacolate tute spaziali plasmare un pupazzo di neve, ficcandoci a mo’ di naso una carota modificata geneticamente, sotto quel cielo brunastro? Ho un’altra fantasia futurista. Grazie alla birra che ho bevuto durante tutta la vita e un trattamento anti-apoptosi che ho potuto permettermi con le royalties intascate per il successo eccezionale nonché durevole ottenuto da questo libro (saranno fallaci sogni, ma lasciatemeli), ho visto l’alba del ventiduesimo secolo e, quantunque vizzo e incanutito, m’incammino verso mezzogiorno. Percival I, la prima riuscita spedizione umana sul Pianeta Rosso, ha scoperto in una oscura caverna di Cydonia un lievito che è stato subito battezzato Saccharomyces martianensis. Per somma grazia astrale, una volta portata sulla Terra la sostanza non si è scatenata a solidificare il sangue nelle vene agli americani né a copulare con ogni essere vivente su questo pianeta – eccetto gli scarafaggi – come la “cosa disgustosa” protagonista del racconto di Harlan Ellison Com’è la vita notturna su Sissalda? Se n’è stata lì tranquilla, grigiastra e silente, a farsi esaminare in qualsiasi modo concepito dalla scienza del 2100, risultando quasi del tutto simile a un lievito terrestre. Come prima epocale prova dell’esistenza di vita al di là del nostro pianeta, era alquanto deludente. Poi quel genialoide di scienziato irlandese, Liam O’Moloney, ha avuto la pazzesca pensata di affogare qualche cellula di quella roba in un tino pieno di mosto: diamine, poteva scaturirne qualsiasi cosa, una melma onnivora, una lacerazione nel continuum spaziotemporale, una rockstar impegnata in nobili cause ma allergica alle tasse. Sono pazzi questi figli di San Patrizio. Invece… Ne è scaturito ciò che sto gustando ora, seduto sulla mia sedia a dondolo davanti all’olovisione: Mars Stout, la birra scura del Pianeta Rosso. Nera come lo spazio profondo, è sormontata dall’inconfondibile nebulosa di 74 spuma marrone-rossastro, densa e brillante. Al naso offre aroma intenso di permafrost Utopia, che lascia spazio anche a sentori troiani. In bocca ha un impatto intensamente amaro ma cremoso, con gusto di caffè idroponico e cioccolato amaro europano arricchito da note d’idrogeno metallico. Finale secco, mercuriano, con retrogusto piacevolmente ultravioletto. Da provare a costo della vita è l’abbinamento con le ostriche crude allevate nel vivaio lunare di Oceanus Procellarum. Lassù nello spazio, nel punto d’equilibrio fra la gravità terrestre e quella lunare, un team congiunto di cervelloni statunitensi, europei e indiani sta completando i test su Xanadu, l’astronave a motore positronico che, salvo imprevisti, dovrebbe partire per Titano entro la fine del 2139. Bevo un altro sorso di birra aliena. Mars Stout e jamón pata negra per colazione non sono male per uno che ha appena compiuto la veneranda età di centosettantaquattro anni. Sarò anche un matusa, come si usava dire nella seconda metà del ventesimo secolo, ma me la cavo ancora bene; al 2141, anno previsto per l’arrivo di Xanadu nell’orbita di Titano, ci arrivo di sicuro. E anche oltre. Sempre che lassù qualcuno non decida altrimenti. L’uomo su Titano. Una gozada. Che cosa porterà indietro quella missione dai mari idrocarburici del satellite arancione di Saturno? Io sono già qui che mi lecco i baffi… 75 CHERCHEZ LA BIÈRE La signora O’Dowd rispose che “sua cognata Glorvina non aveva paura di nessuno, tanto meno di un francese”, poi vuotò un bicchiere di birra con un sorriso che dimostrava tutta la sua simpatia per quella bevanda. W.M. Thackeray, La fiera delle vanità. Nel momento in cui l’uomo primitivo uscì dai boschi e conquistò gli ampi spazi delle praterie, si portò appresso tutto un bagaglio di credenze su ogni fatto della natura; come cominciò a coltivare la terra, la sua protocultura religiosa si trasferì sui prodotti del suolo. Essendo fin da allora il concetto di fertilità associato alla donna, è coerente che le prime divinità agricole avessero fattezze femminili: la dea Nidaba dei Sumeri (una civiltà davvero straordinaria: furono loro a confezionare il primo indumento “topless” per donna!) la vacca Hanub degli egiziani le cui mammelle spargevano latte e birra sulle rive del Nilo, e la dea romana del raccolto, Cerere. La birra primordiale, quale essenza vitale del frumento estratta per mezzo dell’acqua, divenne la bevanda degli dei. E delle dee. Ishtar, dea assirobabilonese della fertilità, traeva la sua forza dalla birra. Nell’antico Egitto, le donne incinte offrivano birra alla dea Erneunet affinché fornisse latte in abbondanza alle nutrici. In Grecia, durante le feste in onore di Demetra, divinità femminile delle messi, si trincava birra di cereali in abbondanza: in particolare le donne s’inebriavano per poi lasciarsi andare a riti che qualche registucolo della San Fernando Valley sarebbe ben lieto di tornare indietro nel tempo a riprendere. Flussi mammari di birra dalla terra al cielo e viceversa, insomma. Con più di un risvolto malinconico o finanche funesto, soprattutto per le femmine mortali. Cleopatra, profondamente depressa, decise di uccidersi facendosi mordere il seno da un aspide, ma come ultimo piacere su questa terra volle concedersi una bevuta di sà, la birra forte riservata al Faraone e per le cerimonie religiose. Nabucodonosor una volta stancatosene si sbarazzava delle sue amanti annegandole in una grande piscina colma di birra d’orzo; mentre le povere creature, furbescamente sovraccaricate dei suoi gioielli, annaspavano nella bevanda, egli ai bordi ne glorificava le virtù amatorie. Che gran figlio di puttana. Un migliaio d’anni più tardi Rosmunda subì l’affronto di sorbire birra dal cranio del padre Cunimondo, assassinato da Alboino re dei Longobardi. Qué barbaridad. Tuttavia lo sfrontato sovrano 76 fu ucciso da Elmichi, suo scudiero, poco dopo il proprio insediamento a Verona nel palazzo di Teodorico, non senza la complicità di Rosmunda. “La vendetta è meglio dell’orgasmo”, sosteneva la strega chiamata Elvira facendo ballonzolare le tette gonfiate al silicone. Tra eros e thanatos, Teodolinda scelse la terza via: la virtù. Birraia. Infatti, la figlia di Gariboldo di Baviera sapeva preparare una birra spettacolare, che gli invitati ai lauti pranzi tenuti nella corte di Monza ingurgitavano a chilolitri. La cattolicissima Teodolinda l’inviava in grandi quantità anche a Papa Gregorio Magno. Finalmente comprendo perché il locale più famoso di Zarautz si chiamava Taberna Batikano. Venerdì 24 ottobre 20**, h 05.16 p.m., CET. Non molto tempo fa ho regalato all’AMIAT un ghetto blaster con lettore CD incorporato e un registratore-riproduttore stereo per impianti ad alta fedeltà, ambedue giunti al canto del cigno e macchiatisi più volte in tarda età del reato d’ingestione a tradimento di nastro magnetico. Fatto sta che ora non posso più ascoltare le cinquanta cassette superstiti della mia collezione. Una di queste è Ritual de lo habitual dei Jane’s Addiction, un gruppo per cui ebbi una fugace ma ardente passione a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta. Decesso dei miei macchinari di riproduzione magnetofonica a parte, saranno tredici anni che non l’ascolto. Oltre a ciò non ne ho mai scorso per intero il libretto, intitolato in modo piuttosto bizzarro Noven A. Tra crediti vari e liriche Perry Farrell ha inserito un lungo scritto dedicato alle “zanzare intellettuali”. Il paragrafo centrale è una sorta di Sylv’s Longing Speech al maschile: Qualche volta ho desiderato di essere una donna. Una donna è la più attraente creatura che la natura ha da offrire all’uomo. Perché allora è una vergogna vederla svestita? Io provo molta più vergogna come uomo a vedere un grande magazzino in costruzione. Com’è complementare la donna all’uomo! Il loro dare amore è senza paura. La natura ha fatto la cosa giusta nel legare l’infante alla femmina. Però esse si portano anche appresso un senso di tristezza. Quasi come celassero una premonizione di pericolo che non possono scrollarsi di dosso. Io comprendo perché vogliano proteggere i loro bambini, ma per il loro stesso bene, lasciatemi notare che sebbene voi possiate avere da spiegare ai vostri pargoli cose che voi percepite come sbagliate, è meglio avere la libertà di spiegare ciò con parole vostre piuttosto che essere ridotti al silenzio da un governo che ha il potere di schiacciare chiunque si opponga alle loro vedute. Questo potrebbe far sì che un giorno il vostro bambino stia all’opposizione. Chi contrasta il debole ronzio che 77 ci suggerisce che tutte quelle donne sono sottomesse all’uomo. Le donne hanno motivo di vivere e ragioni per morire con dignità. Ma non sempre le cose sono andate così. Mi sento in perfetta concordanza con questi concetti, benché Perry sia un soggetto piuttosto controverso: non lo siamo un po’ tutti? L’uomo è duale per natura. Si può, nello stesso tempo, essere “fuori” e avere ragione. Si può essere inappuntabili executive di giorno e serial killer di notte. Che due marroni mi fa tutto quel frasifattume da telegiornale mediasettiano, “era un ragazzo così ammodo ma ha ammazzato la fidanzata a sprangate e poi con un bisturi le ha resecato la vagina e l’ha messa nel congelatore accanto alle granite al limone”! Ora però avrei proprio voglia di riascoltare ’sto dannato nastro, sentire di nuovo l’intro supersonica di Stop! scartavetrarmi le orecchie e ondeggiare allo strampalato ritmo funky di Been Caught Stealing come ai bei tempi dello Studio 2, quei forsennati venerdì rock di Mixo, bring the noise! Che fare? Mi scapicollo fin giù al negozio d’elettrodomestici all’angolo che sta svendendo tutto? Ni hablar. Coi tempi che corrono, è meglio che mi tenga stretti quei quattro euro che serbo in banca. Orbene, ripiegherò su Kings of Oblivion dei parimenti eccessivi e drogatissimi Pink Fairies: la seconda canzone, stellare, s’intitola I Wish Y Was A Girl: vorrei essere una ragazza… Nel 1620 i Padri Pellegrini approdarono alla sponda rocciosa occidentale della baia di Cape Cod, nel Massachusetts sud-orientale; quella regione apparentemente inospitale era stata battezzata Plimouth in una mappa del New England disegnata da John Smith nel 1614: i coloni ne cambiarono il nome in Plymouth. “Non potremmo reggere per molto tempo un’ulteriore ricerca, avendo quasi finito i nostri viveri, specialmente la birra” scrisse William Bradford, secondo governatore di Plymouth, nel suo resoconto di prima mano History of Plimouth Plantation. Non che fossero dei beoni inveterati. In verità la birra ricopriva un ruolo fondamentale per la sopravvivenza, poiché l’acqua nella stiva delle navi diveniva presto rancida. Non molto tempo dopo il loro arrivo nella nuova terra, i Pellegrini introdussero i loro nuovi amici, gli indiani della tribù dei Wampanoag, alle gioie della birra. I Wampanoag ricambiarono facendo loro conoscere ciò che sarebbe diventato un ingrediente comune della birra negli Stati Uniti: il grano. 78 Dopo essere sopravvissuti a una critica mancanza di birra durante i primi mesi seguenti il loro arrivo, i Pellegrini designarono l’edificazione di un birrificio quale priorità basilare. Come fu stabilita la colonia, le cucine casalinghe divennero fabbriche di birra e, in conformità alla tradizione, la mansione del brewing fu assegnata alle donne. Mi pare di vederle, quelle creature timorate di Dio e infaticabili, con le loro cuffie bianche inamidate e le gonne lunghe fino ai piedi, tenere d’occhio la fermentazione nei tini: B, La Lettera Dorata. Lo scorso gennaio, io e la mia fidanzata americana stavamo attaccando la prima di una lunga serie di Miller Lite da O’Leary Tiki Bar & Grill, Sarasota, Florida, quando due personaggi, sui 55-60 anni a occhio e croce, sopraggiunsero a impadronirsi dell’unico pezzo di bancone rimasto libero al momento, proprio di fianco a noi. I loro indumenti, camice hawaiane pantaloni corti e ciabatte infradito, erano un pelino leggeri perfino per un inverno clemente qual è quello della costa ovest della Florida, dov’è raro che la temperatura notturna scenda sotto i 12 gradi centigradi. Un’altra splendida giornata volgeva al termine. Era il mio primo viaggio in assoluto nei mitici (e mitizzati) Stati Uniti d’America e i sentimenti che provavo per Miss Jane Ann Thomas, sublime prodotto di Dna toscano – da parte di madre –, gallese e olandese, crescevano di giorno in giorno, totalmente ricambiati. Wow, stavo proprio una favola. La Miller Lite scendeva giù che era un piacere, fresca e corroborante. Lo stereo del bar all’aperto suonava Can’t Hardly Wait dei Replacements. La mia donna profumava di Pink Sugar. Don’t pinch me, I’m dreaming. L’accento dei due uomini mi suonava cinese. “Di dove sono?” domandai a Jane sottovoce. “Di Boston” sorrise lei. Dopodiché chiese loro conferma: “Ehi, ragazzi, siete di Boston, vero?” Creatura esuberante, la mia Jane. Il più anziano dei due almeno all’apparenza, barba bianca da capitano di lungo corso ed eritema etilico, partì subito in quarta a fare lo splendido; il suo compare, più austero e occhialuto, rimase seduto sul suo sgabello. Io dosavo sorrisetti di circostanza sforzandomi nel contempo di comprendere ciò che il Capitano Nemo andava dicendo. Chiamasi accento non-rotico: ossia, che omette e/o sostituisce la pronuncia della erre quando seguita da consonante o a fine parola. Se voi ordinaste un’aragosta nel Massachussets o nell’attiguo Maine come lobster, il cameriere potrebbe riprendervi con puntiglio: “It’s lobstah, sir, not lobster.” Colà lo schiaccianoci, nutcracker, si pronuncia nutcrackah. 79 Per deficit d’attenzione o mancanza d’interesse, non capii che accidenti ci facessero quei due a Sarasota; vacanze, lavoro sugli yacht, contrabbando di cocaina o di microchip militari da vendere ai cinesi, fate voi che sapete. Dopo un po’ anche il quattrocchi e due stanghette, anch’egli con lanugine canuta ma più alto e dinoccolato, venne a offrire il proprio contributo alla chiacchierata: hey, ma sei italiano?, mia nonna materna era italiana, che ci fai in Florida, sei uno chef? (un classico. Negli Stati Uniti me lo chiedono tutti; e, manco a dirlo, ogniqualvolta rispondo che faccio il copy bla bla bla mi guardano con gli occhi a palla) e così via. Tempo di bere un’altra birra leggera e i due soggetti levarono le ancore; io e Jane proseguimmo a sbronzarci, mentre l’aria rinfrescava sensibilmente e la notte calava sulle bianche spiagge della costa. Joe Perry, storica ascia solista degli Aerosmith, possiede una villa a Longboat Key, pochi minuti d’auto da Sarasota; pare sia un’emerita testa di minchia repubblicana, ma invero non ho mai nutrito dubbi al riguardo. Lo era anche Johnny Ramone, ciò nondimeno non ho smesso di amare i Ramones per quello. E neppure gli Aerosmith. Let the music do the talking. Il giorno seguente, in preda a un discreto mal di capoccia da doposbronza, stavo sorseggiando la mia seconda tazza di tè della mattinata, quando Miss Thomas, scalza, scarmigliata, stratosfericamente desiderabile, venne a me brandendo un pezzetto di carta quadrettata: “Ma tu guarda che ho trovato nella mia borsetta... ” Aggrottai la fronte e lessi; c’era su scritto un nome, Frederick, cioè Captain Nemo, seguito da un numero di telefono. Quello spudorato d’un bostoniano glielo aveva infilato nella borsetta a sua/nostra insaputa. “...e vuoi saperne un’altra? Mentre tu eri in bagno quello con gli occhiali gli ha bisbigliato nell’orecchio, convinto che non avrei sentito: hey Fred, cerca di non baccagliarti troppo ’sta donna ok?, che il suo uomo potrebbe anche essere della mafia.” Come no. Maury Soprano. Dissi: “Veramente? Ma vaffanculo loro e tutta la Citta' Fagiolo!” Jane rise con me, poi appallottolò il biglietto e lo gettò nel cestino dei rifiuti. Comunque sia, killer di Cosa Nostra o meno, se ribecco quel cascamorto a Sarasota gli faccio un didietro a capanna: anzi, a capannah. Se c’è almeno una cosa che ho appreso in quel biennio di servizio prestato all’ente Advertising & Promotion del gulag Basse di Stura, è che il mondo è ormai irrimediabilmente in mano agli esperti di marketing. La loro arma 80 di persuasione-vessazione preferita? Foeminae, ora più che mai. Meglio se svestita, allusiva, provocante. Il sedere muliebre è la vera icona di questo primo decennio del ventunesimo secolo. L’associazione mercantesca “birra e fascino venereo” ha più di due secoli di vita. Nella cruciale transizione tra l’Ottocento e il Novecento, i birrai si trovarono a fronteggiare l’esigenza di far conoscere i propri prodotti a una popolazione di consumatori ogni giorno più ampia. Bando agli eufemismi: essendo che il maggior fruitore di birra era, e rimane tuttora, l’uomo, si doveva prenderlo per le palle. Ecco allora gli intrepidi grafici pubblicitari dell’epoca sbizzarrirsi a illustrare le reclame con donzelle abbigliate come nel film Amore e ginnastica che porgevano, alzavano al cielo o servivano boccali traboccanti spuma. Il massimo del sexy lo offriva la reclame del birrificio americano Ringler & C., con una tizia ignuda dalla vita in su (e tutt’altro che anoressica) avvolta in un drappo a stelle e strisce. Lo stereotipo che abbina la birra chiara a una ragazza bionda dalle forme sensuali, possibilmente scandinava perché, si sa, gli uomini preferiscono le bionde boreali e i maschi mediterranei più di tutti, nasce con l’inizio dei turbolenti anni Settanta. La Stubing col vestitino di cui ho già accennato, oppure legata a una bottiglia di Peroni con un Nastro Azzurro: sottilmente fetish con una spruzzatina di bondage, molto prima che questi due termini ci sfruculiassero quotidianamente l’esistenza. Dopo la deliziosa omonima kartoffel dello scarsocrinito capitano di Love Boat, un diluvio di sventole d’ognidove di cui ho perso la contabilità, sempre meno vestite, sempre più ammiccanti. Sempre più bone, diciamocelo pure. Come la creatura dai meravigliosi occhi blu cobalto che, vestita più o meno di nulla, ci invita a bere la Viru, Premium Estonian Beer. E le birre scure? Le mie predilette brune? Le rosse? Vogliamo ostracizzare tutte quelle bellezze dai capelli tizianeschi solo per quella maldicenza da caserma circa il lezzo delle loro parti intime? Mi sono tuffato nella rete per cercare fotografie, poster, spot, “gnomi e cognomi”, come direbbe il Mago Gabriel. Ho scovato due mirabolanti ancorché antitetici ads della Guinness e una fotografia che ti scioglie il cuore come fosse una noce di burro. Vai col primo spot. Una ragazza bruna con tutta la passione del mondo racchiusa in una splendida bocca siede da sola in un pub, gli occhi bassi, tamburellando con le dita sul bancone. Tutt’a un tratto una mano introduce un gettone nel juke-box: ne scaturisce una bellissima canzone d’amore. Un sorriso radioso come una stella appena nata illumina il volto della ragazza: è arrivato il suo partner! Anche lui è un pivello mica male. S’abbracciano 81 con trasporto. Il barista serve loro due gagliarde pinte di Draught. Lei beve un sorso e le rimane un pizzico di schiuma sul nasino: lui gliela toglie via con un bacio. Lei allora beve un altro sorso e, a bella posta, ammiccando, si lascia le labbra bagnate di schiuma cremosa affinché lui le dia un altro bacio: che teneroni! Tutto questo avviene sotto lo sguardo trasognato di una nerd dai capelli biondo-ramati seduta più in là: a onor del vero se si togliesse gli occhiali e il maglione all’uncinetto sarebbe un bel fighino, ma si sa, l’iperrealismo è il sale e pepe della pubblicità. Il bonario bartender le allunga una pinta con una strizzata d’occhio, come dicendo: “Anche tu ce la puoi fare, ragazza.” Così, con un sorriso svenevole la bruttina fittizia si volge a sinistra laddove siede un magnifico esemplare di provola irish che, secondo copione, ricambia l’attenzione con visibile imbarazzo; quindi lei, colta da travolgente mimesi, ghermisce il boccale e vi sciaborda dentro il viso tornando a sorridergli tutta impiastricciata di schiuma. Il secchione peldicarota, dopo un momento d’esitanza, si catapulta a baciarla. I due finiscono abbracciati al suolo trascinandosi dietro bicchieri a campana e sgabelli: Guinness, a stout with love. Fantastico. Secondo spot. Il dorso nudo e lucido di sudore di una signorina appecorata con una bottiglia di Guinness poggiante in precario equilibrio sulla zona lombo-sacrale. Sullo sfondo, una tappezzeria da hotel d’infimo ordine. Motivetto imbecille da film porno vintage. Dall’oscillazione sincronica di bottiglia e corpo appare immantinente palese che qualcuno sta penetrando sessualmente la donna da dietro. Quel qualcuno dopo un po’ allunga una zampa, agguanta la bottiglia e ingolla un sorso fuori campo senza smettere di pompare, poi emettendo un “Ahh!” di piacere la riappoggia esattamente dov’era. Tempo due-tre buoni colpi di fianco e un’altra mano, dal lato sinistro dello schermo, entra in campo e tira su il vetro: multitasking, la ragazzotta! Ma non finisce lì… Nel momento in cui compare la scritta SHARE ONE WITH A FRIEND, una terza manaccia spunta all’orizzonte e prende la bottiglia. E il suggerimento si completa: OR TWO. O meglio: OR THREE. Alquanto spinto, ma divertente. La fotografia. Una bella ragazza dal look retromoderno, Randi Ingerman del Connemara, seduta a gambe distese e accavallate dietro la vetrina di un locale elegantemente arredato, il dorso appoggiato allo stipite, una mano sul davanzale nascosta dalla cornice, l’altra avvolta intorno a un boccale di Guinness – dita distanti, affusolate –, la testa riccioluta da una parte. Chi o cosa stai guardando, Randi Connemara? Il tuo ragazzo, o la tua migliore amica, è in ritardo? Provi interesse erotico per quel malpelo nerboruto che 82 sta scaricando fusti di birra dal bilico sul marciapiede di fronte? Magari ti piacciono le donne, e quella spilungona con l’impermeabile bianco sotto la pensilina dell’autobus somiglia davvero molto a Samantha Morton, la tua icona platonica: ti confesso che, sebbene non sia proprio il mio tipo, mi va parecchio a genio, anche come attrice. Oppure stai soltanto gustando la tua meritata pint of plain dopo una stressante giornata di lavoro, scrutando finalmente rilassata e libera d’ogni pensiero il calar della sera sul termitaio umano. Mi piacerebbe tantissimo offrirtene un’altra. Nell’antica Roma il consumo di vino era vietato alle donne: secondo i Romani, esso metteva in serio pericolo la condotta sessuale della donna, col rischio di condurla all’adulterio, ad inconcessam venerem. Col tempo le fu concesso di bere il vino passito e in genere i vini dolci, cioè tagliati con acqua o profumi. Più che due millenni abbondanti, sembra passato un eone da allora. Oggi le donne sbevazzano che è un piacere, ragazzine o mature che siano, per quanto preferiscano il vino e i cocktail alla birra, almeno qui nel Belpaese, per diversi motivi compreso quello meramente fisiologico: laddove a me ci vogliono tre-quattro birre medie per far scattare l’allarme alla cisterna, a loro è sufficiente un mojito e mezzo. Guai a essere prima di loro in coda per soddisfare l’acre necessità, soprattutto quando vi è un bagno solo nel locale! Talune fanno le caramellose per pungolare il gentiluomo che è in te, schiacciato sotto strati archeologici di disincanto. Le più screanzate ti passano davanti e quando escono manco ti chiedono scusa. E se ti tocca il turno prima di una brigata di ninfette suburbane conciate come le Pussycat Dolls, aspettati pure che prendano a tempestare di pugni la porta del cesso neanche quindici secondi dopo il tuo ingresso: vale a dire, appena il tempo di tirare giù la zip ed estrarre la pompa. Quest’ultimo è un comportamento che mi fa incazzare come un vaporetto del Mississipi. La femme! Il futuro potrebbe risolvere la sua atavica incontinenza. Nella quarta parte del suo grande romanzo Guerra eterna (“Maggiore Mandella, 2458-3143 d.C.”) Joe Haldeman descrive fuggevolmente piccole capsule da rompere e accostare al naso per fiutarne il contenuto: l’ufficiale medico dell’astronave comandata da Mandella, la bellissima dottoressa Alsever, ne fa discreto uso. Fin troppo semplice è spingersi a ipotizzare una capsula mojito e una screwdriver o finanche una mini-capsula chupito de ron con zumo de fruta, per eterna pace della vescica femminile. Alsever è lesbica. Nel XXVI secolo sulla Terra essere gay è la norma: l’eterosessualità è 83 considerata una disfunzione emotiva, relativamente facile da correggere. Ma la birra esiste ancora, tant’è vero che a inizio capitolo prima di partire per l’ennesima campagna Mandella se ne scola ben otto prima di decidersi ad assaggiare un drink del momento: “Il rum Antares era un bicchiere alto e sottile, con un poco di ghiaccio che galleggiava sul liquido color ambra pallido. Sul fondo c’era un globulo rosso vivo, grosso quanto un’unghia, circondato da filamenti ondeggianti.” Pure la libido femminile, per quanto geneticamente “orientata”, conserva le sue caratteristiche salienti: una su tutte, l’arrapamento conseguente all’assunzione d’alcol. Cosicché durante la missione succede che la Alsever, dopo essersi inebriata di una robaccia prodotta nella distilleria improvvisata della Masaryk II, tenta di offrirsi al maggiore: “tenta”, sì, perché la desuetudine all’etanolo la stende sul più bello. Comunque beccatevi questo spoiler e zitti: verso la fine del romanzo Diana Alsever si fa convertire in eterosessuale. Ma non sarà Mandella ad approfittarne. Holy Fire (“Fuoco sacro”) è l’unico libro di Bruce Sterling che posseggo. Il Ventunesimo Secolo volge al termine e una Multinazionale nel campo della medicina domina il mondo economico grazie alle ultime scoperte nel campo del prolungamento della vita. Nella migliore tradizione cyberpunk è un mondo di droghe sintetiche, d’individualisti metropolitani che vivono di espedienti, di governi paternalistici. Il potere politico è nelle mani di una gerontocrazia che controlla le più avanzate tecnologie per ringiovanire e le masse si arrabattano alla bell’e meglio. Mia Ziemann, novantaquattro anni, californiana di San Francisco, di professione economista sanitaria, ha deciso di sottoporsi a un trattamento chiamato Disintossicazione Cellulare Dissipativa Neo-Telomerica, che la farà tornare giovanissima e vivere per sempre. Ma non vuole sottostare al susseguente programma di ricerca cui quelli della Multinazionale la sottoporrebbero per averne usufruito. Così, bellissima e post-umana, se ne scappa in Europa col nome mutato in Maya per vivere la sua nuova, sempiterna vita. Prima tappa del wanderjahr è Monaco di Baviera. Lì Maya conosce Ulrich, fascinoso anarcoide: “Vieni con me, e ti porto alla famosa Hofbrauhaus. Si mangia carne. E si beve birra!” Più o meno: Maya scopre che nel 2096 i birraioli tracannano grossi boccali di malto bollente mentre l’alcol lo sniffano soltanto, tirando da piccoli inalatori con un preparato lipidico. Quella maniera stravagante di assumere l’alcol riduce il dosaggio, preservando il fegato dal contatto diretto con le sostanze tossiche. Per soddisfazione dei discendenti del prof. 84 Remuzzi. In ogni modo, Maya si rifiuta di provare la post-birra: è il sesso che desidera, tra le inumerevoli cose. Brava post-ragazza. Ma come spesso succede la realtà supera la fantasia. Un gruppo di studenti dell’Helicon Vocational Institute, vicino Amsterdam, ha realizzato l’alcol in polvere come progetto di fine anno. E le ha affibbiato anche un nome: Booz2Go. Disponibile in bustine da venti grammi dal costo di un euro e mezzo, aggiungendovi acqua si ottiene una bevanda al gusto di lime con tanto di bollicine dal tasso alcolico pari al 3%. Il problema è che, non essendo Booz2Go alcol in forma liquida, potrebbe essere smerciato anche ai minori senza infrangere la legge. Staremo a vedere. Io, per me, sto compiendo già eccessivi sforzi per rimanere al passo coi tempi; mi rifiuto categoricamente anche soltanto di immaginare che fra trenta-quarant’anni – anch’io, come il nostro corrente modestissimo Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, sono certo di campare centoventi anni, e bene! – potrei dovermi accostare al bancone di una birreria e chiedere a un androide “una bustina di Menabrea Booz e una media d’acqua naturale, grazie.” Finché è lievito marziano va ancora bene. 85 Figura 7. Io e Jane in azione da O’Leary. 86 GRAZIE CHE HO BEVUTO In una cultura come la nostra, abituata da tempo a frazionare e dividere ogni cosa al fine di controllarla, è forse sconcertante sentirsi ricordare che, per quanto riguarda le sue conseguenze pratiche, il medium è il messaggio. Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare. Mercoledì 5 novembre 20**, h 10.29 a.m., CET. Per uno come me, che respira e mangia libri dalla nascita, una biblioteca trabocca di tentazioni fuorvianti dal lavoro quasi come un Midsummer Night’s Dream Party alla Playboy Mansion per un predicatore evangelico. Oggi, per esempio, ho qui posato accanto al notebook The Complete Bowie di Nicholas Pegg, l’enciclopedia definitiva di Mr. David Jones alias Ziggy Stardust alias Thin White Duke alias David Bowie. Di quest’uomo amo essenzialmente cinque dischi: Station To Station, Low, Heroes, Lodger e Scary Monsters. Sono vittima di una vera e propria ossessione uditiva per tutti i chitarristi che lavorarono con lui durante quella fase abbagliante della sua carriera, ossia Carlos Alomar, Earl Slick, Ricky Gardiner, Robert Fripp, Chuck Hammer, Adrian Belew e Stacey Heydon. Fripp e Belew vengono da Urano. Alomar è uno dei più talentuosi chitarristi ritmici della storia del rock. Gardiner si presentava sul palco in salopette. Sia Carlos sia Ricky suonarono con Iggy Pop, in studio e dal vivo. Di Gardiner il produttore Tony Visconti disse: “Era completamente fuori di testa ed era un autentico mago degli effetti speciali. Verso di lui nutrivo una sorta di timore reverenziale” Il suo contributo a Low non è mai stato valutato nella giusta misura, cioè prezioso, ma il bravo chitarrista scozzese è comunque passato alla storia per aver ideato il riff di The Passenger “in un amabile mattino di maggio presso casa mia, guardando i meli in fiore”, com’egli stesso racconta in un’intervista risalente al 2000. Che personaggi. Che tempi. Ammassi globulari di richiami nella mia testa. Iggy e la sua band al Dinah Shore Show nel 1977: Hunt Sales alla batteria, Tony Sales al basso, Ricky Gardiner e il Duca seduto al pianoforte trattato con una paglia in bocca. Iggy all’Ippodromo di Parigi parlando in francese al pubblico. Iggy che al principio degli anni Novanta racconta ridendo a un giornalista nostrano: “A Berlino andavo avanti a polvere boliviana, salsicce e birra.” Diavolo d’un Totò Osterberg. 87 Fin dall’antichità l’uomo si è trovato a creare ruoli mistici e separati per l’atto del bere: benché spesso celebrato entro il generico rito di un pasto, esso rimane sempre appartato in un rituale a sé. Gli antichi Sumeri, ad esempio, si mantenevano a rispettosa distanza dalle loro bevande mediante lunghe cannucce di paglia. Il fatto che le cannucce permettessero a coloro i quali partecipavano al rituale di bere da un unico contenitore consentì l’affermazione di un evento comunitario. Uno poteva condividere un senso di profondo cameratismo con gli altri bevitori membri del suo gruppo di coppa. Quest’antico costume è ancora parte intrinseca dell’attività sociale di molte tribù africane odierne; in Occidente è stato ripristinato per i nuovi cerimoniali della sbronza collettiva. La paglia è stata sostituita dalla meno esotica plastica e i sempre più arzigogolati beveroni non hanno bisogno di essere passati al setaccio, ma di un fegato in lega di titanio! Da lì al brindisi il passo è breve. L’atto di offrire simbolicamente una bevanda a una divinità fu senz’altro una parte indispensabile delle offerte di preghiera e feste religiose fin dall’alba della storia in ambo le comunità pagane e giudaico-cristiane. In questo senso il moderno cincin può essere considerato come una derivazione dell’Eucarestia! In qualsiasi modo vi sono stati molti misteri associabili al consumo di pane e vino fra tutte le comunità religiose, inclusi i Nativi Americani. Anche i seguaci del Dalai Lama in Tibet celebrano in stile eucaristico. Gli Egizi festeggiavano ogni anno la resurrezione di Osiride consumando pane in forma di torta sacra od ostia dopo che era stato benedetto da un sacerdote e così divenuto carne della carne del dio; poi s’inzuppava il pane nel vino e si comunicava al fedele di aver mangiato il corpo e il sangue di Osiride. La lista potrebbe continuare per un bel pezzo. Nell’antica Grecia il brindisi tra due persone era chiamato proposis, “la bibita prima”. Colui che proponeva il brindisi dapprima sorseggiava, poi dava il recipiente che conteneva il resto del vino alla persona onorata; in occasioni di particolare rilevanza la tazza stessa era un regalo permanente al ricevitore. A uno sposalizio, per citare un caso, una coppa dorata piena di vino sarebbe passata in questa maniera da suocero a genero. La coppa diveniva un simbolo della sposa, “accompagnata all’altare” (com’è ancora in uso dire) da suo padre; i due uomini, le due famiglie erano ora una cosa sola nel vino condiviso. Notevolmente più a nord e avanti lungo la linea temporale, nelle notti di luna piena, i sacerdoti guerrieri di Odino offrivano brindisi al proprio dio nell’ambito di riti da connotati proto-heavy metal: niente vetro finemente 88 lavorato, solo metallo grezzo, cuoio e sangue. Più tardi essi svilupparono la pratica di usare il teschio di un nemico caduto come coppa d’offerta sacrificale, e alcuni studiosi sostengono che quest’uso diede origine al ben noto brindisi scandinavo “Skoal!”. Indubbiamente questa parola e skull (“teschio”) sono etimologicamente correlate, significando entrambe “una cosa cava”. È anche interessante notare che mentre il brindisi non è mai stato una tradizione molto forte nei paesi dell’area mediterranea fin dalla nascita del Cristianesimo, gli sono stati attribuiti termini germanici in francese, italiano e spagnolo. La forma teutonica del costume di brindare sembra essere stata reintrodotta in quei paesi in qualche periodo durante il sedicesimo secolo. Come risultato in italiano e spagnolo “brindare” si dice rispettivamente “brindare” e “brindar”, dal tedesco “ich bring dir’s”, un brindisi che significa “io lo porto a te”. Nella lingua francese la parola “trinquer” viene dal tedesco “trinken”, ossia “bere”. In lingua inglese “fare un brindisi” si dice to drink a toast. Questo modo di dire viene dalla pratica britannica di mettere a galleggiare sulla bevanda un pezzetto di pane tostato addolcito o aromatizzato. Un’usanza antica, derivante anch’essa dalla tradizione degli eventi religiosi eucaristici della storia: dopo che tutti gli ospiti avevano diviso la coppa, si attendeva che il padrone di casa ne sorbisse le ultime gocce in onore dei commensali e della devozione alla propria deità. Neanche a dirlo, la letteratura italiana classica e moderna sovrabbonda di libagioni. Ulisse brindò a Polifemo dopo che il ciclope ebbe divorato uno dei suoi compagni, e con un brindisi intriso di speranza si congedò da Alcinoo, re dei Feaci. Orazio invitò a levare i calici alla transitorietà del presente, il celeberrimo Carpe Diem dell’Ode a Leuconoe: “Afferra l’attimo e diffida del dubbio domani.” Tra il XII e la prima metà del XIII secolo ritroviamo l’atto del brindare con gli amici nelle liriche goliardiche: “Un brindisi lunghissimo sia per noi saluto: e duri questo uso per secoli infiniti. Amen.” Nel Rinascimento il brindisi ritorna nel Galateo di Mons e nella Canzone di Bacco e Arianna di Lorenzo il Magnifico, una bella ballata che invita a godersi l’esistenza che scorre via. Nel Settecento esso compare, a tinte più malinconiche, decisamente classicheggianti, nelle opere di due immensi letterati italiani: Alfieri e Parini. Nell’Ottocento è il Manzoni a descrivere ne I promessi sposi tre brindisi: il primo ha come protagonisti frà Cristoforo e i notabili a pranzo da Don Rodrigo; il secondo vede Renzo nell’osteria “Alla luna piena”; è ancora Renzo, sul carro dei 89 monatti, ad assistere al terzo brindisi. Altresì popolare è la bicchierata musicata da Verdi ne La Traviata: “Libiam ne’ lieti calici / che la bellezza infiora / E la fuggevol ora s’inebri a voluttà”, cantata da Alfredo cui risponde il coro dei commensali. Mercoledì 12 novembre 20**, h 10.06 a.m., CET. Ribadisco che un doposbornia moderato, diciamo le tre medie chiare e i due gin tonic che ho ingollato ieri sera al Lab, contribuisce a far fluire meglio le idee. I miei denigratori se la ghigneranno. Per quanto io sia uno scrittore enormemente trascurato, ne ho un discreto numero. Certuni sostengono che ho un lessico pietoso – tipo un paio di capisaldi della cultura torinese, il divertente è che entrambi sono straconvinti che io nutra per loro profonda stima. Altri mi accusano di sparare minchiate come un bazooka e addirittura di traviare le nuove generazioni con le mie narrazioni sul mondo del tifo organizzato. L’ex proprietaria veterofemminista di un pub che ero solito frequentare mi ha tacciato di misoginia: nel 1982 ti avrei dato ragione, bella mia. Io, per mio carattere, accetto molto volentieri i buoni consigli, ma nel momento in cui sento puzza di preconcetto prendo a eruttare zolfo fuso e biossido di zolfo come i vulcani di Io, l’infernale satellite di Saturno; inoltre, come già espresso all’inizio di questo libro per mezzo di una citazione colta, ho una pessima opinione dei critici d’arte. A loro e a tutti i miei stimatissimi nonché munifici editori ho dedicato sul mio sito una libera interpretazione di Crash Street Kidds, classico proto-punk dei Mott the Hoople: Guarda i miei pensieri, guarda le mie cicatrici, guarda i miei vestiti, sono vestito per uccidere Guarda il mio sangue, e guarda la mia pistola I Raga Casinari stanno venendo a prenderti (È meglio che corri, avanti corri, comincia a correre!) I Raga Casinari stanno venendo a prenderti (Sei fatto, sei fottuto, sei finito!) Considera i miei errori e considera la mia maledizione, considera la mia frustrazione Non sai proprio un cazzo Nuova Città un accidente, manda a chiamare il carro funebre 90 I Raga Casinari stanno venendo a prenderti (È meglio che corri, avanti corri, comincia a correre!) I Raga Casinari stanno venendo a prenderti (Solo per divertimento, per sballo, per sciambola!) Taglieremo i fili, ti bruceremo, sono stanco di resistere Ti tortureremo le piante dei piedi, ci tratti come dei topi di fogna, poi il resto Hai detto loro che siamo dei monelli e la repressione contorce i nostri pugni Fatemi uscire da questa nebbia… Sentimi imprecare, senti ogni parola, io non sono soltanto un numero Voglio essere ascoltato, il presentatore televisivo parla con la gentaglia I Raga Casinari stanno venendo a prenderti È meglio che corri I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Morditi il pollice Sono stato tenuto all’oscuro, sono involuto, sono stato annullato E tu te ne sbatti i coglioni Tu sei così puro, tu conosci i rimedi, cioè mantenermi povero Il piccolo delinquente giovanile I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Corri… I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Uno è tuo figlio… I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Nasconditi… I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Fatti una corsa… I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Troppo tardi… I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Dove sono i tuoi amici? I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Sei smascherato I Raga Casinari stanno venendo a prenderti 91 Ora sei accerchiato… I Raga Casinari stanno venendo a prenderti Ora sei morto… sei morto… SEI MORTO!!! DUE RAFFICHE DI AK47.WAV PER VOI, PREDATORI DI SOGNI! La biblioteca Bernaulo è quasi vuota oggi. Le foglie degli alberi intorno mostrano ormai tutte le malinconiche bellissime colorazioni della season of wither. Il cielo è un fulgore grigiastro, quasi uniforme. Le mie occhiaie fanno pendant col panorama: non avrò mica contratto l’epatite? Trascino nel Windows Media Player Aftermath dei Rolling Stones: nelle cuffiette rende molto bene, si apprezza soprattutto il fuzz bass di Bill Wyman, una scelta senz’altro originale quella di distorcere il suo strumento anziché le chitarre come facevano tutti nel 1966. Probabilmente Keith Richards non si sentiva ancora abbastanza a proprio agio con le sonorità motoristiche emesse da quelle portentose scatolette al germanio. Poi vi s’impratichì e già dal long playing seguente, Between the Buttons, la sua chitarra si fece più roboante, dura, piccante: e in Their Satanic Majesties Request, perfino cosmica. Con l’aiutino di una certa sostanza chimica scoperta da Albert Hoffman il 16 aprile 1943. Think, think. Porca miseria ladra, ma dov’è finito il video che m’interessa? Credevo d’averlo importato qui dal precedente computer che ho rottamato. Macché. Ecco un’altra vittima della sindrome da tabula rasa digitalizzata che mi affligge da qualche tempo. Dunque mi toccherà scaricarlo un’altra volta o andare a memoria. Scelgo la prima possibilità, quantunque potrei recitarne ogni singola battuta come neppure Quei bravi ragazzi di Martin Scorsese: un capolavoro che ho visto almeno trenta volte, e non mi stanca mai. Proprio come l’Età dell’Oro delle Pietre Rotolanti. Due anni e mezzo or sono, in un bel mattino di primavera, aprii l’Outlook Express e passato qualche minuto mi ritrovai a smadonnare: qualcuno mi aveva spedito una e-mail con un allegato troppo “pesante”. Io ero, e sono tuttora, un pitecantropo a 56K che saltuariamente ricorre al warwalking, cosicché dovetti far buon viso a cattivo gioco e attendere un altro quarto d’ora abbondante prima che il messaggio fosse scaricato completamente dal programma. 92 Il testo era il seguente: “Ciao Profiu (è uno dei miei due soprannomi da battaglia, l’altro è Messia N.d.A.), devi assolutamente guardare questo filmato, è un vero spasso!” Firmato, Daffy. Detto, fatto. Lanciai ulteriori imprecazioni nell’aria del mio studio poiché il video necessitava di un codec per essere riprodotto dal Windows Media Player, ma una volta scaricato quello potei finalmente scoprire di che si trattava. Scorsero tre secondi di schermo blue blue electric blue that’s the color of my room. Al quarto comparve un pannello elettorale: “Giovanni Bivona, Patto per la Sicilia, Elezioni Provinciali 25-26 maggio 2003, collegi di Agrigento-Favara/Canicattì. IO PROTESTO, E TU?” Già mi scappò un risolino dalle narici: il candidato era un faccione siculo dalla marcata calvizie fronto-occipitale ma con i capelli superstiti lunghi fino alle spalle a bottiglia e una camicia bianca dal colletto spropositato, come quelle che indossava il leggendario pornodivo Ron Jeremy nei suoi filmacci degli anni Settanta. Prometteva esplosioni di raggi gamma e supernove. Ancora qualche attimo e cominciò il filmato vero e proprio. Da una strada alberata di Favara, Agrigento o vai tu a sapere, Giovanni Bivona lanciava il suo proclama avanzando lentamente verso la telecamera: “La politica, è triste. Facciamola diventare allegra.” E poi, fermatosi: “Protestate, con me.” Camicia e volto stropicciati, come si fosse alzato appena tre minuti prima da una suntuosa siesta estiva profondo-italiana dopo una spanciata di melanzane alla parmigiana e cannolicchi annaffiata di Nero d’Avola. Seguì una ripresa al rallentatore del Sicilian Candidate stringendo la mano ai suoi sostenitori (per chiamarli in qualche modo) e un coro abborracciato degli stessi: “NOI PROTESTIAMO!!! NOI VOTIAMO GIOVANNI BIVONA!” Da lì in avanti, spettacolo! Bivona che sulle note introduttive all’inno di Mameli esce dal portone di un palazzo agitando scompostamente il pugno sinistro accompagnato da un doppio squillo di clacson: “Sto arrivando, sto arrivando!” Bivona che chiuso in una specie di camera anecoica snocciola il suo programma: “Io sono qui per... dirvi che dobbiamo lottare tutti uniti e assieme, uno per tutti e tutti per uno, perché non se ne può più di queste cose che manca il lavoro, manca… ehhh… il turismo, manca l’edilizia, manca… iiih… la serietà della gente in famiglia, manca la sicurezza del lavoro…” e tralignando nel dialetto siciliano “’Un si voglie spusare più nuggu perché manca u trabagghiu” Bivona esortante il popolo siculo alla 93 ribellione: “Protestiamo, protestiamo, protestiamo, protestiamo…” manata collerica al muro “…e protestiamo!” Bivona incazzato perché: “Manca l’acqua! Ha piovuto da maddina a sera, un inverno che chiuvi… e manca l’acqua!” E così via. Alle Provinciali il Patto per la Sicilia è stato polverizzato, ma Giovanni Bivona, di professione barbiere, ha ottenuto la classica rivincita del genio incompreso: il successo postumo. Il suo spot elettorale è finito in rete dove è stato visto e scaricato da migliaia di utenti, anno dopo anno, passando di forum in forum, fino a diventare un vero e proprio fenomeno di culto di cui si è interessato addirittura un quotidiano autorevole quale il Corriere della Sera. Perfino Google gli ha dedicato una recensione: A Sicilian television “presenter” (or pretending to be, while he’s a barber) in his promotional ad for a local electoral campaign in Sicily (Agrigento County elections). You should be sicilians to better get the meaning of the ad, but it’s funny even if you don’t understand the meaning: you won’t believe this man pretended to be elected! Io invece avrei voluto che l’eleggessero, fosse soltanto per la genuinità che promana: perché, in definitiva, ha ragione lui. La politica è triste, ogni giorno che passa lo è di più: eppure, anche se solo per tre minuti e diciotto secondi, lui ce la rende davvero più allegra. Ma come ci si sentirà Bivona nei panni del comico involontario? Protesterà? Magari gli sarà venuta la sarsa per colpa degli scarafaggi cinesi! Diciamo tutti inzieme… Ritorniamo al passaggio in cui l’incommensurabile Bivona protesta per la penuria d’acqua corrente. Subito dopo lo vediamo davanti a una fontana di marmo in compagnia di due tizi riproporre lo slogan scandendo le parole: “Protestate-con-me”. E di seguito: “Diciamo tutti inzieme… grazie che ho bevuto!” Intendendo: poiché manca sempre l’acqua, dobbiamo ringraziare il cielo ogni santa volta che riusciamo a berne una stilla. Quell’ultima frase è da due anni il brindisi ufficiale della mia compagnia. Dovunque noi siamo, allo stadio come al ristorante o al pub all’angolo, qualunque bevanda si sia tracannando tranne ovviamente l’acqua e i drink analcolici, brindiamo sempre così. Talvolta qualcuno confondendosi coi canti ultrà da curva dice: “Diciamo tutti in coro…” Al che io lo riprendo 94 aspramente perché la formula va pronunciata esatta, non sono ammesse bastardizzazioni. Devo ammettere che ho smarrito la contabilità di quanti brindisi abbiamo fatto in questo modo: mezzo migliaio? …grazie che ho bevuto! Protestate con me! Fortunatamente a Torino abbiamo acqua e birra in abbondanza, ma non si sa mai… Per come si stanno mettendo le cose, in un futuro neanche troppo remoto potremmo ritrovarci a fronteggiare un rincaro spropositato della nostra bevanda preferita per l’accresciuto ricorso globale ai biocarburanti: o peggio ancora, e tutt’altro che improbabile, un nuovo Proibizionismo. Bisogna prepararsi, creando siti, forum di discussione, social network, pubblicazioni cartacee ad hoc, perché quando il cielo si adombrerà e gli spillatori si seccheranno avremo bisogno di memoria storica, nonché fucili mitragliatori, coraggio e faccia tosta per procurarci orzo, luppolo e lievito. Mettete in rete i frutti della vostra inventiva alcolica! «Dobbiamo lottare tutti uniti e assieme, uno per tutti e tutti per uno.» Allora alziamo in alto i boccali e diciamo tutti insieme... 95 Figura 8. ...“GRAZIE CHE HO BEVUTO! ” 96 LA BIRRA E IL TAO Vedi anche: Punto di Gräfenberg. Vedi anche: Punto della Dea. Vedi anche: Punto sacro del Tantra. Vedi anche: Perla nera taoista. Chuck Palahniuk, Soffocare. L’illuminazione, secondo il Buddismo, è il completo sviluppo delle potenzialità e qualità naturali presenti nella vera natura della nostra mente; in più circoli buddisti essa è descritta come uno stato di “saggezza che sorge dall’esperienza diretta di ogni fenomeno svuotata dell’esperienza indipendente”. Quando una persona vede la luce, effettivamente vede o comprende la realtà a un livello molto più alto del terreno, non più limitata dalle transenne della ragione. L’illuminato è sagace e saggio riguardo alle sue relazioni, il proprio ruolo nella società e l’importanza d’ognuno e ogni cosa con cui egli interagisce. È dalla ricerca umana di questa luce figurata che tutte le nostre arti, scienze e religioni si sono sviluppate, originalmente un’unica ricerca di conoscenza e significato poi segmentatasi in distinte discipline specializzate. Come ad esempio la fabbricazione e il consumo della birra. Chissà quante volte avrete pronunciato questa frase: “Ho bisogno di bere un goccio per schiarirmi le idee”. Sappiate che codesto concetto viene da molto lontano: dal Tibet, esattamente. La tradizione buddista doha, infatti, contempla l’antica pratica di preparare e bere la cosiddetta “birra dell’illuminazione”. I tibetani sorseggiano la bevanda sciorinando nel contempo un repertorio di canzoni intitolate all’atto del bere. Vorrei raccontare ciò al nostro caro vecchio barman Nicky, colui per il quale Olivia Newton-John era la più bella mulatta del mondo, il bellissimo capoluogo delle Baleari è Parma di Maiorca (difatti è molto rinomato per il suo squisito prosciutto di mare), il telefono del bar funzionava a gin tonic e le birrerie “ondeggiavano”. Apro una parentesi per spiegarvi quest’ultima cosa. Una mattina d’estate io e Vito ci presentammo al locale per fare colazione dopo essere stati in giro tutta la notte a bere senza ritegno, lessi come polletti amburghesi. Nicky ci fece due cappuccini al gusto di esaclorofene, che accompagnammo con croissant e cannolicchi siciliani al solito raffermi, e attaccò a straparlare di vacanze future e passate. “Sapete, cinque anni fa sono andato in ferie a 97 Milano Marittima con mia moglie, e una sera siamo andati a cenare in una birreria grande e famosa, uno di quei bei posti dove i tedeschi quando sono belli ubriachi a tavola si prendono tutti a braccetto e si muovono cantando canzoni a squarciarsi la gola, così la birreria ondeggia.” Dio, gli saremmo esplosi a ridere in faccia già da sobri, figuratevi con la botta d’alcol che avevamo in corpo. Sì, vorrei proprio parlare a Nicky della birra illuminata. Purtroppo sono anni ormai che ha ceduto l’attività ad altri e per di più mi hanno confidato che negli ultimi tempi non è stato molto bene: tieni duro, roccia! Chiusa parentesi. Chhaang, o chang, è il nome della bevanda alcolica tradizionale del Tibet. Strettamente apparentata con la birra, viene prodotta usando orzo, miglio e riso. Procedimento e ingredienti variano secondo la zona; nei pressi del monte Everest, per esempio, la chang è ottenuta facendo passare acqua calda attraverso l’orzo fermentato, ed è poi servita in una grande pentola e sorbita mediante una cannuccia di legno. Il contenuto alcolico è piuttosto basso, ma essa produce un’intensa sensazione di calore e benessere, ideale per sopportare le temperature che da quelle parti in inverno scendono a livelli ben più che glaciali. Dicono che sia un toccasana per affezioni quali raffreddore, febbre e rinite allergica. Dovrò farmene mandare qualche otre per il prossimo inverno sabaudo, insieme a dieci casse di Lhasa, la superpremium quality all-natural, all-malt lager tibetan beer fatta coi migliori ingredienti del mondo: acqua di fonte dell’Himalaya, luppolo Saaz, lievito, e la maggior quantità possibile d’orzo autoctono. Pedantissimi virus e batteri, avrete pane per i vostri microdenti! Il tempio buddista Wat Pa Maha Chedi Kaew, situato a circa quattrocento chilometri a nord-est di Bangkok nella città di Khun Han, è senz’altro il risultato di una fantastica illuminazione birrifica: i monaci Thai lo hanno edificato usando oltre un milione di bottiglie di birra usate (Wat Pa Maha Chedi Kaew significa, per l’appunto, “Tempio del Milione di Bottiglie”). Certamente non è il solo esempio al mondo di edificio costruito con questi particolarissimi “mattoni”, ma lo sviluppo intricato della struttura lo rende unico e inimitabile. Grazie al supporto della comunità prossima a questi monaci ingegnosi è stato possibile per essi raccogliere abbastanza bottiglie da realizzare l’idea: non è noto quanto tempo ci abbiano impiegato, ma il risultato è stupefacente. Un tempio Thai fatto interamente di bottiglie riciclate di Heineken e Chang Beer, dalle fondamenta al tetto, perfino la torre dell’acqua e il bagno dei turisti. E grazie a te che hai bevuto e mi hai donato la bottiglia. 98 I Lama sono bodhisattva. Sì, proprio come Patrick Swayze in Point Break. I bodhisattva sono persone che hanno raggiunto l’illuminazione ma hanno rifiutato di ascendere al successivo piano spirituale, essendo perciò rinati fino a che tutta la vita sulla Terra sia stata illuminata. Durante il gelido inverno del 1985 mi impegnai a teletrasportare le opere più belle di Jack Kerouac dalla biblioteca Bernaulo allo scaffale inchiodato al muro sopra il mio letto. Il primo volume che riuscii a fottere fu I vagabondi del Dharma, dove si parlava di bodhisattva alcolici alla ricerca della Verità per le strade d’America: il buddismo Zen che i Dharma bums professavano era una variante giapponese del buddismo indo-tibetano. In verità per tradizione i Lama erano responsabili del controllo religioso, politico ed economico (riscuotevano i tributi) delle vite di tutti i tibetani, fossero essi nomadi o coltivatori. Va da sé che l’anedottica buddista è assai corposa, oserei dire sterminata. E non mancano le storielle in cui si fa esplicito riferimento alla birra. C’era un praticante tantrico, uno di quei Lama che tengono i capelli lunghi e si fanno una crocchia sulla cima della testa – come Gene Simmons dei Kiss sul palco – il cui nome era Ngagpa. Costui esortava i suoi discepoli a non bere la chang, sostenendo che: “Codesta bevanda fa molto male, perché quando si beve troppo ci si ubriaca e si perde la consapevolezza di sé, non si riesce a ricordare e si fanno molte cose brutte, perfino cattive.” Sta di fatto che Ngagpa di birra ne tracannava, e come. Diversamente, i nomadi non bevono molto e preparano la bevanda soltanto in occasione dei festeggiamenti per il Capodanno tibetano. Così un giorno un nomade gli si rivolse in modo molto rispettoso chiedendo: “Ma com’è che tu bevi la chang?”. Ngagpa rispose con aria sicura: “Io mi visualizzo come una divinità di meditazione e considero la chang come se fosse del nettare, sicché quando bevo non sto trasgredendo alcuna regola.” Allora l’uomo gli rivolse un’altra domanda: “Va bene se gli yak – i simpatici buoi tibetani – bevono l’acqua? È uno sbaglio, un errore?”. E il Lama: “No, va bene, se gli yak bevono l’acqua va benissimo.” Così il nomade continuò: “Ah, grandissima cosa. Allora io posso visualizzarmi come uno yak e la birra la visualizzo come acqua, dunque sono in regola. In questo modo posso anch’io bere la chang”. Lama Simmons, preso in castagna, non poté controbattere quest’argomentazione. Bisogna essere coerenti con quello che si propone ad altri di fare: ma sopra ogni cosa, non predicare bene e razzolare male. 99 (Ah ah ah. Controllo antialcol in Piazza Vittorio Veneto. I pulotti vi fanno smontare dalla vettura per sottoporvi al pretest, ma voialtri, rivolgendo loro il più serafico dei sorrisi, dichiarate: “Io non sono ubriaco.” E quelli: “Questo lo verificheremo con l’etilometro.” “Oh, non serve, signori tutori della legge e dell’ordine in questa rifulgente città. Quando bevo birra, io visualizzo me stesso come un golden retriever e la birra come acqua che sgorga da una fontana alla quale mi abbevero. Pertanto non posso essere sbronzo, benché abbia bevuto sei birre, un mojito e un chupito di tequila. Non mi sottoporrò al test.” E i signori tutori della legge v’ammanettano senza tante cerimonie, totalmente zen.) Sukhasiddhi fu una saggia indiana del secolo XI venerata da una stirpe buddista tibetana come dakini – un essere magico che si dedica ad aiutare gli altri lungo la via per l’illuminazione. Sukhasiddhi è considerata la dimostrazione che chiunque può raggiungere l’illuminazione spirituale, a dispetto d’età, sesso, educazione, condizione sociale, o condizioni di vita. Ella è vista altresì come un’incarnazione di gentilezza e generosità, poiché il suo viaggio spirituale impernia su due atti di benevolenza. Il primo tale atto è il suo allontanamento da casa da parte di suo marito e sei figli adulti all’età di cinquantanove anni. La famiglia viveva in estrema indigenza, e un giorno, quando una pentola di riso era tutto quanto era rimasto loro da mangiare, il marito e i ragazzi si divisero e partirono alla ricerca di cibo. Mentre erano via, un mendico messo perfino peggio venne alla porta e chiese del cibo a Sukhasiddhi. Pensando che la sua famiglia sarebbe ritornata presto con dell’altro, lei diede tutto il riso al pover’uomo. Quando la famiglia fece ritorno, essi montarono in collera, e l’espulsero. Miseranda, Sukhasiddhi decise di dirigersi verso un’area conosciuta come patria di molti grandi santi e maestri, siccome lei era sempre stata devota. Ella sulla sua strada riuscì a acquistare un sacco di riso, e con esso fece della birra, smerciandola al suo arrivo. Investendo parte di quanto aveva ricavato, lei comprò più riso, e presto divenne un mercante di birra locale. Un giorno, la studentessa spirituale nonché consorte (però!) di un potente maestro buddista andò da lei per comprare cervogia per conto del marito. Quando la studentessa disse a Sukhasiddhi per chi era la birra, Sukie insistette perché lei prendesse la sua birra migliore gratuitamente – il suo secondo, importantissimo atto di generosità. La studentessa tornò dal suo insegnante e gli disse ciò che era accaduto. Egli all’istante percepì che Sukie era un’anima profondamente spirituale, e disse alla sua studentessa di portargliela per istruirla. Sukhasiddhi arrivò, 100 piena di gratitudine e devozione. Il maestro buddista le diede istruzione sulla meditazione e di seguito compì quattro “autorizzazioni” – iniziazioni buddiste e benedizioni per accelerare il suo progresso spirituale. Così, sul momento, senza meditare addirittura, Sukhasiddhi ottenne l’illuminazione all’età di sessantuno anni. Quel che succede quando si offre una birra a qualcuno! Ma della famiglia che l’aveva ripudiata, che ne fu? Sicuramente, morirono tutti quanti di sete vigliacca. Giovedì 11 dicembre 20**, h 04.16 p.m., CET. Stavo scrivendo l’ultimo rigo del capitolo precedente, quando alzando gli occhi per un istante dal computer ho incontrato il libro de I Ching, l’oracolo della saggezza cinese: qualche genialoide scansafatiche l’aveva riposto nella scansia dedicata alle scienze bibliotecarie. Essendo tanto tempo che desideravo consultarlo, per la precisione da diciannove anni quando lessi per la prima volta La svastica sul sole del sommo Philip K. Dick (un libro le cui situazioni sono orchestrate da due libri, I Ching, appunto, e il best-seller del momento, La cavalletta ci opprime, vietato in tutti i paesi del Reich che, secondo la visione allucinata di Dick, ha vinto la Seconda Guerra Mondiale grazie alla bomba atomica e si spartisce l’America con Giappone), ho fatto che prenderlo in prestito fino a Santo Stefano. I Ching, il Libro dei Mutamenti, o Chin Chin come lo chiama un amico mio negato per qualsiasi lingua che non sia il piemontese (peculiarità di tutti i piemontesi pure laine), è considerato il metodo di divinazione più antico al mondo. Dagli imperatori dell’antica Cina fino ai tifosi del Torino FC, molti uomini hanno consultato l’I Ching prima di prendere decisioni importanti o per trovare una risposta rapida alle loro domande. Da buon oracolo, i suoi responsi sono tutti da interpretare, ma Roderic e Amy Max Sorrell, autori di quest’edizione tascabile, hanno fatto veramente un ottimo lavoro nel rendere accessibile a tutti una materia estremamente ostica. I Ching opera sulla base di quella che il celeberrimo psicologo e filosofo svizzero Carl Gustav Jung definì “sincronicità”: nessuna coincidenza è casuale, tutti gli esseri viventi e coscienti dell’universo sono collegati tra loro sia materialmente sia spiritualmente. Ne ho avuta l’ennesima riprova non più tardi di un mese fa. Scrissi un post per El tardato vascofilo (tutto il mondo è paese) ispirato dal tormentone retrò del momento, Pop porno del duo pugliese Il Genio. L’incipit traeva spunto da un altro passo di Sueños y cadáveres il cui il protagonista, il colto e disincantato bidello Lucio del 101 Val, deplora la degenerazione qualitativa della musica nei bar di Logroño. Pochissimo tempo dopo aver inserito l’articolo ricevetti via e-mail questo colorito commento firmato: “Cazzarola, Javier Alonso è mio cugino!” Riconnettendomi prontamente al blog venni a scoprire che n’era autore un bilbaino, Carlos Benito, anch’egli titolare di un diario su El Correo. Vi andai su e lasciai due righe per lui e il cugino letterato riojano. Il collega blogger replicò che, per combinazione, entro sera Javier sarebbe venuto in visita a Bilbao, sicché gli avrebbe trasmesso di persona i miei complimenti per il suo impactante esordio letterario. Tempo due giorni lo stesso Javier m’inviò un messaggio: “Maurizio, ti ringrazio molto per l’apprezzamento e per essere una delle tre o quattro persone che hanno acquistato Sueños y cadáveres.” Ecco l’ennesimo talento incompreso in un pianeta infestato di ributtanti virtuosi dell’autopromozione. Ho appena ricevuto per posta la sua seconda opera, Síndrome. Javier Alonso è una persona squisita. Un giorno mi materializzerò a Logroño e lo sommergerò di Guinness, se corrisponde al vero che in quella birreria da lui descritta la spillano come si deve. [El tardato vascofilo (tutto il mondo è paese) è il mio blog in lingua spagnola cortesemente ospitato dal quotidiano basco on-line El Correo Digital. Tardato è il nuovo nomignolo coniato dagli spagnoli per noi del Belpaese: la sua origine risiede nella nostra frequente pessima dizione del participio passato del verbo tardar, ossia tardado – tardare, impiegare, metterci. Alzi la mano chi di voi, essendo alle prime armi con l’idioma della piel del toro, non ha mai pronunciato questa frase al cospetto di una Paqui, o Encarni, o Maruja, o Amaia: io ho tardato dos (o quince, o vai tu a sapere) hores.] Synchronicity è il titolo del quinto e ultimo album dei Police. Pubblicato nel 1983 all’inizio dell’estate, ci mandò tutti fuori di testa. Io, Alex e suo fratello Andrea non ascoltammo altra cosa per tre mesi buoni. Ad agosto partimmo per una vacanza sconclusionata, di quelle che soltanto a diciotto anni puoi farti, non smettendo mai di canterellare Every Breath You Take. La nostra meta originale doveva essere Senigallia, ma giunti là dopo soli tre giorni ci rompemmo le palle e ci risucammo l’Emilia Romagna in treno per andare a finire a… Diano Marina, laddove ci aspettava Pippo, il sosia torinese di Ric Ocasek dei Cars. Un viaggio allucinante. Faceva un caldo becco e delle modalità di trasmissione dell’AIDS non si sapeva ancora un 102 cacchio; così, quando una fricchettona popputa venne a chiederci un sorso d’acqua minerale noi glielo concedemmo, ma appena quella fu sparita in fondo al vagone sottoponemmo la bottiglia a un processo di sterilizzazione poco meno accurato di quello cui veniva sottoposta ogni persona in entrata a Wildfire, il laboratorio segreto sotterraneo nel Nevada che nel thriller tecnologico di Michael Crichton Andromeda veniva contaminato da un microrganismo extraterrestre portato sulla Terra da un satellite militare. A Diano piantammo le tende in un campeggio dove ora entrerei soltanto se mi staccassero un assegno da due milioni di euro ed entrammo una buona volta in clima vacanziero: sole, mare, birre, trombe, baccaglio di donzelle. Wrapped Around Your Finger, con le sue sonorità diafane, s’insediò al secondo posto nella mia personale classifica di preferenza delle canzoni di Synchronicity. Avvenne un cambiamento d’importanza fondamentale: da “cesso ambulante” fui promosso da una bella squinzia al rango di “strano”. Una mostrina che ancora oggi porto al bavero della giacca. Meccanica quantistica. Ai cinesi ci viene una malattia per ’sti scarafaggi. Naturale: entrambe le specie fanno parte del Tao, cosicché non possono esimersi dall’interagire. Che si possa tranquillamente fare a meno di codesta specifica interazione o che per puro distillato d’ignoranza si confonda l’influenza aviaria con la peste storpiandone l’acronimo in S.A.R.S.A., è un altro paio di maniche. Animali, piante, insetti, microrganismi, camicie non stirate, pozzi artesiani inariditi, pettini, rasoi, pennelli da barba, lozioni per capelli anteguerra, poltroncine girevoli, materassi Permaflex ed elettrodomestici vari gettati in una discarica dell’entroterra siciliano, libri spagnoli, bottiglie di vino rosso della Rioja, fusti di birra scura chiara rossa, luppolo orzo e camere mortuarie, siamo tutti immersi nell’immensa zuppa cosmica. Insieme nel tempo. Fino a questo momento ho interrogato I Ching cinque volte, tre delle quali per conto di una ragazza che è rimasta sorpresa dalla pressoché perfetta simmetria delle risposte con la sua vita corrente. Ecco l’ultima domanda in ordine di tempo: “Vi è una possibilità che io possa un giorno conoscere Francesca Mazzalai di persona, portarla a cena fuori e farla innamorare perdutamente di me?” Eh eh eh. La slanciata, disinvolta, semplicemente meravigliosa Francesca, nata a Trento il 27 marzo 1976, è attualmente conduttrice del programma Atlantide-Storie di Uomini e di Mondi su La7. Può anche darsi che cotanta 103 spigliatezza nell’introdurci ad argomenti affascinanti quali la battaglia di Salamina e la Guerra Fredda sia merito di un prompter o di un auricolare induttivo, ma la dizione, perfetta, è una rigenerante boccata d’aria pura in uno schermo a cristalli liquidi contaminato di romanità, e la presenza, che ve lo dico a fare… Coi Sigur Rós in sottofondo, ho definito con chiarezza la domanda nella mia mente. L’ho scritta su un foglio di carta. Ho preso le monete, mi sono rilassato, ho respirato profondamente. Ho agitato le monete nella mano e le ho lanciate sulla scrivania. Con gesti misurati le ho ordinate in una colonna verticale e mi sono rivolto alla tabella riprodotta all’interno della copertina de I Ching per individuare il numero del mio esagramma. Esagramma 55. Pienezza, Raccolto, Abbondanza. Ogni cosa si svolge secondo i vostri desideri. E’ il vostro momento di gloria, l’opportunità di fare centro. Quest’occasione potrebbe non ripresentarsi. Siate decisi. Provocate gli eventi. Buttatevi. Linea 1 mobile. Incontrare il vostro compagno, bene per dieci giorni. Una persona importante vuole aiutarvi. Se usufruirete di questa generosità, considerate l’eventualità che possa volere qualcosa in cambio. Be’, carissima Francesca, se mi procurerai un impiego a La7 anche solo come uomo delle pulizie, io diverrò tuo schiavo per sempre! Va detto che, carpe diem, ho mandato senza indugio questa divinazione via posta elettronica alla medesima Mazzalai: sono ancora qui che attendo un riscontro. L’esistenza umana è tormento e desiderio. Lo yang è attivo: eccitato, fantasioso e deciso. Ma la donna è mobile. Eh? Ah, già. La birra. Potrei rivolgere una gragnola di domande a I Ching in merito alla nostra bevanda prediletta, ma faremmo notte e forse non è opportuno. Certi miei amici hanno un sacro terrore della negromanzia. Dopotutto Torino è nota in tutto il mondo come città magica: Fetonte, figlio di Iside, avrebbe scelto l’incrocio sacro tra i fiumi Dora e Po per erigere un centro di culto ad Api, il dio-toro. Una delle due statue esterne al tempio della Gran Madre di Dio indicherebbe il luogo dove riposa il Graal. Dagli alchimisti Paracelso e Fulcanelli al mitico Cagliostro, da Cesare Lombroso a Nostradamus, tutti scelsero di vivere a Torino. E non dimentichiamoci del Mago Gabriel. Ma I Ching non funziona come le sue strampalate previsioni “nell’antamento 104 maggico o viceversa paranormale di questa supercittà Torino ovviamente piemontese”; è uno strumento straordinario e accessibile che ci consente di trovare nel nostro frastagliato territorio interiore quella fiducia necessaria per prendere una decisione e agire di conseguenza, per “attraversare il fiume”. Scorra in esso acqua di fonte o cervogia. E allora… Giovedì 16 dicembre 20**, h 10.30 a.m. “Quanti bicchieri di birra mi rimangono da bere su questa terra?” L’ultima domanda… entropia etilica. Stavolta metto su Every Picture Tells A Story, unanimemente considerato il più bel disco solista di Rod Stewart. Mi chiudo a doppia mandata nel mio studio. Scrivo in corsivo la domanda su un foglio di carta A4 preso dalla stampante. Prendo in mano le monete, cinque da 5 pesetas e una da 10 franchi francesi. Le soppeso, respiro a fondo, distendo i nervi. Ron Wood entra nella canzone con la sua magica chitarra elettrica. Frullo le monete e le lancio sulla scrivania. Non mi è laborioso ordinarle nella canonica colonna verticale, grosso modo si sono posizionate già così. Vado a consultare la tabella per individuare l’esagramma corrispondente. Esagramma 21. Sforzo, determinazione, far funzionare le cose. I cinesi attribuiscono a questo esagramma il tema di una persona che aggredisce a morsi con grande determinazione un ostacolo. Le linee descrivono una persona che mastica qualità diverse di carne secca. Tradotto in termini concreti, è il momento di affrontare la situazione direttamente senza più evitarla. Linea 5 mobile. Mordete la carne secca pregiata, trovate l’oro, state attenti. La vostra azione risoluta vi ha procurato una ricompensa di valore. Se vi attaccherete troppo al premio sarà la vostra rovina. Un tempo si pensava che ingoiare l’oro potesse essere fatale. Devo confessarvi che l’esagramma 21 fotografa alla perfezione il mio qui e ora: gli sforzi erculei che sto compiendo per disincagliarmi dalle secche del disincanto. Quanto alla linea 5 mobile, credo si riferisca a un futuro prossimo in cui la mia pertinacia verrà premiata ma non dovrò tirarmela troppo per quello. Sicché, stimato oracolo, ho afferrato il concetto: “Berrai ancora molta birra nella tua vita, anzi da un certo momento in avanti potrai 105 addirittura sguazzarci… ma non vanificare tutto il lavoro che hai fatto su e per te stesso perdendoti in fondo a un barile. Sia esso reale o metaforico.” Roger, Chin Chin. 106 Figura 9. Wat Pa Maha Chedi Kaew. 107 SCOPRENDO LESTER BANGS: UN TRIP ROCKALCOLICO. Ordunque… L’intenzione originale che mi aveva sospinto dentro quella sorta di sesquipedale scatola da calzature post-modernista chiamata Nuova Biblioteca Pubblica Ermenegildo Bernaulo era abbozzare una fantasia letteraria schiettamente rock’n’roll sul meraviglioso duo chitarristico degli Yardbirds Jimmy Page-Jeff Beck, qualcosa sul genere: “Che cosa sarebbe successo se i tre membri originali della band, cioè Keith Relf Chris Dreja e Jim McCarthy, non avessero licenziato il loro innovativo nonché psicotico chitarrista solista coi capelli tagliati a budino nell’ottobre del 1966 a Los Angeles, dandogli un’ultima chance di redenzione?” Be’, molto probabilmente il genio del raga-fuzztone avrebbe dato di testa un’altra volta ancora nel tempo di poche settimane, sicché i suoi esasperati colleghi l’avrebbero definitivamente mandato a fare là dove non batte il sole, ma nel mio cervello drogato di birra e vino rosso spagnolo e ginseng con molecole residue di MDMA (peccati di gioventù!) ancora rombanti fra un neurone a specchio e l’altro come bestie metalliche a due ruote montate da canuti e raggrinziti Hell’s Angels californiani si andava plasmando una linea temporale alternativa nella quale Jimmy e Jeff incidevano insieme una formidabile sequenza di platter straripanti gemiti chitarristici simili a sirene della polizia che avrebbero inondato ogni mio antro vitale, partendo dalla pubertà per arrivare alla cosiddetta età matura che così tanto disilluse Benjamin Disraeli-Gears, di stravaganti dissonanze e dinamiche sonorità. In quel differente piano di vibrazione molecolare, come si usava dire per iscritto molti decenni fa nel continuum di Gernsback, i Led Zeppelin non nascevano, o sarebbero nati più avanti, magari con Steve Marriott al microfono in luogo di Robert Riccioli D’Oro Plant. Immaginatevi Whole Lotta Love cantata con sguaiato accento cockney! Sì, le Harley Davidson biochimiche dei dissoluti Angeli Neurali dell’Inferno correvano ancora a tutto gas… …e le immani nubi grigio-verdastre vorticanti nel cielo pomeridiano di Nuova Augusta Taurinorum sembravano preludere alla devastante venuta dei Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Io flettei la schiena resa scattante da costanti e solitarie sessioni di pallamuro ed estrassi dalla sezione Cinema lo spesso blocco di memoria THE HAMMER OF GOD/Stephen Davis: ScaffHal non protestò. Poi andai a sedermi a un banco stranamente vuoto – questo posto è sempre pieno da far paura – nelle immediate vicinanze di 108 due giovani studentesse dai capelli biondi platinati, entrambe in jeans a pinocchietto stracciati e jersey nerofumo a collo di cigno. Studiavano? Col cavolo, sguazzavano nel pettegolezzo accademico! Colei che mi dava le spalle, larghe e sottili come quelle di una nuotatrice provetta, ogni tanto interrompeva il suo bisbiglio sferzante per inferire una ditata proditoria alla tastiera di un notebook Aspire uguale al mio; l’altra, fornita di un assai meno tecnologico portablocco, possedeva un simpatico musetto da porcellina e un accattivante cobalt gaze. Immagina te e lei in un trendissimo cocktail lounge del centro città… Writer Maurizio: Conosci Jeff Beck? Piggy (inarcando un sopracciglio): Che diavolo è, una birra danese? Mai assaggiata finora. Ehm. Fuori, nel centro esatto di una piastrella del marciapiede in macadam che recingeva la biblioteca, un passerotto infliggeva guardinghe beccate a un’ape grassoccia le cui zampette lucide vibravano ancora, quantunque con debolezza; sicuro come il sole che l’industrioso insetto danzante era precipitato a terra disorientato dall’incipiente inquinamento da microonde e il volatile ne stava approfittando per sfamare una nidiata di bocche pipianti spalancate a rombo da qualche parte lassù, sui pioppi scorticati dai tossici in astinenza sparata. Con un sospiro imbevuto di dolore universale, attivai il blocco di carta interattiva e richiamai la pag. 26. Nel 1966 James Patrick Page si esibiva con una Telecaster del 1958 (un regalo della Birra Danese Coi Capelli a Budino di Malto) dipinta a spirali psichedeliche fosforescenti ricoperte di perspex che, colpito dalle luci della ribalta, rifletteva raggi a arcobaleno. Musicalmente gli Yardbirds erano al loro massimo, ma purtroppo Jeff Beck era di salute (fisica e psichica) piuttosto cagionevole; oltre a questo, gradualmente emerse la competizione fra le due primedonne. Quando gli effetti stereo e le duplici armonie delle chitarre non funzionavano, gli altri incolpavano l’instabile solista. “Tutto andava bene in teoria e durante le prove ma sul palco Jeff spesso voleva spaziare in qualcos’altro”, dichiarerà serafico Jimmy Page qualche anno dopo in un’intervista. Hai capito il magrone? Lui cercava di far funzionare le cose! Piggy: Ah, è un chitarrista! Ma di quanti secoli fa? 109 Writer (vorrebbe morire d’infarto lì, in quello stesso istante): Era il musico personale di Enrico VIII. Cristiddio. Ragazzo, dammi un’altra Menabrea ambrata, per pietà. Jeff Beck deflagrò al terzo giorno di tour statunitense con la Carovana delle star di Dick Clark, una locura tipica degli anni Sessanta. Sbatté giù la sua colonna di amplificatori, sfasciò la chitarra e se ne scappò a Dead Loss Angeles dalla sua diletta Mary Hughes. Quando gli altri Yardbirds lo raggiunsero, Beck fece ammenda, ma la troika Relf-Dreja-McCarthy non volle sentir ragioni e lo licenziò. Beck si alzò per andarsene e chiese a Page se fosse intenzionato a seguirlo, ma Page gli rispose che sarebbe restato. In tal modo, seguendo un canovaccio tipicamente dostoevskyano, gli Yardbirds divennero il gruppo di Jimmy Page. Amen. L’uccellino delpieresco si era finalmente portato al nido l’ape moribonda. Piggy scoprì di nuovo il candore all’ossigeno attivo dei suoi denti: non era propriamente bella, direi piuttosto stuzzicante, come una tartina al paté d’olive sul bancone di una vineria del centro città per studenti universitari tiratardi. Pictures of Piggy made me feel so wonderful. Grufola, piccina mia, grufola. Uno dei centauri neurali frenò arrestandosi sul ciglio dell’accidentato e polveroso assone che conduceva alle Grandi Piane Pituitarie, tirò fuori un pacchetto stropicciato e sudaticcio di Lucky Strike da una tasca del suo giubbotto per la pelle, se ne accese una, sputò una nuvola di puro cancro da vero figaccione vissuto e disse: “Be Here Now.” “Oddio. Da quando in qua a voialtri piacciono gli Oasis?”, replicai con una smorfia di scherno. “Diamine, Maurizio, te la spacci da gran letterato ma sei più ignorante di una capra con la demenza senile! Be Here Now è il titolo di un libro di Richard Alpert, il partner lisergico di Timothy Leary. Significa…” “So perfettamente che cosa significa, scampolo di ferraglia metastatica! Il vecchio insegnamento vedico riciclato in salsa allucinogena. Soffermarsi sul passato o sul futuro significa essere morti nel presente. Non è roba un po’ troppo hippie per te? Che ne direbbe Sonny?” Il 16 ottobre 1965, gli Hell’s Angels di Sonny Barger attaccarono i diecimila dimostranti che marciavano da Berkeley a Oakland contro la guerra del Vietnam al grido di «traditori», «beatnik», e «comunisti»: così per caso, c’era un cugino californiano di Silvio Berlusconi a smarmittare con loro? 110 Quella ciminiera propilaminica mi guardò torvo. “Ehi, lascia stare Sonny. Piuttosto, gli Oasis non sono un po’ troppo lagna-lagna per un fanatico dei grandi chitarristi beat inglesi come te?” “I giornali dicono che siamo i più grandi, ma io me ne frego… Io vivo adesso, now, e non importa se il prossimo anno non vendiamo un disco.” Noel Gallagher, Souhampton, 1994. Sicché, minchione americano, turn on, tune in, and please bugger off! L’Uomo dell’Organetto di Barberia arrivò da Donovan County alle prime gocce di pioggia. “Poiché Jeff Beck non poteva cantare e stentava così tanto a adattarsi a un gruppo”, canterellò lo straccione scarmigliato sulla punta del mio naso alla Jean-Paul Belmondo “Mickey Most gli organizzò una seduta di registrazione ancor prima della sua dipartita dagli Yardbirds. Ovviamente si trattava di un solo brano, poiché quel testa di minchia di produttore notoriamente riteneva che gli ellepì non avessero importanza, che fossero qualcosa da buttar fuori dopo il singolo.” Reso strabico dalla sua garrula presenza, crollai il capo. “Sì, l’idea era di registrare una mutazione per chitarra psichedelica del Bolero di Ravel. Ce l’avevo in una vecchia compilation su nastro della Fratelli Fabbri Editori ma quel fottutissimo registratore giap me l’ha fagocitato il mese scorso come un’ameba bulimica. Jimmy Page era l’arrangiatore e suonava la chitarra ritmica a 12 corde, al pianoforte c’era Nicky Hopkins, e la sezione ritmica fu composta da Keith Moon e John Paul Jones dopo che John Entwistle si era tirato indietro all’ultimo momento. Moon the Loon se la svignò dagli IBC studios travestito da cosacco beat perché per contratto non poteva registrare con nessuno all’infuori degli Who.” Beck’s Bolero venne fuori talmente bene che Moon, Jones, Page e Beck presero in seria considerazione l’idea di fondare un gruppo: ciò nonostante, avevano bisogno di un cantante. Il pene-sitar dell’Uomo emise una dolente onda sonora. “Già, già. Furono contattati Steve Winwood e Steve Marriott degli Small Faces, ma il primo scelse di fondare i Traffic e il manager del secondo addirittura minacciò Jimmy Page di rompergli tutt’e dieci le dita. Ciò che avrebbe potuto essere il prototipo dei Led Zeppelin non prese mai il volo.” Molto soddisfatto di sé, l’Uomo dell’Organetto decollò dal mio aeroporto maxillo-facciale per andare a scomparire nel fresco décolleté di Piggy con un effettaccio da cinema di serie Z. Per un lungo istante lo invidiai. Ora pioveva della grossa, un temporale tardo-primaverile coi controcazzi. 111 Oh Piggy, Piggy, Piggy!!! She’s a big teaser: lei è una vera scocciatrice. She’s a prick teaser: è una stuzzicacazzi a tradimento. La parola “hippie” non fu coniata prima del 1966. La consapevolezza di sé come entità distinta si dissolve in ciò che Herr Jung definì “coscienza oceanica”: il senso che tutte le cose siano una cosa sola, e la coscienza consapevole individuale sia un’illusione. Se è così, perché accidentaccio sto perdendo tempo a trovare un incipit incident per la mia futile storiella ucronica? Nel primo rincalzo dei mondi possibili Page Beck Marriott Moon e Jones durerebbero al massimo fino al festival pop di Monterey; una bella scazzottata fra Steven M e Moon the Loon per qualche motivo britannico del kaiser (per esempio, l’essere nati e cresciuti in zone opposte di Londra) e ciao ciao ai New Yardbirds o Lead Zeppelin o come vuoi tu, bellezza. Oppure tirerebbero avanti per tutto il 1967 e parte del 1968 proprio come in questo mondo, ma smerciandoci lo stesso quella porcheria di Little Games, magari parzialmente riscattato da qualche bell’intreccio chitarristico. O… bah, che montarozzo di stronzate. Il prototipo farraginoso del mio universo parallelo rockistico si dissolse in una patetica nuvoletta di elettroni neurali. Forse era meglio mollare tutto e andare a spararsi un’ipercinetica sessione di pelota, laggiù in fondo contro il Murale di Einstein… Pues no. Rimisi al suo posto Il Martello di Dio Zepp e liberai un blocco adiacente, di assai più ridotte dimensioni: GUIDA RAGIONEVOLE AL FRASTUONO PIÙ ATROCE/Lester Bangs. ScaffHal sempre silenzioso come un merluzzo cibernetico in orbita intorno a Giapeto. Piove, piove, grattati un coglione. Piggy mi omaggiò di una lumata presagante fantastici pompini fattimi ginocchioni davanti a uno specchio a tutta persona nella semioscurità del primo mattino augusto, ma era troppo tardi ormai: Leslie Conway Bangs detto “Lester” (1948-1982), il critico rock più squinternato e influente di tutti i tempi possibili, mi aveva sequestrato premendomi sul volto una pezzuola imbevuta di rockoformio. “Aiutoahmmm… Mmmnster Mmmgnet… mmmm… mmm... m.” Figlio di troia. A essere sinceri sono tanto alienato e schifato da chiedermi se davvero voglio fare qualcosa nei prossimi anni. Vedi, la questione è: sta diventando tutto come la rivista People. Tutta la radio, tutta la stampa, tutto quanto sta diventando così, anche l’industria editoriale. Ieri parlavo col mio agente e gli ho chiesto: “Pensi 112 che di questo passo l’unica cosa vendibile sarà la biografia-marchetta di una celebrità?”, e lui mi ha risposto: “Non lo so.” Capisci, io me ne sto qui e mi chiedo se, come scrittore, non sarebbe meglio lasciar perdere tutta questa roba. Non mi metto certo a fare sviolinate strappalacrime perché, come ho detto prima, so che mi è andata bene, non devo alzarmi la mattina e andare a lavorare in fabbrica dalle nove alle cinque o qualcosa del genere. E ho delle entrature, e tante altre cose, quindi non dovrei far pena a nessuno. Ma allo stesso tempo, tutti quelli che conosco sono completamente alienati, scoglionati, nauseati da tutto, e so che gran parte di quelli che lavorano nei media e ci propinano questa roba sono alienati come lo è il pubblico. Il pubblico compra solamente perché non gli viene offerto qualcos’altro. E, personalmente, mi chiedo quand’è che la gente comincerà a dire: “NO! MI RIFIUTO, NON NE VOGLIO PIÙ!” Lester Bangs, intervista a News Blimp, 1980… 2007? 2070? Anche John Lennon è morto nel 1982…. O forse nel 2082… Hombre, no… nel 1980! Che diamine, ora ero completamente sveglio, neanche sgarrupato per la narcosi. E… be’, stavo galleggiando in assenza di peso sopra un quadro di navigazione che rassomigliava in modo allarmante a una pizza ai frutti di mare preparata da un pizzaiolo lituano strafatto di mescalina. Il modulo di Lester Bangs, con la sua copertina-mandala rosazzurrobianca, mi orbitava intorno indolentemente. Potevo essere a 2000 anni luce lontano da casa come a duemila milioni, satellite di un satellite o viscida bilharzia di un buco nero, alla fine ciò che conta non è la scorta d’ossigeno puro o i tubetti di dieta mediterranea da spremersi in bocca, bensì sentirsi a proprio agio con le proprie scoregge. Parlez-vous français? Un peu, replicavo ai gendarmi le prime volte che mi fermavano ai caselli delle autostrade galliche di ritorno dalla penisola iberica: il che per costoro significava no, non ci capisco una beata mazza. Allora, esprimendosi qualche volta in un avvilente gramelot anglo-francoitaliano, i falchi della notte passavano a rovistarmi il borsone da viaggio e il vano portabagagli, o perfino a smembrarmi la vettura come seguendone la distinta base secondo la disposizione d’animo del momento, solitamente negativista perché, è naturale, les italiens son tout dopé. In seguito avevo imparato a dire je comprends quelques mots mais je ne le parle pas, lo capisco un po’ ma non lo parlo, oltre a qualche altra tiritera da biascicare negli autogrill o nella scalognatissima eventualità che fossi finito in panne. Ciononostante il risultato era sempre il medesimo: facce da Clouseau e 113 bocchettoni dell’aria divelti da mani rubate ai campi di tuberose. L’ultima volta che mi hanno bloccato, due estati fa sulla Languedocienne, mi sono giocato addirittura l’untuosa carta dell’adulazione: je voudrais apprendre votre splendide langue. E quelli per tutta risposta, con un riso beffardo sulle labbra rinsecchite dalla mostarda di Digione, mi hanno smontato pure il serbatoio della benzina. Bâtards. Ma di che vado blaterando? Che mi avete somministrato mentre dormivo? Synthemesc neutronico? Sample da 2001: Odissea nello Spazio, il libro in edizione tascabile, Longanesi & C. © 1972, Lire 450, pag. 241: «Ma questo è ridicolo, pensò David Bowman. Mi sorvegliano quasi certamente, e devo sembrare un idiota con questa tuta spaziale (per quanto mi concerne, con questi panni sgualciti da ultraquarantenne giovanilista). Se si tratta di una sorta di test dell’intelligenza, probabilmente ho già fatto fiasco.» Cristiddio!, diamoci da fare, allora. Mimiamo il cavaliere errante quantico. Leggiamo un po’ cosa Lester Gang Bang aveva da dire e stendiamo dei paralleli fra lui e te su questa sostanza lievemente increspata e biancastra che senza dubbio non è carta, anche se le somiglia moltissimo. Ma gli alieni sognano pioppi elettrici? Chi si sbatte Rachel Rosen adesso? Correte qui, nipotini biondissimi… Lester e i Count Five. Come c’era da aspettarsi, si parte dagli Yardbirds, vera Urmutter del rock metallico, e dall’incisione del loro singolo I’m A Man, una maionese impazzita di Bo Diddley, feedback e corde raschiate in maniera criminale. Il successo di questa canzone fu enorme. E seminale. Negli Stati Uniti, centinaia di ragazzini si affrettarono a plagiarne il sound trascinante con l’ausilio di quelle nuove scatolette elettroniche giapponesi che stravolgevano il suono della chitarra in un frastuono simil-motoristico. Lester guardava a quelle band di giovani sballati dei college con un misto d’ironia e incanto, finendo per innamorarsi perdutamente dei Count Five, “una combriccola di marmocchi che pestavano sulle chitarre e venivano da una qualche irrilevante provincia della California”, e della loro personale rilettura di I’m A Man: Psychotic Reaction. Psychotic Reaction inizia con un fuzz riff recisamente amatoriale ancorché più appiccicaticcio della resina che d’estate cola subdolamente dai pini giù sulla carrozzeria della vostra utilitaria corrodendola, lanciandosi poi in un testo la cui profondità fa sembrare Eros Ramazzotti un epigono del miglior Lou Reed: “Mi sento depresso, mi sento male / Perché tu sei la ragazza 114 migliore che abbia avuto / Non riesco ad avere il tuo amore, non riesco ad avere affetto / Oh, quella ragazzina è una reazione psicotica.” Dopodiché, i Five partono in quarta con l’imitazione/clonazione di I’m A Man, con l’unica variante di un effetto di phasing innestato sulle grattate similbeckiane. Woosh-sgratch-sgratch-sgratch-woosh. Lester ammette che sulle prime odiò questa canzone, ma poi un giorno la misero alla radio mentre lui scorrazzava in macchina, stravolto come una mina anticarro, e cominciò a tirarsi sberle sulla testa: “Ma che cazzo mi ero messo in testa? Quella canzone era fantastica!” Scrive che il disco aveva una copertina galattica – la fotografia era stata scattata sull’orlo di una tomba, e i membri del gruppo stavano in piedi sull’orlo, guardando in basso con occhi sporgenti e malevoli verso gli acquirenti, idealmente in procinto di essere inumati. Ci recensisce le canzoni del loro primo e unico LP, comprato nello stesso giorno in cui acquistò Happy Jack degli Who: “Lo ascoltai spesso, gongolando, per un anno circa, finché dei biker non me lo trafugarono (accidenti a te, leccapistoni d’un Sonny!), e quando finalmente lo ritrovai nel 1971 in un negozio di dischi usati, ragazzi, mi misi a ballare per la gioia. Il tempo non aveva attenuato la grandezza del disco dei Count Five. Anzi, non l’ha attenuata nemmeno oggi. Suona ancora sporco e sgangherato come nel 1967.” Me, me stesso e io. Considera tutti i critici d’arte come inutili e dannosi… tranne la splendida eccezione che conferma la regola, chiaro. Ho comprato Nuggets Volume One: The Hits in un pomeriggio adolescenziale di bassa marea serotoninica, essendo stato incoraggiato all’acquisto dall’ascolto proprio della splendida canzone in questione a un programma radiofonico genuinamente rockettaro di Radio Torino Popolare intitolato Provocazioni e contaminazioni rock. Per il colto e l’inclita, la suddetta compilation comprende svariati altri brani killer con lampanti ascendenze Yardbirds, quali Talk Talk dei Music Machine (cantato nevrastenico, organo tragico e duplice brevissimo assolo di distorsore che minaccia di frantumarsi in globuli di suono, wow!) e l’ariosa Open My Eyes dei Nazz, nei quali militava un giovanissimo Todd Rundgren; c’è altresì I Had Too Much To Dream Last Night degli Electric Prunes, un safari psichedelico rinnovato in epoca punk da Wayne County & The Electric Chairs; e A Question Of Temperature dei Balloon Farm, un brano che più 1967 non si può – gustosissima pozione druidica di fuzz, feedback, vocals trasognati, theremin deliranti, organo e parti ritmiche da 115 film psichedelico di terz’ordine. Nel 1982 i Lords Of The New Church di Stiv Bators ne registrarono una versione strabiliante per il loro omonimo album d’esordio (che adoro), benché con un sound quintessenzialmente anni Ottanta. Ciononostante c’è qualcosa che non mi torna. I più quotati annali del rock sostengono che la prima canzone rock con l’effetto phasing a entrare nella classifica di Billboard fu Itchycoo Park degli Small Faces. Ma Psychotic Reaction lo anticipa di una bella sporta di mesi! Come diavolo è questo fatto? I garage rockers non sono ritenuti meritevoli di essere menzionati nelle cronache elitarie della musica popolare? I Count Five non furono sufficientemente “alti”? Andiamo! Come dite? Devo esprimere una preferenza? Be’, Psychotic Reactions è realmente micidiale, ma io preferisco A Question Of Temperature, poiché meno epigonica. E comunque nessuna delle due vale un’oncia di Happy Jack, anche se Lester Bangs la mise sul piatto del suo giradischi non più di cinque volte. Gli Who sono gli Who, cari i miei Oscuri Scrutatori. Lester e gli Stooges. Qui il ragionamento si fa più complesso e polemico. Lester stigmatizza la cecità ignorante del pubblico hippy, che tratta la band di Iggy Stooge (al secolo, James Jewel Osterberg) col disprezzo dovuto all’ennesimo gruppo di volume freaks la cui trovata pubblicitaria, cioè un front-man pelle e ossa che si scortica il petto disgustosamente spalmato di burro d’arachidi sbattendosi il microfono sulle mascelle e rantolando testi esplicitamente nichilisti e antisociali, non basta a farli arrivare all’altezza di mostri sacri superventas come i Grand Funk Railroad, loro sì un gruppo al passo coi tempi selvaggi che corrono, capaci di riunire torme di giovani sballati capelluti sotto il palco in una baraccata simil-politicizzata, Tutti Insieme Appassionatamente Spaccando Tutto Fumando e Fottendo per il Movimento, figli di madre ignota! Chi ha bisogno di un gruppo che canta canzoni che parlano di occhi televisivi, del fatto che uno si sente come mondezza e che non si diverte proprio per un cazzo a stare da solo? Chi può idolatrare un adolescente mezzo irlandese mezzo svedese arrapato e antisociale del Middle West? Più gente di quanto pensi, cocco di mamma dei fiori. “Perché c’è molta aria malsana in giro, e dobbiamo spazzare via le banali tenebre dell’ignoranza e dell’incomprensione se vogliamo che le vere tenebre degli Stooges risaltino splendenti con tutti i loro prismi caotici, 116 proprio come gli specchi delle case stregate che sono fatti apposta per confonderti.” Per Lester, Iggy Stooge è un idiota completo, sul palco e su vinile, ed è proprio questo uno degli aspetti fondamentali del suo mirabile genio. Iggy è l’antidoto all’epidemia di supermusicisti altezzosi che sta infettando la purezza della fonte del rock’n’roll. La “musica” volutamente monotona e semplicistica degli Stooges, questo caos analfabeta che prende forma per gradi e diventa uno stile totalmente personale, il giro di chitarra sudicia di due accordi, ripetuto macchinalmente, per tutta 1969, con rime di incantevole demenza, “compio ventidue anni tra poco / dico perbacco, buhu”, ci salveranno dal Nuovo Conformismo dei Piedi Scalzi e Neri di Sudiciume. Me, me stesso e io. Diversamente da Lester Bang Bang, non ho mai considerato Starship degli MC5 un fiasco imbarazzante, anche se mi ci è voluto un centinaio e passa di ascolti per apprezzarne appieno le nervature interstellari. E la prima volta che ho ascoltato Fun House degli Stooges, quand’ero ancora rospa o topo o missile che dirsivoglia per merito di una testa acidissima dell’hinterland meneghino che ascoltava anche i Joy Division i Bauhaus e le New York Dolls, sono venuto nei pantaloni kaki. È uno stupefacente crescendo d’intensità che si apre con Down In The Street (“Per la strada, dove i visi brillano… vedi una tipa carina / non c’è nessun muro!”), un riff circolare al plutonio straziato dalle urla lascive dell’Iguana. Neanche il tempo di riprendersi e sei già invischiato nella partouze ringhiante di Loose. Ron Asheton parte in distortissimo assolo suonando pressoché la stessa scala del pezzo precedente ma va benissimo così, chiamasi coerenza artistica. Poi arriva T.V. Eye, il capolavoro dell’album: “Guarda quel vitello / Sdraiato / Guarda quella ragazza / Sdraiata / Mi guarda con occhi da tivù…” La musica è un bordone sferragliante che ti prende subito per le palle e continua a crescere fino a che si raggiunge il vertice della tensione, ma non è ancora il momento di eiaculare… Lancinante schitarrata di chiusura di Ron Asheton, attimo di silenzio vinilico, rullata indolente di tamburi del fratello Scott ed ecco a voi Dirt, l’anticlimax alcaloide. La seconda facciata del disco è un altro esercizio d’eccitabilità, ma grazie al sassofonista Steve Mackay il suono è più stratificato, lambendo il free jazz di Coltrane seppure col contrappunto di una chitarra primordiale e assordante. 1970 è un brano influente in più di un senso: Deniz Tek, un 117 giovane medico militare amico di Ron Asheton, ne prese a prestito una lirica per battezzare il suo gruppo di scatenati teppisti sonori australiani: Radio Birdman, up above. Fun House è un sexy-loquio funkeggiante e monotono, forse il pezzo dell’album che mi sconfinfera di meno, ma le liriche sono stupende: “Tutte le bambine sanno / cosa voglio dire / Vivere sul confine, nelle / sabbie mobili / Vi chiamo dalla casa stregata…” Infine, L.A. Blues. Orgasmo. Satori. Suonare la chitarra come Jackson Pollock. Esperimento Concettuale alla Yoko Ono. Marciume Sonoro. Feedback dei Feedback. Tutto ciò che volete. Una sera Lester si strafece di fenciclidina, lo riascoltò e gli parve un’immensa rete di carrucole dorate che si sollevavano nel cielo infinito. Per me potrebbe essere la perfetta rappresentazione in musica (sic) di quel che si prova quando si supera la velocità della luce. David Bowman proto-punk. Ora posso avere una birra? Magari una Pilsner? Lester e i Led Zeppelin. “Verso il 1973, un gruppo di damerini emaciati di nome Led Zeppelin tenne il suo ultimo concerto, durante il quale il chitarrista solista fu assassinato con una pistola rudimentale da un fan inferocito strafatto di stricnina, dopo soli cinquantotto minuti del suo virtuosistico assolo di due ore e mezzo su un’unica fottuta nota di basso. Dopodiché il pubblico catturò il cantante (talmente fatto di stramonio, comunque, che ormai riusciva solo a rigurgitare testi del tipo “Glip glip gag jargaruna fizzolfuck”) e gli tagliò tutti i riccioloni biondi e gli calpestò l’armonica, gli diede un cambio d’abito per mettersi in borghese (credo si trattasse di una versione per taglie forti dei Bodyjeans Lifetime Chainmail) e lo cacciò via. L’ultima volta che abbiamo sentito parlare di lui, pare che stesse cercando di cantare Whole Lotta Love a un mucchio di vecchi cannati sentimentali in un paesino dimenticato da Dio. Stucchevole da morire, direi.” Me, me stesso e io. Datemi pure del qualunquista, ma quand’ero un pivellino potevo saltabeccare tra Led Zeppelin, Stranglers, Police, Van Halen, Rolling Stones, Cheap Trick, Missing Persons, Who, Faces e Def Leppard senza essere afflitto dal benché minimo rimorso di coscienza. Del Dirigibile Bombato io apprezzavo (e continuo ad apprezzare) soprattutto Good Times, Bad Times, Comunication Breakdown, Ramble On, Living Loving Maid, Celebration Day, Tangerine, The Rover, Houses Of The Holy. Tutti brani abbastanza stringati, direi classicamente rock. I più 118 lunghi e bombastici, tipo per l’appunto Whole Lotta Love, How Many More Times, Kashmir e In My Time Of Dying, mi mandavano in paranoia. Un giorno mi feci registrare su due nastri comprati al supermercato il livefilm autocelebrativo The Song Remains The Same, ma non durò più di quattro mesi: in pratica, ne ascoltavo a ripetizione solamente la title-track, indubitabilmente una splendida cavalcata elettrica. Però i venticinque minuti di Dazed & Confused, eh no, quello era davvero troppo; ruotava finanche il filmato in una tivù libera, ma a un certo punto le sviolinate megalomani di Jimmy Page venivano provvidenzialmente interrotte dallo scenario interamente bianco e le pennate impertinenti di Smash It Up dei Damned, una stravolgente sventagliata di novità. Ecco che divago ancora. Nel Guantanamo di Torino Nord, prima di essere trasferito all’ente Strategy & Development, ex Advertising & Promotion ex Pubblicità & Immagine, il sottoscritto aveva prestato servizio per un biennio alle Nuove Tecnologie, sotto un “sesto quadro” calabrese che, pur pagato lautamente, perseverava a guidare una tossicchiante Bianchina e consumare i pasti nel baracchino: pressoché negato per le lingue straniere, per tacere sull’italiano. Una volta, indimenticabile, aveva risposto così alla nazistoide segretaria di un fornitore tedesco: “No, ehm…, Mr. Mayer is not in ufficio. Is andato end a riunion.” E io a ridere sotto la scrivania come un matto felice. Ma allo S & D le cose non andavano poi così meglio. C’era chi comunicava in anglo-piemontese (“We arrive a London a un bot e mes”) e chi in italo-spagnolo (“Mucho bene, ci vedemos manana al aeropuorto”). Chiamasi meticciato aziendale. Il mio nuovo capufficio era una trottola dinoccolata con la faccia da lontra marina. Il suo fottuto telefono suonava quaranta volte al giorno ma quasi mai lui stava in ufficio, pertanto la stragrande maggioranza delle volte toccava a me sollevare la dannatissima cornetta: in pratica, fungevo pure da segretario. Buona parte delle chiamate proveniva dalla Francia e dal Québec, la belle province: uguale, anglofobia a palate. Di conseguenza, a casa mia come nei tempi morti aziendali, io cercavo di apprendere quanto più francese possibile. «Pour le lancement de ce produit sur notre marché il faudra une intense campagne pubblicitarie. Dans ce but pourriez-vous me procurer du matériel de propagande?» Sì. E tu puoi procurarmi un appuntamento con Emmanuelle Béart, grand-père? Fiche-moi la paix!” Eh sì. Davvero stucchevole il Dirigibile 1973. Gradirei sapere da Voi come sto andando. E… vi siete esentati finalmente dalla tirannia della materia? 119 Lester, Metal Machine Music e Kiss Alive!. Punto 14 della Disamina Lesteriana in 17 punti di Metal Machine Music, doppio disco rumoristico di Lou Reed: “Quando io e Lisa Robinson siamo stati invitati in Uganda per intervistare il presidente Idi Amin Dada, per futuri articoli in copertina su Creem e Hit Parader, gliel’ho fatto ascoltare e a lui è piaciuto un sacco. Gliene ho regalata una copia e ora lui, con un editto speciale, lo fa trasmettere dai diffusori di musica di sottofondo in tutti i supermercati (tutti e trentacinque) e le sale d’aspetto dei medici (tutte e otto) del suo fantastico paese, in modo che i cittadini possano ricevere ispirazione per spingersi a vette di patriottismo ancora più alte nei riguardi del suo regime e di tutto ciò che esso rappresenta.” Punto 15. “MMM è l’anima di Lou. Se c’è qualcosa che vorrebbe vedere sepolto in una capsula del tempo, è proprio quello.” Punto 16: “Quando sono fatto di Romilar è meglio di qualsiasi altro disco io abbia mai ascoltato.” Punto 17: “È il disco più fantastico mai realizzato nella storia del timpano umano. Al secondo posto: Kiss Alive!” Me, me stesso e io. Il Romilar, o destrometorfano bromidrato, è un espettorante e sedativo broncopolmonare, prodotto in compresse dalla Roche, non più in commercio. Negli anni Settanta veniva usato e abusato come sostitutivo cheap della morfina. Richiedendo dosi piuttosto massicce per raggiungere l’effetto sballo, solitamente percezioni illusorie e frenesie sessuali, provoca enormi danni all’organismo, sicché oggigiorno è caduto in disuso. Lester ci ha lasciato a New York il 30 aprile 1982 per la fatale interazione di due farmaci, Darvon e Valium, con cui stava curando un banale raffreddore. Ho ascoltato Metal Machine Music solo una volta, a casa di un amico. Cinquanta minuti di detriti sonori; francamente, non mi fece venire alcuna voglia di comprarlo, anzi ricordo bene che commentai sprezzante: “Questa è merda per eroinomani allo stato puro!” Però qualche anno dopo, molto più avvezzo a frastuoni atonali e lancinanti retroazioni sonore grazie a Starship, L.A. Blues, Radio Ethiopia/Abissinia e 30 Seconds Over Tokyo dei Pere Ubu, ascoltai un altro album doppio di intrecci sonori magmatici, Daydream Nation dei Sonic Youth, e ne rimasi elettrizzato. «Hyperstation e` una jam free form capace di creare, con la sua ingarbugliata trama in 120 crescendo, con le punteggiature metalliche delle chitarre e la pulsazione frenetica di piatti e tamburelli, quel clima di terrore e d’estasi che incrocia il degrado psichico di un eroinomane con una soundtrack iper-realista.» Oh yes. Ciononostante non so se comprerò mai Metal Machine Music. Kiss Alive!… Ostia, che cocente delusione provai quando venni a sapere che quest’epocale doppio disco dal vivo, tonante colonna sonora della mia adolescenza problematica e onanista, era stato largamente ritoccato in studio! È urgente delucidare questa scabrosa faccenda. 2001. Nella sua vendutissima e acclamata autobiografia Kiss and MakeUp, Gene Simmons scrive: “Sono sempre corse voci che Alive! sia stato abbondantemente rimaneggiato in studio. Non è vero. Ritoccammo le parti vocali e sistemammo qualche assolo di chitarra, ma non avevamo né il tempo né il denaro per modificare completamente le incisioni. Ciò che volevamo, e che ottenemmo, fu la testimonianza della forza grezza e della potenza della band.” (Ouverture dello stesso libro, pag. 4: “In ogni caso, ecco la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, e che Dio mi aiuti.”) Secondo il libro di Dale Sherman Black Diamond e la rivista Goldmine, nei primi anni Novanta Eddie Kramer rese noto che in Alive! egli dovette ricorrere a un numero limitato di sovraincisioni (overdubs) per correggere gli errori più ovvi quali rotture di corde, parti vocali mancanti e note fuori chiave, entrambi piuttosto frequenti in un concerto “movimentato” quale era quello dei Kiss, che oltre a tutto non erano propriamente dei fenomeni in fatto di tecnica musicale. Tuttavia, in tempi più recenti, il celebre produttore/ingegnere del suono sudafricano ha dichiarato che l’unica registrazione dal vivo originale nell’album è la chitarra solista di Ace Frehley; successivamente, durante un’intervista televisiva, ha ulteriormente rettificato il tiro affermando che le uniche parti originali sono le percussioni di Peter Criss. Forse la memoria comincia a fargli difetto, o magari pazzeggia, chissà; ho letto che da giovane durante le sedute di registrazione hendrixiane si dilettava a deridere Chas Chandler per il suo marcato accento cockney. In qualunque modo, la controversia ha coinvolto anche il secondo album dal vivo della band newyorchese, Alive II, che risulterebbe quasi totalmente ricreato alla consolle, addirittura con due brani, Tomorrow And Tonight e Hard Look Woman, suonati in studio e in seguito mixati coi rumori della folla! Che pacchianata! Finalmente, nel recente DVD celebrante la storia dei Kiss, perfino gli stessi membri del gruppo ammettono sorridenti l’uso estensivo 121 di overdubs nei loro cosiddetti dischi dal vivo. Bella forza, ormai si sono fatti i miliardi e hanno scopato tutto lo scopabile… Dico, avessero almeno avuto la dignità di proporsi: “Che importa se siamo una brigata di sacchi della spazzatura antropomorfi, fissiamoci su vinile così come veniamo e vaffanculo al mondo intero!” Mi ci è voluto un giro su Youtube, pochi mesi fa, per tornare ad amarli come una volta. Là ci sono i veri Kiss, le performance quasi mai perfette tecnicamente ma scoppiettanti d’energia rock’n’roll. Dal vivo pezzi come Black Diamond, Detroit Rock City e Cold Gin rendevano cinque volte più che su disco, realmente non c’era necessità di rappezzarli in studio. E quando Ace Frehley innestava l’octaver e il phaser e partiva in assolo, era come se una creatura sonica proveniente dallo spazio profondo erompesse dagli amplificatori per farti esplodere il cervello. Dal 1973 al 1977 i Kiss furono davvero la band più calda del mondo. (Fortissimo nonché scontatissimo dubbio: ma a Lester MMM e Alive! piacevano davvero, o ci voleva soltanto prendere tutti per i nostri fondelli tumefatti? Me lo figuro lassù, acciambellato su una nuvoletta di plasma con trentacinque nanocompresse di Proximax in corpo, sogghignando sotto il caschetto biondo alla Brian Jones.) Lester e Station To Station di David Bowie. “È difficile avere degli eroi. È la cosa più difficile del mondo. È perfino più difficile che essere un eroe. Di solito dagli eroi ci si aspetta che producano un qualcosa per riconfermare la presa delle loro dita altolocate sulle belle chiappe di quella stronza della Musa; e a volte arriva a un pelo dal somigliare a delle unghiate che scendono lungo il bordo di un precipizio d’argilla fino a cadere. Al tramonto, addirittura. E non c’è nessun banchetto aziendale, giovanotto.” David Bowie non era certamente l’eroe di Lester. Anzi, per dirla tutta non lo poteva vedere neanche dipinto. Considerava la sua fase Ziggy Stardust e i Ragni da Marte come una menata colossale, e più ad ampio raggio la sua musica come un mélange furbastro da professionista dell’industria dello spettacolo. Poi però uscì Young Americans e Lester inarcò un sopracciglio, ma fu Station To Station a fargli scrivere: “È uno dei più bei dischi di chitarra dai tempi di Rock’n’Roll Animal, ha una disinibizione e una pulsazione incessanti che calpestano completamente le parole. E quindi, chi se ne fotte di cosa significa TVC 15: è un gran pezzo rock. (…) È un disco rock 122 talmente bello e con una tale potenzialità di durare nel tempo, perfino più di Young Americans, che mi sbilancio a dire: penso che Bowie abbia finalmente prodotto il suo (primo) capolavoro.” Me, me stesso e io. L’uomo che cadde sulla Terra. Ho letto il libro e visto il film: pregevole il primo, non completamente riuscito ma lo stesso affascinante il secondo. Nel 1976 un critico cinematografico scrisse al proposito su Robot che David Bowie non faceva molta fatica a recitare se stesso: anche se avevo soltanto undici anni, fui sostanzialmente d’accordo con lui. Mi è rimasta stampata in testa soprattutto questa scena: una donna e un uomo a letto, nudi bruchi; lei è una giovanissima bruna all-American sfrontata e opulenta, di quelle che ti scoperesti tutti i giorni dal tramonto all’alba, che dormono con la lingua fra le tue palle pelose e ingoiano tutto quello che c’è da ingoiare, sempre; lui è il dottor Nathan Bryce, libidinoso professore di college con un’inclinazione per le diciottenni e affascinato morbosamente dalla World Enterprises, la potente compagnia che Thomas Jerome Newton, l’alieno venuto sulla Terra da un pianeta morente di sete, ha creato dal nulla; parlano parlano, finché lei vogliosa non gli circonda i fianchi con quelle cosce sode da cheerleader spronandolo: “Avanti, fammi sentire quanto sei uomo!” Yummy. Young Americans mi serve come lassativo quando tralascio di assumere fibre vegetali. Station To Station ce l’ho in CD. La fotografia in copertina, di Steve Shapiro, è tratta da L’uomo che cadde sulla Terra. Le foto all’interno, sempre di Steve Shapiro e Jayne Fincher, dovrebbero essere mostrate ai giovinetti della plug generation nell’ambito di una campagna contro l’abuso di cocaina, soprattutto a Roma, laddove ultimamente il Cnr ha rintracciato la magica polverina perfino nell’aria: eppure, dato che è sniffata a tutto spiano perfino in Parlamento, non è considerata una vera emergenza. Ma lo è, diocristo. Sono d’accordo con Lester: Station To Station è un masterwork. La titletrack riprende brillantemente l’idea alquanto datata della suite, mentre TVC 15 è in effetti un gran pezzo, rozzo e sgangherato – a quanto pare il titolo deve molto a una storia raccontata a David da Iggy Pop nel 1975 a proposito della ragazza di Iggy inghiottita da una set televisivo… ahi, Sorella Morfina! Sono ottimamente congegnate le dinamiche funky-rock di Golden Years e Stay. Wild Is The Wind e Word On A Wing eccedono forse un tantino in pathos ducale, ma la seconda mi piace moltissimo, con quella vaporosa nota di sintetizzatore all’inizio che richiama realmente 123 l’immagine di una parola in caduta libera dall’ala di un uccello libratosi in volo. Le chitarre, e qui do pienamente ragione a Lester, sono grandiose: Carlos Alomar, Earl Slick e Stacey Heydon, quest’ultimo presente nelle due bonus track registrate dal vivo, fanno veramente i fuochi d’artificio. Un’altra scena da un’altra pellicola, e un’altra bruna conturbante: Mathilda May, alias Space Girl (chiamarla semplicemente “aliena” pareva troppo ordinario?), percorre nudissima gli interminabili corridoi di un laboratorio governativo col passo vellutato di una mannequin. Space Vampires è uno di quei film talmente assurdi da divenire oggetto di culto. Ritengo che in cuor suo il regista Tobe Hooper volesse realizzare una sintesi modernista e sensuale dei buoni vecchi film di fanta-horror: ma il risultato, super-produzione effetti ultra-speciali e principesca campagna pubblicitaria a parte, mi richiama alla memoria piuttosto certe boiate girate nei primi anni Settanta da Jess Franco con Lina Romay e C. Le quali se non altro avevano il pregio dell’artigianalità. In ogni modo, Mathilda May era fantastica (lo è ancor più adesso, a 43 anni compiuti). Esistessero davvero delle creature aliene così voluttuose! Ehm, nel caso ne conosceste una, magari nella Nube di Magellano dove si mormora siano tutte ciorgne, me la mandereste qui a bordo? Comincio a sentirmi un po’ solo… Drin-drin. Decimo squillo della mattinata. Ed erano soltanto le dieci e trentacinque! “Maurizio F.” “Je suis Nicholas Ercoreca. Est-ce je peux parler à monsieur Rama?” Santa Madonna del Pilone! “Ehm, oh, uhm... Monsieur Rama il n’est pa en bureau.” “D’accorj’appeleraiplustardtartufonjesuicathrindenevue.” “Sì, okkey, au revoir.” Le palle di fra Giulio che mi trovi qui quando richiamerai. Difatti, pochi minuti dopo il termine della pausa per il pranzo, avendo saputo dalle stressatarie di direzione che più o meno tutti i quadri dell’ente sarebbero rimasti in riunione dall’amministratore delegato fino alle quattro del pomeriggio come minimo, mi feci scribacchiare un permesso d’uscita anticipata dall’unico ravanello che contando quanto una caccola di naso non era stato convocato su nella fulgida stratosfera dirigenziale (non senza qualche brontolio da parte del fantozzi) e me la diedi a gambe. Adieu, maricons. 124 Lester e i Clash. “E così, eccomi qui grazie alla cortesia aziendale della CBS International per vedere i Clash, per sentire i gruppi new wave alla radio (una festa per le orecchie di un americano) e trovare l’Impero, finalmente, di nuovo in preda a fermenti.” Per Lester, il cui pensiero era che il rock fosse sceso qualitativamente in picchiata dopo il 1968 avendo raggiunto il suo zenit nell’anno precedente (quando Keith Richards ancora non si arrampicava sulle palme da cocco e se n’andava a spasso per il Sistema Solare con gli occhiali da sole a occhio di mosca), il punk-rock rappresentò un’ipodermica per cavalli di nuova linfa esistenziale. Tant’è vero che la sua crepitante (al solito) recensione critica del gruppo inglese è strutturata in tre lunghe parti, che verranno pubblicate sul New Musical Express il 10, 17 e 24 dicembre 1977. Premettendo che, politicamente dissertando, non sa niente e non gliene potrebbe fregare di meno della struttura sociale inglese, il biondo scrive che il gruppo di Joe Strummer, Mick Jones e Paul Simonon “è giusto perché sotto il loro paesaggio sonoro teso e aspro si cela un persistente umanitarismo.” In più, gli aggradano come persone, molto più di ogni altro gruppo che abbia mai incontrato. Presumibilmente perché la sera che li conobbe essi rintuzzarono ogni sua provocazione con naturale arguzia britannica, senza mai tirarsela da rocker arroganti e spocchiosi. (“Be’, Lester”, disse Mick Jones, “non guardare me. Se ti dà tanto fastidio il genocidio culturale perché non fai tu qualcosa per cambiare le cose?” “Sì”, disse una delle fan, una ragazzina punk di colore carinissima, “ci stai facendo venire la depressione a tutti quanti!”) Lester B. finisce per montare sul carrozzone della band. Ci racconta di quando con nonchalance lasciò cadere che si era portato dietro la cassetta del nuovo album dei Ramones, Rocket To Russia, scatenando il genuino entusiasmo del gruppo. È molto felice di poter dire che i Clash sono fan accaniti dei Muppets, nonché gente relativamente sana (relativamente perché si fanno fior di cannoni, ma in dosi coscienziose il fumo integra il pensiero). “Non c’è neanche un affumicatore di cucchiai o un fricchettone malconcio. Oltre a ciò, non divorano groupie adolescenti come caramelle Zigulì, ammazzano il tempo e la noia sul tour bus leggendo libri impegnati e s’intrattengono spesso a parlare coi loro fan.” Magnifica il sex appeal misto di “monellaccio adolescente e primate del Paleolitico” di Paul Simonon. Trova “patetica e inadeguata” tutta la terminologia critica utilizzabile per descrivere le loro torrenziali esibizioni. Assiste a diatribe con titolari di locali pieni di mota e occhiate in cagnesco fra punksters 125 sovraccarichi di spille e spillette e teddy boys perdutamente convinti della propria unicità. Non sente per nulla la nostalgia di New York, che l’aveva attanagliato in altre precedenti esperienze in Inghilterra. E di conseguenza riflette intensamente per la decimillesima volta sul suo controverso paese natio (“In America non sei tenuto a crescere. Sei tenuto a consumare.”) Il suo incarico avrebbe dovuto durare tre giorni, ma Lester è talmente preso bene che prosegue con i Clash fino a Coventry. Durante il concerto attacca bottone con una punkette “molto vivace, sana, giovane col suo giubbotto ricoperto di spallette coi nomi dei gruppi”, molto indispettita perché i Clash avevano chiesto al pubblico di non sputargli addosso. “Dopotutto, sono stati loro a cominciare”, dice. “Però suonano meglio quando non lo fate”, le rammenta Lester. “Non importa! Io voglio solo saltare! E anche i miei alunni!” Lester rimane basito. “I tuoi alunni? Aspetta un attimo, quanti anni hai?” “Ventiquattro. Faccio l’insegnante.” “Ma… allora… che ci fai qui? Cioè, perché ti piacciono i Clash?” “Perché mi fanno saltare!” E si è allontanata pogando. Me, me stesso e io. Nel 1983 le pareti della mia stanzetta erano adornate da un assortimento quanto meno eterogeneo di poster; Kiss, Iron Maiden, Richard Gere (oh, avrei voluto essere bello come lui!) la formazione del Torino Calcio 1982-83, Alice (!), Rod Stewart… e i Clash. Il mio primo loro album era stato Combat Rock, ma in seguito avevo fulmineamente percorso a ritroso tutta la loro discografia fino a quello juggernaut di suoni e intenti bellicosi che è The Clash, uno dei capolavori della storia del rock. Noel Gallagher una volta si è chiesto che diavolo ci trovasse la gente nello stile musicale del quartetto londinese. Io una miriade e fischia di volte mi sono chiesto che acciderba ci trovo io, nonché qualche altro milione di musicomani sparsi su quest’enorme sasso surriscaldato, negli Oasis. Una spiegazione può essere la loro propinquità al Ritmo Assoluto di Arthur C. Clarke: una volta che ti è penetrato nella capoccia vi resta per l’eternità, fagocitando ogni altro pensiero, addirittura i bisogni primari. Piuttosto inquietante, non trovate? I Clash invece sono il rock’n’roll ridotto alla propria pulsante ossatura e rilanciato nella stratosfera in un razzo a propulsione Molotov Cocktail. “Personalmente, non ricordo neanche di aver registrato il primo album, talmente ero intontito dagli spini”, rivelò poco prima di andarsene Joe Strummer a un rampante giornalista. Macché intontito, carissimo Joe: eri 126 in stato di grazia! Flirtavi con la Musa nella Bottega dell’Arte, col Bob Marley in bocca e una mano fra le sue lunghissime gambe. E Il Capitale di Marx sul bancone. Julian Cope ha descritto efficacemente i concerti di questa pattuglia di uomini veri: “I Clash facevano pensare a un’immensa guerra nucleare. Avevi bisogno di movimenti che descrivessero le sparatorie sul delta del Mekong o i bombardamenti al napalm contro i bambini senzatetto.” He’s in love with rock and roll, woaahh!!! Non c’è una nota fuori posto in The Clash. L’unità d’intenti musicali e sociali è straordinaria, irripetibile quanto può esserlo Guernica di Picasso o Il Pensatore di Rodin, e Fun House. Non ti stanca proprio mai, e quando lo metti sul piatto o nel lettore laser o vattelappesca non è per enuclearne una canzone o due, exempli gratia ora mi ascolto London’s Burning e più tardi alla terza canna 48 Hours e nel mentre le Pipettes: te lo spari nelle orecchie ininterrottamente dal principio alla fine. Esimi Conflitti, ho un buon amico che come me vi ha venerato e continua a venerarvi come divinità che hanno preso forma umana, tuttavia è così rockisticamente pignolo che mi rubatta regolarmente le scatole con la storia che l’assolo di Police & Thieves gli suona come se fosse stato eseguito con una moneta da 100 lire anziché un plettro. Sarà, ma proprio in ciò sta la sua attrattiva! Ascoltatelo a buon volume al volante del vostro cigolante macinino italiano in un pomeriggio soleggiato di mezza estate sulla strada per Lekeitio... Strobe-cut. E mi ritrovai al bar Patxon di Karraspio, col mio culetto sodo poggiato su uno sgabello davanti al bancone. Manco il tempo d’imprecare che un’adorabile sirena bionda attraccò al mio molo e cantò: “Kaixo! Ni Nerea naiz. Eta zu, nor zara zu?” Ciao! Io sono Nerea. E tu chi sei? Il Babbione Natale, mi veniva da risponderle. Per contro rimasi silenzioso a fissarla come un bue sedato con una vagonata di thorazina. Era Piggy versione Lea-Artibai, più alta e slanciata e con quei lineamenti peculiari dovuti alla progressiva secolare introduzione dell’orifizio occipitale nel cranio con conseguente ritrazione del volto e ingrossamento delle tempie. In qualunque modo desossiribonucleico un bel pezzo di legno giovane, coi suoi pantaloncini di cotone bianco, la blusa rosa confetto e le ciabattine infradito. L’esame successivo per ottenere il Patentino Intergalattico di Bambino Rock delle Stelle? “Nor zara zu?” ripeté sorridendo Nerea Piggistarain. 127 Io parlo il basco, o meglio ne mastico una trentina di frasi utili per stupire il borghese locale, specialmente il tipico stronzone di buona famiglia che ritiene che gli italiani siano tutti cretini e cascamorti e berlusconiani come pure discendenti dei piloti fascisti che bombardarono a tappeto Gernika. “Ni Maurizio naiz, laztana. Arratsalde on!” L’ultima locuzione significava “buon pomeriggio”, ma eravamo davvero in quella parte del giorno? Mi voltai verso le lontane onde spumeggianti: surfisti torciati, lettori solitari, fette di anguria, cellulite navarra, perizomi castigliani. Sì, dovevano essere le cinque o giù di lì. Replica di Nerea: “Ottimo livello di euskera!” Anche lei usava parecchio le strisce sbiancanti per i fanoni. Dopodiché mi aspettavo una domanda del solito banale repertorio, tipo che ci fa un italiano a Lekeitio, com’è che parli così bene la nostra lingua, è nato prima l’uovo bilbaino o la gallina donostiarra e avanti parei fino al Big Crunch. Ma la neska mi spiazzò prendendomi delicatamente la mano e frusciando, in perfetto italiano: “Vieni. Andiamo in spiaggia a parlare un po’.” Non avendo tra tutt’e due un asciugamano (men che mai io!), ci sedemmo direttamente sulla sabbia, a metà cammino fra il bar e la battigia. Io mi ero fornito di una San Miguel Extra: molto diversa dalla Especial, è una strong lager ambrata con un retrogusto maltato ma molto persistente. Non proprio una birra da spiaggia, ma è noto che i baschi sono gente spessa che ama le emozioni forti. Non per niente si spingevano fino a Terranova per cacciare le balene. Nerea estrasse dalla sua pochette dorata uno spinello d’erba, se lo accese con scioltezza e dopo tre o quattro boccate me lo passò. Nessuno ci guardò di traverso. Karraspio era un contesto di dolce libertà estiva. L’erba era squisita, si sposava alla grande con la birra. La sera s’inclinava pigramente sui pescherecci alla fonda. Stavo come una spalmata di miele con una goccia d’olio d’oliva su una fetta di pane tostato e imburrato. Ora ci sarebbe stato a meraviglia un bacio tenero come cioccolato bianco sulla guancia rosea della ragazza, come quando avevo nove anni sul grado del portone con la mia fidanzatina delle elementari, la capa delle femmine. Ma mi aspettava ben altro. Tutt’a un tratto Nerea Piggiberria interruppe la contemplazione di un surfista particolarmente abile. “Hai portato indietro qualcosa dal Traforo, Maurizio?” 128 “Quale Traforo?” Poi capii. Era il nomignolo che gli scienziati avevano appioppato alla Singolarità di Gibson. “Che intendi per qualcosa?” Le punte dei suoi piedini ben modellati, il più bel sogno per un feticista, smossero nervosamente la rena. “Intendo qualcosa, Mau. Qualsiasi cosa.” Guardandola in tralice, roteai l’indice della mano destra. “Tutto questo è vero, o è solo un dannato set della Nasa?” “È vero, Mauri.” Un gemito di rassegnazione. Cancellai la fantasia del bacio. Mi alzai, riducendole il sole a un alone. “Reale una merda secca. Quel cannone era per blandirmi, vero? Così ti consegnerei la qualsiasi cosa senza fare troppo i capricci, per il sommo godimento dei capoccioni incravattati lassù o quaggiù in Sala Controllo. Tuttavia, io non ho proprio niente da darvi. Nessun ninnolo extraterrestre o sconvolgente verità cosmica scritta in esperanto galattico su pergamena plasmatica. Nada. Ci facciamo un bagno?” Lei mi chiese ancora, questa volta attraverso una lente gravitazionale: “Cos’è successo dall’altra parte, Mauri?” “Non voglio sapere cosa fanno i ricchi. Non voglio andare dove vanno i ricchi. Si credono così furbi, si credono così giusti, ma la verità la sanno soltanto i poveracci.” “Zer da hori? Cos’è questo che dici?” Che accidenti avrei dovuto rispondere a quella megagnocca governativa cannaiola? “Senti, neska ederra, una razza benedetta mi ha fatto scoprire Lester Bangs, pirotecnico recensore di frastuoni rock e figura chiave della controcultura americana. Sono stato sottoposto a un confronto virtuale fra le sue esperienze e le mie in materia di rock’n’roll che mi ha arricchito l’esistenza.” Ma a Nerea e soprattutto ai suoi ingessati responsabili non avrebbe potuto fregagliene di meno. Essi volevano, anzi pretendevano l’oggetto, il reperto tangibile da analizzare, sezionare, fotografare, vezzeggiare, sodomizzare; non si spendono miliardi di soldi dei contribuenti per mandare un tizio dall’altro lato di un wormhole a dissertare di beat, hard rock e punk con gli ometti verdi, le piovre senzienti, i globi luminescenti o qualunque aspetto abbiano i nostri interlocutori. Fiato sprecato. E io, brillo, avevo una gran voglia di tuffarmi sotto quelle onde, vere o artificiali che fossero. Allora abbandonai un’interdetta Nerea sul suo piccolo monticello di sabbia e mi diressi ad ampie falcate verso il bagnasciuga, con indosso ancora i pantaloni e la camicia di tela. La sentii 129 gridare qualcosa dietro di me, ma spallucciai. L’acqua era tiepida e pulita, perfetta. Strobe-cut. Aveva smesso di piovere: dopotutto, non può piovere per sempre. Ero tornato in sintonia con il mondo che gli uomini definiscono reale. Piggy Paradigmatica e Notebook Swimmer se n’erano andate. In loro luogo, un’adolescente molto somigliante a Eva Green, la libertina palliduccia e lentigginosa di The Dreamers. Eva Succedanea era intenta nella lettura di La strada del Kama-Sutra di Deepak Chopra. Di lì a qualche attimo fu raggiunta da un ragazzo alto e sottile coi tratti somatici inconfondibilmente indiani: il suo Bhagwan. ScaffHal colse quel momento per pronunciare le sue prime parole blasé della giornata: “Nel 1967, terminato il tour australiano degli Yardbirds, Jimmy Page se ne scappò in India: dichiarò che voleva ascoltare musica carnatica. Magari vi fosse tornato, e rimasto per sempre, al termine delle sessioni di Physical Graffiti.” Sorridendo sotto i baffi, calai lo sguardo al blocco di memoria cartaceo. Un altro cambiamento. Sul mio tavolo non c’era più la Guida Ragionevole al Frastuono, ma I CLASH/Arcana Editrice. Lo attivai. “Non stare alle regole / non fanno per te è roba da stupidi / E se non lo sai lo stupido sei tu / Allora stateci voi alle regole pezzi di idioti.” Sorrisi di nuovo. Il cielo si spalancò in un immenso lago azzurro. “Grazie, Lester: sei un grande. Stasera berrò un paio di Bud in tuo onore. Facciamo anche sei.” 130 Figura 10. Keep your riches, gimme a Budweiser! 131 EPILOGO Un martedì sera qualunque. Cementati davanti all’ingresso del Lab, io e la mia banda sorseggiamo la quarta o quinta birra, dopo un po’ uno perde il conto. Sotto i portici della piazza è tutto uno sfilare di ragazze mediamente giovani e attraenti, con frequenti bagliori d’eccellenza. Vito reitera spesso che quando noi eravamo dei pivellini le ragazze non erano così belle. Io credo che vi fossero anche meno ragazze a spasso per la città la sera: per dirla volgarmente, eravamo tutti cazzi e zero, o quasi, gnocche. In fin dei conti, non tutto il progresso viene per nuocere. Comunque io ora sono in una seria e felicissima relazione a distanza e, insomma, che ve lo dico a fare. Alla consolle DJ Naska, storico (Daffy, suo vecchio compagno di brigata modernista, correggerebbe in “anziano”) batterista degli Statuto, si lancia in un brillante mix di successi rock britannici. Ciò dà la stura all’ennesima discussione musicomaniaca: Vito: “Secondo te qual è il disco più bello dei Faces?” Io: “Mah, a me piacciono tutti. Certo che A nod is as good…” Giorgio Pitone (soprannominato così per i suoi forti appetiti): “Io sono più per gli Smiths e le band shoegazer. Carina quella biondina laggiù.” Daffy: “Dio c…, sempre con ’sta musica. Non avete più vent’anni!” Io: “Se è per questo, neanche trenta. E fra un po’, neanche quaranta.” Eh già. Di Soffocare, che per me è il miglior libro scritto da Mr. Chuck Palahniuk, mi ha colpito soprattutto una frase. Pag. 1, riga 7: “Tanto, ringiovanire non ringiovanisci.” Spietatissimo, ma vero. Puoi tingerti o trapiantarti i capelli, riempirti i lineamenti di botoina fino a sembrare uno scimpanzé bonobo, bere ettolitri di tè verde e passare tre quarti della tua giornata a pisciare nel cesso, gonfiarti le poppe con l’olio di colza dieci volte l’anno, massacrarti di step cinque sere su sette, fare Tai Chi ogni mattina presto al parco sotto casa in mezzo alle deiezioni canine e alle siringhe usate. Ma non smetti di invecchiare neanche per un fottuto nanosecondo. Tutto sta nel piantarla di rodercisi il fegato e il cervello. Cambiare canale ogni qual volta lo psicologo ospitato di turno si mette a pontificare sulla crisi di mezz’età. Fregarsene altamente di quella data stampata sulla carta d’identità. Far rottamare l’invidiometro dall’AMIAT. C’è ancora tanta, tantissima vita oltre il devastante doposbornia della gioventù. I brasiliani, 132 che sono molto saggi, fanno del doposbornia una nuova festa. Anche gli spagnoli sostengono che non c’è niente di meglio che un bel boccale di birra chiara e fresca per toglierti la resaca. E ricominciare coi baccanali. Diciamo tutti insieme grazie che ho bevuto. Sempre e comunque. “Facciamo un altro giro?” “Ma naturalmente!” “Io veramente domani mi dovrei alzare presto…” “Dài. L’ultima birretta e andiamo a casa!” Forse. © 2011 Maurizio Ferrarotti. Tutti i diritti riservati. Figura 11. Già, forse... 133 La pratica di una professione richiede disciplina, che per me intendeva la produzione di duemila parole in bella copia ogni giorno, fine settimana inclusi. Scoprii che, qualora cominciassi abbastanza presto, avrei potuto completare il lavoro quotidiano prima che aprissero i pub. Diversamente c’era un inebriante periodo della notte dopo l’orario di chiusura, coi vicini di casa battendo sui muri per protestare contro l’industrioso ticchettio della macchina da scrivere. Duemila parole al giorno significa un totale annuale di settecentotrentamila. Porta in su la percentuale e, senza indebito sforzo, puoi raggiungere il milione. Questo dovrebbe significare dieci romanzi di centomila parole per ciascuno. Naturalmente l’approccio quantitativo alla scrittura non è contemplato. E a causa di doposbornia, dispute coniugali, citazioni per incontrare funzionari statali, e pura torpida malinconia, io non fui capace di realizzare più di cinque romanzi e mezzo di dimensione molto moderata in quell’anno pseudo-terminale. Nondimeno, ciò era quasi prossimo all’intera produzione letteraria di E.M. Forster nella sua lunga vita. Anthony Burgess, celebre scrittore mancuniano, autore di una cinquantina di libri tra i quali A Clockwork Orange (“Arancia Meccanica”). A 43 anni gli fu erroneamente diagnosticato un tumore inoperabile al cervello con aspettativa di vita di un anno. Il “mezzo romanzo” era per l’appunto la prima stesura di A Clockwork Orange. 134 FONTI Biblioteca personale e pubblica STERLING, Bruce, Fuoco sacro, Fanucci Editore, 1997. 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